Avanti Il Prossimo, Chitarrista. Tyler Morris Band – Next In Line

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Tyler Morris Band – Next In Line – VizzTone               

Per la serie piovono chitarristi, vista anche la stagione, non passa mese senza che qualche nuovo nome sbuchi, più o meno a sorpresa, dalla scena musicale americana: ogni tanto sono veterani, magari in attività da decine di anni, gente che per vari motivi è rimasta sconosciuta al grande pubblico, anche quello degli appassionati osservanti, in altri casi si tratta di giovani virgulti di talento. Tyler Morris appartiene alla seconda categoria, viene dalla zona di Boston, Massachussetts, e colui che lo ha spinto a prendere in mano la chitarra è stato, come spesso capita, il babbo; le prime influenze sono quelle dei ”chitarristi funambolici”, i soliti noti,  Yngwie Malmsteen, Steve Vai, Van Halen, Gary Hoey https://www.youtube.com/watch?v=LHbO7UTrVGw , tanto per non fare nomi, quindi filone hard rock acrobatico, poi comincia a studiare anche altri musicisti, Eric Clapton e Freddie King, Stevie Ray Vaughan e Kenny Wayne Shepherd, e qui devo dire che cominciamo a esserci. Nel frattempo ha già pubblicato un paio di album, And So It Begins e The Chaos Continues, per approdare nei primi mesi del 2018 alla VizzTone con questo Next In Line.

Il nostro amico ha solo 19 anni compiuti da poco (come si vede anche nella foto di copertina e nel frame del video qui sopra, dove ne dimostra anche meno), ma con la guida dell’etichetta di Chicago (che ultimamente ci sta dando parecchie soddisfazioni, Billy Price, Nick Schnebelen, Austin Young Band, Dani Wilde, Billy Walton, Heather Newman e svariati altri in ambito blues-rock) realizza il nuovo album sotto la guida di Paul Nelson, manager e produttore di Johnny Winter negli ultimi anni di carriera, che gli affianca, oltre alla sua band, un paio di ospiti di pregio, Joe Louis Walker e gli Uptown Horns. A proposito della Tyler Morris Band, oltre alla solista del titolare, troviamo Scott Spray basso, Tyger Macneal  batteria, Mike Dimeo alle tastiere quando servono, e soprattutto un eccellente vocalist come Morten Fredheim, saggia mossa che non tutti i giovani chitarristi riescono a capire quando si tratta di dare voce alla propria musica e non si è dei cantanti adeguati. Il risultato sono dieci corposi brani per una quarantina di minuti di energico rock, con ampie spruzzate di blues, i ragazzi ci danno dentro di gusto come certifica il classic rock a tutto riff dell’iniziale Ready To Shove, con la chitarra di Morris che comincia a scivolare fluida e scorrevole, spesso raddoppiata, sui ritmi del buon rock duro made in the ‘70’s, la voce di Fredheim è ben centrata, e lo stile può ricordare i primi Shepherd o Jonny Lang, quelli meno bluesati, ma per nulla disprezzabili.

Livin’ The Life va addirittura dalle parti di Bad Company, Deep Purple, Frank Marino, Leslie West, persino del Johnny Winter rock’n’roller, con la mediazione di Nelson, con la solista sempre molto impegnata e la ritmica che picchia di brutto; l’unica cover è Willie The Pimp il pezzo di Bill Carter che è stato un successo per Stevie Ray Vaughan, cantata nell’occasione da Joe Louis Walker, il sound aggiunge elementi blues, l’arrangiamento è più complesso, la chitarra più raffinata e definita e il brano molto godibile. Down In My Luck è il classico heavy blues, tirato e scandito, con Fredheim e Morris che si sfidano a colpi di voce e chitarra, mentre l’ottimo strumentale Choppin’, dove appare la sezione fiati degli Uptown Horns, swinga di brutto, in uno stile che non sarebbe dispiaciuto a BB King e mette in luce le eccellenti qualità tecniche del nostro amico. Talkin’ To Me è uno shuffle mid-tempo e se dovessi fare un nome come ispirazione, ne farei due, Robben Ford e Jeff Healey, il giovane di Boston ha stoffa e stile, la sua band suona in modo eccellente e l’album è molto godibile; Thunder è il classico brano power-rock a tutto wah-wah, duro e tirato, ma senza sbracare troppo, con trame velocissime della solista di Morris che ogni tanto indulge in quei virtuosismi fini a sé stessi presi dalle sue prime influenze musicali. This Ain’t No Fun è eccellente, con tocchi “sudisti”, quasi Allmaniani, grazie anche alla presenza dell’organo e un ottimo lavoro della sezione ritmica, mentre Tyler è sempre pimpante con i suoi interventi di chitarra, fluenti e non scontati. Ancora sano rock-blues chitarristico (e pure la voce non scherza) con la potente e scandita Truth Is The Question e di nuovo raffinate derive ritmiche con le interessanti divagazioni sonore della composita Keep On Driving, dove si apprezza il lavoro del piano di Dimeo. Non un capolavoro perciò, ma un nome da appuntarsi, uno dei chitarristi più interessanti delle ultime generazioni.

Bruno Conti

Forse La Migliore Band Southern Dell’Ultima Decade, Veramente Bravi! Otis – Eyes Of The Sun

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 Otis – Eyes Of The Sun – Purple Pyramid Records/Cleopatra

Ultimamente i “miei amici” della Cleopatra sembrano avere messo a segno qualche buon colpo: tra recuperi di vecchi gruppi metal imbolsiti, tributi un po’ raffazzonati, ristampe improbabili di dischi non memorabili di artisti del passato, nel loro catalogo spunta anche qualche gioiellino, tipo l’ultimo di Stills e della Collins (anche se l’etichetta è la Wildflower), quello dal vivo di Tom Killner, buon chitarrista inglese, e poco altro di interesse, almeno per il sottoscritto. Ma devo ammettere che questo nuovo album degli Otis (il loro secondo) è veramente buono: band “sudista” vecchio stampo, vengono dal Kentucky, il loro primo album Tough Times Tribute To John Brim, era un omaggio ad un oscuro bluesman, loro corregionale, noto per avere scritto Ice Cream Man, brano “coverizzato” da varie band hard, tra cui i Van Halen. Del gruppo è stato detto, sintetizzo: “Se c’è mai stata una nuova band che può ricoprire il gradino più alto nell’ambito Jam Blues Rock e il vuoto lasciato da gruppi come gli Allman Brothers, questi sono gli Otis!” Lusinghiero: ma chi lo ha detto? Paul  Nelson, vecchio pard di Johnny Winter, e curatore di tutte le recenti ristampe del texano. Come dite, è il produttore esecutivo di questo Eyes Of The Sun, e appare alla chitarra anche in un brano? Quindi il conflitto di interessi non lo abbiamo inventato noi.

Comunque il disco rimane molto buono e le parole sono veritiere: i quattro robusti giovanotti, a giudicare dalle foto almeno, che compongono la band sono veramente bravi, Boone Froggett, voce e chitarra solista, Steve Jewell, il secondo solista e John Seeley, basso e Andrew Gilpin, batteria, sono un quartetto solido e dalla buona tecnica, che pescano sia dalla tradizione blues, come dal southern degli Allman e anche dei Wet Willie, che aveva maggiori connotati anche errebì. Lo stile è energico e robusto, ma i nostri suonano veramente bene, mi sembrano persino superiori a Blackberry Smoke e Whiskey Myers, i paragoni con gli Allman Brothers non sono sparati a vuoto, l’iniziale Change, con le due soliste che lavorano di fino, una in modalità slide e l’altra normale, ha il piglio e il drive dei vecchi ABB, Froggett non avrà la voce di Gregg Allman o di Van Zant, ma è più che adeguata, il tocco delle due coriste Sandra Dye e Bianca Byrd, aggiunge altri profumi di profondo Sud al sound e il lavoro delle due chitarre è veramente lodevole.

Anche quando il suono si fa più “duretto”, alla Lynyrd Skynyrd per intenderci, ma quelli Doc, come nella successiva Blind Hawg, l’interplay tra le due chitarre è sempre godibilissimo, la ritmica picchia ma con costrutto, anche quello degli ZZ Top potrebbe essere un nome di riferimento, con Billy Gibbons che ha espresso i suoi riconoscimenti per il gruppo “ottime parti cantate, toni di chitarra deliziosi, nell’insieme un ascolto piacevolissimo”, sottoscrivo. Spesso le due chitarre lavorano anche all’unisono, ma il dualismo slide-solista è quello vincente: ribadito nella title track Eyes Of The Sun, che addirittura di slide ne presenta due, e alza la quota blues(rock) dell’insieme, sentito forse mille volte e “revivalista” quanto volete, ma quando è fatto così bene è veramente un piacere, southern rock della miglior grana. Ottima anche Home, tagliente e saltellante, con la slide sempre “piccante”, e poi quando entra anche l’organo Hammond dell’ospite Eddie Stone, il suono si fa ancora più “pieno” e corposo, anche con rimandi ai prima citati Whiskey Myers e Blackberry Smoke, ma comunque con le chitarre che ruggiscono sempre in modo inarrestabile nelle due lunghe Shake e Turn To Stone, la seconda una bella ballatona rock di quelle classiche sudiste, in crescendo, con Froggett che canta anche con impeto e classe.

Washed My Hands è nuovamente dura e tirata, a tutto riff, come degli ZZ Top con doppia chitarra solsita, mentre in Lovin’ Hand arriva anche Paul Nelson alla terza solista e qui due parole urgono, “Lynyrd Skynyrd”, e non si prendono ostaggi. Ma gli Otis sono capaci anche di un approccio più raffinato, con chitarre acustiche, un mandolino (Danny Williams), sonorità quasi orientali, per uno strumentale Relief In C dai profumi indiani, e non sono quelli dei pellirossa. Per le ultime due canzoni torna ancora l’organo di Stone e si prova anche la strada della hard ballad cadenzata, quasi alla Neil Young, con una eccellente Chasing The Sun dove le ennesime ed estese jam chitarristiche delle due soliste sono tutte da gustare. In chiusura con Let Your Love Shine Down sembra quasi di ascoltare la migliore Marshall Tucker Band, anche con piccoli elementi country e soul inseriti nel calderone sonoro, e sempre con quella slide insinuante che scalda i cuori, e occhio al finale. Veramente bravi!

Bruno Conti

Un Appuntamento Quasi “Inevitabile”! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol. 13

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Johnny Winter  – Live Bootleg Series vol. 13 – Friday Music

Prosegue la pubblicazione degli archivi Live di Johnny Winter, siamo ormai arrivati al capitolo n° 13. Come al solito il curatore ufficiale della serie Paul Nelson, incaricato da un fantomatico “Johnny Winter Music Archive” autorizzato dagli eredi del texano (??), non ci dice assolutamente nulla sulla provenienza del materiale, anno, località, musicisti impiegati: come di consueto si intuisce che dovrebbe esserci Jon Paris al basso e all’armonica (quindi siamo tra il 1979 e il 1989, anni in cui Paris ha militato nella band di Johnny) e si presume che il batterista potrebbe essere Bobby Torello (fino al 1983) o Tom Compton (negli anni a seguire, più probabile), quindi l’arco temporale si restringe Questa volta la qualità sonora è meno discontinua del solito: merito forse di Joe Reagoso che ha curato il mastering? Può essere.

Sta di fatto che il suono in questo volume è piuttosto buono, la musica ovviamente non si discute: a partire da una fulminante versione di Mean Town Blues, uno dei classici assoluti di Johnny, sin dai tempi di The Progressive Blues Experiment del 1968, poi a Woodstock e in Johnny Winter And Live, e da lì all’eternità, con la slide che viaggia a velocità supersoniche per quasi dieci minuti, con la solita classe e ferocia dell’albino texano, ottimo anche Paris al basso, per un perfetto esempio di power trio all’ennesima potenza. E niente male neppure la successiva Mojo Boogie, un brano di JB Lenoir che era su 3rd Degree, il disco per la Alligator del 1986, con Paris anche all’armonica e Winter nuovamente fantastico alla slide. In Last Night, uno slow blues scritto da Little Walter, la qualità del suono peggiora giusto un filo, rimanendo comunque molto buona, ma il brano, ripreso anche in Roots, il disco del 2011 registrato con vari ospiti (nel caso John Popper all’armonica) è comunque un fulgido esempio del Winter più rigoroso nella sua fedeltà alle 12 battute, riviste sempre attraverso la sua ottica unica e con la consueta grinta travolgente, all’armonica, penso sempre Paris.

Walking By Myself, il pezzo di Jimmy Rodgers, di nuovo con i duetti tra l’armonica di Paris e la solista di Winter, rientra più nella media delle esibizioni del nostro, buona ma per lui quasi normale, si fa per dire, perché la chitarra è sempre fantastica, anche se il suono è più pasticciato. E Mad Dog, un brano che era su Guitar Slinger del 1984, è indubbiamente tra i brani meno noti nell’immenso songbook del musicista texano, quindi una gradita aggiunta, ma niente per cui stracciarsi le vesti, mentre Don’t Take Advantage Of Me, il brano di Lonnie Brooks, è proposta in una versione hendrixiana, con il pedale wah-wah  spesso pigiato a manetta, per un omaggio al mancino di Seattle e alle sue sonorità, ma pure con citazioni dei Cream e di altri pilastri del rock-blues in trio. In conclusione anche un omaggio agli amati Rolling Stones, con una breve ma intensa versione di Gimme Shelter, solo strumentale, abbastanza irriconoscibile e, peccato, lunga meno di tre minuti, per quanto sempre ricca di fascino. Se avete già gli altri dodici, anche questo non può mancare alla vostra collezione, tenendo conto che è uno dei migliori della serie, che ultimamente è diventata “limitata” e piuttosto costosa.

Bruno Conti

Il “Solito” Album Di Joe Louis Walker, Quindi Bello! Everybody Wants A Piece

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Joe Louis Walker –  Everybody Wants A Piece – Mascot/Provogue 

Joe Louis Walker, nelle biografie più o meno ufficiali, fa risalire l’inizio della sua carriera al 1964-1965, quindi all’età di circa 16 anni (essendo nato il giorno di Natale del 1949 a San Francisco, California), prima nella zona della Bay Area in gruppi locali, poi a contatto con i grandi, soprattutto Mike Bloomfield, insieme al quale forgia una amicizia che durerà fino alla scomparsa di Bloomfield nel 1981, e con cui condividerà anche una stanza negli anni più bui di Mike. Nei primi anni conosce e frequenta pure Hendrix, John Lee Hooker, Mayall, Willie Dixon e moltissimi altri, ma la sua carriera discografica, caratterizzata da una lunga gavetta (come usa nell’ambiente), non decolla fino al 1986 quando pubblica il primo disco. Da allora ha inciso per moltissime etichette, la Hightone all’inizio, poi la Universal quando si chiamava ancora Polygram, la Telarc, la Evidence, la JSP, di nuovo la Hightone, una prima volta con la Provogue, la Stony Plain ed infine la Alligator, dove pubblica gli ultimi due dischi, Hellfire e Hornet’s Nest, probabilmente, a parere di chi scrive, i migliori della sua carriera, entrambi prodotti da Tom Hambridge, che con il suo manipolo di abilissimi musicisti e sessionmen estrae il meglio da JLW, che comunque, bisogna dire, ha sempre mantenuto un livello qualitativo molto elevato in tutta la sua produzione http://discoclub.myblog.it/2014/02/07/nel-nido-del-blues-joe-louis-walker-hornets-nest/ .

Per il ritorno con la Provogue Walker si affida ad un altro produttore (e chitarrista) di vaglia come Paul Nelson, a lungo collaboratore di Johnny Winter nell’ultima parte di carriera, che negli studi Chop Shop di Philadelphia lo affianca con la sua touring band abituale, Lenny Bradford, Byron Cage la sezione ritmica e Phillip Young alle tastiere, con lo stesso Joe impegnato anche all’armonica, oltre che a chitarra e voce, e ancora una volta estrae il meglio dal musicista californiano. Walker, sempre secondo il sottoscritto, con Robert Cray (reduce da un live strepitoso uscito recentemente http://discoclub.myblog.it/2015/09/02/quattro-decadi-del-migliori-blues-contemporaneo-robert-cray-band-4-nights-of-40-years-live/ ) è probabilmente uno dei migliori rappresentanti del cosiddetto “black contemporary blues”, uno stile che ingloba il meglio del Blues del 21° secolo (ma anche di quello precedente): voce potente, duttile ed espressiva al tempo stesso, capace di calarsi anche nei meandri della soul music più raffinata, uno stile chitarristico al tempo stesso aggressivo e ricco di tecnica, con elementi rock e tradizionali che si fondono in un solismo da virtuoso, ricco di feeling, ma capace di sfuriate improvvise e reiterate. Tutti elementi contenuti anche negli undici nuovi brani che compongono questo Everybody Wants A Piece: dalle furiose sferzate chitarristiche dell’iniziale e tirata title-track, con sezione ritmica e organo a seguire in modo quasi telepatico le evoluzioni del leader https://www.youtube.com/watch?v=FOOgJ6Ngcf8 , passando per la claptoniana Do I Love Her, dove Walker sfodera anche una armonica pungente e puntuale, e ancora una Buzz On You dove si vira verso un boogie R&R quasi stonesiano, o meglio ancora alla Chuck Berry che è l’articolo originale, con Young che raddoppia anche al piano.

Non manca Black & Blue, storia di un amore che cade a pezzi raccontata con un tempo incalzante, tra errebi ed eleganti atmosfere sospese che ricordano quelle tipiche del miglior Cray, ma anche le linee sinuose e moderne di Witchcraft, dove la solista di Joe Louis Walker comincia ad affilare gli artigli o le leggere derive hendrixiane di One Sunny Day, dove l’unisono voce-chitarra ricorda echi del grande Jimi https://www.youtube.com/watch?v=iF_RLwyMYYI . Ottimo anche il lungo strumentale Gospel Blues, un classico slow, dove la chitarra di Walker si avventura in tematiche care a Ronnie Earl, con un brano che è un giusto mix di tecnica sopraffina, feeling a palate e folate di grinta, un solo che avrebbe incontrato l’approvazione del vecchio amico Mike Bloomfield. E niente male anche il gospel soul dal profondo Sud di una ritmata Wade In The Water, così come pure il R&B fiatistico alla Sam & Dave della coinvolgente Man Of Many Words, con la chitarra comunque sempre pronta per improvvisazioni di grande spessore tecnico https://www.youtube.com/watch?v=YC9kRzEHJ18 . Gli ultimi due brani sono quelli più vicini al blues classico, Young Girls Blues è un tirato shuffle Chicago style, con pianino inevitabile di supporto, mentre per la conclusiva 35 Years Old JLW rispolvera l’armonica a bocca e aggiunge anche una slide malandrina che alza la quota di sonorità più vicine alle migliori tradizioni delle 12 battute. Quindi nuova etichetta ma per fortuna vecchio Joe Louis Walker, cioè ottimo, anche se i due dischi precedenti si fanno ancora preferire, di poco!

Bruno Conti

Anche Dopo La Sua Morte Prosegue Una Serie “Infinita”! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11

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Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11 – Friday Music

Johnny Winter ci ha lasciati il 16 luglio di questa estate non particolarmente calda, trovato senza vita nella sua camera d’albergo a Zurigo, in circostanze mai chiarite, due giorni dopo la sua ultima esibizione dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/07/17/ieri-oggi-sempre-fedele-true-to-the-blues-boxset-the-johnny-winter-story/ . Come sapete è uscito un nuovo (bellissimo) album di duetti, Step Back, la cui uscita era già comunque prevista, ma prima è stato pubblicato questo capitolo 11 delle Live Bootleg Series, croce e delizia degli appassionati della musica dello scomparso albino texano. Visto che caratteristica di questi album è sempre stata quella di non riportare nome dei musicisti impiegati e date e luoghi dei concerti da cui sono tratti i brani (e anche questo volume non fa eccezione), almeno ci si aspettava che Paul Nelson, curatore della serie, manager e factotum,  spesso secondo chitarrista nella sua band e “amico” di Winter, avrebbe almeno inserito sul CD un piccolo ricordo del musicista scomparso, ma evidentemente era troppo sperarlo. Qualcuno dirà che forse il disco era già pronto e non si potevano fare aggiunte, ma almeno un piccolo sticker avrebbe richiesto veramente poco, però da come è stata gestita la serie non dobbiamo poi meravigliarci troppo.

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I contenuti musicali di questo nuovo album sono i soliti: sei brani, sette se contiamo un Opening di pochi secondi, che a livello musicale vanno dal buono all’eccelso, anche se come qualità di registrazione, al solito, si fatica ad arrivare alla sufficienza, ma d’altronde di Bootleg si parla (anche se uno si chiede come mai i bootleg ufficiali di Dylan e di moltissimi altri si sentano benissimo, ma evidenetmente è una domanda retorica ). Ed in effetti il repertorio di questo disco, ribadisco, a livello musicale è eccellente: si va dall’introduzione fulminante di una poderosa E-Z Rider, quella incisa meglio, tratta dal repertorio di Taj Mahal, tra R&R e Blues, con la voce e la chitarra di Winter, anche con un wah-wah vagamente hendrixiano, subito in gran spolvero https://www.youtube.com/watch?v=8-XdsfGuZVw . Boot Hill, un traditional rivisitato che appariva sul disco Alligator del 1984, Guitar Slinger https://www.youtube.com/watch?v=hSY1MuA091A , non è tra i brani più eseguiti dal vivo nella discografia di Johnny Winter e quindi, in virtù di una ottima esecuzione, dove appare anche un pianista, naturalmente non accreditato (se siamo a metà anni ‘80, potrebbe essere Ken Saydak, ma tiro proprio a indovinare, potrebbe essere chiunque) si ascolta con piacere, anche se la qualità sonora subisce un drastico peggioramento. Notevole il festival slide in una versione fiume di Long Distance Call, uno dei tre brani provenienti dal repertorio del suo mito Muddy Waters.

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Ottima anche la versione di Baby What’s Wrong di un altro dei maestri indiscussi del Blues, Jimmy Reed, dove si sente anche un’armonica, sempre in base al periodo ipotizzo un Billy Branch, non sarà lui ma la butto lì. Non male, per usare un eufemismo, pure una calda e sentita rilettura di She Moves Me, sempre di Mastro Muddy e torrida ed entusiasmante la Rollin’ And Tumblin’ che va a concludere il dischetto, con la chitarra devastante di Winter ancora in modalità slide, come nel brano precedente, a duettare con la solita “timida” armonica sepolta nel mixaggio confuso del disco. Come dice un proverbio “chi si accontenta gode” e qui, almeno a livello vocale e chitarristico, c’è da godersi ancora una volta uno dei più grandi musicisti bianchi che abbia mai suonato il Blues!

Bruno Conti