Le Origini Di Un Genio Della Chitarra, Parte Seconda. Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part II)

bert jansch a man i'd rather be part 2

Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part II) – Earth/BMG 4CD Box Set

Secondo cofanetto, uscito a poca distanza dal primo http://discoclub.myblog.it/2018/02/07/le-origini-di-un-genio-della-chitarra-parte-prima-bert-jansch-a-man-id-rather-be-part-1/ , che ripercorre gli inizi della carriera solista del grande Bert Jansch (dopo i due dello scorso anno che si occupavano degli anni novanta e duemila): anche questo come il precedente contiene quattro album del chitarrista scozzese, il tutto di nuovo senza inediti.

Nicola (1967) è l’ultimo disco di Bert prima del suo esordio con i Pentangle (ed il titolo è una dedica a Judy Nicola Cross, donna con la quale il nostro ebbe una breve ed intensa relazione). Nei brani acustici il suo stile non cambia, dalla cristallina Go Your Way My Love ai blues Come Back Baby (di Walter Davis) e Weeping Willow Blues, alla limpida Box Of Love, puro Jansch. Ma in cinque pezzi troviamo anche le orchestrazioni curate da David Palmer a base di archi ed ottoni che all’epoca inquietarono non poco i puristi: e se chitarre elettriche, piano e sezione ritmica vivacizzano A Little Sweet Sunshine e Wish My Baby Was Here dando loro un gusto pop, l’orchestra in Woe Is Love, My Dear e Life Depends On Love appare posticcia ed inadatta al suono dei Bert, suonando già datata all’epoca.

Birthday Blues (1969) vede invece il nostro accompagnato da una band ridotta, che è poi la sezione ritmica dei Pentangle, Danny Thompson al basso e Terry Cox alla batteria (ed anche il produttore, Shel Talmy, è lo stesso), più Ray Warleigh a sassofono e flauto: ed il suono, senza gli orpelli del disco precedente, è diretto, compatto ed asciutto, ma anche fruibile, per uno degli album più piacevoli di Jansch, a partire dalla solare Come Sing Me A Happy Song (ho abbreviato il titolo, che è infinito), e proseguendo con l’intensa Tree Song, che è di Bert ma sembra un vecchio traditional, la complessa (e straordinaria) Poison, che non avrebbe sfigurato in un album dei Pentangle, e le bluesate I’ve Got A Woman e Promised Land. E Bert dà il meglio anche nei pezzi da solo, come negli splendidi strumentali Miss Heather Rosemary Sewell e Birthday Blues.

E da solo Jansch lo è anche in Rosemary Lane (1971), in cui torna quindi alle sonorità dei primi lavori (ed anche il produttore è il medesimo, Bill Leader). E fa un grande disco, con punte di eccellenza nella rilassata Tell Me What Is True Love, la scintillante title track, i formidabili strumentali M’Lady Nancy e Alman, pura poesia chitarristica, la delicata Wayward Child e la superba Peregrinations. Ma potrei citarle tutte.

Moonshine (1973) vede invece Jansch circondato da una lunga serie di musicisti, alcuni di gran nome (ancora Danny Thompson, che produce anche il disco, Tony Visconti, la cantante Mary Hopkin, il chitarrista Gary Boyle, già membro di Brian Auger And The Trinity, Ralph McTell, e ben tre batteristi, tra cui Laurie Allen dei Gong e Dave Mattacks, all’epoca con i Fairport Convention), e con solo tre pezzi scritti da lui, due cover (compresa The First Time Ever I Saw Your Face di Ewan McCall, già incisa da Bert su Jack Orion) e quattro brani tradizionali. Il centerpiece è sicuramente Night Time Blues, che dura più di sette minuti, una splendida jam folkeggiante che è migliore di molto materiale finito poi su Solomon’s Seal, ultimo album dei Pentangle uscito l’anno prima. Ma sono da segnalare anche lo stupendo folk-rock di Yarrow, l’intensa ballata The January Man, la malinconica ma raffinatissima title track e la rockeggiante Oh My Father, con un grande Boyle all’elettrica.

Non conosco i piani della Earth, etichetta responsabile di questa serie di cofanetti dedicati a Bert Jansch, ma spero non si fermi qui, dato che ne mancano ancora un paio per completare la discografia del chitarrista scozzese. Staremo a vedere.

Marco Verdi

Le Origini Di Un Genio Della Chitarra, Parte Prima. Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part 1)

bert jansch a man i'd rather be part 1

Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part 1) – Earth 4CD Box Set

Quando lo scorso anno la label londinese Earth ha raccolto in due box da quattro CD ciascuno (Living In The Shadows e On The Edge Of A Dream, oltre a Live In Australia pubblicato a parte http://discoclub.myblog.it/2017/07/18/gli-ultimi-bellissimi-episodi-di-una-carriera-luminosa-bert-jansch-on-the-edge-of-a-dream/ ) tutti gli album pubblicati negli anni novanta e duemila dal grande Bert Jansch, non pensavo che ci fosse in previsione anche il recupero del catalogo più antico del chitarrista scozzese. Invece oggi esce, con la medesima veste grafica degli altri due cofanetti, questo A Man I’d Rather Be, che raccoglie i primi tre album pubblicati da Bert negli anni sessanta  prima di unirsi ai Pentangle (Bert Jansch, It Don’t Bother Me e Jack Orion), oltre all’unico album accreditato a lui in duo con John Renbourn, Bert & John. Per chi possiede già questi dischi (la Sanctuary li ha ristampati non molti anni fa) l’acquisto del box non è per nulla essenziale, in quanto non c’è neppure mezzo inedito, mentre nei due pubblicati lo scorso anno il quarto CD era costituito esclusivamente da canzoni mai sentite prima: qua non ci sono nemmeno le bonus tracks incluse nelle ristampe della Sanctuary, e di certo qualcosina in più in tal senso si poteva/doveva fare (a breve, il 23 Febbraio, uscirà la seconda parte di questo box, con i seguenti quattro lavori di Bert come solista, ancora senza inediti però).

Per chi non possedeva queste incisioni, come il sottoscritto, il box è comunque essenziale, in quanto ci mostra i primi passi di un artista sublime, un chitarrista che, pur suonando acustico, ha influenzato gente del calibro di Jimmy Page, Neil Young, Nick Drake e Mike Oldfield. E dire che già all’epoca, quando Bert emigrò da Edimburgo a Londra, non riuscì a trovare una major che scommettesse su un giovane armato solo di chitarra che non scriveva canzoni adatte ad essere pubblicate su singolo, e così si accasò presso l’indipendente Transatlantic, che diede al nostro la possibilità di far sentire la sua musica. Il cofanetto (con le note scritte ex novo da Bill Leader, il produttore originale di questi album) inizia con un vero e proprio classico: Bert Jansch (1965) è stato infatti indicato dalla rivista NME come uno dei venti album di folk più importanti di tutti i tempi, un lavoro che ci mostra un artista in completa solitudine ma già padrone assoluto dello strumento, e già capace di scrivere brani che sembrano dei vecchi traditionals. Quaranta minuti che si ascoltano tutti d’un fiato, con canzoni cristalline sospese tra folk e blues (Strolling Down The Highway, I Have No Time, la bella Rambling’s Going To Be The End Of Me, la purissima Running From Home) e scintillanti strumentali (la strepitosa Smokey River, la complessa Alice’s Wonderland, influenzata da Charlie Mingus, la cover di Angie di Davy Graham, ripresa anche da Simon & Garfunkel col titolo di Anji). E’ anche il disco della celebre Needle Of Death, una drammatica canzone (ma melodicamente splendida) contro la droga, che Neil Young ha volutamente “plagiato” nella sua Ambulance Blues e molti anni dopo ha ripreso nel controverso A Letter Home.

It Don’t Bother Me (ancora 1965) forse non è bello come il suo predecessore, ma è comunque un signor disco di folk, con elementi blues forse più marcati (Ring-A-Ding Bird, Tinker’s Blues, Want My Daddy Now), e comunque con cose splendide come la suggestiva Anti Apartheid, la dylaniana A Man I’d Rather Be o la fluida 900 Miles, con Bert al banjo. Ci sono anche due pezzi dove Jansch è affiancato per la prima volta da John Renbourn, My Lover e Lucky Thirteen: sono in due ma sembrano in cinque. E questo ci porta a Jack Orion (1966), album che vede la partecipazione di Renbourn in tutti i brani, che qui sono al 90% tradizionali (a parte una breve ma incisiva versione strumentale di The First Time I Ever Saw Your Face di Ewan McColl). Il pezzo centrale è senza dubbio la strepitosa title track, quasi dieci minuti di goduria assoluta, una vera lezione su come si suona la chitarra acustica. Ma sono imperdibili anche l’iniziale The Waggoner’s Lad, con uno splendido duello chitarristico, la vibrante Nottamun Town, antica ballata che servì da base a Bob Dylan per scrivere Masters Of War, e che in seguito venne ripresa anche dai Fairport Convention, o la scintillante Pretty Polly. Gran disco. In Bert & John (1966), costituito perlopiù da brani strumentali (i pochi pezzi cantati vedono comunque Bert alla voce solista), i due futuri Pentangle fanno vedere di cosa sono capaci (East Wind è qualcosa di fantastico), solo 26 minuti ma di un’intensità incredibile, da ascoltare tutti d’un fiato, con altre punte di eccellenza nella superba Soho e nella swingata e strepitosa Red’s Favorite.  Un tesoro da riscoprire, come d’altronde, se non ne possedete già il contenuto, il resto del box.

Marco Verdi

Un “Classico” Come Tutti Gli Anni: Il Meglio Del 2017 In Musica Secondo Disco Club! Parte II

meglio del 2017

segue

Ecco la seconda parte.

BEST of 2017 secondo Marco Frosi

 tedeschi trucks band live from the fox oakland

Tedeschi Trucks Band – Live From The Fox, Oakland

rhiannon giddens freedom highway

Rhiannon Giddens – Freedom Highway

father john misty pure comedy

Father John Misty – Pure Comedy

Drew Holcomb – Souvenir

rodney crowell close ties

Rodney Crowell – Close Ties

John Mellencamp – Sad Clowns & Hillbillies

Chris Stapleton – From A Room Volume 1

jason isbell the nashville sound

Jason Isbell & 400 Unit – The Nashville Sound

Little Steven – Soulfire

Willie Nille – Positively Bob:Willie Nile Sings Bob Dylan

sonny landreth recorded live in lafayette

Sonny Landreth – Recorded Live In Lafayette

Shannon McNally – Black Irish

Gregg Allman – Southern Blood

Van Morrison – Roll With The Punches & Versatile

dream syndicate how did i find myself here

The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here?

Steve Winwood – Winwood Greatest Hits Live

Bruce Cockburn – Bone On Bone

chris hillman bidin' my time

Chris Hillman – Bidin’ My Time

david crosby sky trails

David Crosby – Sky Trails

Joe Henry – Thrum

james maddock insanity vs. humanity

James Maddock – Insanity Vs Humanity

zachary richard gombo

Zachary Richard – Gombo

Bob Dylan – Trouble No More:The Bootleg Series Vol.13

jackson brown the road east live in japan

Jackson Browne – The Road East Live in Japan

tajmo

Taj Mahal & Keb Mo – TajMo

Joe Bonamassa – Live At Carnegie Hall, An Acoustic Evening

walter trout we're al in this together

Walter Trout – We’re All In This Together

Nathaniel Rateliff & The Night Sweats – Live At Red Rocks

cheap wine dreams

Cheap Wine – Dreams

 

Marco Frosi

 

“Last but not least” ecco la lista provvisoria del sottoscritto, “Me, Myself, I”, per citare Joan Armatrading una delle mie cantautrici preferite di sempre. Provvisoria, perché mi riservo di integrarla, è all’incirca quella che ho inviato per la Poll 2017 del Buscadero, con alcune integrazioni di dischi che al momento in cui ho stilato la lista non erano ancora usciti, ma meritano assolutamente di essere inseriti tra i migliori di questa annata. Come al solito sono in ordine sparso di preferenza.

Il Meglio del 2017 secondo Bruno Conti

gregg allman southern blood

Gregg Allman – Southern Blood

richard thompson acoustic classics IIrichard thompson acoustic rarities

Richard Thompson -Acoustic Classics II + Acoustic Rarities

Walter Trout And Friends – We’re All In This Together

Joe Bonamassa Live At Carnegie Hall An Acoustic Evening

Joe Bonamassa – Live At Carnegie Hall: An Acoustic Evening  Nel frattempo il buon Joe ne ha già inciso uno nuovo con Beth Hart Black Coffee, molto bello, non ve ne posso parlare ancora in dettaglio perché uscirà il prossimo 26 gennaio.

Tom Jones – Live On Soundstage With Alison Krauss

john mellencamp Sad_Clowns_&_Hillbillies_Cover_Art

John Mellencamp – Sad Clowns And Hillbillies

offa rex the queen of hearts

Offa Rex – The Queen Of Hearts

The Waifs – Ironbark

the magpie salute

The Magpie Salute – The Magpie Salute

gov't mule revolution come...revolution go

Gov’t Mule – Revolution Come…Revolution Go

Tedeschi Trucks Band – Live From The Fox Oakland

van morrison roll with the punchesvan morrison versatile

Van Morrison – Roll With The Punches & Versatile

nathaniel rateliff and the night sweats live at red rock

Nathaniel Rateliff & The Night Sweats – Live At Red Rocks

Aggiunte Dell’Ultima Ora

tom petty san francisco serenades

Tom Petty & The Heartbreakers – San Francisco Serenades – 3 CD Live At Fillmore 1997 Ne leggerete prossimamente, un disco dal vivo “non ufficiale” ma strepitoso!

christy moore on the road 

Christy Moore – On The Road

 

Ristampe

bob dylan bootleg series 13 trouble no more

Bob Dylan – Trouble No More – The Bootleg Series Vol.13

tim buckley the complete album collection

Tim Buckley – The Complete Album Collection

PENTANGLE-box-set-contents-mock_1000px

Pentangle – The Albums 1968-1972

 

Evento Musicale Dell’Anno: La Morte di Tom Petty!

More To Come. Ovviamente tutte queste liste servono anche da ripasso, se vi è sfuggito qualcosa durante l’anno qui potete fare un veloce ripasso delle migliori uscite dell’anno secondo i gusti del Blog naturalmente. Prossimamente, come tutti gli anni troverete anche le classifiche di alcune dei principali Blog e delle più note riviste musicali, ma anche le recensioni di alcuni dei dischi che ci sono “sfuggiti” per vari motivi: mancanza di tempo, dimenticanze o pura ignoranza.

Alla prossima.

Bruno Conti

 

Supplemento Della Domenica: La Ristampa Dell’Anno Bis. Pentangle – The Albums 1968-1972

pentangle the albums

Pentangle – The Albums 1968-1972 – 7 CD Cherry Red Records                     

Bisogna dirlo per una volta, i Pentangle stranamente sono stati “serviti” bene dall’industria discografica: tra cofanetti, retrospettive, dischi dal vivo, le ristampe potenziate degli album della loro discografia fondamentale, quella tra il 1968 e il 1972, ma anche le svariate reunion successive, parziali e quelle più rare della band originale (fino a quella splendida e definitiva celebrata in Finale An Evening With Pentangle di cui vi abbiamo dato conto su queste pagine circa un anno fa), sono state ben documentate nel corso degli anni. Mancava forse un box retrospettivo dedicato agli anni cruciali, quelli che vanno appunto dal ’68 al ’72 e questo cofanetto rimedia a questa mancanza in modo splendido: 7 CD rimasterizzati ad arte, nuovamente per l’occasione, una messe di materiale inedito che amplia quella già ricca che era disponibile nelle ristampe potenziate della Castle/Sanctuary, pubblicate nella prima decade degli anni 2000 e tuttora rintracciabili, magari non facilmente, ma anche il materiale extra che era inserito nell’eccellente box quadruplo The Time Has Come, che invece è molto più difficile da reperire.

PENTANGLE-box-set-contents-mock_1000px

La Cherry Red ha fatto un ottimo lavoro con questo box: i CD riproducono la grafica dei dischi originali ed in ognuno sono inserite moltissime bonus tracks alla fine del programma dell’album originale, sia quelle delle ristampe, sia quelle del quadruplo, ma anche ulteriori versioni alternative o brani live tratti da concerti, canzoni che non erano apparse in passato; i primi tre dischetti hanno tra le 10 e le 15 bonus per ciascuno, mentre i successivi quattro ne riportano 6 per Basket Of Light come pure per Cruel Sister, mentre  Reflection, ne ha 8, e Solomon’s Seal ha “solo” tre brani dal vivo tratti dall’ultimo tour britannico del 1972 della formazione originale. Quindi  indispensabile per i fan della band, ma anche chi si avvicina per la prima volta, oltre a sei dischi splendidi, troverà un totale di 54 bonus, di cui 22 registrazioni mai pubblicate prima. Il Box è corredato anche da un bel libretto di 88 pagine, che comprende vecchie interviste con Bert Jansch, John Renbourn e Jacqui McShee, dei brevi saggi dedicati a ciascuno dei sei album (Sweet Child era doppio), la cronologia della loro storia e soprattutto un track-by-track su ogni singolo brano contenuto nel cofanetto. Ma la cosa più importante è la musica contenuta: quella unica ed incredibile fusione tra folk, blues, jazz e l’arte dell’improvvisazione che era la loro cifra stilistica e nasceva in un periodo estremamente fecondo per la musica “rock” in generale, quando si esploravano anche territori sonori che si spingevano fino alle prime propaggini di quella che poi si sarebbe chiamata “world music”, attraverso la maestria strumentale di due dei più grandi chitarristi nati sul suolo britannico, di una cantante dotata di una emissione vocale pura e celestiale, e di una sezione ritmica, composta da Danny Thompson e Terry Cox, che definire prodigiosa è quasi fare loro un torto.

Pentangle, l’omonimo esordio classico del 1968, oltre alle splendide (ma sono tutte belle le canzoni) Let No Man Steal Your Thyme, la dolcissima Pentangling, il traditional Bruton Town e l’intricato e jazzato brano strumentale Waltz, presenta svariate chicche tra le tredici bonus: Koan uno strumentale inedito, in due diverse takes, The Wheel e The Casbah, anche queste strumentali, due differenti versioni di Bruton Town, Travellin’ Song, il primo singolo, inedito su album, pubblicato insieme al disco e caratterizzato dalla presenza di una sezione di archi. E tra le bonus delle bonus, 3 pezzi registrati nella primissima sessione di registrazione, effettuata nell’agosto del 1967, tra cui spicca l’elettrica Poison, e due canzoni che poi sarebbero state re-incise per il successivo doppio Sweet Child, le splendide Market Song e I’ve Got A Feeling.

Proprio Sweet Child, uscito solo quattro mesi dopo l’esordio (erano altri tempi) viene considerato dai componenti della band il loro disco migliore, e come dargli torto, la parte dal vivo registrata in concerto alla Royal Festival Hall è strepitosa, con le sette tracce aggiunte, già nella ristampa in doppio CD dell’album, con pezzi di Mingus, Furry Lewis, Anne Briggs e diversi traditional, il tutto eseguito con uno spirito complessivo e  dell’arte dell’improvvisazione applicata alla musica folk che sfiora il genio puro. Anche nel disco in studio ci sono ben 11 tracce bonus, oltre a capolavori come la splendida title track e pure I Loved A Lass, deliziosa, ma anche lo strumentale Three Part Thing, la delicata Solvay, un altro vorticoso strumentale come In Time, con le chitarre di Jansch e Renbourn in piena libertà, ma pure in questo caso è difficile scegliere le più belle; anche qui tra le bonus delle bonus spiccano una versione di Poison con Duffy Power all’armonica, una versione full band di Moondog, un pezzo che nella parte Live veniva eseguita in solitaria da Terry Cox, e una alternate take di Sally Go Round The Roses, che poi apparirà nel successivo.

Basket Of Light, ed è il trait d’union tra i due dischi, oltre ad esserne uno dei brani migliori. Insieme a Light Flight e Once I Had A Sweetheart, entrambe cantate in modo celestiale da Jacqui McShee, nella seconda c’è un intervento al sitar di John Renbourn; tra le bonus le due b-sides Cold Mountain e I Saw An Angel, oltre a tre brani dal vivo House Carpenter, Light Flight e Pentangling, registrati in un concerto ad Aberdeen del 1969, la terza in una versione strepitosa di quasi venti minuti, che quasi varrebbe da sola l’acquisto del CD.

Nel 1970, l’anno dopo, esce Cruel Sister, il loro disco di maggior successo che arrivò fino al 5° (!?!) posto delle classifiche: se si eccettua forse When I Was In My Prime, le restanti quattro canzoni sono dei (piccoli) capolavori, A Maid That’s Deep In Love, Lord Franklin, la celeberrima e splendida Cruel Sister, oltre alla lunghissima Jack Orion che durava un’intera facciata del vecchio vinile; le sei bonus stranamente vengono da una session del marzo del 1971 per il successivo album Reflection, ma visto che sono tutte interessantissime non ce ne cale molto della provenienza, la take 1 di Will The Circle Be Unbroken, che anticipa l’album più “americano” del gruppo, Rain And Snow, con sitar e banjo, e Omie Wise, cantata da Bert Jansch, sono entrambe bellissime, come anche la lunghissima Reflection che è del tutto pari alla versione ufficiale (con una diversa improvvisazione di contrabbasso suonato con l’archetto da Danny Thompson) che uscirà nell’album successivo di studio.

Reflection è il secondo disco del 1971, ed oltre ai brani citati brillano anche il traditional da country/mountain music Wedding Dress, la malinconica e struggente When I Get Home, con uno splendido lavoro all’elettrica di John Renbourn, per non parlare della corale Helping Hand, altro esempio del genio compositivo dei Pentangle, e di So Clear cantata da Renbourn, che sembra quasi una canzone di James Taylor, brani che completano la loro fase musicale più creativa ed insuperata. Conclusa l’anno successivo con il disco Solomon’s Seal, l’unico uscito per la Reprise e non per la Transatlantic, come tutti gli altri. Ma prima un cenno alle bonus di Reflection, tre brani tratti dall’album solo di John Renbourn Faro Annie, e che quindi non prevedono la presenza di Jansch e McShee, oltre a tre alternate takes di canzoni tratte dall’album e una inedita, Wondrous Love, che illustra ancora il loro approccio verso lo stile Appalachiano del disco, sia pure in veste elettro-acustica.

Solomon’s Seal esce nel settembre del 1972, ed è sicuramente il loro disco “minore” di questa prima fase, non un disco brutto ovviamente, per chiunque altro, ma forse meno riuscito: tra i brani si ricordano soprattutto l’iniziale Sally Free And Easy, del tutto degna delle cose migliori del loro repertorio, molto belle anche The Snows e il tradizionale High Germany, e niente male pure People On the Highway, di nuovo di stampo americano e la lunga e delicata Willy O’Winsbury, insomma se non avessero fatto cinque album splendidi prima, anche questo sarebbe imperdibile (e per certi versi lo è). Le tre bonus dal vivo vengono da un concerto del 10 novembre 1972, dal loro ultimo tour primo dello scioglimento, sempre interessanti, anche se la qualità sonora non è impeccabile. Uno dei cofanetti più belli dell’anno, e ne sono usciti tanti nel 2017, forse il migliore di una ottima annata (se la batte con quello di Dylan che però non dovremmo considerare una ristampa, visto che è tutto inedito9.

Bruno Conti

Anticipazioni Cofanetti Autunnali 2: Pentangle -The Albums: 1968-1972 7CD box set

pentangle the albumsPENTANGLE-box-set-contents-mock_1000px

Pentangle – The Albums 1968-1972 – Box 7 CD Cherry Red Uk – 29-09-2017

Nel corso degli anni ai Pentangle sono state dedicate diverse ristampe, compreso un bellissimo box da 4 CD The Time Has Come, pubblicato nel 2007 dalla Castle Music, che negli anni 2000 aveva pubblicato anche tutte le ristampe, rimasterizzate e potenziate da bonus tracks, dei 6 album registrati dalla band nel periodo classico 1968-1972, gli anni della formazione originale: Bert Jansch, John Renbourn, Jacqui McShee, Danny Thompson Terry Cox. Di recente, a seguito della scomparsa prima di Jansch e poi di Renbourn c’è stato un grande ritorno di interesse per questo formidabile quintetto, una delle band seminali del revival del “British Folk”, ma anche una delle più grandi ed eclettiche della scena musicale inglese. Proprio sul finire dello scorso anno vi avevo parlato di uno splendido doppio CD http://discoclub.myblog.it/2016/11/06/supplemento-della-domenica-lultimo-atto-straordinaria-carriera-pentangle-finale/  che raccoglieva le registrazioni dell’ultimo tour di reunion e di commiato della band nella formazione classica, e comunque le celebrazioni proseguono, con le (ri)pubblicazioni degli ultimi album solisti di Bert Jansch in cofanetti arricchiti sempre da qualche chicca, nonché di un album inedito di John Renbourn Joint Control, registrato poco prima della morte insieme a Wizz Jones. Ora la Cherry Red pubblica questo cofanetto da 7 CD che raccoglie i 6 album del gruppo incisi per la Transatlantic (e uno per la Reprise) in quei “magici” 5 anni, in occasione del 50° anniversario della nascita della band, avvenuta appunto nel 1967.

Ecco i contenuti completi del box:

CD1: The Pentangle]
1. Let No Man Steal Your Thyme
2. Bells
3. Hear My Call
4. Pentangling
5. Mirage
6. Way Behind The Sun
7. Bruton Town
8. Waltz
Bonus Tracks:
9. Koan (Take 2)
10. The Wheel
11. The Casbah
12. Bruton Town (Take 3)
13. Hear My Call (Alternate Version)
14. Way Behind The Sun (Alternate Version)
15. Way Behind The Sun (Instrumental)
16. Bruton Town (Take 5) *
17. Koan (Take 1)
18. Travelling Song (Non-LP Single Version With Strings)
19. Poison
20. I Got A Feeling *
21. Market Song *

[CD2: Sweet Child – Disc 1 (Live At The Festival Hall)]
1. Market Song
2. No More My Lord
3. Turn Your Money Green
4. Haitian Fight Song
5. A Woman Like You
6. Goodbye Pork-Pie Hat
7. Three Dances (Brentzel Gay/La Rotta/The Earl Of Salisbury)
8. Watch The Stars
9. So Early In The Spring
10. No Exit
11. The Time Has Come
12. Bruton Town
Bonus Tracks:
13. Hear My Call
14. Let No Man Steal Your Thyme
15. Bells
16. Travelling Song
17. Waltz
18. Way Behind The Sun
19. John Donne Song

[CD3: Sweet Child – Disc 2 (Studio)]
1. Sweet Child
2. I Loved A Lass
3. Three Part Thing
4. Sovay
5. In Time
6. In Your Mind
7. I’ve Got A Feeling
8. The Trees They Do Grow High
9. Moon Dog
10. Hole In The Coal
Bonus Tracks:
11. Hole In The Coal (Alternative Version)
12. The Trees They Do Grow High (Alternative Version)
13. Haitian Fight Song (Studio Version)
14. In Time (Alt. Version)
15. A Woman Like You (Unabridged Trio Version) *
16. I’ve Got A Woman (Trio Mix) *
17. I Am Lonely (Jansch Solo Mix) *
18. Poison
19. Blues
20. Sally Go Round The Roses (Alt. Version 2)
21. Moondog (Full Band Vsn) *

[CD4: Basket Of Light]
1. Light Flight (Theme From “Take Three Girls”)
2. Once I Had A Sweetheart
3. Springtime Promises
4. Lyke Wake Dirge
5. Train Song
6. Hunting Song
7. Sally Go Round The Roses
8. The Cuckoo
9. House Carpenter
Bonus Tracks:
10. Sally Go Round The Roses (Alternative Version)
11. Cold Mountain (B-Side)
12. I Saw An Angel (B-Side)
13. House Carpenter * (Live In Aberdeen)
14. Light Flight (Live In Aberdeen) *
15. Pentangling (Live In Aberdeen)

[CD5: Cruel Sister]
1. A Maid That’s Deep In Love
2. When I Was In My Prime
3. Lord Franklin
4. Cruel Sister
5. Jack Orion
Bonus Tracks:
6. Will The Circle Be Unbroken (Take 1, No Harmonica) *
7. Rain & Snow (Take 2) *
8. Omie Wise (Take 2, Live Vox) *
9. John’s Song (Take 7) *
10. Reflection (Olympic Studios Take 1) *
11. When I Get Home (Alternative Vocal) *

[CD6: Reflection]
1. Wedding Dress
2. Omie Wise
3. Will The Circle Be Unbroken?
4. When I Get Home
5. Rain And Snow
6. Helping Hand
7. So Clear
8. Reflection
Bonus Tracks:
9. Shake Shake Mama
10. Kokomo Blues
11. Faro Annie
12. Back On The Road Again
13. Will The Circle Be Unbroken (Take 3, Live Vox) *
14. Reflection (Command Studios, Take 1, Wordless Vox) *
15. John’s Song (Take 5, Fuzz Guitar) *
16. Wondrous Love *

[CD7: Solomon’s Seal]
1. Sally Free And Easy
2. The Cherry Tree Carol
3. The Snows
4. High Germany
5. People On The Highway
6. Willy O’ Winsbury
7. No Love Is Sorrow
8. Jump, Baby, Jump
9. Lady Of Carlisle
Bonus Tracks:
10. When I Get Home (Live At Guildford Civic Hall 11/72) *
11. She Moved Through The Fair (Live At Guildford Civic Hall 11/72) *
12. Train Song (Live At Guildford Civic Hall 11/72) *

* Previously Unissued

Sono gli stessi contenuti dei singoli album che erano già usciti? Direi di no, sono stati inseriti anche brani tratti dai dischi solisti di Jansch e Renbourn, oltre ad outtakes e brani dal vivo, mentre i compilatori del cofanetto annunciano che ci sono 22 brani comunque inediti. Non ho avuto tempo di verificare se non erano stati già inseriti nel box quadruplo o in altre compilations varie uscite nel corso degli anni, ma diamogli fiducia. Quando sarà il momento, ovvero dopo l’uscita prevista per il 29 settembre, verificheremo nella recensione ad uopo dedicata a questo Pentangle The Albums 1968-1972, che fa il paio come importanza con il cofanetto dei Fairport Convention Come All Ye The First Ten Years, di cui leggerete sul Blog la recensione completa nel supplemento della domenica.

Alla prossima.

Bruno Conti

Tra Folk E Rock, Una Storica Band Britannica Sempre In Gran Forma! Steeleye Span – Dodgy Bastards

steeleye span dodgy bastards

Steeleye Span – Dodgy Bastards – Park CD

Il vulcanico bassista Ashley Hutchings, una delle figure più carismatiche del folk britannico degli ultimi cinquanta anni, detiene l’imbattibile record di essere stato membro fondatore di ben tre delle quattro band cardine del genere folk-rock inglese (l’unica con la quale non c’entrava niente erano i Pentangle), per poi abbandonarle tutte quante: i Fairport Convention sono di sicuro la più celebre tra queste, un vero e proprio dream team (con gente come Richard Thompson, Sandy Denny e Dave Swarbrick al suo interno non mi viene un altro termine per definirla) che però abbandonò dopo il capolavoro Liege & Lief per creare gli Steeleye Span, che lasciò a loro volta nei primi anni settanta per fondare la Albion Band. Parlando nel dettaglio di quanto successo con gli Span, Hutchings non era d’accordo di dare al gruppo, dopo i primi tre bellissimi album a carattere tradizionale, una svolta più commerciale, e se ne andò trascinando con sé anche Martin Carthy (altro storico folksinger inglese), sostituito da Rick Kemp, che in breve tempo si legò sentimentalmente con la cantante Maddy Prior e insieme diedero vita a diversi ottimi album di piacevole folk-rock, il più di successo dei quali è senz’altro All Around My Hat del 1975 (i primi sei lavori del nuovo corso sono stati riuniti qualche anno fa nell’imperdibile triplo CD A Parcel Of Steeleye Span).

Gli Span sono ancora oggi attivissimi, pur con diversi cambi di formazione tipici di questo tipo di band, anche se sia la Prior (unica tra i membri fondatori ancora in sella) sia Kemp sono sempre al bastone di comando, pur non essendo più sposati da tempo. Gli altri membri del gruppo attualmente sono Julian Littman alle chitarre, mandolino e pianoforte, la bravissima Jessie May Smart al violino (strumento indispensabile nell’economia della band), Liam Genockey alla batteria ed il nuovo chitarrista Andrew Sinclair, che sostituisce Pete Zorn purtroppo scomparso lo scorso anno. Dodgy Bastards è il nuovo album del sestetto (il loro ventitreesimo in totale), e giunge a tre anni dall’apprezzato Wintersmith, che era stato il loro disco più venduto degli ultimi 37 anni: Dodgy Bastards è un lavoro particolare, che prende spunto da alcune tra le più di trecento ballate popolari inglesi e scozzesi antologizzate nel diciannovesimo secolo dallo studioso americano Francis James Child (note al mondo come “Child Ballads”), ma le ripropone in versioni rivedute e corrette, sia nei testi che nelle musiche, con arrangiamenti che partono dalla base originale folk per arrivare ad assumere tonalità decisamente rock, in alcuni momenti anche piuttosto sostenuto. Il gruppo suona con la foga e la grinta di una band di giovani virgulti, e la Prior ha ancora una bellissima voce nonostante quest’anno per lei scattino le settanta primavere. C’è anche più di un brano con tendenza alla jam, con durate che superano i sette, otto ed in un caso anche i dieci minuti: basti pensare che tutto il disco (che comprende dodici canzoni) va ben oltre i settanta minuti, senza però risultare noioso o ripetitivo, ma al contrario conferma che gli Steeleye Span sono più vivi che mai, ed al contrario dei Fairport che da anni fanno dischi sì molto piacevoli ma decisamente sovrapponibili tra loro (e senza assumersi alcun rischio), non hanno perso la voglia di sperimentare e di rielaborare la tradizione.

Cruel Brother apre il CD con una bella introduzione corale a cappella, poi entrano all’unisono gli strumenti per un brano folk-rock davvero trascinante, guidato dalla splendida voce di Maddy, con un gustoso mix tra chitarre elettriche e violino ed un motivo di presa immediata, ed in più diversi cambi di ritmo e melodia che, uniti ad una durata che si avvicina agli otto minuti, fa del brano quasi una mini-suite. All Things Are Quite Silent è un’intensa e struggente ballata tutta basata sulla chitarra acustica, il violino e la voce cristallina della Prior, Johnnie Armstrong è un folk elettrificato dal carattere tradizionale, suonato però con grande forza e cantato con pathos da Kemp, mentre Boys Of Bedlam, già presente con un arrangiamento più tradizionale nel loro secondo album Please To See The King (1971), qui diventa una potente rock song elettrica, con il violino quasi stridente ed un’atmosfera al limite del minaccioso, il tutto mescolato mirabilmente con una melodia di stampo antico (si può parlare di folk-punk?). Anche la tosta Brown Robyn’s Confession (in cui canta la Smart) fonde in maniera egregia suoni moderni con un motivo chiaramente folk, con le chitarre ancora in primo piano ed un refrain scorrevole; Two Sisters è la rielaborazione di un noto standard folk conosciuto anche come Cruel Sister (brano che dava anche il titolo all’album dei Pentangle preferito dal sottoscritto), in una versione ancora tosta, diretta e potente, anche se le chitarre elettriche si mantengono nelle retrovie.

La fluida Cromwell’s Skull è un’oasi elettroacustica (canta Kemp) con una melodia molto bella ed emozionante, unita ad uno sviluppo strumentale vibrante che si dipana lungo otto minuti, con il violino grande protagonista ed uno strepitoso finale chitarristico: una delle più riuscite del lavoro. La title track è uno strumentale di “soli” tre minuti, una saltellante giga rock guidata ancora dallo splendido violino della Smart e da una chitarra che ne imita il timbro, Gulliver Gentle And Rosemary è di nuovo un folk-rock scintillante, dalla squisita melodia corale e decisamente coinvolgente, mentre The Gardener è puro rock, con le chitarre quasi hard, un’altra iniezione di energia appena smorzata dal violino. La nervosa ed ancora roccata Bad Bones prelude al gran finale, che è appannaggio del medley The Lofty Tall Ship/Shallow Brown, più di dieci minuti all’insegna di deliziose melodie tradizionali, cambi di ritmo ed interventi mai fuori posto da parte del violino, con momenti di pura poesia folk (Shallow Brown è splendida), per finire con una lunga ed affascinante coda strumentale.

Anche gli Steeleye Span si stanno avvicinando ai cinquanta anni di carriera, ma l’energia che esce da un disco come Dodgy Bastards indica chiaramente che non è ancora tempo per loro di appendere gli strumenti al chiodo.

Marco Verdi

Gli Anni Novanta Di Un Grandissimo Musicista! Bert Jansch – Living In The Shadows

bert jansch living in the shadows

Bert Jansch – Living In The Shadows – Earth 4CD (4LP) Box Set

Bert Jansch, leggendario cantautore e chitarrista scozzese scomparso nel 2011, è stato ultimamente soggetto di una rinnovata attenzione da parte delle case discografiche, che hanno ristampato alcuni dei suoi lavori da solista, oltre che, pochi mesi fa, lo splendido Finale, cronaca in due CD dell’ultima reunion della formazione originale dei Pentangle (lo storico gruppo folk inglese che gli ha dato la fama), avvenuta nel 2008 http://discoclub.myblog.it/2016/11/06/supplemento-della-domenica-lultimo-atto-straordinaria-carriera-pentangle-finale/ . Da pochi giorni è uscito questo bellissimo box di quattro CD (ma esiste anche in quadruplo vinile) intitolato Living In The Shadows, che prende in esame quasi tutto ciò che fu inciso da Bert negli anni novanta, aggiungendo un ghiotto dischetto completamente inedito. (NDM: la benemerita Earth, responsabile del cofanetto, ha in uscita anche Live In Australia, ristampa di un eccellente concerto già uscito qualche anno fa con il titolo di Downunder, mentre circolano voci insistenti che più avanti nel 2017 dovrebbe uscire un box con tutti gli album del periodo “classico” dei Pentangle, con più di due ore di musica inedita, staremo a vedere).

bert jansch living in the shadows frontbert jansch live in australia

Gli anni novanta videro un ritorno di interesse verso la figura di Jansch, dopo che gli ottanta erano stati parecchio difficili (Bert, oltre a soffrire del disinteresse tipico di quella decade nei confronti dei musicisti che avevano fatto la storia, ebbe anche vari e serissimi problemi di salute), non certo sottoforma di vendite milionarie, in quanto il nostro è sempre stato un artista di culto, ma un parziale riscatto questo sì, ed anche i suoi album venivano promossi e distribuiti in maniera più professionale. Lui, per contro, non cambiò una virgola del suo suono, continuando a proporre le sue canzoni folk acustiche e raffinate, contraddistinte da una capacità chitarristica fuori dal comune (è stato uno dei virtuosi dello strumento tra i più influenti) ed una ritrovata ispirazione. I tre dischi inclusi in questo box, The Ornament Tree (1990), When The Circus Comes To Town (1995) e Toy Balloon (1998), non sono tutto ciò che il nostro ha prodotto nella decade (manca stranamente un altro album del 1990, Sketches, inciso in Germania con musicisti locali e prodotto dall’ex compagno nei Pentangle Danny Thompson, oltre a tre album, due studio e un live, con una versione riformata della sua vecchia band nella quale però gli unici membri originali erano lui e Jacqui McShee), ma direi che è più che sufficiente per lasciarsi deliziare dalla sua musica.

Il box, curato in collaborazione con il figlio di Bert, Adam, è elegante, in forma di libro (sullo stile delle ristampe dei Jethro Tull), con una sorta di cronistoria del periodo trattato a cura del noto giornalista irlandese Colin Harper, anche se mancano completamente, e questa è una pecca, informazioni su musicisti, sessions di registrazione, testi, e perfino foto del nostro: riguardo a chi suonava, posso dire che troviamo gente magari non famosissima, ma di sicura capacità, come il bassista Nigel Portman Smith, la compianta cantante e flautista Maggie Boyle, il di lei marito songwriter e anche lui chitarrista Steve Tilston e, unici un po’ più noti, il sassofonista Pee Wee Ellis, già al servizio di James Brown e Van Morrison, e l’ex batterista dei Dire Straits, Pick Withers, oltre a Liam Genockey, ex degli Steeleye Span, sempre alla batteria. The Ornament Tree, se si esclude la deliziosa ballata Three Dreamers, è esclusivamente composto da brani tradizionali irlandesi e scozzesi, un disco puro e raffinato che parte con la title track, che vede solo Bert in compagnia della sua splendida chitarra e della sua voce particolare, seguita a ruota da The Banks O’Sicily, con un drumming quasi marziale ed un bellissimo flauto. L’album ha punte di eccellenza assoluta, come la delicata The Rambling Boys Of Pleasure, una folk song purissima suonata con classe eccelsa, la popolare The Rocky Road To Dublin, eseguita in maniera strepitosa, un piccolo capolavoro, la notevole Ladyfair, una goduria per le orecchie, grazie alla fusione di chitarra, violino e whistle, per finire con la stupenda (siamo al primo CD e sono già a corto di aggettivi) Tramps & Hawkers, altro brano folk in purezza.

When The Circus Comes To Town, che invece vede quasi solo pezzi originali (ma Jansch aveva la capacità di scrivere una canzone e farla sembrare un traditional vecchio di secoli), è ancora meglio del suo predecessore, con lo stile del nostro che non cambia di una virgola ma che lo vede ispirato quasi ai livelli degli anni sessanta. Un album formidabile, difficile citare un brano piuttosto che un altro, ma come non menzionare la splendida Open Road, con una performance chitarristica da urlo ed un’atmosfera di grande pathos, o la cristallina Back Home, pura poesia folk (qui con l’aiuto di una sezione ritmica discreta), o ancora la guizzante Summer Heat, dove Bert è l’unico chitarrista ma sembrano in tre. E troviamo perfino un blues elettrico intitolato Steal The Night Away, una meraviglia, quasi come se lo scozzese fosse in realtà un bluesman del Delta in incognito.

Anche Toy Balloon è un gran bel disco, quasi ai livelli del precedente, e con alcune soluzioni ritmiche diverse dal solito e qualche brano più arrangiato. Tutti i pezzi sono di Bert, a parte una magistrale rilettura del noto traditional She Moved Through The Fair: Carnival ha un pathos eccezionale pur nella sua essenzialità, All I Got è un folk-blues strepitoso, con la sezione ritmica che fa addirittura muovere il piedino, mentre Bett’s Dance è un formidabile strumentale per sola chitarra (forse solo John Fahey era a questi livelli, e forse anche Leo Kottke). E poi la raffinata Hey Doc, ancora sfiorata dal blues, la sorprendente ed elettrica Sweet Talking Lady, quanto di più vicino al rock’n’roll il nostro abbia inciso (e con Ellis protagonista al sax), subito bilanciata dalla pura e tersa Paper House.

E veniamo al quarto CD, quello di inediti, sotto intitolato Picking Up The Leaves: ci sono diversi demos ed alternate takes dai tre dischi precedenti (soprattutto dal secondo), non di certo inferiori ai brani effettivamente pubblicati, ma anche canzoni mai sentite prima, come la complessa (con qualche falsa partenza) Another Star, la fluida Little Max, l’intima Merry Priest (decisamente bella) e l’intensissima Lily Of The West, un traditional molto popolare (l’ha fatta anche Dylan). Ma l’highlight assoluto del CD, e forse del cofanetto, sono i due strumentali senza titolo posti in chiusura, nei quali Bert ritrova l’antico compagno di chitarra John Renbourn, per un duetto straordinario nel quale i due pickers (termine riduttivo) danno il meglio di loro stessi, in un’atmosfera rilassata e distesa: non dico che questi due pezzi da soli valgono la spesa del box, ma una buona percentuale forse sì.

A meno che non abbiate già i tre dischi usciti all’epoca, un cofanetto imperdibile, disponibile tra l’altro ad un prezzo “umano”.

Marco Verdi

Esce In Questi Giorni: Forse L’Ultimo Cofanetto. Bert Jansch – Living In The Shadows

bert jansch living in the shadows

Nel corso del 2016 sono uscite varie ristampe relative alla produzione di Bert Jansch: il più recente il bellissimo http://discoclub.myblog.it/2016/11/06/supplemento-della-domenica-lultimo-atto-straordinaria-carriera-pentangle-finale/, ma prima sempre durante lo stesso anno era uscito anche il sorprendente box dedicato alla compagna di Jansch, Loren Auerbach Colours Are Fading Fast. Sempre durante erano uscite, pubblicate sempre dalla Earth, le riedizioni di Avocet e From The Outside. In questi giorni l’etichetta inglese pubblica anche questo box Living In The Shadows, un cofanetto che raccoglie i tre dischi degli anni ’90 di Jansch The Ornament Tree, When The Circus Comes To Town e Toy Balloon, più un quarto CD di materiale inedito, con brani strumentali, versioni alternative, demo e perfino un duetto con John Renbourn, presente in due versioni, sempre registrato in quel periodo. Il tutto corredato da un bellissimo libretto, con note firmate dal giornalista Colin Harper, che tracciano l’intera carriera del grande musicista folk britannico. Il cofanetto esce anche in versione limitata in vinile.

Ecco la lista completa dei contenuti del box.

[CD1]
1. The Ornament Tree
2. The Banks O’Sicily
3. The Rambling Boys of Pleasure
4. The Rocky Road to Dublin
5. Three Dreamers
6. The Mountain Streams
7. The Blackbirds of Mullamore
8. Ladyfair
9. The Road Tae Dundee
10. Tramps and Hawkers
11. The January Man
12. Dobbin’s Flowery Vale
[CD2]
1. Walk Quietly By
2. Open Road
3. Back Home
4. On One Around
5. Step Around
6. Step Back
7. When the Circus Comes to Town
8. Summer Heat
9. Just a Dream
10. Lady Doctor from Ashington
11. Steal the Night Away
12. Honey Don’t You Understand
13. Born With the Blues
14. Morning Brings Peace of Mind
15. Living in the Shadows

[CD3]
1. Carnival
2. She Moved Through the Fair
3. All I Got
4. Bett’s Dance
5. Toy Balloon
6. Waitin’ & Wonderin’
7. Hey Doc
8. Sweet Talking Lady
9. Paper House
10. Born and Bred in Old Ireland
11. How It All Came Down
12. Just a Simple Soul

[CD4]
1. Morning Brings Sweet Peace of Mind
2. Back Home
3. Just a Dream
4. Untitled Instrumental
5. When the Circus Comes to Town
6. No-one Around
7. Lily of the West
8. Fool’s Mate
9. Paper Houses
10. Another Star
11. Little Max
12. Merry Priest
13. Untitled Instrumental 2 (Early Attempt With John Renbourn)
14. Untitled Instrumental 2 (With John Renbourn)

Forse l’ultima perla di una carriera inarrivabile.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: L’Ultimo Atto Di Una Straordinaria Carriera! Pentangle – Finale

pentangle finale

Pentangle – Finale An Evening With Pentangle – 2 CD Topic Records

Credo sia noto a tutti (e a quelli che non ne sono edotti, per ragioni varie, immagino per lo più anagrafiche, lo stiamo dicendo adesso) che i Pentangle siano stati una delle formazioni chiave del filone del cosiddetto folk-rock britannico, insieme a Fairport Convention, Steeleye Span, e per certi versi anche Albion Band e Incredible String Band, oltre a molte altre definite minori, ma non per questo meno importanti. Il revival del folk nelle isole britanniche nasce, più o meno, all’inizio degli anni ’60 – e qui certo non ne tracceremo la lunga storia – grazie alla spinta di personaggi come Davy Graham, Ewan MacColl, Martin Carthy, Shirley Collins, i Watersons, oltre a moltissimi altri, tra cui spiccano certamente Bert Jansch e John Renbourn. Proprio questi ultimi due, unendosi ad altri musicisti, dopo alcune prove come solisti ed in coppia, diedero vita nel 1967 ai Pentangle, che furono gli iniziatori di una sorta di sotto filone unico, il folk jazz, dove oltre al folk della tradizione, rappresentato dalla splendida e cristallina voce di Jacqui McShee, anziché il rock, confluivano elementi jazz rappresentati da Terry Cox alla batteria e dallo straordinario Danny Thompson al contrabbasso. Poi naturalmente nel corso degli anni e dei dischi, sarebbero entrate anche le infiltrazioni etniche, portate dal sitar di John Renbourn, e gli elementi blues che si univano al folk, nel lavoro di entrambi i chitarristi, Bert Jansch, anche voce solista insieme alla McShee e il citato Renbourn.

Non tracciavano forse la storia completa neppure dei Pentangle, ma i sei album pubblicati dalla formazione originale tra il 1967 e il 1973 sono essenziali per ogni appassionato della buona musica, a prescindere dal genere. In alternativa (o in aggiunta) potreste anche rivolgervi allo splendido cofanetto The Time Has Come, un box di 4 CD, pubblicato nel 2007 in occasione del 40° anniversario, e che raccoglie il meglio del repertorio della formazione originale, arricchito da materiale vario, raro ed inedito. Poi esistono molti dischi anche delle varie formazioni che si sono susseguite nel corso degli anni e tuttora circola una formazione definita Jacqui McShee’s Pentangle, che la vede unica sopravvissuta del quintetto iniziale. Ma nel 2007, prima per ricevere il BBC Radio 2 Lifetime Achievement Award, eseguendo per l’evento anche due brani, per la prima volta insieme dopo 25 anni, e soprattutto l’anno successivo, con un tour di 12 date, preceduto da due apparizioni al programma televisivo di Jools Holland, il gruppo fu ancora una volta in grado di riproporre quella magica miscela musicale definita “folk-jazz”, ma che in fondo non era categorizzabile, diciamo Musica con la M maiuscola.

Il risultato di quei concerti ha avuto una lunga gestazione: Bert Jansch che stava seguendo il mixaggio e la messa in sequenza dei brani, scompare nel 2011, mentre John Renbourn che aveva preparato i masters originali ci ha lasciato a sua volta nel 2015. Ma alla fine la Topic, l’etichetta degli album originali, ce l’ha fatta, e abbiamo tra le mani questo Finale, un doppio CD splendido, con 21 brani estratti da otto dei dodici concerti, ma che all’ascolto non palesano differenze, dando l’impressione di ascoltare il risultato di “Una Serata Con i Pentangle”. Il suono è splendido, e le canzoni ancora di più, la chimica tra i vari componenti della formazione è rimasta inalterata, e Jansch e Renbourn, anche se non più giovani e malandati in salute, sono in grado di mandare più di un brivido nella schiena degli ascoltatori, e pure gli altri non scherzano, soprattutto la McShee, ancora in possesso di una voce splendida. Diciamo che questo doppio è un documento pressoché perfetto del loro repertorio Live, sfiorato nella parte dal vivo di Sweet Child e nel Live 1994 dove c’erano solo Jansch e McShee. Il concerto, nella ricostruzione discografica, si apre con Let No Man Steal Your Thyme, che era proprio il brano che apriva la prima facciata del debutto The Pentangle, subito con la splendida fusione delle chitarre di Renbourn e Jansch, svolazzanti ed imprendibili, sostenute dal finissimo lavoro della sezione ritmica, dove giganteggia Thompson e con Jacqui McShee splendida.

Il primo classico è Light Fight, tratta da Basket Of Light,  con complessi intrecci strumentali e vocali, per una versione ai limiti della perfezione. Mirage, di nuovo dal primo album, si avvale di alcune improvvisazioni dell’elettrica di Renbourn ed è di nuovo magnifica. Da Basket…viene Hunting Song una composizione corale, uno dei brani più lunghi del concerto (pezzi che raramente superano i sette minuti, optando per versioni concise ma di rara efficacia, quindi, purtroppo, come potete intuire, niente Jack Orion), con Cox che si esibisce al classico glockenspiel, per un brano dove il lato folk della band è più in evidenza, sognante ed etereo, come la voce di Jacqui, qui doppiata per la prima volta da quella di Jansch. Come nella dolcissima Once I Had A Sweetheart, sempre dal terzo album, uno dei più saccheggiati, mentre Market Song, la prima dove la voce solista è quella di Jansch, segnata dal tempo, ma ancora inconfondibile, viene dalla parte Live del seminale Sweet Child, altra versione deliziosa. E ancora da quel disco, la parte di studio, viene il magnifico (sono a corto di aggettivi) strumentale In Time, dove il brano viene propulso dal contrabbasso di Thompson e Danny Cox si concede un breve assolo di batteria; People On The Highway era sull’ultimo album Solomon’s Seal (a dimostrazione che tutto il repertorio viene rivisitato), una delle canzoni più “americane” tra quelle scritte da Bert Jansch per il gruppo. Jansch che imbraccia il banjo per la successiva House Carpenter (di nuovo da Basket Of Light), mentre Renbourn passa al sitar, e Bert divide la parte vocale con Jacqui, mentre la musica, come si può immaginare assume derive orientaleggianti.

Cruel Sister come la vogliamo definire? Incantevole, superba, mirabile, fate voi: una delle loro canzoni più belle, era sull’album omonimo e il sitar di Renbourn aggiunge un tocco magico alla splendida interpretazione vocale della McShee. The Time Has Come (un brano di Annie Briggs, un’altra delle “eroine” del folk revival inglese) era nella parte dal vivo di Sweet Child, e permette ancora una volta di gustare la squisita vocalità della McShee. Bruton Town era sia nel live come nel primo disco, un traditional corale, arrangiato da tutta band, A Maid That’s Deep In Love, di nuovo da Cruel Sister, con Jansch al dulcimer,  ancora più apprezzabile nei particolari grazie al perfetto sound dell’album, è seguita da I’ve Got A Feeling, la loro interpretazione blues di un brano di Miles Davis. The Snows, di nuovo da Solomon’s Seal, è un altro brano immerso nella tradizione folk più profonda, cantato da Bert, nel suo stile conciso e scarno, ma efficace. Non poteva mancare un altro omaggio al grande jazz, con la loro versione unica di Goodbye Pork Pie Hat di Charles Mingus, dove Danny Thompson fa i numeri al contrabbasso, ma anche tutti gli altri non scherzano, soprattutto Renbourn. Di nuovo un traditional da Sweet Child, No More My Lord, prima di un’altra perla da Solomon’s Seal, Sally Free And Easy, anche questa dalla tradizione del folk britannico. Wedding Dress è una delle due proposte estratte da Reflection, insieme alla traccia conclusiva che vediamo tra un attimo, in mezzo c’è una versione stupenda e scintillante della incredibile Pentangling, uno dei loro cavalli di battaglia assoluti. E a suggellare questo concerto rimane la loro versione, dal lato Atlantico della Manica, di Will The Circle Be Unbroken, che però purtroppo chiude il cerchio della loro carriera in modo definitivo ed inequivocabile, anche se nel 2011 si esibirono ancora in alcune date dal vivo e si dice abbiamo registrato del materiale inedito in studio, quindi mai dire mai. Lo devo dire, mi dispiace: imperdibile!

Bruno Conti     

Ryley Walker – Golden Sings That Have Been Sung. Affascinante Folk-Jazz-Rock Sospeso Tra Passato E Presente!

ryan walker golden sings

Ryley Walker – Golden Sings That Have Been Sung (Deep Cuts Edition) – 2 CD Dead Oceans – 19-08-2016

Di questo disco si parla ormai da diverso tempo, anzi, molti siti e riviste specializzate lo hanno già recensito, quasi tutti in modo positivo e spesso entusiastico, in netto anticipo sulla uscita ufficiale che sarà questo venerdì 19 agosto. Io ho preferito aspettare l’imminenza della data di pubblicazione, visto che spesso quando se ne parla troppo presto quando poi il disco esce effettivamente è giù vecchio o ce ne siamo dimenticati. E in questo caso sarebbe un peccato, perché l’album è veramente bello. Questo signore, Ryley Walker, viene da Rockford, Illinois, una piccola cittadina nei dintorni di Chicago, ha iniziato con alcuni EP pubblicati a livello indipendente nel 2011 ed ora approda al terzo album di studio con questo Golden Sings That Have Been Sung. Walker è pure un abile chitarrista, e infatti nel 2015 ha pubblicato un album strumentale in coppia con Bill MacKay, ma nel corso degli anni ha sempre più curato anche il lato vocale della propria musica, diventando sempre più un cantante interessante e dalle molteplici influenze: sul lato chitarristico vengono citati Davey Graham, Sandy Bull, John Fahey, Bert Jansch e da quello vocale gente come Tim Buckey, Van Morrison, Tim Hardin John Martyn e i Pentangle, presenti in entrambi i campi, senza dimenticare, aggiungerei, l’Incredible String Band, e tra i musicisti contemporanei Jack Rose, Daniel Bachman, Steve Gunn, James Blackshaw, gruppi come Tortoise e Gastr Del Sol, e altri spiriti affini, legati a questa rinascita di un folk complesso, ricco di influenze jazz, psichedeliche, blues e rock, dove la melodia è importante ma anche il tessuto sonoro, l’improvvisazione, la ricerca di arrangiamenti sofisticati che guardano ai grandi del passato, cercando di riproporre questa musica che già negli anni ’70, più avventurosi a livello musicale, era comunque una musica di nicchia, pur se apprezzata dalla critica e dal pubblico più “curioso” ed attento. Quindi in teoria nulla di nuovo, ma se questa musica viene realizzata con passione e perizia è comunque in grado di costruire un ponte tra le diverse generazioni, continuando ad esplorare un filone che affascina sia l’ascoltatore più smaliziato e di vecchia militanza (quelli che hanno già sentito tutto, ma gradiscono in ogni caso l’arrivo di forze fresche) quanto gli ahimé non più numerosi adepti di una musica che richiede una soglia di attenzione più complessa di quella quasi istantanea delle generazioni digitali.

Per sgombrare i dubbi, anche il sottoscritto conferma che questo Golden Sings That Have Been Sung è un disco riuscito, otto brani di notevole valore (più una traccia dal vivo, nel secondo CD della cosiddetta Deep Cuts Edition): le influenze ed i rimandi ai vari nomi citati, pur essendo certamente presenti, non sono così evidenti e facilmente rintracciabili, in entrambi i sensi, ovvero, nell’insieme la musica ricorda e si riallaccia a questo tipo di musicisti e sonorità, ma non lo fa riferendosi a brani od album del passato specifici, quanto ad un comune intendere, ad una visione che dal passato si allunga sulla musica di Ryley Walker, che poi la rimodella secondo la propria sensibilità. Il nostro amico si è addirittura spinto quasi a prendere le distanze dal precedente, e ottimo album, Primrose Green, ma si sa che, per vari motivi, gli artisti sono sempre legati di più alla loro ultima prova discografica in ordine di tempo, magari poi rivalutando nel tempo il proprio lavoro, in un’ottica di lunga distanza. Il nuovo lavoro è prodotto dal polistrumentista LeRoy Bach, anche lui di Chicago, per il periodo 1997-2004 nella formazione dei Wilco, dove suonava chitarre e tastiere, che ha saputo unire lo spirito più avventuroso della musica di Walker con brani dal respiro più semplice e di attitudine folk, legati ai suoni del passato ma con lo sguardo al futuro, come è sempre più regola nella musica dei giorni nostri. I musicisti sono più o meno quelli utilizzati nel disco precedente, provenienti dalla attuale scena jazz contemporanea di Chicago: Brian Sulpizio alla chitarra elettrica, Ben Boye alle tastiere, Anton Hatwich al basso, Frank Rosaly Quin Kirchner alla batteria, Whitney Johnson alla viola e un altro multistrumentista Ryan Jewell, niente nomi altisonanti ma validi ed adatti alla bisogna.

Ed ecco quindi scorrere Halfwit In Me che fonde gli spiriti della West Coast più ruspante con le atmosfere raffinate di John Martyn o dei Pentangle più solari, soprattutto nell’approccio ritmico e jazzato, attraverso sognanti ma incisive derive strumentali dove la chitarra acustica di Ryley guida le danze, ma tutti gli strumenti sono importanti e la voce denota una ulteriore crescita a livello di personalità e di maturità. Anche A Choir Apart è legata al drive ritmico tra folk, jazz e blues dei Pentangle più sperimentali, quando Renbourn imbracciava l’elettrica, ma ricorda anche il Tim Buckley “liquido” di Starsailor Blue Afternoon, con inserti sonori tra raga e rock e una costruzione quasi circolare del brano che si avvolge su sé stesso in spire larghe ed affascinanti, con contrabbasso e batteria a dettare tempi jazzistici e il testo che contiene il titolo dell’album. Pure Funny Thing She Siad ha questo spirito pigro e quasi strascicato, intenso e notturno, con un cantato sommesso e quasi confidenziale, leggeri tratti blues, ma anche una bella melodia che entra sottopelle, con la chitarra elettrica che lascia ampi spazi a pianoforte e violoncello (o è una viola, o entrambi?) nella parte strumentale. Sullen Mind, che appare anche in una versione allungata, oltre 40 minuti (!?!) e dal vivo nel CD bonus, è una ulteriore fusione tra folk, derive psichedeliche e influenze orientali, un magma sonoro dove chitarre acustiche ed elettriche, tastiere e una ritmica agile e complessa, prima accarezzano la voce intensa di Ryley Walker e poi vengono scatenate in crescendi improvvisi ed acidi di pura improvvisazione, fino ad una affascinante accelerazione finale.

Musica forse non di facile approccio, che si stempera comunque nel leggero acquerello folk della breve e delicata I Will Ask You Twice, dove si agitano gli spiriti inquieti ma affascinanti di Tim Hardin o di Nick Drake, e anche le atmosfere pastorali di The Roundabout fanno rivivere le sonorità del folk-rock più raffinato ed ispirato degli anni d’oro della musica dei cantautori britannici più originali e visionari, sempre con gli arpeggi della chitarra di Ryley in bella evidenza.Torna la West Coast meno acida e sulfurea nelle serene e delicate note di una The Great And Undecided che sparge raffinate cascate di dolcezza nel suo incedere, per poi lasciare spazio nel finale del disco, nella lunga Age Old Tale, alle improvvisazioni di una sorta di “free-folk”  onirico ed improvvisato, dove gli strumenti e la voce sono di nuovo liberi da vincoli sonori e da melodie più definite e immerse in un dipanarsi sonoro quasi stordito e stralunato, che lentamente avvolge l’ascoltatore nella sua bruma fuori stagione (ma il disco è stato registrato lo scorso inverno).

Una conferma per Ryley Walker, un musicista per tutte le stagioni, forse non un genio assoluto ma un artigiano tra i più raffinati ed interessanti in circolazione.

Bruno Conti