Con O Senza Rumour Continua Il Suo “Magico” Ritorno. Graham Parker – Cloud Symbols

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Graham Parker – Cloud Symbols – 100% Records

Da quando nel 2012, sempre sotto la spinta del regista americano Judd Apatow, Graham Parker ha deciso di riunire i Rumour, il musicista londinese (anche se lo si può quasi considerare naturalizzato americano, vista la lunga residenza negli States) sta vivendo una sorta di seconda o terza giovinezza a livello artistico. Il musicista “incazzato” degli anni ’70 è forse un lontano ricordo (benché anche nei dischi americani degli anni ’80 e ’90 non le mandava certo a dire, e qualche sprazzo “cattivo” pure nei noughties), ma Parker ora è un signore di 68 anni, compiuti a novembre, che sembra avere trovato una sorta di serenità e saggezza che forse non pareggia la grinta e la forza travolgente dei suoi anni migliori a livello musicale, ma ne evidenzia altri aspetti meno dirompenti, pur confermando la classe e l’abilità di un musicista che non è mai sceso a compromessi con l’industria discografica, ma ha saputo insinuarsi nelle sue pieghe per evidenziarne le magagne: un brano come Mercury Poisoning, dedicato alla sua etichetta discografica dell’epoca, è sintomatico in questo senso https://www.youtube.com/watch?v=YGWK_hvGgkU . Forse i dischi di Graham Parker non dicono più niente di nuovo da molto tempo (ma se il “nuovo” è il 99% di quello che impera al momento, preferisco il vecchio), però il nostro amico non ha perso quel suo tocco “magico”, l’abilità sopraffina di scrivere una canzone, partendo magari da un riff sentito mille volte, che ogni volta però rinnova la gioia del vero appassionato, anche nostalgico, verso una musica che profuma da sempre di soul, di rock classico ( i paragoni con Van Morrison, con gli Stones, con il suo quasi contemporaneo Elvis Costello, non erano fatti a caso), di belle melodie, di una voce che forse non è memorabile, ma è unica ed immediatamente riconoscibile nella sua vena ironica e sardonica, mai dimenticata, anche nei momenti più bui, in cui l’ispirazione sembrava averlo in parte lasciato, o forse non era più fervida come un tempo.

Si diceva di Judd Apatow, il regista, produttore e sceneggiatore, autore soprattutto di commedie, probabilmente non memorabili, ma provvisto dei giusti agganci nell’industria cinematografica, anche con le nuove frontiere di Netflix e delle televisioni via cavo tipo HBO, i cui film hanno comunque avuto sempre buoni riscontri economici e che sembra avere preso a cuore le sorti della carriera di Parker, coinvolgendolo nei suoi film, a partire da This Is 40 https://www.youtube.com/watch?v=1Ob24VlDhMQche incorporava nella propria trama anche la storia della reunion di Parker con i Rumour per registrare Three Chords Good https://discoclub.myblog.it/2012/12/03/di-nuovo-insieme-graham-parker-the-rumour-three-chords-good/ . Ora, dopo l’uscita dell’ancora eccellente Mystery Glue del 2015 https://discoclub.myblog.it/2015/05/19/il-disco-del-giorno-forse-del-mese-graham-parker-the-rumour-mystery-glue/ , Graham ha di fatto concluso l’avventura con la sua vecchia band (mantenendo però Martin Belmont come chitarrista) e contattato nuovamente da Apatow che gli chiedeva nuovi brani da usare nella sua serie Love su Netflix, ha messo mano alla penna e ha firmato, un po’ riluttante all’inizio ma poi convinto, undici nuovi gioiellini per questo Cloud Symbols. Una sorta di concept album che è la storia di un uomo virtuale, diciamo diversamente giovane (lo stesso Graham, che è protagonista, con altri “giovanotti”, dei video del disco), che cerca di districarsi con le nuove tecnologie, e attraverso una serie di deliziosi quadretti sonori ne racconta le vicende: uno che guarda le previsioni del tempo sul suo smartphone, per sapere che tempo fa a Roma o Los Angeles e ne ricava sensazioni divertite e divertenti in Is The Sun Out Anywhere, o si dedica al sesso orale nei doppi sensi di Brushes, oppure ancora glorifica le gioie dell’ubriacarsi in Bathtub Gin.

A livello musicale Parker si è affidato al “nuovo” gruppo dei Goldtops: oltre al citato Belmont, troviamo un altro veterano come Geraint Watkins, in pista come tastierista dagl ianni ’70, nel pub-rock dei Racing Cars, ma anche con Nick Lowe, Dave Edmunds, Willie & the Poor Boys, perfino Rory Gallagher, se c’era bisogno di una fisarmonica, nonché una sezione ritmica composta da Roy Dodds (Mary Coughlan, Eddie Reader, ed altre eroine del folk-rock britannico) alla batteria, e da Simon Edwards (Mary Coughlan, Talk Talk, Billy Bragg) al basso. Senza dimenticare il ritorno dei Rumour Brass, ovvero la sezione fiati che suonava in alcuni dei primi dischi a nome Graham Parker & The Rumour, a partire da Heat Treatment in avanti, non sempre gli stessi, questa volta ci sono Ray Beavis, Dick Hanson e Toby Glucklhorn; con la produzione affidata a Neil Brockbank, il gestore dei Goldtops Studios di Londra, a lungo collaboratore di Nick Lowe, scomparso poco dopo il completamento del disco, e che viene ringraziato nelle note del CD. Quindi un disco dal suono “transatlantico” come sempre: il sound mescola abilmente lo spirito del pop-rock britannico, con soul, r&b e folk americani, grazie alle melodie senza tempo delle canzoni del nostro amico. Dal soul-rock swingante e confortevole come un vecchio calzino dell’iniziale irresistibile Girl In Need, che divide con il grande Van The Man una passione (in)sana per la musica nera più classica americana, con il piedino che non può stare fermo, mentre i fiati all’unisono ci deliziano e organo e armonie vocali sono da goduria pura. L’abbiamo sentito mille volte, ma pochi lo sanno fare così bene. Ancient Past rallenta i tempi e richiama i fasti di vecchi e nuovi Dandy del pop inglese, da Ray Davies a Damon Albarn, con quel fare e pigro ed indolente tipico dei figli e nipoti del vecchio impero britannico, 2:12 ed è già finito, Ma tutti i brani sono particolarmente stringati, l’album dura in tutto 31 minuti. Anche la divertente Brushes ci riporta ai suoni gloriosi dei primi Rumour, altre facce ma stessa musica, per vecchi fan, ma anche i novizi possono goderla con piacere.

Anche Dreamin’, che fa rima con streamin’, ha quel drive tipico dei brani di Parker, con piano e trombone che gli danno quell’aria un po demodé, mentre Is The Sun Out Aniwhere è una di quelle ballate malinconiche e struggenti in cui il musicista britannico eccelle, un suo marchio di fabbrica, con versi e musica che tratteggiano in modo unico una storia d’amore senza tempo, e con i suoi musicisti che pennellano note con classe sopraffina. In Every Saturday Nite tornano i fiati per una riflessione sulle cose che ci piacciono (ma anche no) in una serata nel fine settimana, con quel suo suono abituale che se non ha più la verve e la grinta dei tempi che furono, lo sostituisce con una classe e una souplesse tipica dei (quasi) fuoriclasse. Maida Hill, altra ballatona dall’aria soffusa, è un ennesimo tuffo in quella Londra che sta scomparendo lentamente, ma non se ne vuole andare, fino a che ci sarà qualcuno che ne canterà la storia; Bathtub Gin, tra shuffle e swing jazz, ha sempre questa aria un po’ agée di una musica forse solo per vecchi nostalgici, ma non per questo priva di un proprio fascino, tipica di chi non vuole nascondere che le 70 primavere si avvicinano e non è il caso di fare i finti giovani. Anche se i ricordi del vecchio R&R e del pub rock dei tempi che furono sono ancora in grado di affiorare come nella mossa e brillante Nothin’ From You, ma d’altronde bisogna fare i conti con l’anagrafe e quindi What Happens When Her Beauty Fades?  Semplice: ce la cantiamo allegramente, con fiati, chitarre e ritmi errebì a manetta, come se non ci fosse futuro, ma dal cilindro qualche coniglio lo caviamo ancora. Anche se poi la malinconia ci attanaglia ancora, grazie allo struggente suono della melodica di Geraint Watkins che ci ricorda che le tenerezze di Love Comes, forse non sono solo sdolcinate, Finché qualcuno gli darà credito Graham Parker non deluderà le aspettative dei suoi ammiratori.

Bruno Conti

Un’Abbondante Ed Ottima Colazione A Base Di Uova E Musica! Eggs Over Easy – Good’n’Cheap: The Eggs Over Easy Story

Eggs Over Easy Good 'N' Cheap The Story

Eggs Over Easy – Good’n’Cheap: The Eggs Over Easy Story – Yep Rock 2CD

Il mondo della musica rock è pieno di solisti o gruppi sconosciuti al grande pubblico o che non hanno mai neppure minimamente assaporato il successo, i classici artisti di culto, ma tra questi credo che un posto molto in alto in un’ideale classifica spetti senz’altro agli Eggs Over Easy, combo americano attivo perlopiù in Inghilterra all’inizio degli anni settanta, che, pur avendo di fatto inventato un genere e quindi influenzato una lunga serie di musicisti in gran parte britannici, ha inciso molto poco e venduto ancora meno, sebbene il loro album di debutto sia ancora oggi considerato un disco di riferimento. Ma andiamo con ordine: gli Eggs Over Easy (termine che sta a significare l’uovo fritto in padella da entrambi i lati, in contrapposizione con il sunny side up che è fritto da un lato solo, e quindi con i tuorli in bella vista) si formarono nel 1969 a New York per iniziativa del chitarrista Jack O’Hara e del pianista Austin De Lone (che si erano conosciuti a Berkeley), ai quali si unì presto il polistrumentista Brien Hopkins; il trio cominciò a farsi le ossa nei bar e club di New York e dintorni, fino a quando non furono notati da tale Peter Kauff che li spedì a Londra a registrare sotto la supervisione nientemeno che di Chas Chandler, ex bassista degli Animals e produttore/manager di Jimi Hendrix, con alla batteria prima Les Sampson e poi John Steel (un altro ex Animals), che divenne membro aggiunto del gruppo. Qualcosa però andò storto, più che altro per problemi legati alla casa di produzione cinematografica Cannon Films che patrocinava le sessions (dato che voleva entrare anche nel mondo della musica), ed il disco non vide mai la luce.

Nonostante la delusione, gli EOE restarono un altro po’ a Londra, esibendosi con regolarità nei pub della città e suonando il loro repertorio fatto di cover ma anche di un gran numero di brani originali, in uno stile molto diretto che mischiava rock, pop, country e soul, attirando le attenzioni di giovani che poi sarebbero diventati musicisti famosi come Nick Lowe, Brinsley Schwarz, Elvis Costello e Graham Parker, ed inventando di fatto il “pub rock”. Tornati a New York, i tre (questa volta con Bill Franz alla batteria) ci ritentarono, incidendo un intero LP con canzoni diverse da quelle di Londra, sotto la produzione di un’altra leggenda, Link Wray, ed il disco che ne uscì, Good’n’Cheap, venne finalmente pubblicato dalla A&M nel 1972, purtroppo di nuovo nell’indifferenza generale. Ma chi doveva notarlo lo fece, e Good’n’Cheap diventò presto un disco di culto e considerato una pietra miliare del pub rock, influenzando non solo i quattro musicisti che ho citato prima, ma anche Dave Edmunds, i Dr. Feelgood di Wilko Johnson ed anche l’americano Huey Lewis (* NDB. Tramite i Clover di Alex Call, altra band da riscoprire, all’opera anche nel primo disco di Costello, My Aim Is True). Ma si sa, l’insuccesso è una brutta bestia, e dopo aver passato il 1973 a supportare in tour gruppi come Eagles e Yes (un po’ distanti dalla loro filosofia, specie i secondi), gli EOE di fatto restarono inattivi per il resto della decade, pubblicando solo un singolo nel 1976 per un’etichetta, la Buffalo Records, che fallì nello stesso momento in cui il 45 giri venne immesso sul mercato.

eggs over easy fear of frying

Poi, dal nulla, nel 1981 (stavolta alla batteria c’era Greg Dewey) i tre fecero uscire il loro secondo album, Fear Of Frying, prodotto stavolta dal noto tastierista e cantante Lee Michaels, un buon disco anche se inferiore al predecessore, e che ebbe ancor minore impatto, convincendoli definitivamente che forse non era il caso di proseguire (e anche qui la casa discografica, la Squish Records, fallì poco dopo, pure sfigati i ragazzi). In seguito, De Lone rimase quello più attivo musicalmente (si fa per dire), con un solo album da solista nel 1991, De Lone At Last, peraltro bellissimo e con una strepitosa cover di Visions Of Johanna di Bob Dylan  , ed un altro disco in coppia con Bill Kirchen, ex chitarrista dei Commander Cody (oltre a fare il sessionman per Bonnie Raitt, Elvis Costello ed altri), mentre sia O’Hara che Hopkins (il quale passò a miglior vita nel 2007) rimasero piuttosto ai margini dell’industria musicale. Industria che oggi (nello specifico la Yep Roc, con distribuzione Universal negli USA), e direi finalmente, paga il proprio debito verso una delle band più sottovalutate della storia, pubblicando questo Good’Cheap: The Eggs Over Easy Story (per il titolo non si sono spremuti molto), un doppio CD che ha il solo difetto di costare parecchio, ma che ci presenta in un colpo solo tutto ciò che il gruppo ha inciso nella sua breve carriera, comprese le mitiche sessions londinesi. Chiaramente la parte del leone la fa Good’n’Cheap (rimasterizzato benissimo), un disco che ancora oggi suona fresco ed attuale, una miscela davvero superlativa di rock, country, blues, soul e pop, suonato con la tecnica e la raffinatezza di un gruppo di veterani ma con l’energia di una garage band. Undici canzoni che spaziano a largo raggio nei meandri della musica americana, un album che da solo, per chi ancora non ce l’ha, vale l’acquisto di questa antologia (ed era bella pure la copertina, un adattamento del capolavoro di Edward Hopper Nighthawks, quadro che ha ispirato anche Tom Waits per il suo Nighthawks At The Diner), a cominciare dalla splendida Party Party, una canzone pianistica dalla melodia anni sessanta, ritmo acceso ed ottime armonie vocali, subito seguita da Arkansas, una country song un po’ sbilenca ma di grande fascino, e dalla bellissima Henry Morgan, che in tutto e per tutto sembra un brano di The Band, ancora con il magnifico pianoforte di De Lone a condurre le danze.

The Factory è un soul urbano diretto e roccato, suonato davvero da Dio, la liquida Face Down In The Meadow presenta echi di errebi bianco tipico di gruppi come Animals e Box Tops, la squisita Home To You è un pop-rock di gran classe, mentre la limpida Song Is Born Of Riff And Tongue è una toccante ballata country con una bella chitarra messicaneggiante. Per finire addirittura in crescendo con la scintillante Don’t Let Nobody, un rock tinto di errebi molto trascinante, lo stupendo country-rock Runnin’ Down To Memphis, ancora guidato da un piano fantastico, la nitida Pistol On A Shelf, uno slow coi controfiocchi (ancora con The Band in mente) ed il rock’n’roll Night Flight, con echi quasi bowiani. Poi abbiamo il rarissimo singolo del ’76, che comprende il rockabilly I’m Gonna Put A Bar In The Back Of My Car (And Drive Myself To Drink), bel titolo non c’è che dire, e ancora con un pianoforte da urlo, e la divertita Horny Old Lady, un honky-tonk d’altri tempi ma dal tasso alcolico elevato.

Chiudono il primo CD le undici canzoni di Fear Of Frying, un lavoro più che dignitoso, con alcune zampate ed altre canzoni più normali, e che comunque ci regala un’altra mezz’ora abbondante di piacevole ascolto. Tra gli highlights abbiamo la tesa Scene Of The Crime, l’orecchiabile folk-rock Forget About It, la bellissima e corale Louise, che non avrebbe sfigurato su Good’n’Cheap, l’ottimo soul annerito You Lied, la solare, alla Jimmy Buffett, Driftin’ e la ruspante Mover’s Lament, con Hopkins che sia vocalmente che come stile ricorda non poco Levon Helm. Il secondo CD dura molto meno, ha solo dodici canzoni, ma sono quelle del famoso disco prodotto da Chandler nel 1971 e mai pubblicato, un album fatto e finito che già faceva intravedere il talento dei ragazzi (ed i brani sono tutti inediti, nessuno di questi è mai stato ripreso in seguito), anche se, col senno di poi, forse questo LP non avrebbe avuto lo stesso impatto di Godd’n’Cheap, che era obiettivamente superiore. Comunque la buona musica non manca di certo, a partire dalla bellissima Goin’ To Canada, un country-rock dalla melodia corale strepitosa ed accompagnamento di prima qualità, seguita a ruota da I Can Call You, molto diversa, quasi interiore ma comunque degna di nota, e dalle vivaci Right On Roger e Country Waltz, entrambe quasi beatlesiane (la seconda molto di più). Give Me What’s Mine e Waiting For My Ship sono entrambe gradevoli ma un gradino sotto, mentre Across From Me ha ancora elementi del gruppo di Robbie Robertson, ed è valida; January è un po’ irrisolta, ma non disprezzabile, mentre la countreggiante e pianistica Give And Take è semplicemente deliziosa. Il CD termina con la robusta Funky But Clean, la tenue I’m Still The Same (che però ha più l’aspetto di un demo) e la jazzata e raffinata 111 Avenue C, tra le più interessanti.

Nonostante il costo non proprio basso, una ristampa che non dovrebbe mancare nella collezione di chiunque legga questo blog abitualmente (ma neanche in quella degli occasionali!), in quanto ha il merito di mettere finalmente sotto i riflettori un gruppo troppo a lungo ignorato.

Voi pensate al pane ed al succo d’arancia: le uova le portano loro!

Marco Verdi

Il Disco Del Giorno (E Forse Del Mese)! Graham Parker & The Rumour – Mystery Glue

graham parker mystery glue

Graham Parker & The Rumour – Mystery Glue – Cadet Concept/Universal

Oggi esce in Italia e in molti altri paesi (europei ed americani) Mystery Glue, il nuovo album di Graham Parker & The Rumour, il secondo dopo la reunion del musicista di Londra con la sua band storica, sancita nel novembre del 2012 dall’uscita dell’ottimo Three Chords Good http://discoclub.myblog.it/2012/12/03/di-nuovo-insieme-graham-parker-the-rumour-three-chords-good/ e dalla partecipazione alla colonna e al film di Judd Apatow This Is 40. Il disco ha avuto un buon successo di critica e di pubblico e quindi i 6 hanno deciso di dare un seguito a quell’esperienza. Parker, da anni residente a New York, in quella città ha scritto una serie di canzoni che poi, in compagnia della sua band, sono state registrate in soli sei giorni nei leggendari studi Rak a Londra, a conferma che l’ispirazione non ha mai abbandonato l’occhioluto e incazzoso musicista, forse solo leggemente ammorbidito dal passare dagli anni (anche per lui sono quasi 65), comunque sempre caustico ed ironico nei suoi testi, e con una voce che rimane praticamente identica a quella che nel 1976 aveva fatto esclamare, con felice espressione, al collega americano Springsteen: “E’ una di quelle voci “cuts through the bullshit” (difficile da tradurre, forse potremmo dire, che dà un taglio alle stronzate!) https://www.youtube.com/watch?v=01AeQYuXcIE . Per l’occasione la Universal, la major che cura la distribuzione del disco, ha riattivato una delle etichette storiche del suo catalogo, la Cadet, diciamo il ramo bianco della “nerissima” e prestigiosa Chess Records.

Forse avrete già letto recensioni anche contrastanti di questo album, e ogni parere è rispettabile, ma non mi sento di convidere chi lo ha considerato un disco “minore” di Parker, anzi per il sottoscritto è uno dei suoi migliori (esclusi i primi), è il nostro amico Graham, da solo e con i Rumour, ne ha fatti moltissimi che hanno sfiorato e anche raggiunto lo status del capolavoro, soprattutto nei primi 5 anni della sua carriera, album come Howlin’ Wind, Heat Treatment, Squeezing Out Parks rimangono delle pietre miliari nella loro fusione di R&R, soul, reggae, canzone d’autore e pop eccelso, cantate con una voce che univa la classe di Van Morrison, con la forza del primo Springsteen e dell’immancabile ed amato Dylan, e l’aggiunta di tocchi dei grandi cantanti soul del passato. Si tratta, come si diceva poc’anzi, di un disco più morbido del precedente, un disco soprattutto di ballate elettriche, arricchito da citazioni del miglior pop britannico ed americano, quello più raffinato e geniale, impreziosito dalla sempre impeccabile esecuzione dei Rumour, una delle migliori band che abbiano mai calcato i palcoscenici di tutto il mondo, Bob Andrews, Brinsley Schwarz, Martin Belmont, Andrew Bodnar e Stephen Goulding, non hanno perso una briciola della loro classe, come possiamo verificare ascoltando i dodici brani che compongono questo Mystery Glue. Titolo ispirato da un astrofisico svizzero degli anni ’30 del secolo scorso, tale Fritz Zwicky, che nel parlare della “materia oscura”, forse per errore e nelle parole di Parker, definì questa sostanza che teneva insieme l’universo una “colla misteriosa”. Forse la storia non è vera, ma sicuramente affascinante e al solito Parker coniuga la sua visione del rock all’interno di questa colla che tiene insieme tutta la sua musica.

I due brani iniziali, Transit Of Venus e Going There, sono classico Parker, con l’organo di Andrews e le chitarre acustiche ed elettriche, spalmate a strati sul tessuto melodico dei brani, che permettono alla voce di Graham di essere melliflua e partecipe, morbidamente malinconica come nelle migliori ballate della sua tradizione, ci sono anche richiami al pop classico di Kinks e Beatles, soprattutto nel secondo brano, deliziosamente retrò nella sua andatura lineare, nei piccoli tocchi di genio strumentali, negli immancabili coretti che non mancano mai nei suoi pezzi. Wall Of Grace è leggermente più mossa e qui, se proprio vogliamo fare una critica, i coretti sono un tantinello scontati, ma i Rumour suonano sempre divinamente e il tocco del wah-wah nella parte finale del disco dimostra una attenzione ai particolari sempre curatissima, mentre Swing State accelera ancora leggermente i tempi e si scorgono vibrazioni vicine al vecchio pub-rock delle origini, con tanto di citazione reggae nella parte centrale e accenni quasi rock and roll, con il magico organo di Andrews ancora in evidenza. Slow News Days ci riporta al Parker caustico degli anni ’70 (una caratteristica che non ha mai perso), quello che era un fustigatore dei costumi dell’epoca, una sorta di Dylan o Ray Davies a cavallo tra rock e canzone d’autore, anche in questo brano i piaceri sonori sono più sottili e meno immediati, ma non per questo meno godibili, un suo brano, sarà per la voce, sarà per l’atmosfera lo riconosci subito, non è come per l’80% della produzione attuale, anche quella buona,  che potrebbe appartenere a chiunque. Railroad Spikes, con il vorticoso pianino di Andrews, è la solita riuscita fusione tra R&R (quasi alla Elvis) e pop, quello che siamo soliti chiamare pub-rock, molto ritmato e cantato con più veemenza da Parker.

Flying Into London è un’altra bella ballata ricca di soul, con quel giusto tocco di malinconia e rimpianto, ma dall’ariosa melodia che si apre all’improvviso con tipico ed inconfondibile tocco parkeriano e la maestria dei Rumour che la rivestono del solito arrangiamento sontuoso. Pub Crawl è un piccolo divertissement sonoro che mette a confronto il suo passato e il suo presente, semplice ma sempre efficace, forse di nuovo leggermente scontata (nessuno ha mai detto che siamo di fronte ad un capolavoro assoluto) , anche se il tocco vaudeville di quello che sembra un kazoo è sempre geniale. I’ve Done Bad Things ha l’aria familiare di vecchie canzoni di Graham Parker, fin nella citazione di Wild Honey https://www.youtube.com/watch?v=hONx9bsVV74  e con le chitarre di nuove grintose e nervose, e anche Fast Crowd, con il suo ritmo incalzante e quel meticciato tra rock e soul, con influenze dylaniane nel cantato, è sempre classico Parker della più bell’acqua, meno prorompente che in passato ma sempre eseguito con gran classe. Non dispiace neppure Long Shot, il brano che cita nel testo il titolo dell’album, un’altra canzone che certifica la buona forma a livello compositivo del nostro, un altro classico esemplare di pura Parker song. In conclusione troviamo My Life In Movieland un brano che traccia, con la consueta ironia, la sua avventura nel mondo del cinema, una via di mezzo tra una canzone di Randy Newman e un vecchio blues, stesso sarcasmo e stessa forma sonora, voce, piano e di nuovo kazoo, per un brano che chiude su un tono minore un ennesimo bel disco di Graham Parker, il classico disco da ascoltare più volte per goderlo fino in fondo!

Bruno Conti

Di Nuovo Insieme! Graham Parker & The Rumour – Three Chords Good

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Graham Parker & The Rumour – Three Chords Good – Primary Wave/EMI Label Service

In questo 2012 che si avvia alla conclusione, con alcuni colpi di coda interessanti a livello discografico, qualche mese fa abbiamo avuto la reunion, 27 anni dopo, dei Dexys Midnight Runners, che sono rimasti solo Dexys e in fondo erano la creatura di Kevin Rowland, ma questa di Graham Parker è proprio la reunion con il suo gruppo storico, i Rumour, con i quali aveva registrato solo una manciata do album, ma fantastici, tra il 1976 e il 1980. Quindi, se la matematica, o meglio l’aritmetica non è un’opinione, fanno 32 anni di separazione. E ci sono ancora tutti e sono gli stessi di allora, che è quasi miracoloso: Brinsley Schwarz e Martin Belmont alle chitarre, Bob Andrews alle tastiere, Andrew Bodnar al basso e Steve Goulding alla batteria. Un gruppo che in quegli anni gloriosi rivaleggiava con gli Heartbreakers di Tom Petty, la E Street Band e la Silver Bullet Band di Seger come migliore backing band dell’orbe terracqueo. E perdipiù Schwarz e Andrews provenivano dai Brinsley Schwarz (dove con Nick Lowe, Ian Gomm e Billy Rankin, evolvendosi dai Kippington Lodge, avevano “inventato” il pub rock) e anche Martin Belmont aveva suonato con i Ducks DeLuxe, altro geniale gruppo di quel genere.

Graham Parker, con la sua inossidabile funzione di trait d’union tra Stones e Van Morrison, con ampie spruzzate di Dylan, unite ad una passione gagliarda per il rock ed un sarcasmo tipicamente inglese e, soprattutto, una corposa manciata di grandi canzoni, ha realizzato in quel periodo una serie di dischi, che ancora oggi sono quanto di meglio si può ascoltare nel, chiamiamolo, “rock di sintesi”: R&R, Pub-rock, soul, reggae bianco, canzone d’autore, punk e new wave (ma solo nell’attitudine), quindi niente di nuovo, ma fatto di un gran bene. Dischi come Howlin’ Wind, Heat Treatment, Stick To Me, il doppio Parkerilla, Squeezing Out Parks, l’EP The Pink Parker e il promo Live At Marble Arch sono ancora oggi delle delizie per l’apparato uditivo di chi ama la buona musica. E il tutto, considerando che Parker, come lo Springtseen di quegli anni, non era stato proprio servito a dovere dalla sua casa discografica, alla quale dedicherà una delle canzoni più velenose mai dedicate all’industria discografica, Mercury Poisoning, uscita su Squeezing… il disco di commiato dai Rumour. All’incirca nell’ultimo anno sono usciti vari prodotti d’archivio che hanno allietato le giornate dei fans del vecchio Parker: prima i due Bootleg Box, con materiale che risaliva anche fino a quegli anni e poi il doppio CD (o DVD) dei concerti al Rockpalast nel 1978 e 1980.

Naturalmente nel frattempo Graham Parker, che si è trasferito negli Stati Uniti, ha proseguito la sua carriera solista, che nel corso di questo trentennio ha regalato ancora parecchie gemme ai suoi estimatori. Senza citarle tutte, andando a ritroso, l’ottimo ultimo Imaginary Television del 2010, Don’t Tell Columbus del 2007, Your Country del 2004 e più indietro nel tempo Struck By Lighting, The Mona Lisa’s Sister e tantissimi altri che non citiamo per non infierire sulla lista della spesa (ma un cofanetto come Passion Is No ordinary Word, che potrebbe essere il suo motto, se si trova ancora, sarebbe consigliatissimo).  

Ed ora, dopo tanto tempo, non inattesa, perchè se parlava da un po’ di tempo, avviene questa reunion, sancita da un disco come Three Chords Good, che rientra in quel rock di sintesi citato prima, niente di nuovo ma, sempre e comunque, fatto un gran bene! Spesso sono più efficaci cinque o sei oh-oh o tre o quattro la-la di intere batterie di sintetizzatori e diavolerie elettroniche, o dubstep pseudofuturibili, quando hai un gruppo di belle canzoni e una band perfetta per eseguirle. E questa è la ricetta dell’album.

Dal rock intriso di “reggae bianco” (non amo il reggae, ma qualche eccezione, per gente come la Armatrading, Garland Jeffreys, lo stesso Parker del passato e pochi altri, la faccio) di Snake Oil Capital Of The World, amaro ed acido nei testi, con le chitarre di Schwarz e Belmont subito pungenti ad intrecciarsi con l’organo insinuante di quel genietto di Andrews, uno che conosce tutti i segreti della tastiera rock (come Benmont Tench e Roy Bittan), si passa ad una ballata mid-tempo nostalgica e ricca di reminescenze e melodia come la deliziosa Long Emotional Ride. Stop Cryin’ About The Rain è uno di quei brani che probabilmente Graham Parker riesce a scrivere anche durante il sonno, ma con quegli oh-oh piazzati al posto giusto, qualche piccola percussione qui è là, arrangiamenti minimali ma perfetti, ti sembra di ritrovare un vecchio amico che in fondo non era mai andato via, eri tu che lo avevi dimenticato. I ritmi volutamente demodé di She Rocks Me, tra vecchio R&R e il Dylan di Blonde On Blonde, sono ciondolanti e incalzanti al tempo stesso, e poi se non hai i soldi per un sassofonista niente di meglio del vecchio kazoo, che non sentivo su un disco dalla seconda guerra punica.

Three Chords Good, mi vengono in mente due persone che potevano scriverla, uno è il “vecchio” Bruce, l’altro è Graham Parker. Che genere è? Boh! Però è bella e si ascolta con piacere: forse genere bella vecchia canzone, già sentita mille volte, ma una volta di più non guasta, ne sostituisce per 5:38 minuti altre 999, simili ma non uguali. Old Soul è lui, il vecchio Graham, disponibile anche in versione vagamente jazzata, molto laid-back. A Lie Gets Halfway ‘Round The World è una delle rare concessioni del disco a ritmi più serrati, quasi rock, anzi R&R alla Parker, dicansi pub-rock e qui vai di “duh-duh-duh” e “la-la-la”! That Moon Was Low è una soul ballad morbida ma succulenta, con uso di piano, degna del miglior Sam Cooke (e del miglior Graham Parker). Live In Shadows è un bel brano swing jazz vagamente vicino di cortile del Joe Jackson di Jumpin’ Jive, diciamo limitrofo. Arlington’s Busy è forse il brano più bello del disco, il Parker sociale che parla dei soldati in Iraq e Afghanistan con accenti e voce più Dylan del Dylan più dylaniano, quello migliore dei vecchi tempi andati, periodo Blonde On Blonde, musicalmente una meraviglia.

Coathangers sarebbe (è) il singolo dell’album, il brano più rock e tirato, a dimostrazione che la vecchia band è ancora in grado di far ruggire tutti i quattro clindri del motore e la voce c’è, non è invecchiata di una virgola rispetto al passato. E per finire un’altra di quelle ballatone malinconiche alla Ray Davies (o Ian Hunter, altro dylaniano Doc)) che Graham Parker dedica al Last Bookstore In Town, un mondo che va scomparendo e che va ricordato con affetto e commozione, e vai con l’ultimo assolo di kazoo. Musica senza tempo, il mondo di oggi visto da un osservatore più distaccato e meno incazzato del solito, un poco rassegnato perfino, ma sempre caustico e geniale. Potrebbe fare il paio con l’ultimo di Ian Hunter, come invecchiare con classe, di nuovo insieme ai vecchi amici!

Bruno Conti

Un Tipo Tosto Che Non Molla Mai. Graham Parker & The Figgs – Live At Ftc

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Graham Parker & The Figgs – Live at The FTC – Primary Wave Records/Image Ent. DVD+CD

Non avevo ancora dedicato un bel Post a questo signore: qualche segnalazione recente per il sestuplo Box Of Bootlegs con materiale d’archivio e per Carp Fishing, una veloce intramuscolare lo scorso anno per segnalare l’ottimo Imaginary Television and that’s it!

Rimediamo subito parlando di questo eccellente Live At The FTC, registrato proprio in occasione del tour di Imaginary Road in quel di Fairfield, Connecticut al FTC, non proprio il Madison Square Garden, il Roxy o il Fillmore (ma nella sua carriera sono sicuro che Graham Parker li ha frequentati tutti) ma chi se ne frega. Il concerto è quanto di meglio ci si possa aspettare, ottime riprese, suono brillante e, soprattutto una performance assolutamente pari alla sua fama.

Per chi vede prima il DVD (che pur essendo NTSC è assolutamente compatibile con i lettori europei) consiglio prudenza perchè anche se le foto non mentono il buon Parker a chi lo rivede dopo un po’ potrebbe fare l’effetto che ha fatto a me: “Ma questo è mio nonno!” C’è il famoso sketch non ricordo di quale comico “Ma è diventato vecchio, ma vecchio” ma non fatevi ingannare è solo un fatto di fisionomia, la grinta e la voce sono quelle di sempre, anzi migliorate come il vino buono. In fondo il nostro amico ha appena compiuto 60 anni (e li dimostra, e ridagli, scusa Graham!) ma nonostante la lunga carriera non ha mai ricevuto i riconoscimenti che il suo talento avrebbe meritato: negli anni ’70 quando erano nel pieno del loro fulgore, Graham Parker & The Rumour non avevano niente da invidiare alla E Street Band di Springsteen o agli Heartbreakers di Tom Petty o a Bob Seger con la sua Silver Bullet Band, da queste parte dell’Oceano erano i loro omologhi e forse, ma in seguito, solo gli Attractions di Costello si avvicinarono per la qualita dei loro dischi e spettacoli.

Strano destino per un personaggio ( e questo lo racconta in una interessante intervista, meglio un monologo, che trovate negli extra del DVD) che fino al 1972/73 non aveva mai fatto musica seriamente e poi, improvvisamente, dopo una lunga serie di mestieri, l’ultimo come incaricato in una pompa di benzina si ritrova con un contratto discografico senza avere mai fatto la gavetta nei pubs inglesi (lui ricorda due concerti) e quindi la leggenda del cosiddetto padrino del Pub Rock prodromo del Punk che verrà va a farsi friggere, come tutte le leggende metropolitane (e anch’io credevo fosse così). Parker ricorda che in effetti i suoi brani di 3 minuti, secchi e nervosi, influenzati dal R&R, dal soul, ma anche da Dylan e Van Morrison e una certa “incazzatura” della sua musica non avevano particolari ragioni, la sua vita non era fantastica ma neppure così disastrosa, normale.

Normale non è un aggettivo che si può usare per la sua musica: grandi canzoni intrise dalle radici del rock (merito dei Rumour ex Brinsley Schwarz, antesignani della roots music e di quello che oggi si definisce Americana), del soul, con abbondanti spuzzate di reggae e ska, molto amati da Parker come i Beatles e gli Stones che più di Elvis lo hanno incoraggiato a intraprendere una carriera nella musica. Poi la sua carriera ha avuto alcuni “scazzi” con la discografia delle majors che lentamente lo hanno spinto ai margini, leggendaria è Mercury poisoning (altro che punk) dedicata alla sua casa discografica e in questo CD/DVD la trovate. Mi scuso con chi già lo conosce (e bene) ma una piccola storia mi sembrava doverosa!

Già da un po’ di anni Graham Parker ha ritrovato la sua vena migliore dopo un periodo di alti e bassi: i Figgs, il suo nuovo gruppo sono (quasi) all’altezza dei leggendari Rumour (almeno in questo live), pur essendo dei, come definirli, semiprofessionisti o meglio come dice lo stesso Parker nella presentazione della Band, musicisti professionisti la sera e di giorno con un altro mestiere per sopravvivere. Ma sentendoli suonare nella fantastica Beancounter dove il gruppo rolla a mille ed è quello della presentazione dei “Glamour musicians by night”, non si direbbe. Mike Gent alla chitarra inanella una lunga serie di assoli brevi e concisi ma ricchi di inventiva, tecnica e feeling, come raramente è dato ascoltare, Scott Janowitz alle tastiere con una preferenza per l’organo che carica il sound di sonorità sixties, il basso rotondo e trascinante di Pete Donnelly e la batteria essenziale ma inesauribile di Pete Hayes.

E soprattutto le canzoni di Parker che non hanno perso un briciolo del loro fascino, melodiche e facilmente memorizzabili ma allo stesso tempo raffinate e di grande spessore, nuove o vecchie non importa, pescando sia dal repertorio classico e inesauribile dei vecchi dischi così come dalle produzioni più recenti i brani si mischiano senza soluzione di continuita mantenendo sempre uno standard qualitativo elevatissimo: e così scorrono brani bellissimi come Local Girls, White Honey, Soul Shoes, la citata Mercury Poisoning, la delicata Blue Highways ma anche brani recenti come Chloroform, Turn It Into Hate, la divertente It’s My Party (But I Won’t Cry) e ancora England’s latest clown, non ce n’è una brutta ma nemmeno mediocre, una meglio dell’altra, 19 brani sul CD e 21 sul DVD, un’oretta e mezza di musica che vi lascia alla fine con quell’espressione ebete e soddisfatta che si ha dopo un concerto particolarmente riuscito.

Un “grande”!

Bruno Conti