Dopo Willie Nelson, Ecco Una “Giovane Promessa” Al Femminile! Loretta Lynn – Still Woman Enough

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Loretta Lynn – Still Woman Enough – Legacy/Sony CD

Se Willie Nelson a quasi 88 anni pubblica ancora grande musica con sorprendente regolarità, lo stesso si può dire di quella che può essere definita la sua controparte femminile, cioè la leggendaria Loretta Lynn, che di anni ne sta per compiere 89 (sia lei che Willie sono nati ad aprile). Tornata ad ottimi livelli, anche di vendite, nel 2004 con Van Lear Rose (prodotto da Jack White), la Lynn si è poi presa una lunga vacanza per ritornare più agguerrita che mai nel 2016 con l’altrettanto riuscito Full Circle, il primo di cinque album pianificati con la produzione di John Carter Cash, figlio del grande Johnny Cash. Dopo il natalizio White Christmas Blue ed il sempre valido Wouldn’t It Be Great del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/10/07/appendere-la-chitarra-al-chiodo-magari-tra-dieci-anni-loretta-lynn-wouldnt-it-be-great/ , ora Loretta torna tra noi con un altro bellissimo lavoro intitolato Still Woman Enough (stesso titolo della sua autobiografia pubblicata nel 2002), sotto la supervisione della figlia Patsy Lynn Russell e del solito Cash Jr. Still Woman Enough non sposta di una virgola il suono e lo stile della Lynn (ma a quasi novant’anni mi stupirei del contrario), country che più classico non si può, cantato alla grande con un timbro vocale decisamente giovanile (anche Nelson, tanto per continuare col parallelo, ha ancora una grande voce, ma dimostra tutti i suoi 87 anni) e suonato con classe immensa da un manipolo di luminari di Nashville.

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Un gruppo folto di musicisti con al loro interno nomi notissimi come Paul Franklin alla steel, Ronnie McCoury al mandolino, Shawn Camp e Randy Scruggs alle chitarre, Dennis Croutch e Dave Roe al basso, Matt Combs al violino e, come vedremo tra poco, una manciata di famose colleghe di Loretta a duettare con lei. Puro country, di piacevolissimo ascolto e che una volta di più ci mostra un’artista che, nonostante l’età e la splendida carriera ricca di successi, non ha ancora perso la voglia di fare musica. L’album, tredici canzoni, è diviso a metà tra rifacimenti di brani già interpretati in passato ed altri affrontati per la prima volta: l’unico pezzo veramente nuovo è la title track che apre il CD (scritta da Loretta insieme alla figlia), un country-rock elettrico e sorprendentemente grintoso specie per un’ottuagenaria: gran voce, ritmo cadenzato, un bel mix di chitarre acustiche, elettriche e dobro con la ciliegina della presenza di Reba McEntire e Carrie Underwood ad alternare e sovrapporre le loro ugole a quella di Loretta https://www.youtube.com/watch?v=BB5FHS3eJ_c . I brani “nuovi” proseguono con due omaggi alla Carter Family, una deliziosa e cristallina ripresa della popolare Keep On The Sunny Side in puro stile bluegrass (grande canzone e grandissima voce, una cover da brividi) ed una limpida I’ll Be All Smiles Tonight, dal motivo ammaliante e gustoso accompagnamento per sole chitarre, mandolino ed autoharp.

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Chiudono il lotto dei pezzi mai incisi prima dalla Lynn due riprese di altrettanti traditionals: la solare I Don’t Feel At Home Anymore, ancora dal sapore bluegrass tra dobro, chitarra e mandolino, e la nota Old Kentucky Home (di Stephen Foster, quello di Oh, Susanna! e Hard Times Come Again No More), con quattro strumenti in croce e la voce inimitabile di Loretta per un altro esempio di eccellente country d’altri tempi, oltre ad una trascinante e ritmata rilettura dell’evergreen di Hank Williams I Saw The Light, tra country e gospel, suonata in modo eccelso. E veniamo alle riproposizioni di brani già pubblicati in passato, a partire dall’incantevole Honky Tonk Girl, luccicante esempio, indovinate, di honky-tonk classico suonato in maniera sopraffina (splendidi il pianoforte e la steel), seguita da una versione particolare di Coal Miner’s Daughter, la signature song di Loretta, che non canta ma si limita a recitare il testo in maniera indubbiamente suggestiva, accompagnata solo da un banjo. One’s On The Way è uno splendido honky-tonk elettrico (l’autore è il grande Shel Silverstein) con ben cinque chitarre più la steel e la seconda voce di Margo Price, due ugole strepitose al servizio di una melodia di prim’ordine https://www.youtube.com/watch?v=tmH95_a2Vtk .

loretta lynn - margo price

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I Wanna Be Free è un country-rock mosso ed orecchiabile, cantato come al solito in modo scintillante, mentre Where No One Stands Alone è un antico gospel di Lister Mosie che Loretta trasforma in una superba country ballad pianistica decisamente toccante al tempo di valzer lento (ma sentite come canta!). Chiudono il CD, forse il migliore tra quelli registrati negli studi del figlio di Cash, la dolce ed emozionante My Love e la guizzante You Ain’t Woman Enough, altra strepitosa honky-tonk song in cui la Loretta divide il microfono con un’altra “ragazzina”, Tanya Tucker https://www.youtube.com/watch?v=8LKJRJYPTZc . Non posso che augurare a Loretta Lynn una vita ancora lunga e piena di salute, in modo da poter godere nell’immediato futuro di altri dischi del livello di Still Woman Enough. 

Marco Verdi

Willie Sinatra Colpisce Ancora…E Pure Meglio Della Prima Volta! Willie Nelson – That’s Life

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Willie Nelson – That’s Life – Legacy/Sony CD

Ormai omaggiare Frank Sinatra sta quasi diventando una moda, ma se i tre album pubblicati la scorsa decade da Bob Dylan, che crooner non è, hanno suscitato reazioni contrastanti (ottime per Shadows In The Night, meno entusiastiche per Fallen Angels ed un tantino annoiate per Triplicate), My Way, disco del 2018 di Willie Nelson, ha avuto recensioni unanimemente positive, cosa comprensibilissima dal momento che Willie rispetto a Bob è decisamente più portato per un certo tipo di sonorità, essendo uno di quelli che, con la classe e la voce che si ritrova, potrebbe davvero cantare qualsiasi cosa. Non è un caso che My Way fosse solo l’ultima incursione in ordine di tempo del texano all’interno del “Great American Songbook”: il bellissimo Stardust del 1978 è il caso più famoso (nonché uno dei suoi lavori più di successo), ma nel corso della carriera Willie ci ha regalato molti altri album in cui reinterpretava da par suo gli standard della musica statunitense, come Somewhere Over The Rainbow, What A Wonderful World, Moonlight Becomes You, American Classic ed il recente omaggio alle canzoni dei fratelli Gershwin Summertime.

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Nelson nonostante l’età (ad aprile saranno 88 primavere) pubblica ancora almeno un disco nuovo all’anno, e nel 2021 l’onore è toccato a That’s Life, che altro non è che il secondo volume delle sue interpretazioni del repertorio di The Voice, come si intuisce dal titolo ma soprattutto dalla stupenda copertina che si ispira a quella di In The Wee Small Hours, album del 1955 che è anche uno dei più famosi del grande Frank. E, se possibile, That’s Life è ancora più bello di My Way https://discoclub.myblog.it/2018/09/29/i-figli-illegittimi-di-frank-proliferano-dopo-bob-ecco-willie-sinatra-willie-nelson-my-way/ , ed allunga l’incredibile striscia positiva di eccellenti lavori di questo intramontabile artista: ho già scritto in altre occasioni che Willie dal vivo non è più quello di un tempo, fa fatica ed a volte la sua voce si trasforma in un rantolo, ma in studio, visto che può centellinare le performance ed avvicinarsi al microfono quando è veramente pronto, è ancora in grado di dire la sua in maniera formidabile se pensiamo che ha quasi 90 anni. That’s Life presenta undici interpretazioni da brividi lungo la schiena di altrettanti brani che hanno in comune il fatto di essere stati tutti incisi da Sinatra, anche se non necessariamente la versione di Frank è la più famosa.

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Se per esempio la title track, In The Wee Small Hours Of The Morning, Learnin’ The Blues e I’ve Got You Under My Skin sono tutte signature songs del cantante di origine italiana, altre hanno avuto riletture anche più famose da parte di gente del calibro di Fred Astaire, Billie Holiday, Dean Martin, Tommy Dorsey, Ella Fitzgerald, Tony Bennett e Bing Crosby. Il disco è stato registrato ai mitici Capitol Studios di Los Angeles, gli stessi di Sinatra (con una puntatina in Texas ai Pedernales Studios di proprietà di Nelson), prodotto in tandem dall’abituale partner di Willie Buddy Cannon e dal bravissimo pianista Matt Rollings e presenta una lista di musicisti da leccarsi i baffi: oltre allo stesso Rollings al piano, organo e vibrafono e Willie che ci fa sentire la sua mitica chitarra Trigger, troviamo l’inseparabile Mickey Raphael all’armonica, il grande Paul Franklin alla steel, l’ottimo Dean Parks alla chitarra elettrica, la sezione ritmica di David Piltch (basso) e Jay Bellerose (batteria), oltre ad una sezione fiati di sei elementi ed una spruzzata d’archi qua e là.

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Nice Work If You Can Get It, dei Gershwin Brothers, è un delizioso jazz pianistico ricco di swing, con un gran lavoro di Rollings, la steel accarezzata sullo sfondo, ritmo acceso e Willie che si prende la canzone con verve ed una buona dose di classe. Splendidamente raffinata anche Just In Time, dalla ritmica soffusa (la batteria è spazzolata) ma sostenuta al tempo stesso, un grandissimo pianoforte (tra i protagonisti assoluti del CD) ed il leader che avvolge il tutto con la sua voce calda e vissuta; A Cottage For Sale, introdotta dagli archi, è notevolmente più lenta e rimanda alle sonorità di settanta anni fa, quando certe canzoni erano usate nelle commedie a sfondo musicale, un elemento in cui Willie si cala alla perfezione. I’ve Got You Under My Skin è uno dei pezzi più celebri di Sinatra (l’autore è il grande Cole Porter): il ritmo è spezzettato e l’accompagnamento degno di un locale fumoso con la band che a notte fonda intrattiene i pochi avventori rimasti che cercano conforto nel quarto bicchiere di whiskey, con un breve ma incisivo assolo da parte di Parks (ma tutto il gruppo suona che è una meraviglia) https://www.youtube.com/watch?v=8cPuigClurE . I fiati colorano l’elegante You Make Me Feel So Young, con il nostro che canta con padronanza assoluta interagendo in maniera perfetta con la band e facendoci sentire la sua Trigger anche se per un breve istante, mentre la coinvolgente I Won’t Dance lo vede duettare con la brava Diana Krall, ed il gruppo swinga alla grande neanche fosse la Count Basie Orchestra: classe sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=0RMYCzzCztA .

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That’s Life è un altro classico che conoscono quasi tutti, una grande canzone che Willie fa sua con la sicurezza di uno che nella vita ne ha viste tante https://www.youtube.com/watch?v=XEf8NXZEtzQ , con Raphael e Franklin che portano un po’ di spirito country in un brano che è puro jazz; la sinuosa Luck Be A Lady è una via di mezzo tra swing e bossa nova, un cocktail di grande eleganza con i fiati nuovamente protagonisti e la voce di Nelson che è uno strumento aggiunto. In The Wee Small Hours Of The Morning, ballatona pianistica dal pathos notevole (sentite la voce, da pelle d’oca) https://www.youtube.com/watch?v=gS54H5uNddY , precede le conclusive Learnin’ The Blues, raffinatissima e suonata in punta di dita (con un ottimo intervento di steel), e la cadenzata Lonesome Road, ancora con il pianoforte a caricarsi buona parte dell’accompagnamento sulle spalle, qui ben doppiato dall’organo. Ennesimo gran disco quindi per Willie Nelson, tra i migliori di questo ancor giovane 2021.

Marco Verdi

Ecco Uno Che Sa Fare Solo Dischi Bellissimi! Chris Stapleton – Starting Over

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Chris Stapleton – Starting Over – Mercury/Universal

Chris Stapleton ha esordito come solista abbastanza tardi (Traveller, del 2015, è stato pubblicato quando il singer-songwriter del Kentucky aveva già 37 anni), ma in pochissimo tempo ha fatto vedere di non avere molto terreno da recuperare. Con un passato da autore per conto terzi ed una militanza in un paio di band con le quali non ha mai inciso alcunché, Stapleton infatti non ci ha messo molto per affermarsi come uno dei musicisti migliori oggi in America: Traveller era un lavoro splendido e ha avuto anche un notevole successo https://discoclub.myblog.it/2015/07/25/good-news-from-dave-cobb-productions-chris-stapleton-traveller-christian-lopez-band-onward/ , ed anche il doppio From A Room del 2017 (pubblicato però in due diverse tranche) era di livello notevole seppur leggermente inferiore all’esordio. C’era quindi parecchia attesa per il terzo album di Chris (in quanto io considero i due From A Room come una cosa unica), e sappiamo quanto possa essere problematico il terzo lavoro per un artista che ha debuttato col botto https://discoclub.myblog.it/2017/12/16/peccato-solo-che-forse-non-ci-sara-un-terzo-volume-chris-stapleton-from-a-room-volume-2/ .

Ebbene, non solo Starting Over conferma la crescita esponenziale del nostro come autore e performer, ma a mio parere è perfino superiore a Traveller, e si candida fin dal primo ascolto ad uno dei posti di vertice per la classifica dei migliori del 2020. Starting Over (che si presenta con una copertina ultra-minimalista, per non dire inesistente) propone la consueta miscela di rock, country e southern music tipica del nostro, ma con una qualità compositiva di primissimo livello ed un feeling interpretativo notevole, grazie soprattutto ad una voce tra le più belle ed espressive del panorama musicale odierno ed una tecnica chitarristica da non sottovalutare. Prodotto al solito dall’amico Dave Cobb e con gli abituali compagni di ventura (la moglie Morgane Stapleton alla seconda voce, Cobb stesso alle chitarre acustiche, J.T. Cure al basso e Derek Mixon alla batteria), Starting Over ha anche degli ospiti che impreziosiscono alcuni brani , come Paul Franklin, leggendario steel guitarist di Nashville, e gli Heartbreakers Benmont Tench e Mike Campbell, non una presenza casuale in quanto Stapleton è presente sul nuovissimo album d’esordio dei Dirty Knobs, il gruppo guidato proprio da Campbell (appena recensito su questi schermi).

In poche parole, forse il miglior disco uscito negli ultimi mesi insieme a quello di Bruce Springsteen, in un periodo solitamente dedicato alle antologie e ristampe proiettate alle vendite natalizie. Il CD parte benissimo con la title track, una spedita ballata di stampo acustico servita da una melodia di prim’ordine e con la prima di tante prestazioni vocali degne di nota: il refrain, poi, è splendido. Devil Always Made Me Think Twice è una robusta rock’n’roll song di chiaro stampo sudista: Chris ha la voce perfetta per questo tipo di musica, ma è il brano in sé ad essere trascinante, ed io ci vedo chiara e lampante l’influenza di John Fogerty sia nelle sonorità swamp che nella linea melodica e modo di cantare. Il piano di Tench introduce Cold, una ballata elettroacustica eseguita con grande forza e pathos (ma sentite che voce), con un leggero accompagnamento d’archi che le dona un tocco suggestivo in più e crea un crescendo da brividi.

When I’m With You è un lento alla Waylon Jennings, una canzone bella, limpida e ricca di anima con gli strumenti dosati alla perfezione, a differenza di Arkansas che è una travolgente rock song elettrica di grande potenza, con Campbell co-autore e chitarra solista che si produce in un mirabolante assolo dei suoi, mentre Joy Of My Life, prima cover del disco, è un delicato pezzo che Fogerty aveva dedicato a sua moglie nel 1997: Stapleton fa lo stesso con Morgane ed il risultato è eccellente, con l’aggiunta di elementi southern che l’originale non aveva. Il sud è ancora presente nell’intensa Hillbilly Blood, notevole ballata tra rock e musica d’autore che ricorda molto da vicino il Gregg Allman più roots, timbro vocale compreso, al contrario di Maggie’s Song, bellissima country ballad dal motivo molto classico (vedo l’ombra di The Band, zona The Weight) e con l’organo di Benmont ad impreziosire ulteriormente un gioiello già luccicante di suo.

Lo slow elettrico di matrice rock-blues Whiskey Sunrise, suonato ancora con indubbia forza e con un paio di pregevoli assoli da parte del leader, precede le altre due cover del CD, entrambe prese dal songbook del grande Guy Clark: se Worry B Gone è un coinvolgente rockin’ country texano al 100% contraddistinto da una performance collettiva da applausi, Old Friends è uno dei pezzi più noti e belli dello scomparso cantautore di Monahans, e la resa di Chris è semplicemente da pelle d’oca. Watch You Burn è il secondo brano scritto e suonato con Campbell, una rock song asciutta e diretta, sempre con quell’afflato southern che è insito nella voce del nostro, canzone che precede You Should Probably Leave, strepitoso e cadenzato pezzo dal sapore decisamente errebi (uno dei più godibili del lotto), e l’intensa Nashville, TN, country ballad “cosmica” alla Gram Parsons che chiude degnamente un album davvero splendido. A parte un paio di dubbi avevo praticamente già deciso i dieci dischi più belli di quest’anno, ma dopo aver ascoltato Starting Over mi vedo costretto a ritoccare la lista. E nei primissimi posti.

Marco Verdi

Meno “Cattivo” Del Solito, Ma Sempre Validissimo! Marcus King – El Dorado

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Marcus King – El Dorado – Fantasy/Universal CD

(*NDM: in questa lunga fase di quarantena forzata si è pensato in accordo con Bruno di recuperare anche qualche titolo recente ma la cui pubblicazione risale comunque a qualche mese fa, rimasto magari in arretrato come a volte succede. Oggi è la volta del giovane musicista del South Carolina, e fra pochi giorni toccherà al tributo femminile a Tom Waits).

Dan Auerbach è ormai diventato, insieme a Dave Cobb, uno dei migliori e più richiesti produttori sulla piazza, sia che incida in prima persona con la band che gli ha dato la notorieità, i Black Keys, che come solista (Waiting On A Song è stato per il sottoscritto uno dei più begli album del 2017), sia che si occupi di patrocinare i lavori di giovani artisti (Yola, Dee White, Early James) ed altri non proprio di primo pelo (Robert Finlay, Leo Bud Welch, Jimmy “Duck” Holmes). Una delle ultime produzioni di Auerbach riguarda un musicista che, seppur ventiquattrenne da pochi giorni, è già un artista affermato: sto parlando di Marcus King, enfant prodige della chitarra (e non solo), che a capo della Marcus King Band si è ritagliato un posto al sole nell’ambito della musica rock-blues di matrice southern con tre album di ottimo livello ed in particolare con gli ultimi due, The Marcus King Band e Carolina Confessions.

El Dorado segna il debutto di Marcus come solista, e mi preme avvertire da subito gli estimatori del nostro e del rock-blues in generale che potrebbero rimanere spiazzati dall’ascolto del disco, in quanto il genere che ha reso King popolare è sì presente ma in misura decisamente minore (ed anche la sua chitarra ruggisce di meno), in quanto Auerbach ha provato a fare del lungocrinito musicista un artista a 360 gradi, più autore e cantante che chitarrista, e secondo me con risultati egregi. Sì perché El Dorado a mio parere è un lavoro decisamente bello, con Marcus che si cimenta con successo in una serie di stili che rendono l’album piacevolmente eclettico: al rock-blues, che comunque è presente, si sono infatti aggiunte corpose dosi di soul, rhythm’n’blues, gospel, oltre a qualche momento di rock più “convenzionale” e perfino un pizzico di country. Gran merito va sicuramente ad Auerbach, che ha scritto tutti i brani in coppia con Marcus e gli ha dato il suo classico suono che rimanda agli anni settanta, ma King ha contribuito in maniera decisiva con una vena molto ispirata e soprattutto con la sua strepitosa voce “nera”, adatta a qualsiasi tipo di musica ma particolarmente idonea a sostenere brani a carattere più soul. Un mix di stili dunque molto accattivante, che non va ad intaccare l’unitarietà di un disco che secondo me fa salire King di un paio di gradini, in quanto ce lo presenta come musicista a tutto tondo e non solo come promettente chitarrista (e comunque la sua sei corde qua e là si sente eccome).

L’album è stato registrato a Nashville negli Easy Eye Sound Studios di proprietà di Auerbach, il quale gli ha messo a disposizione la consueta gang di sessionmen fuoriclasse e dal pedigree eccezionale: Gene Chrisman, Russ Pahl, Dave Roe, Bobby Wood, Mike Rojas e Paul Franklin (per citare i nomi più noti), gente che ha suonato, tanto per fare qualche nome “da poco”, con Elvis Presley, Aretha Franklin, Duane Eddy, Johnny Cash, Solomon Burke e Roy Orbison. Young Man’s Dream è il classico inizio che non ti aspetti, una delicata ballata acustica sfiorata dal country, con un motivo molto rilassato ed una strumentazione parca e suonata in punta di dita, fino al secondo minuto quando entra per un attimo il resto della band e possiamo ascoltare il tipico “big sound” delle produzioni di Auerbach. Con The Well andiamo in territori abituali per Marcus, un rock-blues elettrico dal riff aggressivo e grintoso, un pezzo che potrebbe benissimo appartenere anche al repertorio dei Black Keys (che hanno sempre avuto parecchio blues nel dna), con un paio di assoli brevi ma efficaci che ci mostrano che il nostro non ha perso il tocco; Wildflowers & Wine porta il disco ancora più a sud, per una deliziosa ballata southern soul dal suono caldo e cantata alla grandissima da King, con l’aggiunta di un bel coro femminile dal sapore gospel: sembra quasi una outtake di Anderson East.

One Day She’s Here è uno scintillante errebi dai toni pop, un brano decisamente “morbido” se si pensa ai trascorsi di Marcus, ma eseguito a regola d’arte e con un’aria da Blaxploitation anni settanta (e la voce è perfetta), un pezzo che differisce dalla seguente e squisita Sweet Mariona, che è un po’ come se Sam Cooke non fosse stato ammazzato in quella tragica notte del 1964 e ad un certo punto avesse inciso un disco country (splendida la steel di Franklin): una delizia. Un piano elettrico introduce la lenta Beautiful Stranger, altra bellissima canzone tra soul, country e gospel, distante dalla Marcus King Band ma di livello sublime e con un feeling formato famiglia; con Break siamo sempre in territori “black” anche se qui lo stile è più pop ma senza cadute di gusto, anzi il tutto è trattato con i guanti bianchi e classe sopraffina, mentre Say You Will porta un po’ di pepe nel disco, in quanto siamo di fronte ad una rock song potente, chitarristica e tagliente, genere Rory Gallagher meno blues, con assolo finale torcibudella da parte del leader.

Anche Turn It Up ha un gran bel tiro, un rock’n’roll ancora dall’anima nera, un ritmo trascinante e lo spirito sudista del nostro che esce ad ogni nota, e restiamo al sud anche per la coinvolgente Too Much Whiskey, una splendida country song in puro stile outlaw, che sembra quasi un omaggio a Willie Nelson ed alla sua Whiskey River (la melodia è molto simile, e poi le parole “whiskey river” sono citate espressamente nel testo e c’è pure un’armonica alla Mickey Raphael). Finale con la limpida Love Song, altra soul ballad raffinata, elegante e suonata in souplesse (e che voce), e con No Pain, uno slow lucido ed intenso con organo, steel, chitarra elettrica ed archi che creano un suono unico, quasi un riepilogo dei vari stili incontrati nel corso del CD. Ottimo lavoro quindi questo El Dorado, un album che cresce ascolto dopo ascolto e che testimonia la crescita costante di Marcus King come musicista completo e versatile.

Marco Verdi

Un Ex Metallaro Che Ha Trovato La Sua Reale Dimensione. Aaron Lewis – State I’m In

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Aaron Lewis – State I’m In – Big Machine/Universal CD

Aaron Lewis, dopo aver capitanato per sedici anni un gruppo metal, gli Staind (con i quali ha pubblicato ben sette album), nel 2012 si è reinventato musicista country, una cosa possibile solo in America anche perché lo ha fatto in maniera assolutamente credibile. Il suo debutto, The Road, è stato infatti uno dei più positivi lavori di country-rock del 2012, da parte di un artista che sembrava un veterano e non un esordiente nel genere: un disco robusto e chitarristico che assorbiva pienamente la lezione del movimento Outlaw degli anni settanta, prodotto da una mezza leggenda del settore come James Stroud. Sinner, del 2016, confermava quanto di buono The Road aveva fatto intravedere, e questa volta in consolle c’era Buddy Cannon, l’uomo che ultimamente è dietro ai dischi di Willie Nelson: State I’m In è il nuovissimo lavoro di Lewis, un album che nelle sue dieci canzoni non fa che continuare il percorso di crescita del nostro. Ancora con Cannon in cabina di regia, State I’m In è un ottimo esempio di country-rock vigoroso, vibrante e chitarristico, con canzoni molto dirette e piacevoli, da parte di un musicista che se non sapessi che è del Vermont potrei pensare che fosse texano.

Musica country vera dunque, con il passato metallaro che è ormai un lontano ricordo, e con sessionmen di gran nome che fanno capire che Aaron non è uno qualunque: Dan Tyminsky, chitarrista degli Union Station di Alison Krauss, Vince Gill, Pat Buchanan, il grandissimo steel guitarist Paul Franklin, il piano e l’organo di Jim “Moose” Brown, l’armonicista di Willie, Mickey Raphael e, a cantare con Lewis nella title track, la stessa Alison Krauss con Jamey Johnson. Si inizia nel modo migliore con la bella e coinvolgente The Party’s Over, country song spedita dal mood elettrico e con una melodia di prima qualità: Aaron ha una voce splendida, baritonale e profonda, e la strumentazione classica con chitarre, steel e violino è perfetta. Can’t Take Back è un grintoso pezzo quasi bluesato e con indubbie influenze sudiste, cantato da Aaron con voce leggermente più arrochita, sezione ritmica potente e canzone che scorre che è un piacere https://www.youtube.com/watch?v=2ir-Zkvj7sQ ; Lewis sarà anche un ex hard rocker, ma dimostra di essere credibile anche in ballate come Reconsider (scritta da Keith Gattis), uno slow intenso e con un accompagnamento ricco alle spalle, mentre It Keeps On Workin’ è ancora sul versante rockin’ country, con un approccio maschio, da texano, e più di una rimembranza di Waylon Jennings: davvero bella.

State I’m In è languida e dal passo lento, impreziosita dalle voci della Krauss e di Johnson, God And Guns (che ha un testo che piacerà a chi ha votato per Trump) non aumenta il ritmo ma accresce notevolmente la dose di elettricità, e di nuovo si sentono elementi southern con l’aggiunta di un ritornello molto diretto https://www.youtube.com/watch?v=glPPQdjEx-Q , mentre Love Me è acustica e pacata, e mostra la faccia più romantica del nostro. If I Were The Devil, cadenzata e di stampo rock (ed ancora con più di un rimando al compianto Waylon), precede Burnt The Sawmill Down, luccicante ballata elettrica contraddistinta da una splendida steel ed il solito motivo di impatto immediato; il CD termina con The Bottom (di Waylon Payne), altro slow di buon livello e con un accompagnamento più languido che nei brani precedenti. Ormai Aaron Lewis ha trovato la sua strada artistica definitiva, e State I’m In lo conferma in pieno.

Marco Verdi

Giù Lo Stetson Di Fronte A “The King Of Country”! George Strait – Honky Tonk Time Machine

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George Strait – Honky Tonk Time Machine – MCA Nashville/UMG CD

Non è facile recensire il nuovo lavoro di un artista che viene considerato quasi all’unanimità un mito vivente del genere musicale di sua competenza: sto parlando di George Strait, uno dei capisaldi mondiali della musica country, che a 66 anni di età ha ancora voglia di fare musica. George, musicalmente parlando erede diretto di Conway Twitty e George Jones, nella sua carriera ha infranto ogni tipo di primato, arrivando in cima alle classifiche 22 volte con gli album e ben 45 con i singoli (record assoluto, non solo country), e riuscendo a vendere più di cento milioni di album dal 1981 (anno del suo esordio): cifre impressionanti, ed il tutto senza scendere più di tanto a compromessi con sonorità pop e easy listening Da buon texano infatti, George ha continuato a fare vera musica country per non essendo mai stato un integralista alla Dwight Yoakam, ma non ha mai nemmeno venduto l’anima al diavolo come ha fatto ad esempio Kenny Rogers: certo, per avere così tanto successo un occhio alle sonorità radiofoniche lo ha sovente buttato, ma sempre con molta misura e senza perdere d’occhio la vera essenza della country music.

E Honky Tonk Time Machine, il nuovo album di George (trentesimo in studio) prosegue il discorso avviato 38 anni fa: puro country classico di matrice texana, con il giusto bilanciamento tra ballate e brani più mossi, una produzione super-professionale (Chuck Ainlay, uno che ha lavorato a lungo con Mark Knopfler, ma anche con Emmylou Harris, le Pistol Annies, Marty Stuart e Mary Chapin Carpenter) ed un manipolo di sessionmen che danno letteralmente del tu agli strumenti, con veri e propri “Nashville Cats” del calibro di Glenn Worf, Paul Franklin, Stuart Duncan, Greg Morrow e Mac McAnally. Il CD inizia con Every Little Honky Tonk Bar, che mantiene ciò che promette il titolo, un honky-tonk ritmato, terso e suonato alla grande, con melodia e refrain coinvolgenti e Strait che mostra di avere ancora una bella voce, chiara, limpida e decisamente giovanile. Two More Wishes (scritta da Jim Lauderdale) è un delizioso pezzo dal sapore anni sessanta e con un sentore di Messico, il tipo di brani che hanno fatto la fortuna dei Mavericks; Some Nights è una ballata dal suono sempre elettrico senza la benché minima deriva pop ed un ritornello evocativo, mentre God And Country Music è uno slow intimo e con un bel testo, punteggiato da steel e piano e con il supporto vocale del nipote di George, Harvey Strait, di appena sei anni!

Blue Water, country ballad limpida e solare, è eseguita con classe e misura, Sometimes Love è un lentone di quelli da suonare al crepuscolo quando i cavalli sono stanchi ed i cowboy si accampano per la notte, un brano che contrasta con la bella Codigo, frizzante honky-tonk texano al 100%, al quale il violino dona un tono swingato e la fisarmonica fornisce il tocco mexican. Old Violin è una cover di Johnny Paycheck, altro pezzo lento e toccante dal bel motivo centrale, cantato al solito con voce sicura; Take Me Away è un rockin’ country chitarristico e coinvolgente, tra le canzoni più immediate del CD, mentre The Weight Of The Badge riporta l’album dal lato delle ballate, un pezzo intenso e gentile allo stesso tempo. La trascinante title track, puro rock’n’roll with a country touch, e la soffusa What Goes Up, portano al gran finale del disco: Sing One With Willie, dove Willie è proprio Willie Nelson, che partecipa sia in veste di co-autore che di cantante, per una bella slow song di matrice texana in cui i due celebrano con orgoglio il fatto che, dopo aver duettato con mezzo mondo, finalmente sono riusciti ad incidere una canzone insieme. Altro bel disco, Mr. Strait.

Marco Verdi

Appendere La Chitarra Al Chiodo? Magari Tra Dieci Anni! Loretta Lynn – Wouldn’t It Be Great

loretta lynn wouldn'it it be great

Loretta Lynn – Wouldn’t It Be Great – Legacy/Sony CD

Loretta Lynn, regina incontrastata della musica country, ha ripreso ad incidere con regolarità nel nuovo millennio, dopo che negli anni novanta aveva fatto sentire raramente la sua voce, e tutti pensavamo si stesse godendo una meritata pensione. La vera svolta è avvenuta con l’album Van Lear Rose del 2004, prodotto da Jack White, che aveva fornito un approccio più moderno allo stile della cantautrice del Kentucky, riportando il suo nome agli onori della cronaca. Da allora Loretta ha iniziato una collaborazione con John Carter Cash, figlio del grande Johnny, che le ha prodotto lo splendido Full Circle del 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/03/11/nuova-promettente-artista-talento-loretta-lynn-full-circle/  e l’ottimo album natalizio White Christmas Blue dello stesso anno. Ora la Lynn (nata Webb) torna di nuovo fra noi con questo Wouldn’t It Be Great, un disco avrebbe dovuto uscire lo scorso anno ma è stato rimandato a causa di una caduta della country singer con conseguente rottura dell’anca. E Wouldn’t It Be Great prosegue sulla stessa falsariga dei dischi precedenti, un lavoro davvero molto bello in cui Loretta non solo dimostra che, alla tenera età di 86 anni, ha ancora una gran voglia di fare musica, ma è tuttora in possesso di una voce straordinaria, pura e cristallina come se a cantare fosse una quarantenne.

E non solo: c’è anche il fatto non trascurabile che Loretta è ancora in grado di scrivere nuove canzoni, e non si affida unicamente a classici del passato: in questo nuovo lavoro su tredici brani totali, solo sei facevano già parte del suo repertorio, mentre i restanti sette sono stati composti ex novo insieme, a turno, alla figlia Patsy Lynn Russell (che produce anche il disco, insieme a Cash Jr.) ed al noto songwriter Shawn Camp. Un altro bellissimo disco dunque, country classico suonato alla grande da un manipolo di sessionmen di ottimo lignaggio (tra i quali troviamo Paul Franklin alla steel, lo stesso Camp alla chitarra acustica, Pat McLaughlin al mandolino e chitarra, Bryan Sutton al banjo, Dennis Crouch al basso, Tony Harrell al piano, Ronnie McCoury al mandolino), una produzione scintillante e, ripeto, una voce ancora formidabile. Non possiamo certo pensare che a quasi novant’anni Loretta possa cambiare stile (aveva già osato abbastanza nel disco con White), e d’altronde se è diventata la regina assoluta di questo genere un motivo ci sarà. La title track è una canzone tenue e struggente, con una chitarra arpeggiata, sezione ritmica discreta ed un bel dobro, ma soprattutto la grande voce di Loretta al centro, ancora forte ed espressiva. Ruby’s Stool è una vivace country song dal ritmo irresistibile ed ottimi interventi di piano, steel e violino, con la Lynn che mostra di divertirsi ancora, e noi con lei; I’m Dying For Someone To Live For è un valzer lento dalla squisita melodia, specie nel ritornello, ed il gruppo ricama con indubbia classe, mentre Another Bridge To Burn vede Loretta alle prese con il più classico degli honky-tonk: ne avrà cantati a centinaia di pezzi così, ma ogni volta è una goduria, anche perché un carisma come il suo lo hanno in poche.

Dopo un intro quasi a cappella parte Ain’t No Time To Go, un delizioso bluegrass dal sapore tradizionale con accompagnamento a base di chitarra, violino, banjo e contrabbasso, God Makes No Mistakes è splendida, una country ballad pura e distesa, con un cantato da pelle d’oca ed il solito accompagnamento sopraffino (bellissimo l’assolo di pianoforte, e spunta anche una chitarra elettrica), These Ole Blues è una sorta di cowboy (anzi, cowgirl) tune dal sapore anni cinquanta, ma con la pulizia dei suoni odierna. My Angel Mother vede solo la voce di Loretta e la chitarra di Sutton, ma i brividi non si contano, Don’t Come Home A-Drinkin’ è un pimpante brano di puro country, molto bello sia nella melodia che nella struttura musicale (uno dei più riusciti del disco), mentre The Big Man è un altro scintillante honky-tonk con tutti gli strumenti a posto, con steel e violino che la fanno da padroni. Il CD si chiude con un’intensa rilettura del traditional Lulie Vars, voce, due chitarre e basso, la mossa ed orecchiabile Darkest Day (sentite che voce) e la classica Coal Miner’s Daughter, il più noto tra i pezzi del passato, che oltre ad essere una bellissima canzone è anche uno dei soprannomi della cantante. Loretta Lynn è per il country al femminile l’equivalente di Willie Nelson per quello maschile: ha superato già da tempo gli ottanta ma è ancora la numero uno.

Marco Verdi

Una Nuova” Promettente” Artista Di Talento! Loretta Lynn – Full Circle

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Loretta Lynn – Full Circle – Sony Legacy CD

Il titolo del post è volutamente ironico, in quanto ci troviamo di fronte ad una vera e propria leggenda vivente della country music (e non solo): Loretta Lynn (nata Webb), 84 anni il mese prossimo, è sulla breccia da più di cinquant’anni, e la sua serie di successi e di premi meriterebbe un post a parte (basti sapere che è, dati alla mano, l’artista donna più di successo in ambito country di tutti i tempi). Sono già passati dodici anni da quel Van Lear Rose, che ci aveva mostrato un po’ a sorpresa un’artista ancora in grandissima forma, perfettamente a suo agio anche con una produzione non proprio tradizionale, come quella dell’eclettico Jack White: ma la strana coppia aveva funzionato, e l’album era stato uno dei migliori del 2004 in ambito country. Ora Loretta ci riprova, e con Full Circle centra nuovamente il bersaglio: ben bilanciato tra brani originali (alcuni rivisitati), cover e pezzi tratti dalla tradizione, il disco ci mostra una cantante che non ha la minima intenzione di appendere il microfono al chiodo, ed anzi è ancora in possesso di una voce formidabile, pura, limpida e cristallina, di certo non tipica di un’ottuagenaria.

La produzione è più canonica rispetto a Van Lear Rose, ed è nelle mani comunque esperte di John Carter Cash (figlio di Johnny e June), che ha cucito attorno all’ugola di Loretta un suono molto classico, con piano, steel, violini e chitarre acustiche sempre in primo piano: la lunga lista di musicisti presenti comprende alcuni veri e propri luminari come Sam Bush (mandolino), Shawn Camp (chitarra, di recente stretto collaboratore di Guy Clark), Paul Franklin (steel), Ronny McCoury (figlio di Del, al mandolino), Randy Scruggs (chitarra), oltre allo splendido pianoforte di Tony Harrell (già con Don Henley, Johnny Cash, Vince Gill, Sheryl Crow e nel bellissimo Django And Jimmie di Willie Nelson e Merle Haggard). Tredici canzoni, non una nota da buttare, con alcune vere e proprie perle ed un paio di sorprese finali che vedremo.

Con i primi due brani, due lentoni intitolati rispettivamente Whispering Sea e Secret Love, Loretta sembra quasi scaldare la sua ugola ed il gruppo i muscoli, ma già con la seconda delle due la nostra dimostra di essere nel suo elemento naturale, e la voce sembra di una con trent’anni di meno. Who’s Gonna Miss Me? ha una melodia diretta ed il gruppo offre una performance cristallina, grande classe e grande canzone, ma le cose vanno ancora meglio con la splendida Blackjack David, un famoso traditional attribuito alla Carter Family, rilasciato con un arrangiamento da pura mountain music, una versione imperdibile; e che dire di Everybody Wants To Go To Heaven, ritmo spedito, grande assolo di piano, chitarrina elettrica, melodia dalla struttura gospel e Loretta che canta con la grinta di una ventenne.

Always On My Mind è una delle grandi canzoni del songbook americano (ricordo le versioni più famose, ad opera di Elvis Presley e Willie Nelson) e l’arrangiamento pianistico è più vicino a quello di Willie che a quello un po’ pomposo del King: comunque sempre un grande brano, con la Lynn che canta con un’intensità da pelle d’oca. Anche Wine Into Water è una gradevolissima country ballad, suonata alla grande (ma tutto il disco è a questi livelli: è forse brutta la rilettura del traditional In The Pines?); Band Of Gold è un honky-tonk perfetto, che sembra provenire direttamente dalla golden age di questo tipo di musica, così come la mossa Fist City (un vecchio successo rifatto), fulgido esempio di come si possa fare del vero country tradizionale nel 2016.

I Never Will Marry (ancora Carter Family, qui John Carter deve aver detto la sua) precede Everything It Takes, uno scintillante honky-tonk che Loretta ha scritto con Todd Snider, suonato e cantato con la consueta classe, con la partecipazione straordinaria (e riconoscibilissima) di Elvis Costello alle armonie vocali. Chiude il CD la tenue Lay Me Down, un vero e proprio duetto vocale con Willie Nelson (poteva mancare?), due voci superbe, una chitarra, un mandolino, un violino e feeling a palate.

Full Circle è il titolo più appropriato per questo album, in quanto ci riporta una Loretta Lynn in forma Champions (per dirla in termini calcistici), e su territori che conosce a menadito e che ormai le appartengono di diritto.

Ed è ancora la numero uno.

Marco Verdi

Una (Parziale) Rivincita Per L’Hank “Sbagliato”! Hank Williams Jr. – It’s About Time

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Hank Williams Jr. – It’s About Time – Nash Icon/Universal CD

Nascere figli di Hank Williams e voler fare i musicisti non è facile, ma Hank Williams Jr., nel corso delle ormai quasi sei decadi di carriera, ci ha messo spesso e volentieri del suo per offrire il fianco alle critiche, complice una qualità media discografica altalenante (però comprensibile quando hai quasi sessanta album all’attivo, live ed antologie esclusi) e soprattutto testi che palesavano uno spirito patriottico un tantino qualunquista (per usare un eufemismo), una religiosità un po’ stucchevole ed una simpatia politica abbastanza evidente per il partito repubblicano (quasi un peccato mortale in ambito artistico per l’intellighenzia americana, mentre io penso che ognuno abbia il diritto di professare la propria ideologia in santa pace, tanto quello che conta è la musica). Ma Hank Jr. non è mai stato un beniamino della critica, anche perché musicalmente molto spesso si è lasciato andare a soluzioni non proprio raffinatissime, altre volte rivestendo le proprie canzoni con arrangiamenti discutibili, ma sovente, bisogna dirlo, i suoi dischi non sfiguravano affatto nell’ambito di un certo country-rock imparentato con la musica del Sud (sua area d’origine peraltro), e diverse volte il suo suono robusto non ha mancato di intrattenere a dovere gli ascoltatori, come è successo anche con il suo penultimo lavoro, il discreto Old School New Rules del 2012.

Ora Hank fa anche meglio, in quanto It’s About Time è, testi a parte, un signor disco di rockin’ country vigoroso ma non banale, con una dose più che sufficiente di feeling ed una serie di buone canzoni, suonate e cantate con il piglio giusto ed arrangiamenti asciutti e diretti (la produzione è di Julian Raymond, già collaboratore per molti anni di Glen Campbell): un bel disco dunque, direi anche un po’ a sorpresa dato che Williams Jr. non ha mai sfornato capolavori, né ha mai goduto di un gran credito (a differenza dei figli Holly, davvero brava, e Hank III, che però a fianco di ottimi dischi country ha pubblicato anche immani porcate quasi metal) ed è sempre stato guardato dall’alto in basso. L’album inizia subito col piede giusto, intanto perché Are You Ready For The Country di Neil Young è una grande canzone, e poi perché Hank ne fa una versione accelerata e decisamente più roccata (tra l’altro in duetto con Eric Church), un trattamento che dà nuova linfa ad un classico: chitarre e sezione ritmica dominano, ma c’è anche un tagliente violino a dire la sua (il grande Glen Duncan, e nel disco suona anche il leggendario steel guitarist Paul Franklin). La sciovinista Club U.S.A. è un rock’n’roll tiratissimo che non sfigurerebbe nel repertorio dei migliori Lynyrd Skynyrd, che in quanto a sciovinismo pure loro non scherzano, un pezzo davvero trascinante (e Hank, è giusto ricordarlo, ha anche una bella voce), God Fearin’ Man è ancora un southern country roccioso e potente, Hank non molla la presa e ci circonda di ritmo e chitarre a manetta (ed anche il refrain non è niente male), mentre Those Days Are Gone è più rilassata, un honky-tonk cadenzato dal suono comunque pieno e con la giusta dose di elettricità e “sudismo”.

https://www.youtube.com/watch?v=aoA-KwmUaAk

La divertente (nel testo) Dress Like An Icon ha anch’essa un bel tiro e non fa calare la tensione di un disco fino a questo momento sorprendente; God And Guns la conoscevamo già nella versione proprio degli Skynyrd (era anche il titolo di un loro album del 2009), e se il testo è una dichiarazione di intenti a favore di Donald Trump (o di chiunque vincerà le primarie repubblicane), musicalmente il brano è un southern rock teso ed affilato, con un trascinante finale a tutta potenza. Just Call Me Hank è invece una ballata scorrevole e molto più country, ma con un suono sempre deciso, la saltellante Mental Revenge (un classico di Mel Tillis, ne ricordo una bella versione anche dei Long Ryders) è scintillante e godibilissima; la title track è invece un country-rock dalla melodia contagiosa che conferma lo stato di ottima forma di un musicista spesso bistrattato.     L’album si chiude con il rutilante swing roccato di The Party’s On, la lunga Wrapped Up, Tangled Up In Jesus, puro gospel del Sud ( e ci sono le McCrary Sisters ai cori), dal ritmo sempre sostenuto e con un tocco swamp, e con la travolgente Born To Boogie (titolo che è tutto un programma), nella quale Hank divide il microfono con Brantley Gilbert, Justin Moore e Brad Paisley, il quale rilascia anche un assolo chitarristico dei suoi.

Bando agli snobismi: Hank Williams Jr. non sarà certo diventato all’improvviso un genio della musica, ma It’s About Time è un bel disco, e questo bisogna riconoscerglielo.

Marco Verdi

Ultimi Ripassi Di Fine Estate: Bella, Brava E …Texana! Kacey Musgraves – Pageant Material

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Kacey Musgraves – Pageant Material – Mercury Nashville CD

Uno dei molteplici successi da Top Ten della carriera di Rod Stewart (e che in seguito ha dato il titolo ad una antologia a lui dedicata) si intitolava Some Guys Have All The Luck, e se questa frase certo si adatta benissimo al buon Rod, di sicuro è valida anche per molte ragazze. Una di queste è sicuramente la country singer Kacey Musgraves che, oltre a vantare una splendida presenza fisica (andate su Google Immagini e capirete), è texana ( cosa che in campo musicale sappiamo essere un punto di vantaggio), ha una bella voce e, da quando ha firmato per la divisione di Nashville della Mercury (i suoi album precedenti, autodistribuiti, sono pressoché introvabili) ha portato due album su due, compreso quello di cui mi accingo a parlare, in testa alla Country Top 100 di Billboard. Kacey però non è una pop star mascherata da cantante country come va di moda ora dalle parti di Nashville e, anche se i due produttori che si è scelta per il nuovo lavoro (Luke Laird e Shane McAnally) hanno in curriculum “gentaglia” del calibro di Lady Antebellum, The Band Perry, Reba McEntire e Carrie Underwood (non ce l’ho con loro, ma il country sta da un’altra parte), la nostra, da buona texana, ha saputo tenere in mano le redini.

Pageant Material è un disco di ballate d’altri tempi, suonate e cantate in modo raffinato ma senza eccessi di zucchero (un mezzo miracolo di questi tempi), con una serie di sessionmen di prim’ordine (ad esempio, la steel guitar, grande protagonista del disco, è suonata dal noto Nashville Cat Paul Franklin, (frequente collaboratore anche di Mark Knopfler) e con i due produttori che, oltre a scrivere con Kacey tutti i brani, intervengono con mano leggera ma sapiente. La Musgraves non è la tipica texana tutta grinta, chitarre e ritmo, anche perché le sue influenze sono classiche e tutte al femminile, dalla capostipite Patsy Cline fino alle famose honky tonk angels Dolly Parton, Loretta Lynn e Tammy Wynette (replicate talvolta anche nel look, con le cotonature tipiche di quegli anni): Pageant Material è dunque un disco di piacevole ascolto, che mostra che le doti di Kacey non riguardano solo l’aspetto.High Time inquadra benissimo lo stile della Musgraves, una country song d’altri tempi, cantata in maniera gentile e dominata dalla steel, con una sezione d’archi non invadente. Con Dime Store Cowgirl siamo più ai giorni nostri, una canzone pulsante, orecchiabile e dal buon ritmo; la delicata Late To The Party ha un retrogusto pop, ma è arrangiata con gusto e si lascia ascoltare con piacere (e la voce limpida di Kacey è uno dei suoi punti di forza).

La title track ha ancora un piede negli anni sessanta, ed è dotata di una melodia per nulla banale, This Town ha un’aria blues che non credevo fosse nelle corde della ragazza, mentre la vivace Biscuits, tra country e bluegrass, ha uno splendido ritornello corale ed è una delle più riuscite. Somebody To Love è una deliziosa ballad semiacustica molto classica (e qui sento echi della reginetta del genere negli anni settanta, cioè Linda Ronstadt), mentre la tenue Miserable ha un’aria malinconica; Die Fun e Family Is Family sono due riempitivi, comunque gradevoli. L’album (prima della sorpresa finale) si chiude con il buon uptempo di Good Ol’ Boys Club, dal refrain evocativo, la bucolica e solare Cup Of Tea e la languida e romantica Fine. Finito? No: dopo pochi secondi abbiamo una ghost track, una versione molto riuscita di Are You Sure?, un pezzo non molto noto di Willie Nelson (un valzerone tipico dei suoi) che, sorpresa, vede la partecipazione proprio di Willie stesso, con l’inconfondibile Trigger e la sua voce da brividi, una partecipazione che, nonostante la bravura di Kacey, fa salire di non poco la temperatura del CD. Un dischetto piacevole e ben confezionato, anche se per il futuro non disdegnerei una maggior dose di rock.

Marco Verdi