Non Delude Neppure Questa Volta, Con Un Disco Acustico Disponibile Solo Per Il Download E In Vinile Colorato Limitato – Anders Osborne – Orpheus And The Mermaids

anders osborne orpheus and the mermaids

Anders Osborne – Orpheus And The Mermaids – 5th Ward Records Download/Streaming e Vinile Limitato Colorato

Credo che per tutti coloro che amano la buona musica, oltre che un piacere, sia quasi un dovere conoscere quella di Anders Osborne. Nativo di Uddevalla, Svezia, è ormai da moltissimo tempo cittadino di New Orleans, Louisiana, dove arriva dopo una infanzia ed una adolescenza passate ad ascoltare blues, jazz, e i grandi cantautori, da Dylan a Joni Mitchell, Ray Charles e Lowell George, Neil Young e Jackson Browne, ma anche il cowboy di Belfast, Van Morrison): quando arriva negli States, fine anni ‘80, inizio anni ‘90, dopo il giusto periodo di gavetta, tra tour e le prime pubblicazioni con la Rabadash, una etichetta locale di New Orleans, ha la fortuna di trovare un contratto discografico per la Okeh, e pubblica nel 1995 l’eccellente Which Way To Here, che ottiene un discreto riscontro di vendite, con l’utilizzo dei suoi brani anche in colonne sonore di film importanti, e ottimi giudizi dalla critica.

Da allora inizia la solita trafila degli artisti di culto: prima una serie di dischi per la Shanachie, poi uno per la M.C. Records e il successivo contratto per la Alligator, dove pubblica complessivamente quattro dischi che sfiorano il livello del capolavoro, l’ultimo Peace, con la bimba in copertina che mostra il dito medio. Ma siamo arrivati alla grande crisi dell’industria discografica e quindi bisogna passare al fai da te: album creati in proprio e distribuiti tramite la sua Back On Dumaine Records, sempre molto belli, magari un filo inferiori ai precedenti, sempre difficili da trovare, per quanto pubblicati anche in CD https://discoclub.myblog.it/2016/06/01/nuove-avventure-underground-lo-svedese-new-orleans-anders-osborne-spacedust-and-oceans-views/ , incluso Freedom And Stars, la collaborazione come NMO insieme ai fratelli Dickinson https://discoclub.myblog.it/2015/02/23/disco-bellissimo-peccato-esista-nmo-anders-osborne-north-mississippi-allstars-freedom-and-dreams/ .

L’ultimo capitolo, il suo 17°, questo Orpheus And The Mermaids, è un ulteriore passaggio: esce solo per il downlaod oppure in vinile colorato costosissimo. Ma la musica rimane sempre di una bellezza inalterata, Osborne è forse meno incazzoso verso il mondo di un tempo (forse il fatto di avere ritrovato la sobrietà, grazie ad una famiglia con due figli, aiuta) ma è comunque in grado di sfornare brani di grande qualità che citano spesso i suoi punti di riferimento ricordati all’inizio: l’iniziale Jacksonville To Wichita, con l’armonica aggiunta ad una acustica arpeggiata, sta al crocevia tra Dylan, Young e Morrison, un brano malinconico e tremendamente bello, con citazioni di Townes Van Zandt nel testo e una serenità invidiabile. La successiva Light Up The Sun ha una struttura sonora più complessa, ma si basa sempre sulla calda voce di Anders e sulla sua chitarra, di cui è un virtuoso anche in modalità acustica, ogni tanto la voce viene raddoppiata, ma l’impianto complessivo è minimale, non per questo meno affascinante, in queste reminiscenze sulla vita che passa nella propria famiglia e sui suoi demoni tenuti a bada https://www.youtube.com/watch?v=vIw3kZJQbvo . Last Days In The Keys è una affettuosa e commossa dedica a Neal Casal scomparso suicida due anni fa, anche attraverso le storie di altri amici e persone che ci hanno lasciato attraverso questo atto estremo e disperato, che non perdona i momenti di sconforto e debolezza, sempre con la chitarra acustica e l’armonica che sottolineano questo racconto in modo crudo ma partecipe.

Forced To ha una struttura più bluesy, sempre con quel tocco da cantautore raffinato che me lo fa avvicinare ad un altro Beautiful Loser come il bravissimo Grayson Capps https://discoclub.myblog.it/2020/09/01/una-sorta-di-antologia-rivisitata-per-celebrare-un-grande-cantautore-grayson-capps-south-front-street-a-retrospective-1977-2019/ , senza dimenticare il primo “Bobby Dylan” https://www.youtube.com/watch?v=A81xq-1pukI  . Pass On By, accompagnata da un bellissimo video dedicato a New Orleans, pubblicato il giorno di Natale, e che vi consiglio di cercare, nella quale Osborne si destreggia tra accordature “normali” e uso del bottleneck per una canzone che ricorda un altro dei suoi preferiti, quel Jackson Browne di cui attendiamo a breve il nuovo album (ora si parla di luglio). Welcome To The Earth, voce riverberata e chitarra incalzante è un altro ottimo esempio di questo folk ricercato che sembra essere la chiave del nuovo album, Dreamin’, ca va sans dire, è più sognante, con una armonica che rimanda a Elliott Murphy e il tessuto musicale a Paul Simon, comunque bellissima https://www.youtube.com/watch?v=mfrK267VNG0 , mentre Earthly Things, di nuovo con la voce raddoppiata, emana ancora una aura di grande serenità attraverso un complesso lavoro di due chitarre acustiche e la conclusiva Rainbows ci riporta di nuovo al primo Neil Young, per l’uso della armonica, sempre con accenni dell’amato Jackson. *NDB Se volete provare ad acquistarlo lo trovate qui https://anders-osborne.myshopify.com/collections/orpheus-and-the-mermaids ma costa un bel 35 dollari più la spedizione dagli USA.

Bruno Conti

Replay. Quando Non E’ Impegnato A Molestare Le Donne, Si Ricorda Di Essere Anche Un Grande Songwriter. Ryan Adams – Wednesdays: Ora Anche In CD Dal 19 Marzo

ryan adams wednesdays

Ryan Adams – Wednesdays – PAX AM Download – CD 19-03-2021

C’è stato un momento, compreso tra gli ultimi due album dei Whiskeytown ed i primi tre della sua carriera solista, in cui Ryan Adams sembrava destinato a diventare il musicista migliore della sua generazione. Il suo debutto senza la sua prima band, Heartbreaker (2000), era un grande disco, ma Gold dell’anno successivo era senza mezzi termini un capolavoro, un album geniale e creativo di cantautorato rock senza sbavature, il classico disco che se non raggiunge le cinque stellette ci va molto vicino. Anche Demolition del 2002 era ottimo, ma poi Adams ha cominciato a produrre fin troppo materiale badando più alla quantità che alla qualità, alternando bei dischi (Cold Roses, Jacksonville City Nights, Easy Tiger e Ashes & Fire, lavoro targato 2011 che forse è il suo ultimo grande album) ad altri decisamente meno riusciti quando non velleitari (Rock’n’Roll, i due EP Love Is Hell poi riuniti insieme, il pessimo Orion e l’omonimo Ryan Adams del 2014), oltre ad operare scelte abbastanza discutibili come 1989, cover album pubblicato nel 2015 che ricalcava canzone per canzone il disco di Taylor Swift uscito l’anno prima con lo stesso titolo, o come quando nel 2006 ha fatto uscire ben undici album sotto diversi pseudonimi, tutte porcherie tra hardcore e hip-hop.

LOS ANGELES, CA - FEBRUARY 10: (EXCLUSIVE COVERAGE) Mandy Moore and Ryan Adams attend The 2012 MusiCares Person Of The Year Gala Honoring Paul McCartney at Los Angeles Convention Center on February 10, 2012 in Los Angeles, California. (Photo by Kevin Mazur/WireImage)

LOS ANGELES, CA – FEBRUARY 10: (EXCLUSIVE COVERAGE) Mandy Moore and Ryan Adams attend The 2012 MusiCares Person Of The Year Gala Honoring Paul McCartney at Los Angeles Convention Center on February 10, 2012 in Los Angeles, California. (Photo by Kevin Mazur/WireImage)

Quando si parla di Adams bisogna poi separare l’artista dalla persona, visto che il nostro non è certo tra i più simpatici in circolazione, essendo soggetto a comportamenti talvolta irascibili (anche nei confronti dei fans) e talvolta tipici di una rockstar viziata, anche se il peggio Ryan lo ha dato negli ultimi anni dal momento che è stato accusato di molestie sessuali dall’ex moglie Mandy Moore, dalla cantautrice Phoebe Bridgers e da altre cinque donne, fatti che hanno poi avuto un’implicita conferma dalle vaghe ed imbarazzate scuse pubbliche dello stesso Adams. Questa controversia ha rischiato anche di mandargli a pallino la carriera, dal momento che il suo progetto di pubblicare ben tre album nel 2019 è stato sospeso ed il primo CD della trilogia, Big Colors, cancellato all’ultimo momento. Lo scorso 11 dicembre però Ryan a sorpresa ha messo a disposizione sulle principali piattaforme Wednesdays, un nuovo album che doveva essere il secondo dei tre programmati due anni fa (con dentro un paio di brani in origine su Big Colors), una mossa che avrà un seguito il prossimo 19 marzo quando uscirà la versione “fisica”.

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Ebbene, mettendo da parte per un attimo le considerazioni sul personaggio Ryan Adams, la sua controparte artistica in Wednesdays ha davvero dato il meglio, consegnandoci un disco di cantautorato coi fiocchi che lo pone senza molti dubbi come il suo lavoro migliore da Ashes & Fire ad oggi. Prodotto da Ryan insieme a Don Was (che suona anche il basso) e Beatriz Artola, Wednesdays è un disco di ballate intime, profonde e meditate, in cui non troverete il lato rock di Adams ma bensì quello più intenso e melodico, ed una serie di canzoni di limpida bellezza che forse hanno come unica controindicazione il fatto di non essere consigliabili a chi soffre di depressione. Gli strumenti sono quasi tutti nelle mani del nostro con poche ma importanti eccezioni: infatti, oltre al già citato Was, troviamo Benmont Tench al piano (e si sente), Jason Isbell alla chitarra ed Emmylou Harris alle armonie vocali in un paio di brani. La prima volta che ho ascoltato l’iniziale I’m Sorry And I Love You ho pensato di avere scaricato per sbaglio un inedito di Neil Young, dal momento che sia il timbro di voce che lo stile ricordano nettamente le ballate pianistiche del grande canadese (ed anche qualcosa di John Lennon): bella canzone, classica nel suono e con una leggera spolverata d’archi (o forse è un synth, usato però nel modo corretto) https://www.youtube.com/watch?v=vTwRrP9Ovq4 . Who Is Going To Love Me Now, If Not You è un piccolo bozzetto per voce e chitarra, un brano intimista ed interiore con una slide in lontananza che si fa sentire ogni tanto, ed anche When You Cross Over prosegue con lo stesso mood introverso ed il medesimo impianto sonoro scarno, con l’aggiunta del pianoforte, della seconda voce di Emmylou e, circa a metà, della sezione ritmica che contribuisce ad aumentare il pathos https://www.youtube.com/watch?v=NjcnSTn6zqA .

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Walk In The Dark è ancora un lento molto intenso, a confermare che siamo di fronte ad un lavoro serio e profondo e non alla fanfaronata di un artista che molto spesso si è fatto prendere la mano https://www.youtube.com/watch?v=pmC3Fo02fM0 ; Poison & Pain è pura folk music, una slow song suonata in punta di dita (e qui mi viene in mente Paul Simon, quello classico di Hearts And Bones), così come la title track che ha uno sviluppo molto simile https://www.youtube.com/watch?v=COYioAybALw . Birmingham è splendida: intanto è full band dall’inizio (c’è anche l’organo), ed è servita da una melodia straordinaria e da un suono che più classico non si può, un brano che ci fa ritrovare il Ryan Adams dal pedigree immacolato di inizio carriera https://www.youtube.com/watch?v=3RPZs25D3Gk . Con So, Anyways tornano le atmosfere intime e rarefatte, e spunta anche un’armonica ad impreziosire un pezzo dal motivo delizioso, Mamma, sempre acustica, è un po’ meno immediata ma è eseguita in maniera toccante, mentre Lost In Time è di nuovo un folk tune cristallino, nobilitato da una steel che fende l’aria qua e là. Chiude l’album la bellissima Dreaming You Backwards, voce, piano, batteria e feeling in dosi massicce (ed uno dei pochi interventi di chitarra elettrica), che la pongono tra le più riuscite del lavoro https://www.youtube.com/watch?v=hcoRDsy77-M .

In definitiva, se Ryan Adams come personaggio mi stava sulle balle anche prima delle accuse di molestie, devo ammettere che il musicista che è in lui ha dimostrato con questo Wednesdays di essere ancora a pieno titolo tra noi.

Marco Verdi

Un Altro “Giovanotto” Pubblica Uno Dei Suoi Migliori Album Di Sempre! Dion – Blues With Friends

dion blues with friends

Dion – Blues With Friends – Keeping The Blues Alive CD

Dion DiMucci, conosciuto semplicemente come Dion, fra un mese compierà 81 anni, di cui più di sessanta di carriera musicale: a dirlo uno non ci crede, in quanto il cantante originario del Bronx non dimostra assolutamente le sue primavere e soprattutto non le dimostra la sua voce, che è ancora incredibilmente limpida e giovanile. Dagli esordi negli anni cinquanta a capo dei Belmonts in poi, Dion ha sempre proposto un’ottima miscela di rock’n’roll, doo-wop, pop (il suo famoso album del 1975 Born To Be With You è stata una delle ultime produzioni di Phil Spector) e gospel, fino al ritorno al rock nel 1989 con lo splendido Yo Frankie. Nel nuovo millennio il nostro si è decisamente avvicinato al blues, con una trilogia di album di buona fattura pubblicati tra il 2006 ed il 2011 “interrotti” nel 2016 dal più variegato New York Is My Home https://discoclub.myblog.it/2016/02/18/vecchie-glorie-alla-riscossa-dion-new-york-is-my-homejack-scott-way-to-survive/ . Quest’anno Dion ha deciso di tornare di nuovo al blues, ma questa volta ha alzato il tiro a livelli inimmaginabili, confezionando un disco davvero magnifico, con una serie di ospiti da capogiro ed una produzione nettamente migliore rispetto agli ultimi lavori.

Blues With Friends è quindi una sorta di capolavoro della terza età per Dion, un album strepitoso in cui il nostro si cimenta ancora con la musica del diavolo (ma non solo, c’è anche qualche brano non blues) e lo fa con un parterre de roi incredibile, una serie di musicisti che non appaiono tutti i giorni su un disco solo, e che vedremo tra poco canzone dopo canzone. Ma il protagonista del disco è senza dubbio Dion, con la sua voce ancora splendida e la sua attitudine da bluesman sempre più sicura: se devo essere sincero, quando nel 2006 era uscito Bronx In Blue avevo storto un po’ il naso dato che non ritenevo Dion adatto al blues (ma il disco si era rivelato ben fatto), però negli anni il rocker newyorkese mi ha smentito acquistando sempre più credibilità come bluesman. E non è tutto: in Blues With Friends non ci sono cover di classici del blues, ma tutti i brani sono usciti dalla penna del nostro, alcuni nuovi, altri rifatti, altri ancora tirati fuori da un cassetto (e per il 98% scritti insieme a tale Mike Aquilina). Pare che lo stimolo iniziale per il progetto lo abbia dato Joe Bonamassa (ed infatti il CD esce per la Keeping The Blues Alive Records, etichetta di sua proprietà), ma gli altri grandi della chitarra non hanno tardato a rispondere presente, a parte qualche inevitabile assenza (dov’è Clapton?): e attenzione, questo non è un disco di duetti vocali (ce ne sono solo due su 14 brani totali), ma un album di chitarre al 100%.

La house band, se così si può dire, è formata dallo stesso Dion alla chitarra ritmica e da Wayne Hood (che produce anche il lavoro con Mr. DiMucci, una produzione solida ed asciutta) alla seconda chitarra, basso, tastiere e batteria; dulcis in fundo, Dion stesso accompagna nel libretto ogni canzone con interessanti aneddoti, e la prefazione è stata scritta nientemeno che da Bob Dylan, che ha gratificato il nostro con parole molto sentite e toccanti. L’iniziale Blues Comin’ On vede proprio Bonamassa protagonista, un boogie poderoso dal suono limpido e forte e dominato dalla voce scintillante del leader, con “JoBo” che arrota da par suo piazzando un paio di assoli torcibudella: miglior avvio non poteva esserci. Kickin’ Child era già stata incisa da Dion nei sixties con la produzione di Tom Wilson (era anche il titolo del suo “lost album” uscito nel 2017), ma qui viene rifatta con uno stile rock-blues pimpante ed allegro che ricorda un po’ B.B. King, accompagnato dalla chitarra “swamp” di Joe Menza (un commerciante in chitarre vintage che si cimenta anche con lo strumento); la sei corde piena di swing di Brian Setzer contribuisce fin dalle prime note alla riuscita della bella Uptown Number 7, altro coinvolgente boogie dal ritmo vigoroso con Dion che gorgheggia con la solita naturalezza ed il biondo Brian che lo segue senza perdere un colpo.

Il tintocrinito Jeff Beck è uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi (sicuramente da Top Ten, per qualcuno anche da Top Five) e qui è alle prese con Can’t Start Over Again che è uno slow più country che blues e forse un tantino sdolcinato (e poi quel synth che scimmiotta la sezione d’archi…), ma Jeff accarezza comunque il brano con classe e misura, mentre con My Baby Loves To Boogie torniamo in territori più consoni con un pezzo tutto ritmo e feeling, un jump blues classico nel quale le chitarre soliste sono di Dion e Hood in quanto l’ospite, John Hammond, per l’occasione suona (bene) l’armonica. Forse I Got Nothin’ potrebbe essere considerato un blues abbastanza canonico, ma se poi ci piazzi il grande Joe Louis Walker alla solista e soprattutto Van Morrison alla voce (in duetto con Dion), ti ritrovi con uno dei pezzi migliori del CD, da ascoltare in religioso silenzio; i fratelli Jimmy e Jerry Vivino, rispettivamente alla chitarra e sax, donano spessore, calore ed un tocco di raffinato jazz a Stumbling Blues, mentre Billy Gibbons non ha mezze misure dato che la chitarra se la mangia a colazione, e con la solidissima e cadenzata Bam Bang Boom porta un po’ di Texas nel Bronx. Se Gibbons è un macigno, Sonny Landreth è un fine tessitore di melodie con la sua splendida slide, ma sa dare potenza quando è necessario come accade con I Got The Cure (dove spuntano anche i fiati), fornendo una prestazione strepitosa, ricca di classe e grondante feeling, per uno degli highlights del CD.

Con Song For Sam Cooke (Here In America) Dion mette un attimo da parte il blues per un toccante omaggio al grande soul singer citato nel titolo (i due si conoscevano bene), una splendida ed evocativa ballata di stampo folk impreziosita dal violino di Carl Schmid e soprattutto dalla voce di Paul Simon, che fornisce il secondo duetto del disco. La giovane promessa del blues Samantha Fish si destreggia con brio ed energia nella saltellante e godibile What If I Told You (performance eccellente), e non sono da meno ancora John Hammond (slide) e la brava Rory Block (chitarra, basso e controcanto) nel notevole country-blues elettroacustico Told You Once In August, un pezzo degno di Mississippi John Hurt. Finale all’insegna della E Street Band prima con la roboante e coinvolgente Way Down (I Won’t Cry No More), dove la chitarra solista è di Little Steven che tira fuori un assolo molto sanguigno, e poi con il Boss e signora, quindi Bruce Springsteen (chitarra solista, ma non voce) e Patti Scialfa (armonie vocali) che accompagnano Dion nella bellissima e ricca di pathos (ma non blues) Hymn To Him, remake di un brano già inciso dal nostro nel 1987 e finale perfetto per un disco favoloso.

Credo che dal prossimo album Dion dovrà rivolgersi ad un genere musicale diverso, dato che per quanto riguarda le dodici battute a mio parere ha raggiunto l’apice con questo imperdibile Blues With Friends: disco blues dell’anno?

Marco Verdi

Tra Roots, Rock’n’Roll E “Casino Organizzato”! The Suitcase Junket – Mean Dog, Trampoline

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The Suitcase Junket – Mean Dog, Trampoline – Signature Sounds CD

The Suitcase Junket non è il nome di una vera è propria band, ma un progetto solista dietro il quale si nasconde Matthew Lorenz, songwriter originario del Massachusetts che ha già alle spalle ben quattro album e due EP con questo moniker. TSJ sono pertanto una sorta di one man band, in cui Lorenz si occupa della scrittura delle canzoni e della loro esecuzione, sia dal punto di vista strumentale che da quello del canto: la critica ha paragonato la sua musica ad un mix di vari tipi di rock, sia urbano che rurale che da roadhouse, mentre altri in lui vedono una fusione delle melodie degli Avett Brothers con gli arrangiamenti asciutti dei Black Keys e certe atmosfere un po’ malate alla Tom Waits. Devo dire che per una volta certi paragoni non sono campati in aria, se non per il livello artistico almeno per il genere di riferimento: Lorenz è infatti autore di una pregevole miscela di rock’n’roll elettrico e chitarristico con qualche elemento blues urbano, il tutto senza mai perdere l’attenzione verso le melodie orecchiabili e dirette, proprio come è nelle caratteristiche dei Black Keys, anche se Matthew qua e là mostra anche influenze roots.

Ed è proprio in conseguenza di ciò se per produrre il suo nuovo album, Mean Dog, Trampoline, Lorenz ha chiamato il “Lobo” Steve Berlin, che ha portato in studio la sua esperienza ed un certo suono che ogni tanto troviamo anche nei lavori del suo gruppo principale, un mix tra tradizione e modernità che fa sì che Mean Dog, Trampoline sia il disco più riuscito di quelli usciti finora a nome Suitcase Junket. Lorenz si occupa come al solito del 90% degli strumenti, lasciando spazio solo a Bruce Hughes al basso in tre pezzi, al percussionista Camilo Quinones (fratello dell’ex Allman Brothers Marc), allo stesso Berlin in altre due canzoni, e soprattutto alla sorella Kate Lorenz che si occupa del controcanto in tutto l’album. Dodici brani, a partire dalla coinvolgente rock’n’roll song High Beams, diretta e piacevole: motivo immediato, ritmo pulsante e chitarre che riempiono gli spazi in modo perfetto https://www.youtube.com/watch?v=1JQNbGnIvXQ ; Heart Of A Dog è subito più dura, sporca e bluesata, con un ritmo strascicato e mood indolente all’interno di un’atmosfera quasi dissonante: qui il paragone con Waits ci può stare, anche se Matthew ha una voce molto più limpida di quella del cantautore di Pomona https://www.youtube.com/watch?v=07aJCrlxkNQ .

Everything I Like è ancora elettrica, ma ha un ritmo cadenzato ed un approccio decisamente più fruibile, tra rock urbano e roots, con un refrain vincente, Stay Too Long non molla la presa, ma è più frenetica e ricorda davvero il duo di Auerbach e Carney, mentre l’annerita Gods Of Sleep, sarà per la presenza in consolle di Berlin, ma non è distante da certi episodi più modernisti dei Lupi di East L.A., in cui però la melodia non viene dimenticata. Dreamless Life ci porta totalmente su altri lidi, essendo una gentile ballata acustica di stampo folk, ma subito si torna al rock’n’roll un po’ sghembo con l’intrigante Son Of Steven, dove il motivo anni sessanta contrasta apertamente con l’accompagnamento moderno, una miscela creativa ed a suo modo geniale. Dandelion Crown è una sorta di godibile errebi dai suono sempre molto contemporaneo, Scattered Notes From A First Time Homebuyers Workshop è folk elettrificato “sporcato” da una chitarra leggermente distorta ed una melodia degna di Paul Simon, mentre New York City torna al piacevole rumore delle cose dei Black Keys. Il CD termina con l’attendista What Happened e con la folkeggiante Old Machine, chiusura delicata e pastorale per un dischetto intrigante che riserva più di un momento degno di nota.

Marco Verdi

Ottimo Power Pop, Grintoso Ma Raffinato Al Contempo. Nada Surf – Never Not Together

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Nada Surf – Never Not Together – Barsuk Records/City Slang

Diciamo che I Nada Surf, terzetto di New York City, non sono la band più prolifica sulla faccia del pianeta: in attività dall’inizio anni ’90, ma discograficamente solo dal 1996, a tutt’oggi hanno pubblicato solo “nove album”, compreso questo Never Not Together. Inseriti nel filone alternative/indie rock (che a me sembra un non genere, per fare una parafrasi del titolo dell’album), i due amici Matthew Caws, voce e chitarra e Daniel Lorca, basso,  più il batterista Ira Elliot, con loro dal 1995, e l’aiuto saltuario dell’altro chitarrista Doug Gillard e del tastierista Louie Lino, si potrebbero ascrivere idealmente al power pop, altro stile non facilmente etichettabile, ma che mi pare si possa tradurre come pop intelligente, raffinato, a tratti “poderoso”, con folate chitarristiche e riff appoggiati su melodie classiche che mischiano appunto pop e rock, e che partendo da Beatles, Beach Boys, Byrds, passando per Big Star, Nick Lowe/Dave Edmunds/Rockpile, e sull’altro lato dell’atlantico Dwight Twiley e Flamin’ Groovies, arriva fino a Matthew Sweet e Tommy Keene.

Brani come l’iniziale, soffusa So Much Love, sono dei piccoli gioiellini dove la parola orecchiabile non è una bestemmia, ma un vanto, un inno affettuoso all’amore, anche universale, attraverso un brano che fa di pochi accordi la propria forza, sarebbe perfetto se le radio trasmettessero ancora bella musica, con un capo e una coda https://www.youtube.com/watch?v=e4qEfgkhTjc ; Come Get Me è anche meglio, sembra proprio qualche pezzo perduto di Nick Lowe, o Dave Edmunds, visto che tutto il disco è stato registrato proprio ai Rockfield Studios in Galles, dove Edmunds muoveva i suoi primi passi, comunque il brano dei Nada Surf ha una chitarrina elettrica ripetuta ed insinuante che con una serie di brevi e deliziosi assoli fissa nella memoria dell’ascoltatore una sensazione di perduti ricordi e  piaceri, anche grazie alla voce sottile ma amabile di Caws https://www.youtube.com/watch?v=TqHd5hloKlA . Un pianino introduce la deliziosa e arguta Live, Learn And Forget che porta il classico pop anni ’60 fino ai frenetici ritmi degli anni 2000, con una serenità e nonchalance quasi disarmante, tra muraglie di chitarre e tastiere sempre gentili e mai troppo invadenti. Just Wait, tra acustiche arpeggiate, tastiere sognanti  e coretti quasi ingenui, è una canzone che parla quasi con affetto del rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità, ha un fluido giro di basso che ancora il ritmo ( caratteristica presente anche negli altri brani), mentre il resto della band colora il suono https://www.youtube.com/watch?v=3G0aUzLmYQU ; Something I Should Do sta all’intersezione tra jingle-jangle e il rock chitarristico dei primi Echo & The Bunnymen, con un ritmo più incalzante, chitarre molto più presenti e vagamente “epiche”, direi indie ed alternative perché no, con qualche piccolo accenno di distorsione e il ritmo che accelera sempre di più, tra synth analogici ed umani, intermezzi parlati che nel finale declamano il motto dell’album “Empathy is good, lack of empathy is bad, holy math says we’re never not together”.

 

La lunga Looking For You parte con un coretto quasi sinistro, su cui si innesta una melodia dolce e trasognata quasi a tempo di valzer, poi il brano si irrobustisce sulle ali di archi sintetici e di due bellissimi e vibranti assoli di chitarra, il primo di Caws, il secondo del collaboratore Doug Gillard; Crowded Star con le sue chitarre elettriche arpeggiate all’inizio, ha quasi rimandi al prog britannico anni ’70, quello più gentile ed incantato dei primi Genesis, anche se la voce quasi in falsetto di Caws non ha naturalmente la forza di Peter Gabriel https://www.youtube.com/watch?v=5aXIFQH6aAw , mentre Mathilda parte su una acustica nuovamente arpeggiata e un approccio quasi alla Paul Simon, poi incanta con una serie di interessanti e intricati cambi di tempo, improvvise fiammate rock che si acquietano e riprendono forza in una continua alternanza di atmosfere sonore. Il messaggio finale, adatto ai nostri tempi, è una Ride In The Unknown che ci riporta al power pop più grintoso dei primi brani e ha anche qualche rimando al dream pop e psych-rock degli australiani Church con una chitarra quasi tangenziale https://www.youtube.com/watch?v=D5sDGuyc28c .

Bruno Conti

Folk Elegante E Classico, Begli Intrecci Vocali, Da Sentire. The Other Favorites – Live In London

the other favorites live in london

The Other Favorites – Live In London – Last Triumph   

The Other Favorites sono un duo folk basato a Brooklyn, New York, formato da Josh Turner (che cura anche la parte tecnica delle registrazioni) e Carson McKee, autori di un paio di album autogestiti, e molto popolari su YouTube, tanto che questo Live In London, registrato il 20/8/2019 alla Bush Hall di Londra, è integralmente disponibile anche in video gratuito, appunto su YouTube. Se però siete amanti del supporto fisico il concerto è stato pubblicato pure in CD. I due sono entrambi eccellenti chitarristi e le loro armonizzazioni vocali sono godibilissime nei vari brani, che sono un giusto mix di composizioni originali e cover molto celebri o inconsuete. Turner in particolare ha portato in Tour anche uno spettacolo basato su Graceland di Paul Simon, e in passato aveva già lavorato anche sul repertorio di Simon & Garfunkel, che come si intuisce facilmente sono tra le maggiori influenze a livello stilistico degli Other Favorites: nel 2019 Turner ha anche pubblicato il suo primo album solista As Good A Place As Any. In due brani dell’album appaiono anche le brave vocalist Reina Del Cid e Toni Lindgren, entrambe provenienti dal Minnesota, che si esibiscono insieme e spesso anche con Turner e McKee, anche loro appassionate di Simon & Garfunkel.

A questo punto vi aspetterete che tra le cover del CD ci sia qualche brano di Simon, e invece troviamo una sorprendente rilettura in chiave country-bluegrass della splendida 1952 Vincent Black Lightning di Richard Thompson con Mckee che passa al banjo, per intricati interscambi strumentali con il pard,  Don’t Think Twice, It’s Alright di Dylan è abbastanza fedele all’originale, benché più suadente di quella di Bob, con Turner che è sempre la voce solista, con il suo timbro caldo e carezzevole su cui si innestano comunque le armonizzazioni dei due. The Tennesse Waltz è un classico della musica country ed è uno dei due pezzi dove appaiono la Del Cid e la Lindgren che elevano ulteriormente la qualità vocale della esibizione, con Reina che ha un timbro vocale veramente squisito, mentre The Parting Glass è un brano tradizionale irlandese cantato a cappella che alcune volte è apparso anche nel repertorio live di Ed Sheeran.

Non manca neppure una vibrante versione di Folsom Prison Blues di Johnny Cash, sempre con in evidenza la risonante voce di Joshua Turner che invece fisicamente ricorda Marcus Mumford, e per completare le cover, come ultimo brano arriva una sorta di competizione tra i quattro in una frenetica versione bluegrass di Dooley dei non dimenticati (?) Dillards. Anche il materiale originale non è affatto male: l’intricato strumentale iniziale di MKee confluisce nella delicata Angelina, mentre la mossa Solid Ground mi ha ricordato molto le prime e migliori canzoni più acustiche degli America, The Ballad of John McCrae è, ehm, una intensa ballata, inserita nella grande tradizione del country-folk, con intrecci ed interscambi vocali e strumentali tra i due veramente interessanti. Flawed Recording è più dolce e sognante, ma sempre godibile, con The Levee, l’ultimo brano originale, che è una incantevole canzone di stampo cantautorale. Nell’insieme un disco molto piacevole, se vi piacciono i Milk Carton Kids, magari meno raffinati e complessi e comunque quel tipo di folk elegante e classico questi The Other Favorites potrebbero fare per voi.

Bruno Conti

7 Settembre 2018: Il Giorno Dei Paul! Parte 1: Paul Simon – In The Blue Light

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Paul Simon – In The Blue Light – Sony CD

Per pura coincidenza, i due Paul più famosi della musica contemporanea, cioè Paul Simon e Paul McCartney, hanno deciso entrambi di fare uscire i loro nuovi lavori il 7 Settembre. Oggi comincio con l’esaminare la proposta del cantautore americano, domani sarà la volta del Paul inglese.

A mio modesto parere (ma so di essere in buona compagnia) Paul Simon non fa un grande disco da un’era geologica, cioè dal mitico Graceland del 1986: The Rhythm Of The Saints (1990) era comunque un buon album, ma alternava grandi canzoni a momenti di noia, mentre You’re The One (2000) aveva il suono ma mancava clamorosamente di canzoni valide, e Surprise (2006), nonostante la presenza di Brian Eno, era sullo stesso livello di mediocrità. Gli ultimi due lavori del songwriter newyorkese, So Beautiful Or So What ed il recente Stranger To Stranger https://discoclub.myblog.it/2016/06/03/sempre-il-solito-simon-complesso-moderno-dai-suoni-stranieri-paul-simon-stranger-to-stranger/ , erano un po’ meglio, ma anche lì non è che i pezzi memorabili abbondassero, e Paul si salvava col mestiere e mascherando il tutto con una produzione ed un suono eccellenti (ho tralasciato, in quanto non era un album vero e proprio, la colonna sonora del fallimentare musical The Capeman: a me era piaciuta, ma non ditelo a nessuno). Mentre scrivo queste righe Paul sta ultimando il suo tour d’addio Homeward Bound, che si concluderà il 22 Settembre al Flushing Meadows Corona Park di New York (nei Queens, vicino a dove andava a scuola da bambino, aspettiamoci ospiti e l’immancabile album dal vivo), e per celebrare meglio il nostro ha deciso di dare alle stampe questo In The Blue Light, album nuovo di zecca che però non contiene inediti, ma dieci brani da lui scelti dal suo repertorio e incisi ex novo, con arrangiamenti totalmente ripensati.

Paul non ha scelto i brani più noti del suo songbook, ma canzoni minori che forse per lui avevano un significato particolare, e le ha davvero rivoltate come calzini, in collaborazione con il suo storico produttore ed amico Roy Halee (tornato a bordo già con Stranger To Stranger). Simon ha sempre avuto una cura maniacale per gli arrangiamenti, ed è stato un pioniere per quanto riguarda le contaminazioni musicali ed i suoni influenzati da culture lontane dalle nostre, però in Into The Blue Light Paul non ha inserito nessuna sonorità “etnica”, ma ha scelto comunque una serie di musicisti del pedigree formidabile: oltre ai soliti noti Steve Gadd e Vincent Nguini, abbiamo gente come John Patitucci, Bill Frisell, Jack DeJohnette, Wynton Marsalis, Sullivan Fortner ed in due pezzi il sestetto d’archi yMusic. Come avrete notato, una lista di musicisti che proviene dal modo del jazz, ed infatti è proprio il jazz la base dei nuovi arrangiamenti pensati da Paul, una rielaborazione di gran classe e raffinatezza, con un gusto sopraffino per i suoni calibrati al millimetro, anche se questo non basta per fare un grande disco. Le canzoni infatti sono contraddistinte da un passo spesso lento, a volte anche lentissimo, e le atmosfere sono qua e là un po’ freddine anche se il tutto risulta tecnicamente ineccepibile: ma Simon ha sempre fatto musica più con la testa che con il cuore, e non potevo certo pensare che cambiasse a quasi ottant’anni.

Il pezzo più noto del disco è senza dubbio René And Georgette Magritte With Their Dog After The War, tratto da Hearts And Bones che era uno dei suoi album migliori di sempre (e forse non tutti sanno che in origine doveva essere il reunion album di Simon & Garfunkel, poi i due hanno “stranamente” litigato): canzone splendida, che fa la sua bella figura anche in questa versione minimale e cameristica, essendo infatti uno dei due pezzi con il sestetto yMusic (più Paul alla chitarra elettrica), con gli archi che accarezzano la melodia facendola risaltare ancora di più. Un altro pezzo che ogni tanto negli anni Paul riproponeva dal vivo è One Man’s Ceiling Is Another Man’s Floor (tratta da There Goes Rhymin’ Simon) un brano bluesato che qui mantiene l’impianto originario aggiungendo un sapore jazz: ritmo cadenzato, ottimo pianoforte di Joel Wenhardt ed un crescendo strumentale notevole, che culmina con l’ingresso di tromba e sax. Uno dei pezzi con più brio, ed infatti è stato messo in apertura di CD. Io non avrei preso in considerazione l’album You’re The One per scegliere canzoni da riarrangiare, dato che lo considero il meno riuscito di tutta la carriera di Paul, che però evidentemente la pensa in modo diverso, dato che di brani da quel disco ne ha scelti ben quattro: in Love sono solo in quattro a suonare, con la riconoscibilissima chitarra di Frisell come leader, per un brano soffice e rilassato, suonato con classe ma sul quale mantengo le mie perplessità riguardo allo script, Pigs, Sheep And Wolves, solo voce, percussioni ed una sezione fiati di sei elementi guidati dalla tromba di Marsalis, è rielaborata quasi dixieland, ma anche qui la canzone latita parecchio, mancando di una vera e propria melodia.

The Teacher è un po’ meglio, sia per un miglior motivo di fondo che per il bell’accompagnamento chitarristico dei fratelli brasiliani Odair e Sergio Assad, in stile flamenco, mentre la lunga (più di sette minuti) Darling Lorraine è suonata alla grande, con una band da sogno che vede in contemporanea Frisell, Nguini, Gadd e Patitucci, e la canzone ne esce migliorata. Can’t Run But (da The Rhythm Of The Saints) è l’altro pezzo con gli yMusic, che qui suonano in maniera nervosa e movimentata, aderendo in maniera perfetta alla linea melodica del brano: Paul canta con il consueto fraseggio vocale rilassato ed il tutto risulta intrigante (l’arrangiamento è di Bryce Dessner, chitarrista e membro di punta dei National). How The Heart Approaches What It Yearns, che viene da One Trick Pony, è puro jazz d’atmosfera, con un accompagnamento di classe sopraffina, che vede la tromba di Marsalis gareggiare in bravura col fantastico piano di Fortner ed il basso di Patitucci: se proprio vogliamo è un po’ soporifera, ma volete mettere addormentarsi con musicisti come questi? Il disco termina con Some Folks Lives’ Roll Easy (presa da Still Crazy After All These Years), tutta incentrata sullo splendido piano classicheggiante di Fortner e con la sezione ritmica Patitucci/DeJohnette che spazzola sullo sfondo, e con Questions For The Angels, che era una delle canzoni migliori di So Beautiful Or So What, ed anche qui si colloca tra le più riuscite, con begli intrecci tra l’acustica di Simon e l’elettrica di Frisell.  Un buon disco quindi, ma non il grande disco che da troppi anni i fans di Paul Simon aspettano, un po’ per la discutibile scelta di alcune canzoni, un po’ per il poco calore umano del suo autore, più propenso a confezionare piccoli e raffinati capolavori di tecnica strumentale che a regalare emozioni.

Marco Verdi

P.S: tra pochi mesi, forse già entro l’anno a detta di qualcuno, Simon dovrebbe pubblicare anche Alternate Tunings/Rare and Unreleased, una collezione appunto di rarità, demos ed inediti presi da vari momenti della sua carriera. Sulla carta dovrebbe essere un disco imperdibile, ma vedremo meglio al momento dell’uscita.

Anticipazioni Della Settimana (Ferr)Agostana, Prossime Uscite Di Settembre: Parte II. Paul Simon, Yes, Bob Seger, Kathy Mattea, Mike Farris

paul simon in the blue light 7-9

Eccoci alla seconda parte delle uscite di settembre, quelle di venerdì 7.

Il nuovo album di Paul Simon In The Blue Light sarà un disco autocelebrativo, nel senso che Simon ricanterà 10 sue vecchie canzoni in versioni con arrangiamenti nuovi di zecca, sempre aiutato in ambito di studio dal suo vecchio produttore Roy Halee, che collabora con lui sin dagli anni ’60. La scelta dei brani, effettuata dallo stesso Paul, è caduta su una serie di pezzi ripescati con cura dallo stesso artista tra le sue composizioni preferite, tra le meno note del suo songbook, estratte da There Goes Rhymin’ Simon (1973), Still Crazy After All These Years (1975), One-Trick Pony (1980), Hearts and Bones (1983), The Rhythm of The Saints (1990), You’re The One (2000) e So Beautiful Or So What (2011).

Tra i musicisti che hanno partecipato alle registrazioni dell’album, oltre al vecchio amico Steve Gadd, ci sono alcune scelte interessanti provenienti dalla scena jazz, tra cui Wynton Marsalis alla tromba, Bill Frisell alla chitarra, sempre alla batteria Jack DeJohnette e il quintetto cameristico yMusic. Questo disco sarà la prima parte di una coppia di dischi, diciamo “commemorativa”, per festeggiare quello che dovrebbe il suo ultimo tour, e sarà seguito da un altro album, intitolato Alternate Tunings, che conterrà versioni alternative e rarità pescate dall’archivio di Simon.

Nell’attesa ecco la tracklist completa di In The Blue Light, con il sesto brano del CD in particolare che è una delle mie canzoni preferite in assoluto di Paul Simon (e so che anche molti altri amano moltissimo Hearts And Bones, il disco splendido, ma meno celebrato di altri, da cui è tratto il brano). Etichetta Sony Legacy. 

1. One Man’s Ceiling Is Another Man’s Floor
2. Love
3. Can’t Run But
4. How The Heart Approaches What It Yearns
5. Pigs, Sheep And Wolves
6. René And Georgette Magritte With Their Dog After The War
7. The Teacher
8. Darling Lorraine
9. Some Folks’ Lives Roll Easy
10. Questions For The Angels

yes live at the apollo 7-9

Sempre il 7 settembre è in uscita, per la Eagle/Universal, un disco per celebrare i 50 anni di carriera degli Yes. Anche se, in modo un po’ surretizio, è presentato come Yes Featuring Jon Anderson, Trevor Rabin and Rick Wakeman, non propriamente la formazione più celebre e più rappresentativa della band inglese, che nel 2017 è stata “indotta” nella Rock And Roll Hall Of Fame, e quindi per festeggiare l’evento è tornata on the road con una serie di concerti culminata con questo Live At The Apollo, che non è quello celeberrimo di New York bensì una sala concerti di Manchester. Mancano Steve Howe e Chris Squire (scomparso nel 2015), ma anche tra i batteristi Alan White o Bill Bruford: Howe e White suonano al momento, con Geoff Downes, in un’altra formazione parallela degli Yes, dove ci sono anche Billy Sherwood e il cantante Jon Davison, mentre a completare la line-up di questo disco dal vivo ci sono Lee Pomeroy e Lou Molino III, basso e batteria, che francamente non conosco. Diciamo una situazione incasinata, anche se creata con l’accordo dei due tronconi del gruppo che possono utilizzare entrambi il nome Yes grazie ad un clausola stipulata da Squire, quando era ancora in vita, con Jon Anderson.

Il disco, come al solito, esce in varie versioni, 2 CD, DVD o Blu-ray, 3 LP e se la formazione della band non è forse quella più rappresentativa, molto delle canzoni sicuramente lo sono, e la dimensione Live sicuramente giova alla riuscita.

Ecco tutti i brani di Live At The Apollo: pochi, perché molti sono lunghissimi e anche sotto forma di medley.

1. Intro / Cinema / Perpetual Change
2. Hold On
3. I’ve Seen All Good People : (i) Your Move (ii) All Good People
4. Lift Me Up
5. And You & I (i) Cord Of Life (ii) Eclipse (iii) The Preacher, The Teacher (iv) Apocalypse
6. Rhythm Of Love
7. Heart Of The Sunrise
8. Changes
9. Long Distance Runaround / The Fish (Schindleria Praematurus)
10. Awaken
11. Make It Easy / Owner Of A Lonely Heart
12. Roundabout

bob seger heavy music 7-9

Dopo l’album di fine anno scorso di Bob Seger, si è creato di nuovo interesse per la sua musica e quindi si va a ripescare anche nei primordi della sua carriera, quando era un giovane rocker dell’area di Detroit, alla guida di un gruppo The Last Heard, che ha lasciato solo una manciata di 45 giri registrati tra il 1966 e il 1967 per la Cameo Records e che vengono raccolti ora in Heavy Music, una sorta di compilation che verrà pubblicata dalla ABKCO, non una piccola etichetta,  visto che fa parte del gruppo Universal ed è quella che abitualmente pubblica in USA il materiale anni ’60 degli Stones.

Partiamo di un disco per completisti ovviamente, ma sembra interessante, sentire per credere qui sopra, tra psych e garage, puro Nugget sound. Ecco la lista dei contenuti.

1. Heavy Music (Part 1)
2. East Side Story (Vocal)
3. Chain Smokin’
4. Persecution Smith
5. Vagrant Winter
6. Very Few
7. Florida Time
8. Sock It To Me Santa
9. Heavy Music (Part 2)
10. East Side Sound (Instrumental)

kathy mattea pretty bird 7-9

Kathy Mattea è una delle voci più interessanti del country americano (quello di qualità), vincitrice di due Grammy ed autrice di molti album, sin dall’esordio nel 1984 con il suo debutto omonimo, sempre con uno stile che incorporava folk e bluegrass nel suo songbook (e un pizzico di rock). Proprio la voce, che è uno dei suoi tratti distintivi, ha subito, a causa di una malattia, dei cambiamenti negli ultimi anni, e quindi la cantante si era presentata titubante alle registrazioni per il nuovo album Pretty Bird (anche questo finanziato con il crowdfunding della Kickstarter Campaign), il primo dal 2012 in cui fu pubblicato l’ultimo CD Calling Me Home. La nuova prova uscirà, sempre il 7 settembre, per la Captain Potato, con la distribuzione Thirty Tigers, ed è stato prodotto dallo specialista Tim O’Brien, anche eccellente chitarrista, violinista e mandolinista (ma suona tutti gli strumenti a corda e ha pure una copiosa carriera solista in proprio). E la Mattea con una serie di lezioni vocali ha ripristinato un timbro vocale diverso, ma sempre ricco ed affascinante, che ricorda quasi la Joni Mitchell,degli anni ’80, mi sembra molto bello il disco a giudicare da questa piccola anteprima che evidenzia anche elementi gospel.

mike farris silver and stone 7-9

Gospel, soul e rock, che sono diventati il nuovo credo di Mike Farris da qualche anno a questa parte, nella sua seconda parte di carriera, dopo essere stato per molti anni il selvaggio cantante degli Screamin’ Cheetah Wheelies. Dopo alcuni album dove il gospel era la fonte principale del sound, e in cui comunque influivano elementi rock e blues, con questo Silver & Stone Farris ritorna maggiormente ad un sound rock classico, grazie anche alla presenza di alcuni musicisti di pregio, dal batterista di Memphis, Gene Chrisman, al mago dell’organo Hammond B3  Reese Wynans (Double Trouble) ai chitarristi Doug Lancio (Patty Griffin, John Hiatt) e Joe Bonamassa.

Ecco un breve assaggio che testimonia della bontà dei contenuti di questo album e della bellissima voce di Farris, il CD è in uscita per la Compass Records, sempre il 7 p.v. Se per caso vi erano sfuggiti, cercate anche quelli vecchi, ne vale assolutamente la pena https://discoclub.myblog.it/2014/09/29/ex-peccatore-convertito-al-grande-gospel-soul-mike-farris-shine-for-all-the-people/ .

Ed ecco anche la lista completa dei brani del disco.

1. Tennessee Girl
2. Are You Lonely For Me Baby?
3. Can I Get a Witness?
4. Golden Wings
5. Let Me Love You Baby
6. Hope She’ll Be Happier
7. Snap Your Fingers
8. Breathless
9. Miss Somebody
10. When Mavis Sings
11. Movin’ Me
12. I’ll Come Running Back To You

Bruno Conti

Il Titolo E’ Interminabile, Il Disco Purtroppo No! The Milk Carton Kids – All The Things That I Did And All The Things That I Didn’t Do

milk carton kids all the things

The Milk Carton Kids – All The Things That I Did And All The Things That I Didn’t Do – Anti CD

Il duo californiano dei Milk Carton Kids, formato da Kenneth Pattengale e Joey Ryan, dopo tre album salutati positivamente da quasi tutta la critica mondiale, al quarto lavoro ha deciso di compiere il grande salto. Fautori di un folk-rock cantautorale chiaramente influenzato da Everly Brothers, Simon & Garfunkel, e dal duo Gillian Welch/David Rawlings, i MKC non hanno cambiato stile, ma hanno migliorato decisamente il loro songwriting e per la produzione si sono rivolti nientemeno che a Joe Henry, con il quale avevano già collaborato nel recente passato ma mai al punto di affidargli le chiavi di un loro album. E Henry non è uno che si muove per tutti, conosce il due ragazzi e li apprezza (li ha avuti anche in tour con lui), e la sua mano in questo All The Things That I Did And All The Things That I Didnt’t Do (un titolo non proprio facile da memorizzare) si sente eccome. Joe è ormai un maestro nel dosare i suoni, nel dare una veste sonora adatta a qualsiasi cosa su cui mette le mani, e quasi sempre per sottrazione, ma c’è da dire che in questo caso gran parte del merito va alle canzoni scritte da Pattengale e Ryan, due che non hanno certo bisogno di sonorità ridondanti per emozionare.

Oltre alle chitarre dei due leader, grande protagonista del disco è la splendida steel guitar di Russ Pahl, ma non bisogna scordare la sezione ritmica discreta ma di gran classe formata da Dennis Crouch (uno che ha suonato con un sacco di grandi, da Gregg Allman a Johnny Cash) e dall’ormai indispensabile Jay Bellerose, oltre alle tastiere di Pat Sansone, membro dei Wilco, ed anche ai fiati (clarinetto e sax) nelle mani di Levon Henry, figlio di Joe. Ballate fluide, lente e distese, suoni centellinati al millimetro, mai una nota fuori posto, con in più alcune tra le migliori canzoni del duo: All The Things (abbrevio per fare prima) è il classico disco che cresce ascolto dopo ascolto, ma piace già dalla prima volta che si mette nel lettore. Il centerpiece dell’album è senza dubbio la straordinaria One More For The Road, un brano che supera i dieci minuti e che definire epico non è esagerazione: una canzone che inizia come una ballata fluida e rilassata, con le due voci, un paio di chitarre e la steel sullo sfondo, un suono molto anni settanta con elementi che rimandano ai gloriosi giorni del Laurel Canyon, e che poi si tramuta in un melting pot di suoni tra folk, jazz ed un tocco di psichedelia in un crescendo strumentale magnifico e di grande pathos, per tornare nel finale al tema principale.

Ma chiaramente il disco è anche altro, a partire dall’iniziale Just Look At Us Now, brano tenue ed interiore, molto discorsivo e con un accompagnamento discreto, una percussione leggera ed un delizioso contorno di strumenti a corda. Il pianoforte introduce la lenta Nothing Is Real, un pezzo raffinato ed ottimo veicolo per le armonie vocali di Kenneth e Joey, con un arrangiamento tra folk e pop d’altri tempi, nel quale si sente lo zampino di Henry; la squisita Younger Years ha molti contatti con la scrittura di Paul Simon, e la sua veste leggermente country & western, con la bella steel di Pahl in sottofondo, la rende una delle più riuscite. Mourning In America, pianistica e con una leggera orchestrazione alle spalle, è lenta e decisamente intensa: musica pura, senza pretese commerciali ma in grado di toccare le corde giuste; You Break My Heart è ancora spoglia nei suoni, voce, chitarra, steel e sezione ritmica appena sfiorata, con uno stile molto vicino all’ultimo Dylan che fa Sinatra, così come Blindness, se possibile ancora più cupa, quasi tetra, con le voci angeliche dei due che contrastano apertamente con il mood triste del brano. Big Time è decisamente più vivace, una canzone limpida ed ariosa tra folk e country, caratterizzata da un bel violino ed una melodia diretta, A Sea Of Roses è ancora puro folk moderno, gentile e raffinato, di nuovo con Simon dietro il pentagramma, mentre Unwinnable War è una ballatona di ampio respiro, con il solito ottimo lavoro di steel alla quale si aggiunge un organo ed il consueto pickin’ chitarristico di gran classe. Chiudono il CD la languida I’ve Been Loving You, molto Everly Brothers, e la delicata title track, tre strumenti in croce ma grande intensità.

Al quarto disco i Milk Carton Kids hanno fatto centro: canzoni come One More For The Road non si scrivono certo per caso, ed il resto non è sicuramente da meno.

Marco Verdi

Rock, Blues E Tanta Chitarra Slide, Da New Orleans Alla Toscana Con Molta Classe! Luke Winslow-King – Blue Mesa

luke winslow-king blue mesa

Luke Winslow-King – Blue Mesa – Bloodshot Records

Lo avevamo lasciato un paio di anni fa, prostrato dagli effetti della sua separazione con la ex moglie Esther Rose King (un matrimonio durato peraltro solo due anni, non per minimizzare) che aveva però prodotto  I’m Glad Trouble Don’t Last Always, il suo quinto album, e terzo per la Bloodshot, nonché il suo migliore in assoluto, proprio incentrato quasi completamente “sulle pene dell’amor perduto”, almeno a livello testuale, mentre a livello musicale lo spettro si era ulteriormente ampliato da quella sorta di vintage blues-folk-jazz-ragtime delle prime prove, ad una roots music di eccellente fattura, con ballate cantautorali sopraffine che si alternavano a blues-rock anche feroci e ferali, grazie al fondamentale apporto della chitarra solista, quasi sempre in modalità slide, del prodigioso strumentista italiano Roberto Luti https://discoclub.myblog.it/2016/10/06/sempre-debbono-soffrire-le-pene-damor-perduto-se-il-risultato-luke-winslow-king-im-glad-trouble-dont-last-always/ . Entrambi cittadini onorari di New Orleans, la città della Louisiana dove Winslow-King si era trasferito nel 2002, all’età di 19 anni, per passare un semestre all’università, e poi lì è rimasto per 15 anni, fino a poco tempo fa, quando ha deciso di tornare nella natia Cadillac, nel Michigan. Ma la musica di New Orleans ovviamente continua  a scorrere nelle vene di Luke, innervata da moltissimi rivoli di altri stili musicali che fanno di Winslow-King uno dei migliori eredi, per esprimere un parere personale, già esplicitato nella precedente recensione, del Ry Cooder degli anni ’70, che comunque è tornato in quella forma sonora, con il nuovo album intitolato, non a caso, The Prodigal Son, e che esce negli stessi giorni di questo Blue Mesa.

Il disco di Luke Winslow-King è stato registrato a Lari, una piccola frazione di Casciana Terme in Toscana, dove Luti ha il suo studio di registrazione: visto che la recensione viene scritta in anticipo sull’uscita del disco, le informazioni sono frammentarie e quindi cerco di integrarle con pareri personali (come andrebbe sempre fatto), perché ognuno nei dischi che ascolta ci sente cose e sensazioni diverse. E quindi se nell’iniziale, bellissima, You Got Mine, scritta con la recentemente scomparsa “Washboard” Lissa Driscoll (una musicista locale che era una sorta di piccola leggenda a New Orleans, amica di Luke e compagna di vita in passato di Luti, e a cui è dedicato l’album) https://www.youtube.com/watch?v=Hwv-jzT_BYU , qualcuno ci ha visto tocchi di Paul Simon e Robert Cray, per il sottoscritto il brano è una suadente ballata deep soul/blues targata Memphis/Muscle Shoals (e quindi Cray ci può stare), attraversata dalle pennellate dell’organo di Mike Lynch (all’opera con Bob Seger, Whitey Morgan e già presente nell’ultimo CD), con l’ottimo Chris Davis alla batteria (che suonava con King James And The Special Men, una delle migliori band di NOLA), da deliziosi interventi vocali e dalle chitarre splendide di Luti e Winslow-King, che pure lui non scherza alla slide, quindi tutti ottimi musicisti, come usava anche Ryland ai tempi d’oro. Se vogliamo cercare il pelo nell’uovo, forse il nostro Luke non ha una voce memorabile, ma comunque molto espressiva e porta con garbo e ricca di una profonda frequentazione con la musica del Sud, sia essa blues, soul o roots-rock.

Come nella vigorosa Leghorn Women, uno swamp-boogie-rock che rimanda ad un’altra band che faceva una sapiente miscela del meglio del rock americano come i Little Feat, oppure di nuovo le derive Stax soul della title-track che narra di una relazione che finisce (forse non ha superato del tutto i suoi dolori amorosi), con una musica malinconica ed evocativa che ricorda proprio il miglior Cooder anni ’70, impegnato con la musica nera vista da un’ottica da “bianco”, di nuovo con magica slide in azione. O ancora nella vibrante Born To Roam, un bel rock and roll dalle melodie ariose, dove si intravede un Tom Petty in trasferta in Louisiana, e pure Better For Knowing You continua il filotto di ottime canzoni, questa volta uno slow malinconico e dalle atmosfere carezzevoli, sempre suonato con sapienza dal gruppo che accompagna il nostro amico. Thought I Heard You, con il suo riff sincopato e la slide tangenziale, è un altro blues-rock di ottimo valore, che ricorda il Sonny Landreth più energico, notevole anche la delicata ballata Break Down The Walls, che mischia con maestrai soul, gospel e stile cantautorale, con una slide sempre evocativa ad elevarne ulteriormente il valore.

Chicken Dinner aggiunge anche dei fiati sincopati al già ampio menu sonoro, per un brano laidback e profondamente sudista nel suo andamento volutamente pigro e vintage nell’atteggiamento, ma mosso e vivace nella realizzazione, con intrecci di chitarre da antologia. After The Rain è un altro brano che poteva venire solo dal melting pot di suoni della Crescent City, tra voci suadenti, chitarre accarezzate, come anche l’organo e la sezione ritmica discreta, per una canzone che, questa volta sì, mi ha ricordato il Paul Simon più ispirato. Per chiudere, giustamente, troviamo Farewell Blues, dove un violino malandrino aggiunge un ulteriore tocco raffinato alle 12 battute classiche ma non convenzionali di questo ottimo musicista che risponde al nome di Luke Winslow-King, uno dei talenti più interessanti del sottobosco musicale americano. Da scoprire, se non l’avete già fatto.

Bruno Conti