Meglio Solo Che Male Accompagnato! Popa Chubby – Tinfoil Hat

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Popa Chubby – Tinfoil Hat – Dixiefrog

Quando tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo dello scorso anno scatta la pandemia da Covid, Popa Chubby è in giro on the road per promuovere il nuovo album appena uscito It’s A Mighty Hard Road, ma come molti musicisti e artisti (per non dire anche dei comuni mortali, che però ogni tanto hanno potuto allentare l’isolamento) non immagina certo che la sosta sarà così lunga: già da subito manda richieste di aiuto a fans e appassionati, che gli rispondono, e quindi Ted Horowitz inizia a scrivere e registrare un po’ di canzoni nuove dal suo quartiere generale tra Bronx, NY City e Hudson Valley, con argomenti che da universali chiamate alle solidarietà umana Can I Call You My Friends? passano al tema del Black Lives Matter con No Justice No Peace, amichevoli vaffanculo a quello che allora era l’inquilino della Casa Bianca “TheDonald” con You Ain’t Said Shit, meditazioni sulla situazione di oggi che richiama quella dei tempi che furono in 1968 Again.

Il nostro non è un fine poeta e dicitore, quindi se serve nei testi usa accetta e piccone, mentre musicalmente, dovendo suonare tutti gli strumenti in solitaria, il suo solito blues ad alta gradazione rock, nutrito negli anni a Cream, Zeppelin e Mastro Jimi, si fa sempre più ruvido, pur inserendo, come è sua consuetudine, elementi punk e qualche tocco di reggae, una spennellata di soul e questa volta anche un po’ di surf, senza mai dimenticarsi di santificare comunque i grandi delle 12 battute. Ovviamente, come per molti altri che praticano le strade del blues la formula è sempre più meno quella, qualche shuffle, dei blues lenti, tanta grinta e moltissimi riff: i suoi ascoltatori quello si aspettano e lui li accontenta, ripreso in copertina con un cappellino di latta Tinfoil Hat, in testa, e mascherina sul volto, per il tocco di raffinatezza si presenta con acustica con il corpo di acciaio e poi procede con 11 canzoni 11 scritte da lui a ribadire le convenzioni non scritte, ma ben codificate ed appena ricordate, della propria musica.

La title track, con video con pupazzetto di uno con improbabile capigliatura bionda (chi sarà mai?) che cavalca anche missili, virus che fluttuano nell’etere, e annuncio iniziale da imbonitore, ritmo scandito primitivo, echi surf blues-rock, ma poi imbraccia la sua Gibson e ci spara un assolo potente dei suoi. Ci esorta anche non fare i pirla Baby Put On Your Mask, lui indossa il suo bottleneck per convincerci con un rock ribaldo, mentre nella antemica No Justice No Peace il messaggio è veicolato in un poderoso rock-blues dove come è sua usanza maltratta la solista e canta pure con convinzione e profitto, la voce ben delineata; in You Ain’t Said Shit dialoga con il suo amico Trump (ma, ohibò, odo forse una pernacchia a fine brano?) in una canzone deliziosa che sembra provenire da un vecchio vinile anni ‘50, c’era la guerra fredda, ma la musica era eccellente. Another Day In Hell è un “bluesazzone” (si può dire?) di quelli tirati, ribaldi, urlati e lancinanti, con la chitarra in spolvero che inchioda un altro assolo dei suoi https://www.youtube.com/watch?v=jKByTD6_39c .

In Can I Call You My Friends? tratta tutti i temi che hanno caratterizzato il 2020, pandemia, politica, proteste, Capitol Hill, con un video recente dove appare anche Biden, è la musica è vigorosa, rock and roll orgoglioso e barricadero, suonato e cantato con grande impeto, bellissima canzone. In Someday Soon (A Change Is Gonna Come) prova a rispondere anche a Sam Cooke con un brano dove una sinuosa slide è protagonista assoluta https://www.youtube.com/watch?v=lq4whvmmNDY , e Cognitive Dissonance a tempo di reggae puro è l’unico brano dell’album che non mi convince appieno (sono allergico, anche se lui ci aggiunge elementi rock con la chitarra insinuante e cattiva), mentre Embee’s Song con la sua andatura da sweet soul music e l’omaggio a Otis con un sentito “Let Me Love You, Baby!” e un assolo rigoglioso da grande rocker conferma la ritrovata vena di un Popa Chubby ispirato https://www.youtube.com/watch?v=3OIqTp2PQ38 , che nel finale ci regala 1968 Again dove utilizza con destrezza l’acustica con uso slide che mostra nella copertina del CD https://www.youtube.com/watch?v=loZz9vQlohg  e prima nello strumentale Boogie For Tony https://www.youtube.com/watch?v=9lURAz897CI  ci ricorda anche perché è giustamente considerato un eccellente chitarrista: e bravo Ted!

Bruno Conti

Il “Solito” Disco Di Ted Horowitz. Popa Chubby – It’s A Mighty Hard Road

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Popa Chubby – It’s A Mighty Hard Road – Popa Chubby Productions/Dixiefrog

Avevamo lasciato il nostro amico Ted Horowitz, alias Popa Chubby, alle prese con una antologia Prime Cuts: The Very Best Of The Beast From The East, che pescava dal meglio degli album della sua produzione precedente, quasi 30 anni tra alti e bassi, ma che aggiungeva anche un secondo CD di materiale inedito https://discoclub.myblog.it/2018/09/21/tutto-popa-e-niente-grasso-superfluo-si-fa-per-dire-popa-chubby-prime-cuts-the-very-best-of-the-beast-from-the-east/ . Quel disco per certi versi aveva anche sancito la fine della sua collaborazione con la earMusic, per quanto bisogna dire che comunque questo vale solo per il mercato europeo, negli Stati Uniti il tutto esce sempre per la propria etichetta PCP Popa Chubby Productions: così avviene anche per il nuovo It’s A Mighty Hard Road che in Europa verrà distribuito dalla Dixiefrog, un ritorno quindi all’etichetta che gli ha dato le migliori soddisfazioni e anche il titolo del Post è abbastanza simile ad un altro che avevo già usato nel recente passato https://discoclub.myblog.it/2016/11/19/il-solito-popa-chubby-the-catfish/.

A marzo Horowitz taglia il traguardo dei 60 anni e il veterano newyorchese festeggia l’evento con un buon album. Quindici canzoni dove il nostro, accompagnato come sempre dal fedele Dave Keyes a piano e organo, dal batterista Steve Halley nei primi quattro brani, che si alterna con Dan Castagna e con lo stesso Popa in parecchie tracce, che si occupa anche del basso quando non sono disponibili Brett Bass (?) e V.D. King. Tredici pezzi portano la firma di Horowitz, che aggiunge anche due cover finali, la classica I’d Rather Be Blind del terzetto Leon Russell/Don Nix/Donald Dunn, nonché una inconsueta Kiss di Prince. Come dicevo poc’anzi il disco, registrato quasi interamente ai Chubbyland Studios di New York, a parte le prime quattro tracce, presenta un Popa piuttosto motivato, come certifica subito l’iniziale The Flavor Is In The Fat, ovvero “Il Sapore E’ Nella Ciccia”, che è quasi una dichiarazione di intenti, uno dei suoi classici e robusti brani, dove Ted canta con vibrante impeto e la chitarra è pungente e subito libera di improvvisare con gusto, con le tastiere di Keyes e la ritmica a seguirlo come un sol uomo. Anche il rock-blues della potente title track ci presenta il vecchio Popa, quello dei giorni migliori; Buyer Beware, sui rischi di comprare una chitarra di seconda mano, è un divertente e movimentato shuffle che illustra ancora una volta l’approccio ruspante del nostro amico alle 12 battute, con tanto di citazione per l’amato Jimi Hendrix.

Ottima anche la flessuosa It Ain’t Nothin’ con un eccellente lavoro alla slide, molto piacevole anche la hard ballad Let Love Free The Way con una bella linea melodica e un lirico lavoro della solista, mentre la riffata If You’re Looking For Trouble illustra il suo lato più hard-rock, con risultati comunque apprezzabili e The Best Is Yet To Come è una deliziosa “soul ballad” che traccia, con una punta di ottimismo e speranza, la situazione sociale dell’America di Trump. Il titolo dell’album già esisteva, ma la canzone I’m The Beast From The East mancava all’appello, e quindi il buon Popa rimedia subito con un solido blues che coniuga lo stile “orientale” di NY con le classiche 12 battute di Chicago, in cui Chubby esprime il meglio del suo stile chitarristico. Non manca un rilassato brano strumentale Gordito, che ha profumi latini mescolati al blues del non dimenticato Peter Green, con Enough Is Enough che bacchetta ancora le tendenze “naziste” di Trump a tempo di funky-reggae e pedale wah-wah innestato a manetta, ma non soddisfa del tutto.

More Time Making Love è un classico brano di roots-rock di buona fattura e la divertente Why You Wanna Bite My Bones? viaggia sui binari di un piacevole boogie’n’roll, lasciando alla notturna ma irrisolta Lost Again l’ultimo posto libero per i brani originali. La citata I’d Rather Be Blind è vibrante e prevede una buona performance vocale del nostro, che poi improvvisa e cazzeggia nella cover di Kiss di Prince, con un uso sorprendente della armonica. Insomma, tirate le somme, il “solito” disco di Popa Chubby, più che positivo benché forse non eclatante.

Bruno Conti

Tutto Popa E Niente “Grasso” Superfluo, Si Fa Per Dire. Popa Chubby – Prime Cuts: The Very Best Of The Beast From The East

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Popa Chubby – Prime Cuts: The Very Best Of The Beast From The East – 2 CD earMusic/Edel

Se avete già molti dei dischi di Ted Horowitz a.k.a. Popa Chubby, forse questo Prime Cuts: The Very Best Of The Beast From The East potrebbe essere considerato superfluo, una antologia che pesca da 28 anni di carriera passati al setaccio dal nostro amico, che poi ha scelto quelli che secondo lui sono i brani miglior dal proprio catalogo. Però la storia non finisce qui e nel secondo CD il buon Ted ha pensato bene di aggiungere altre undici tracce inedite, nove in studio e due dal vivo. Una compilation interessante sia per i fans come per i novizi, che possono ascoltare una scelta di canzoni di uno dei cantanti e chitarristi (rock)blues più eclettici delle ultime generazioni. La scaletta non segue (strettamente) un ordine cronologico, per cui si parte con la autobiografica e molto piacevole Life Is A Beatdown, dove una buona melodia e un groove accattivante si sposano con le evoluzioni della chitarra, il tutto tratto dall’album del 2004 Peace, Love And Respect https://www.youtube.com/watch?v=mFUMiH4yYt4 ; Angel On My Shoulder viene da Booty And The Beats, il primo e probabilmente migliore disco di studio di Popa del 1995, un gagliardo brano di rock classico, con profumi e rimandi hendrixiani https://www.youtube.com/watch?v=3BGkgHZ-t3g , che poi vengono ribaditi in una notevole e fedele rilettura del classico Hey Joe dell’amato Jimi, una versione dove si può apprezzare tutta la potenza e la classe del chitarrista newyorkese, che quando vuole è in grado di rilasciare brani dove gli assoli di chitarra sono spesso ricchi di feeling e tecnica di prima categoria.

Ottime anche Stoop Down Baby, sempre dal primo album, un funky-rock-blues con uso d’organo e sax di ottima fattura e Sweet Goddess Of Love And Beer, dai retrogusti soul classici e qualche tocco springsteeniano; dall’album del 1996 Hit The High Hard One, il suo primo live, viene la notevole blues ballad San Catri, un lungo brano strumentale ispirato ancora dal songbook di Hendrix, dove si apprezza nuovamente il suo solismo ispirato, da vero mago della 6 corde. Sempre dal live viene anche il divertente boogie Caffeine And Nicotine, mentre lo splendido e lancinante slow Grown Man Crying Blues https://www.youtube.com/watch?v=AbM1tSa0RrUviene da Deliveries After Dark del 2007  , come pure la sua velocissima versione strumentale del tema del Padrino; molto bella anche la cover di Hallelujah, più vicina all’originale di Leonard Cohen che alla rilettura di Jeff Buckley, con un lirico solo di chitarra aggiunto. Somebody Let The Devil Out viene da The Good, The Bad And The Chubby del 2002, un blues elettroacustico che illustra anche il lato più tradizionale di Horowitz, con slide ed armonica, e qualche vago accenno rap che in questo brano ci sta, e ancora dallo stesso album I Can’t See The Light Of Day, una bella ballata che ricorda certi brani della Band e quindi il lato più roots di Popa Chubby.

Sempre dal disco del 2002, uno dei suoi migliori, viene anche la robusta Dirty Lie con ampio uso di wah-wah. Daddy Played The Guitar( And Mama Was A Disco Queen) era su How’d a White Boy Get the Blues? del 2000, non uno dei dischi migliori, e pure il brano è alquanto pasticciato, A chiudere un ottimo Best arriva il raro singolo natalizio There On Christmas dalla classica atmosfera festosa e piacevole. Il secondo CD raccoglie, come detto, 11 inediti: Go Fuck Yourself illustra in modo brutale la sua filosofia di vita, mentre molto buone sono le due tracce dal vivo, If The Diesel Don t Get You Then The Jet Fuel Will, un poderoso rock’n’roll che ricorda le sue cose migliori https://www.youtube.com/watch?v=FPGWD6_mk60 e anche lo scatenato rockabilly Race From The Devil sprizza energia da tutti i solchi virtuali. Hey Girl è un altro omaggio a tutto wah-wah al maestro Hendrix, Sidewinder è un notevole strumentale di impronta jazz rivisto comunque nel suo stile ruspante e Walking Through The Fire un altro strumentale dove si apprezzano le sue virtù solistiche, Sorry Man vira momentaneamente verso il country in modo gradevole, Back To N.Y.C, in versione demo, rimane un altro buon brano hendrixiano, il resto è un riempitivo, comunque piacevole, ma  globalmente l’album rimane interessante, anche per i “completiisti” di Popa Chubby.

Bruno Conti

Ripassi Estivi 1. Un Ottimo Duo Bresciano Di Blues(Rock) Made In Italy. Superdownhome – Twenty Four Days

superdownhome twenty four days

*NDB E’ iniziata ufficialmente l’estate, quindi come usa fare tra le persone scrupolose, iniziano anche i ripassi: anche noi del Blog pure quest’anno ci adeguiamo. Scherzi a parte, da oggi, pur mantenendo la “programmazione” abituale di recensioni di dischi nuovi, anticipazioni di future uscite e quant’altro, di tanto in tanto troverete dei Post (miei e degli altri collaboratori di Disco Club) dedicati al recupero di dischi che per vari motivi non sono stati pubblicati sul Blog nei mesi passati.

Superdownhome – Twenty Four Days – Slang Records

Per la serie blues Made in Italy, un’altra “nuova” formazione che si affaccia sulla nostra scena  interna. Il nuovo virgolettato è perché in effetti  i Superdownhome, da Brescia, sono comunque in pista da un paio di anni, hanno già pubblicato un EP e pure questo Twenty Four Days circola (a fatica, se non trovate il CD fisico c’è comunque il download digitale, ma non è la stessa cosa) da qualche mese, ma in ogni caso non scade!  E senza dimenticare che i due componenti del gruppo (ebbene sì, sono un duo, chitarra e strings, come dicono le note, e batteria) sono in giro da qualche annetto, Henry (Enrico) Sauda prima suonava nei Granny Says e negli Scotch, mentre il batterista Beppe Facchetti ha collaborato con Elizabeth Lee’s Cozmic Mojo, con Louisiana Red, Rudy Rotta, e Slick Steve & The Gangsters, sempre in modo indipendente e sotterraneo: quindi cerchiamo di aiutarli vieppiù ad emergere diffondendo, per quello che si può, il loro verbo. Sul sito della etichetta vengono presentati come un duo di rural blues, con uso di chitarra, Cigar Box e Diddley Bow e batteria, solo rullante e cassa, ma il suono che si percepisce ascoltando questo CD non è per niente rurale, anzi è elettrico, vibrante e ricco di grinta. Sono stati fatti paralleli con Seasick Steve e Scott H. Biram per questo approccio DIY e minimale, ma mi sembra che la quota R&R che esce dalle dieci canzoni di questo album non sia affatto marginale: d’altronde un disco che “coverizza” un brano come la leggendaria Kick Out The Jams degli MC5 non usa certo le mezze misure.

La voce di Sauda, sa essere suadente, ma anche rauca, vissuta ed incazzata, come timbro a tratti mi ricorda quella dell’amico Fabrizio Friggione dei Fargo, anche se lo stile è diverso, per quanto entrambi attingano dal blues come fonte di ispirazione, e poi la presenza di Popa Chubby in un paio di brani  di questo Twenty Four Days è sintomatica. Insomma siamo di fronte ad un gran bel dischetto, solo 34 minuti di musica, ma tanto impegno e passione: ogni tanto si tenta anche la strada della roots music come nella conclusiva delicata Goodbye Girl, una bella ballatona, dove si ascoltano, credo, anche delle tastiere e chitarre aggiuntive suonate da Marco Franzoni, che è il produttore dell’album, registrato tra ottobre e novembre del 2017 al Bluefemme Stereo Rec di Brescia, e che vanta collaborazioni con altri artisti indipendenti ma anche mainstream come Omar Pedrini. I Superdownhome hanno aperto per Popa Chubby, Andy J Forest, Doyle Bramhall II e Bud Spencer Blues Explosion.

Tornando al disco il mood che prevale è spesso robusto e grintoso, se non anche selvaggio: l’iniziale Twenty Four Days con bottleneck in azione, è subito una stilettata di energia, sulle strade del blues più ispido, ma legato alla tradizione, Stop Breaking Down Blues di Robert Johnson, c’era anche su Exile On Main Street degli Stones e l’hanno suonata pure in molti altri, dai Fleetwood Mac di Peter Green in giù, e fa parte dei brani, “buoni, brutti e cattivi”, per citare Sergio Leone, buoni per la musica, ma brutti e cattivi per l’approccio, ruvido ed elettrico, anche grazie alla presenza di Popa Chubby, con il rock che va a braccetto con le 12 battute, con le chitarre che mulinano di gusto. Over You è più sinuosa e serpentina, mentre Nobody Knows ha ritmi più frenetici  e scatenati, con le chitarre sempre in evidenza. Disabuse Boogie si presenta sin dal titolo, un po’ Canned Heat, un po’ Thorogood, un po’ ZZ Top vecchio stile, ottima ed abbondante, Long Time Blues è l’altro brano che prevede la presenza del buon Chubby,  e Down In Mississippi è proprio il classico di J.B. Lenoir, misterioso e dalle atmosfere sospese.  Bad Nature, di nuovo a colpi di slide e blues completa un menu vario e di buona qualità complessiva.

Bruno Conti

Da “Solo” O Con La Band, Dice Sempre La Verità. Lance Lopez – Tell The Truth

lance lopez tell the truth

Lance Lopez – Tell The Truth –  Mascot/Provogue

Sono passati solo poco più di 4 mesi dall’uscita di Califonisoul, il secondo album dei Supersonic Blues Machine http://discoclub.myblog.it/2017/11/28/anche-loro-sulle-strade-della-california-rock-supersonic-blues-machine-californisoul/ , ed ecco che il frontman della band, Lance Lopez, voce e chitarra solista nel power trio americano, pubblica già un nuovo album. Come spesso capita ho ascoltato il disco parecchio in anticipo sull’uscita e quindi le informazioni erano ancora poche. Quello che veniva annunciato,  cioè che il disco era stato registrato durante gli ultimi tre anni negli abituali studi di Los Angeles, sotto la produzione di Fabrizio Grossi, che aveva anche curato le parti basso di durante le varie sessioni tenutesi nello stesso periodo in cui veniva inciso l’album dei SBM, come pure  la presenza di un batterista dal suono  vigoroso e potente, che ha tutta l’aria di essere Kenny Aronoff, e il fatto che negli arrangiamenti fossero presenti anche piano, organo, armonica e backing vocalist aggiunti, era abbastanza sintomatico. Quindi il suono a grandi linee è assai simile a quello recente della band, ma Lopez ha comunque un lungo passato di musicista, prima come accompagnatore di musicisti di spessore, da Bobby “Blue” Bland e Johnnie Taylor passando per Johnny Guitar Watson, e poi, dopo il trasferimento dalla natia Louisiana al Texas, attraverso l’incontro con musicisti come Billy Gibbons e Johnny Winter, con cui ha condiviso i palchi a lungo nell’ultima parte della carriera di quest’ultimo.

Anche se la primaria influenza è stata sicuramente Jimi Hendrix, come pure, da un lato più blues, B.B. King e Stevie Ray Vaughan, e qualche trucchetto glielo hanno insegnato anche Lucky Peterson e Buddy Miles, nelle cui rispettive band ha suonato. Nel 1999, a soli 21 anni, pubblica il suo primo album First Things First, poi ripubblicato dalla Grooveyard, che sarà la sua etichetta nella prima decade degli anni 2000, i suoi album migliori Salvation From Sundown, Handmade Music e il Live in NYC, di cui vi ho parlato su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2016/05/28/del-buon-blues-rock-chitarristico-dal-vivo-lance-lopez-live-nyc/ . Sempre sano e vigoroso rock-blues, anche hard power trio con la chitarra del nostro spesso e volentieri in evidenza; ovviamente Tell The Truth non cambia la strada maestra, il suono pare solo più centrato, la musica, pur essendo dura e tirata, spesso è ben costruita ed arrangiata: prendiamo l’iniziale Never Came Easy, il suono è rotondo, con basso e batteria ad ancorare il suono, inserti di chitarra acustica, armonica, piano elettrico e la slide a supportare la voce rauca e profonda di Lopez in un pezzo che ha forti profumi blues. Mr. Lucky era la title track di uno degli ultimi album di John Lee Hooker, qui ripreso in una versione power trio, molto Hendrix e SRV, basso pompatissimo, chitarre lancinanti e anche in modalità wah-wah, l’armonica ad addolcire la vena quasi hard-rock-southern di questa versione, che comunque è di eccellente fattura, con la chitarra che scorre fluida e potente.

Insomma, capito il genere, e non è difficile, l’album si gode appieno: Down To One Bar, più dura e riffata, ha qualche vago elemento soul, grazie all’organo e alle coriste, ma le chitarre, sia normale che slide, sono sempre cattive, e se ogni tanto si cerca qualche elemento più commerciale non è un delitto, è nella natura del produttore Grossi. High Life ha persino qualcosa di “claptoniano”, miscelato con elementi sudisti, un bel drive ritmico e la rauca voce di Lance (molto simile a quella di Popa Chubby) in evidenza, oltre alle chitarre stratificate che contribuiscono alla riuscita del brano; Cash My Check è il primo singolo del CD, un bel boogie rock incalzante, con piano, armonica e coretti incisivi, ancora a punteggiare il sound sudista della canzone, veramente riuscita e coinvolgente, rock classico della più bell’acqua con un bel solo di slide che è la ciliegina sulla torta. Tutti i brani sono compatti, tra i tre e i quattro minuti, non si sbrodola troppo e l’insieme ne guadagna, ottime anche The Real Deal, con la solista sempre in modalità bottleneck e Raise Some Hell, una hard ballad elettroacustica dall’atmosfera sospesa, come pure Angel Eyes Of Blue, a tutto wah-wah, forse anche con talk-box inserito, “duretta” anziché no, e comunque sempre di fattura pregevole.

Tutta musica sentita mille volte ma se viene fatta bene, e questo è il caso, estremamente godibile, come conferma il rock made in the 70’s della energica Back On The Highway con pianino boogie, organo e le solite coriste a tirare la volata all’infoiata chitarra di Lopez, mentre la ritmica picchia di brutto; Blue Moon Rising è una delle rare ballate dell’album, peraltro riuscitissima, ambientazione sudista ed un arrangiamento raffinato e complesso, con la solista a punteggiare il mood del brano. E per concludere in bellezza un buon album di rock-blues energico ma, ripeto, ben fatt,o ecco Tell The Truth ancora con sventagliate di riff e soli dalla solista, non male Mister Lopez!

Bruno Conti

Prosegue La “Striscia” Del Blues. Popa Chubby – Two Dogs

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Popa Chubby – Two Dogs – earMusic/Edel

Popa Chubby o se preferite Ted Horowitz, visto che in teoria il nome d’arte dovrebbe appartenere al gruppo (come racconta lui stesso, attribuendo la paternità del nickname al grande tastierista di Parliament/Funkadelic Bernie Worrell), poi, per estensione, è ovvio che essendo Horowitz l’unico membro fisso della band, il nomignolo è rimasto legato a lui. Confesso che non saprei dirvi che numero sia questo nuovo album nella sua discografia, direi almeno 25 in circa altrettanti anni di carriera deve averli pubblicati. Come sempre i migliori sono i primi, e quelli dal vivo, ma Popa Chubby, a parte forse un paio di volte, con l’ex moglie Galea, non è mai andato sotto il livello di guardia, ed i suoi dischi sono sempre abbastanza soddisfacenti, con delle punte di eccellenza. Anche questo Two Dogs non devia dalla regola aurea del “Blues according to Popa Chubby”, che è stato anche il titolo di un suo disco: per l’occasione Horowitz ha inciso solo materiale originale (ma poi non ha resistito, e alla fine dell’album comunque ci sono un paio di cover di pregio). Dopo Catfish dello scorso anno http://discoclub.myblog.it/2016/11/19/il-solito-popa-chubby-the-catfish/ , il primo per la earMusic, quindi dai gatti si passa ai cani, ma il risultato di fondo non cambia: il tastierista è il “solito” Dave Keyes, un nome, una garanzia, da molti anni con il “Chubby”, per il resto, si segnala la presenza alla batteria di Sam Bryant, uno ha che suonato per diversi anni nella band di Kenny Wayne Shepherd, e quindi è abbastanza uso al blues-rock diciamo energico di Popa Chubby, che comunque incorpora anche da sempre elementi soul e R&B.

L’album si apre con It’s Alright, un classico pezzo blues alla Horowitz, chitarra fluida e pungente, un ritmo influenzato, come ricorda lo stesso Chubby nel filmato, dai vecchi ritmi Detroit della Motown, quel pop errebì gioioso che imperava negli anni ’60, con le tastiere di Keyes molto presenti a controbilanciare il lavoro della solista, uno dei suoi pezzi migliori degli ultimi anni; Rescue Me dovrebbe essere una vecchia canzone mai incisa in passato per svariati problemi, che questa volta trova la via del nuovo disco, altro brano positivo e vibrante, tra R&R e blues, a tutto riff, con la chitarra sempre pungente del nostro, mentre Preexisting Order un brano che verte sull’health care americana, ha un ritmo quasi da soul revue, con l’intervento di fiati rotondi a dare corpo ad un’altra canzone dove si respira un’aria musicale brillante e positiva. Sam Lay’s Pistol è un altro pezzo che viene dal passato, scritto con l’ex moglie Galea, narra le vicende incredibili e grottesche di Sam Lay, il vecchio batterista che fu con i grandi della Chess e del blues (pure con Butterfield Blues Band e quindi presente alla svolta elettrica di Dylan) che aveva l’abitudine di portare sempre con sé una pistola, con cui una volta si sparò per sbaglio, anche negli zebedei, brano leggero e piacevole ancora una volta, ma suonato con il solito piglio deciso che sembra caratterizzare questo Two Dogs;la cui title-track è un bel esempio del classico blues degli episodi più funky del nostro, giro rotondo di basso, ancora i fiati presenti e chitarrina insinuante con wah-wah in evidenza.

Niente male pure Dirty Old Blues un rock-blues tirato e brioso, con Popa Chubby che va alla grande di slide, un pezzo da “Instant Grat” lo definisce, e in effetti la gratificazione è immediata; e il groove è potente e coinvolgente anche nella successiva Shakedown, un wah-wah hendrixiano incontra un ritmo da Memphis e dintorni e il divertimento è assicurato. Wound Up Getting High è la preferita dello stesso Horowitz, una sorta di southern ballad, solo piano e chitarra acustica, con piccoli interventi dell’elettrica; Clayophus Dupree è il primo dei due strumentali del disco, dove si apprezza tutta la tecnica del nostro che è chitarrista di pregio e dal feeling unico, molto piacevole anche il lavoro dell’organo di Dave Keyes che fa molto Booker T & The Mg’s, mentre lo stesso Popa Chubby siede alla batteria, novello Al Jackson. Me Won’t Back Down  rientra nell’agone più funky-rock della musica del nostro, ma mi sembra uno degli episodi meno convincente del disco, al di là del solito buon lavoro al wah-wah, eecellente Chubby’s Boogie, l’altro pezzo strumentale dell’album, un tributo a Freddie King, ma pure con rimandi alla musica degli Allman Brothers, grazie alle twin guitars suonate dallo stesso Horowitz, notevole anche Keyes al piano, una delle migliori tracce del CD, che comunque segnala in generale un ritorno alla miglior forma del nostro. Come testimoniamo anche le due bonus tracks dal vivo poste in coda all’album: una Symphathy For The Devil, tratta dal tour di Big, Bad And Beautiful, con il classico brano degli Stones che riceve un trattamento Deluxe e una più intima e raccolta Hallelujah, il brano di Leonard Cohen via Jeff Buckley, solo per chitarra e piano, quasi dieci minuti per una versione molto sentita e commovente.

Bruno Conti

Anche Loro Sulle Strade Della California Rock. Supersonic Blues Machine – Californisoul

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Supersonic Blues Machine – Californisoul – Mascot/Provogue  

Capitolo secondo per il power rock trio formato da Lance Lopez, chitarra e voce, Fabrizio Grossi, basso e produttore del disco, nonché Kenny Aronoff alla batteria: se uniamo il titolo del disco, California e soul, e quello della band, che contiene comunque la parola blues al suo interno, e se aggiungiamo ancora rock, abbiamo una idea generale di cosa aspettarci. Come è politica abituale della Provogue nell’album ci sono vari ospiti, quattro in comune con il disco precedente del gruppo e uno “nuovo”: vi dico subito che non si raggiungono i livelli del recente album di duetti di Walter Trout (peraltro presente in un brano), che era veramente un disco notevole http://discoclub.myblog.it/2017/08/29/tutti-insieme-appassionatamente-difficile-fare-meglio-walter-trout-and-friends-were-all-in-this-together/ , ma il trio, californiano di adozione, con un texano, un italiano e un newyorkese in formazione, sa comunque regalarci del sano rock-blues, ogni tanto di grana grossa, anche pestato, sia pure con Aronoff  che lo fa con cognizione di causa grazie ai suoi trascorsi con Mellencamp e Fogerty, “moderno” e commerciale a tratti, per la presenza di Grossi che frequenta anche altri generi, con la guida della band affidata a Lopez, che è chitarrista di stampo Hendrix-vaughaniano, se mi passate il termine, e buon cantante, con una voce che, come ricordavo nella recensione del disco precedente West Of Flushing South Of Frisco,  ricorda molto quella di Popa Chubby http://discoclub.myblog.it/2016/02/26/rock-blues-buoni-risultati-esce-febbraio-supersonic-blues-machine-west-of-flushing-south-of-frisco/ .

Californisoul si apre con I Am Done Missing You, che ondeggia tra un classico blues-rock di stampo seventies, anche con uso di armonica, con elementi funky, reggae e coretti che cercano di strizzare l’occhio alle radio, mai senza sbracare troppo, insomma un tocco di modernità senza comunque adagiarsi a fondo nel conformismo della musica attuale, tutta uguale, e con Lopez che comincia subito a scaldare il suo wah-wah. Il primo ospite a presentarsi è Robben Ford, con il suo tocco raffinato e di gran classe, in un brano, Somebody’s Fool, che richiama certe cose vagamente alla Cream, con Grossi, che è l’autore di tutti i brani, che inserisce sempre qualche elemento più leggero e commerciale, ma le chitarre viaggiano alla grande, Lopez alla slide e Ford molto bluesy e tirato per i suoi standard abituali; L.O.V.E. ha ancora questa aura da Californisoul, con R&B e Rock che vanno a braccetto con il blues, di nuovo armonica e chitarre a guidare le danze, ma anche il groove non manca, e gli altri musicisti aggiunti, Alessandro Alessandroni Jr. alle tastiere (proprio lui, figlio d’arte del famoso “fischiatore dei Western di Morricone), Serge Simic, armonie vocali in Love” e “Hard Times”, come pure Andrea e Francis Benitez Grossi, danno quel tocco più radiofonico https://www.youtube.com/watch?v=wKnjRBk2Xjc . Broken Hart con Billy Gibbons alla seconda chitarra, potete immaginare come è, due texani nello stesso brano ed è subito southern rock a tutta forza, non si fanno prigionieri; Bad Boys, ancora con Lance Lopez a pigiare sul suo pedale wah-wah, attinge sia dall’Hendrix più nero come dalle band di funky-rock anni ’70, come conferma la successiva Elevate, questa volta con Eric Gales, altro hendrixiano doc, a duettare con Lopez in uno sciabordio frenetico di chitarre a manetta e cambi di tempo repentini (non so cosa ho detto, ma suona bene).

The One tenta anche la carta del latin-rock alla Santana, con discreti risultati, grazie anche ai soliti inserti soul, mentre Hard Times, con l’ex Toto Steve Lukather alla seconda solista aggiunta, nei suoi quasi otto minuti prova con successo la strada di un rock melodico, complesso, anche raffinato, costruito su un bel crescendo di questa rock ballad che gira attorno al grande lavoro dei vari musicisti coinvolti, e che finale! Cry è un bel lento che ruota attorno ad un piano elettrico e con il gruppo che costruisce lentamente l’atmosfera di questa sorta di preghiera laica; Stranger, di nuovo a tutto wah-wah, non allenta la tensione del rock tirato che domina questo Californisoul, che poi, grazie alla presenza di Walter Trout alla seconda chitarra, aumenta la quota blues (rock) in lento molto “atmosferico” e con le soliste che lavorano veramente di fino. Thank You, con una sezione fiati che sbuca dal nulla e i ritmi decisamente reggae di This is Love, mi sembrano canzoni meno centrate, al di là del solito buon lavoro della solista di Lopez, ma secondo il mio gusto personale abbassano il livello medio di un album complessivamente buono e destinato soprattutto a chi ama il rock energico e chitarristico.

Bruno Conti

Il “Solito” Popa Chubby, E Basta -The Catfish

popa chubby the catfish

Popa Chubby – The Catfish – earMUSIC/Edel

Il “Pesce gatto” in un certo senso è il re dei pesci di acqua dolce, soprattutto dei fiumi e dei laghi americani, ma è anche una delle figure ricorrenti in alcune delle iconografie classiche del Blues, e per Popa Chubby che si è autoproclamato “The King Of The New York City Blues” era quasi inevitabile che prima o poi si arrivasse a questo titolo. E il nostro amico Ted Horowitz lo fa in quello che è il suo esordio per una nuova etichetta discografica, la earMUSIC, che si avvicenda alla Dixiefrog e alla Blind Pig, oltre alla Provogue che per un paio di album aveva distribuito i prodotti dell’artista americano. The Catfish arriva dopo il buon doppio dal vivo dello scorso anno Big, Bad and Beautiful ed il precedente I’m Feelin’ Lucky (The Blues According To Popa Chubby), un album dai risultati altalenanti almeno per il sottoscritto, dopo le buone prove per la Provogue. Devo dire che ad un primo ascolto questo album non mi aveva convinto del tutto, ma poi risentito a volumi consoni, cioè alti, tutto comincia, almeno nella prima parte, ad assumere un senso: dalla scarica di adrenalina del vigoroso funky-blues-rock dell’iniziale Going Downtown, con wah-wah a tutta manetta e la sezione ritmica Matt Lapham, basso e Dave Moore, batteria che ci dà dentro di brutto, all’altrettanto virulenta Good Thing che qualcuno ha voluto accostare al funky di Prince, ma secondo chi scrive si avvicina più a quello classico di Sly & Family Stone o al limite dei Parliament/Funkadelic, con decise galoppate della solista del Popa che maltratta di gusto la sua chitarra, ben coadiuvato anche dal piano del bravo tastierista Dave Keyes.

Anche la versione reggae e strumentale del famoso classico degli Everly BrothersBye Bye Love al primo giro non mi aveva acchiappato subito, mi era parsa pacchiana, ma ai giusti volumi si gusta il suono rotondo e corposo del basso, le accelerazioni della batteria e soprattutto della solista di Popa Chubby che si diverte un mondo a rifare questa piccola perla del primo rock. Cry Till It’s A Dull Ache ha qualche retrogusto del suono Muscle Shoals che usciva dai dischi soul della Memphis dell’epoca dorata, mista alle solite energiche folate del blues chitarristico del musicista newyorkese, ben sostenuto anche dalle tastiere di Keyes che in tutto il disco aggiungono piccole coloriture extra al solito sound da power trio. In Wes Is More il nostro amico addirittura si cimenta con il jazz after hours del grande Wes Montgomery, in un brano felpato ed inconsueto dove si apprezza tutta la perizia tecnica di Chubby e soci. Motorhead Saved My Life è un brano “duretto” anziché no (anche se non come potrebbe far pensare il titolo) dove Horowitz rende omaggio ad uno degli “eroi” musicali” della sua formazione musicale giovanile, Lemmy, già coverizzato in passato con una versione di Ace Of Spades che era su The Fight Is On, e qui trattato con un impeto più garage che metal, per quanto energico.

Il brano migliore di questo The Catfish è probabilmente un intenso slow intitolato Blues For Charlie, dove Popa Chubby rende omaggio alle vittime degli attentati di Parigi, capitale di quella che è ormai diventata la sua seconda patria, la Francia, il pezzo è splendido, uno strumentale intenso e lancinante, dove il nostro amico esplora con grande tecnica e feeling il manico delle sue chitarre (qui raddoppiate) per una delle migliori performances della sua carriera discografica, veramente un grande blues. Dirty Diesel è un onesto pezzo rock con qualche deriva hendrixiana, quello più selvaggio dei singoli iniziali, anche se da quelle parti eravamo su un altro pianeta, ma l’amico si impegna e poi ci stupisce in uno strano urban jazz quasi Davisiano, dove la figlia Tipitina è impegnata alla tromba con la sordina, in quello che è un esperimento riuscito a metà, una fusione tra hip-hop e jazz che non mi convince del tutto. Last Time Blues è un piacevole blues con uso di organo, che non resterà negli annali della storia del genere, mentre la title-track racconta la storia del re del fiume, il Pesce gatto, con un brano dal vago sentore southern, anche in questo caso buono ma non memorabile. Il finale è affidato ad una cover acustica di C’Mon In My Kitchen, dove Popa Chubby si esibisce al dobro, ben supportato dal piano di Keyes buona versione ma anche in questo caso niente per cui strapparsi le vesti. Insomma, per riassumere, il disco parte molto bene, ha alcune punte di eccellenza e poi si smorza un po’ nel finale, ma nel complesso è onesto e positivo, il “solito Popa Chubby (vedasi titolo del Post sugli Stones)!

Bruno Conti

Ancora Una “Giovane” Promessa Del Blues Elettrico: Corey Dennison Band

corey dennison band

Corey Dennison Band – Corey Dennison Band – Delmark Records 

Ultimamente anche la Delmark (a parte le splendide ripubblicazioni di alcuni titoli cruciali del loro catalogo, vedasi Black Magic di Magic Sam http://discoclub.myblog.it/tag/magic-sam/), sembra avere ripreso a mettere sotto contratto nuovi nomi della scena musicale blues, come fanno le rivali Alligator, Telarc, Delta Groove e altre, così dopo il recente disco di Guy King Truth, ecco un altro “giovane” talento della chitarra messo sotto contratto dall’etichetta di Chicago. Il nostro amico, che dalle foto e dai filmati sembra un “energumeno” tatuato, con i capelli rasati e dall’aspetto poco raccomandabile, uno che francamente avrei paura ad incontrare di sera in qualche vicolo sperduto, una specie di fratello separato alla nascita di Popa Chubby. Pero sul palco (e su disco) suona, ragazzi se suona, e canta pure bene. Giovane nel blues è sempre un termine abbastanza relativo, lui racconta di avere fatto una gavetta di almeno una dozzina di anni nella band di Carl Weathersby, altro eccellente chitarrista blues, e di essere cresciuto ascoltando i dischi della collezione di suo padre, prima Gatemouth Brown, Albert King e Albert Collins, poi la scoperta del soul con Wilson Pickett, Curtis Mayfield e Sam Cooke (ognuno ha i suoi preferiti), l’esordio solista avviene con un Live in Chicago distribuito a livello locale (che non mi dispiacerebbe sentire, perché i dischi dal vivo hanno sempre qualcosa di speciale) e ora questo Corey Dennison Band che è il suo esordio di studio.

Dennison è nativo di Chattanooga, Tennessee e ha sempre vissuto tra Tennessee e Georgia, prima di trasferirsi a Chicago, quindi anche la musica del Sud fa sentire la sua presenza in questo esordio. Non vi so dare molte informazioni sugli altri musicisti che suonano nel CD, a parte i nomi, Gerry Hundt alla seconda chitarra, come da tradizione delle band di blues elettrico classico, Nicholas Skilnick al basso e Joel Baer alla batteria.. Sono 13 brani, poco meno di un’ora, che si aprono con il turgido e cadenzato funky-rock-blues dell’iniziale Getcha’ Pull, dove la voce negroide di Corey Dennison fa da apripista al sound tirato della sua Gibson Les Paul che inizia a disegnare  linee sinuose e ricorrenti, mentre basso e batteria vanno di groove alla grande; Tugboat Blues è subito il classico shuffle Chicago Style che difficilmente manca in un disco targato Delmark , ma ricorda anche il classico battito del vecchio British Blues targato fine anni ’60, con il suono “economico” ma vibrante della chitarra di Corey, che torna al funky-soul per la mossa e divertente The Deacon, sempre con la chitarra ben delineata in quel suo alternarsi di riff e lick solisti. Room To Breathe è una sorta di soul ballad, con il cantato di Dennison che si rifà ai grandi citati prima, sullo sfondo si sente anche un organo, che aggiunge il classico tocco sudista ad un brano di ottima fattura, mentre la solista lavora di fino; City Lights, con l’aggiunta dei fiati e un bel R&B deciso e godibile.

She’s No Good va quasi di boogie, con una strana tonalità di chitarra, ma prende meno di altri brani, seguita da una Aw, Snap! che avrebbe fatto la gioia di Wilson Pickett, ma anche dell’Albert King più errebi. Don’t Say You’re Sorry è di nuovo soul music, di quella buona, grazie anche ai coretti del call and response nel corpo del brano, con la chitarra sempre presente e mai sopra le righe, qui il rock-blues sembra bandito, ma lo slow blues torrido ed intenso non può certamente mancare e allora vai con A Fool’s Goodbye, tipologia già sentita obietterà qualcuno, ma se ben eseguita, come nel caso, sempre gradita. Di nuovo shuffle time con Jasper’s Hop, altro classico del Chicago blues, lo strumentale, per dare modo alla band di sfogare le proprie velleità soliste, e qui si apprezza anche il tocco di Gerry Hundt che risponde colpo su colpo ai soli di Dennison. Altro gran brano risponde alla atmosferica serenità di Shame On Me, dove i tempi sono più dilatati e ricchi di improvvisazione, i due Albert, King e Collins, avrebbero approvato. Strange Things Happenin’ ha il suono di classici chitarristi di scuola Delmark come Magic Sam o Jimmy Dawkins, aspra e ritmata come il Chicago sound richiede, e per concludere un altro boogie blues intenso e corale come Good Enuff, con Corey Dennison che si prende il suo tempo alla solista. Un ottimo esordio per questo “giovanottone” che i 40 anni però li ha già passati, anche se per il Blues rimane un poppante: se volete verificare, in rete c’è un bellissimo concerto di circa 4 ore girato in occasione appunto del suo 40° compleanno  https://gigity.tv/event/106725.

Bruno Conti

Di Nuovo Musicisti In Crociera! Mitch Woods – Jammin’ On The High Cs Live

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Mitch Woods – Jammin’ On The High Cs  Live – Club 88 Records 

Tornano i dischi registrati nella famosa Legendary Rhythm & Blues Cruise, ovvero un gruppo di musicisti, in questo caso blues, che si divertono come disperati mentre sono in crociera. E allo stesso tempo i passeggeri di queste “Love Boat” dei giorni nostri, e noi che li ascoltiamo a distanza di qualche mese su disco, ci divertiamo moltissimo ad ascoltare l’interscambio e la voglia di jammare che traspare da queste esibizioni. Ricordo CD di Tommy Castro http://discoclub.myblog.it/2011/06/15/ma-allora-e-un-vizio-quelle-delle-crociere-tommy-castro-pres/ , Joe Louis Walker e Elvin Bishop http://discoclub.myblog.it/2011/05/21/tutti-in-crociera-elvin-bishop-raisin-hell-revue/ registrati in queste occasioni, ai quali si aggiunge ora questo Jammin’ On The High Cs del cantante e pianista newyorkese Mitch Woods con i suoi Club 88.

Woods, nel suo fluido e fluente boogie woogie misto a jump blues ha sempre inserito anche elementi di New Orleans style e di r&B e soul di Memphis, che non mancano anche in questa nuova avventura dove il nostro è circondato da una truppa di amici di grande valore: Billy Branch, Tommy Castro, Popa Chubby, Coco Montoya, Lucky Peterson, Victor Wainwright, membri sparsi dei Roomful Of Blues e Dwayne Dopsie, forse il meno noto del gruppo. Il risultato è ovviamente estremamente godibile e piacevole: si parte con una Big Mamou, boogie fiatistico e scatenato dove Mitch Woods è accompagnato da alcuni Roomful Of Blues e sembra di ascoltare il miglior Fats Domino con tromba, sax e piano che si alternano alla guida delle danze. Tain’t Nobody’s Bizness vira su atmosfere swing notturne e calde, con Victor Wainwright e Julia Magness (non credo sia parente di Janiva, questa è una cantante gospel-blues texana) accompagnati solo dal piano si rievocano addirittura tinte sonore alla Bessie Smith; Rip It Up è proprio quella di Little Richard, grande R&R con la voce e la chitarra di Tommy Castro, titillate di nuovo dai fiati dei Roomful e dal piano di Woods.

Tra un intermezzo e una rimembranza sulla nascita del Club 88, fondato dallo stesso Mitch nelle sue prime crociere, si arriva ad un grande blues come Brights Lights, Big City dove l’ospite è l’ottimo Lucky Peterson, mentre Dwayne Dopsie con la sua fisarmonica aggiunge una abbondante quota zydeco ad una vorticosa versione di Jambalaya. Eccellente la torrida rilettura di Eyesight To The Blind, uno dei classici assoluti del blues di Chicago, con Billy Branch all’armonica, Woods al piano e una chitarra di supporto, non serve altro. A questo punto arriva un inconsueto Popa Chubby in veste jump blues per una frizzante I Want You To Be My Baby e a seguire Coco Montoya con Rock Me Baby, in omaggio al grande B.B. King Di nuovo Victor Wainwright in modalità boogie/rockabilly con gli 88 tasti in festa per una brillante Wine Spoo Dee O Dee e Woods che risponde da par suo con una vellutata Broke, prima di richiamare sul palco Billy Branch e Coco Montoya per un terzetto in onore di Boom Boom del grande Hook. E di nuovo un rilassato e divertito Popa Chubby alle prese con Wee Wee Hours, prima di lasciare microfono e proscenio al padrone di casa che accompagnato nuovamente da Dwayne Dopsie alla fisa si cimenta con uno dei classici assoluti del R&R come Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, dove le mani volano sulla tastiera.

Disco divertente e senza grandi pretese: a fine mese si replica con un nuovo capitolo dedicato a Buddy Miller e ai suoi amici. Lo trovate nei prossimi giorni nelle anticipazioni sulle uscite di gennaio, penso a partire da domani.

Bruno Conti