Tornano I “Maghi” Della Slide. Delta Moon – Babylon Is Falling

delta moon babylon is falling

Delta Moon – Babylon Is Falling – Jumping Jack Records/Landslide Records

Decimo album di studio per I Delta Moon,  Il duo di Atlanta, Georgia, composto da Tom Gray, che è la voce solista e impegnato alla lap steel in modalità slide, e Mark Johnson, pure lui alla slide: in effetti vengono uno da Washington, DC e l’altro dall’Ohio, ma hanno eletto il Sud degli States come loro patria elettiva, e con l’aiuto del solido (in tutti i sensi) bassista haitiano Franher Joseph, che è con loro dal 2007, hanno costruito una eccellente reputazione come band che sa coniugare blues, rock, musica delle radici e un pizzico di swamp, in modo impeccabile. I batteristi, che spesso sono anche i produttori dei dischi, ruotano a ritmo continuo: in questo Babylon Is Falling ne troviamo tre diversi, Marlon Patton è quello principale, mentre in alcuni brani suonano pure Vic Stafford e Adam Goodhue. Il risultato è un album piacevolissimo, dove il materiale originale si alterna ad alcune cover scelte con estremo buon gusto ed eseguite con la classe e la finezza che li contraddistingue da sempre.

Per chi non li conoscesse, i Delta Moon hanno un suono meno dirompente di quanto ci si potrebbe attendere da un gruppo a doppia trazione slide, una rarità, ma anche uno dei loro punti di forza https://discoclub.myblog.it/2017/05/12/due-slide-sono-sempre-meglio-di-una-nuova-puntata-delta-moon-cabbagetown/ :Tom Gray non è un cantante formidabile, ma supportato spesso e voelntieri dalle armonie vocali di Johnson e di Fraher, nelle note basse, è in grado di rendere comunque il loro approccio alla materia blues e dintorni molto brillante e vario, come dimostra subito un brano uscito dalla propria penna come Long Way To Go. Un bottleneck minaccioso che si libra sul suono bluesato  e cadenzato dell’insieme, speziato dal suono della paludi della Louisiana, altra fonte di ispirazione del sound sudista della band, mentre anche l’altra slide di Johnson inizia ad interagire con quella di Gray, che benché il nome lap steel potrebbe far pensare venga suonata sul grembo, in effetti è tenuta a tracolla e “trattata” con una barretta d’acciaio.

Conclusi i tecnicismi torniamo ai contenuti del disco: la title track Babylon Is Falling è un brano tradizionale arrangiato come un galoppante soul-blues-gospel che sta a metà strada tra il Cooder elettrico e i gruppi soul neri, con il consueto sfavillante lavoro delle chitarre, mentre One More Heartache è un vecchio brano Motown firmato da Smokey Robinson  per un album del 1966 di Marvin Gaye, sempre rivisitato con quel sound che tanto rimanda ancora al miglior Ry Cooder. Might Take A Lifetime è il primo contributo come autore di Mark Johnson, ma la voce solista è sempre quella roca e vissuta di Gray, con il suono che qui vira decisamente al rock, pensate ai Little Feat o magari ai primi Dire Straits, tanto per avere una idea; Skinny Woman va a pescare nel repertorio di R.L. Burnside per un tuffo nel blues delle colline, vibrante ed elettrico come i nostri amici sanno essere, grazie a quelle chitarre che volano con leggiadria sul solido tappeto ritmico. Louisiana Rain è un sentito omaggio al Tom Petty più vicino al suono roots, una squisita southern ballad che la band interpreta in modo divino, con l’armonica di Gray che si aggiunge al suono quasi malinconico e delicato delle chitarre accarezzate con somma maestria dai due virtuosi.

Liitle Pink Pistol, nuovamente di Gray, è un rock-blues più grintoso, sempre con le chitarre che si rispondono con  superbo gusto dai canali dello stereo e una spruzzata di organo per rendere il suono più corposo. Nobody’s Fault But Mine è il famoso traditional attribuito a Blind Willie Johnson, altra canzone che brilla nella solida interpretazione del gruppo, con un piano elettrico aggiunto alle due slide tangenziali https://www.youtube.com/watch?v=Bbbvw_Ru5w8 , e sempre in ambito blues eccellente anche il trattamento riservato ad un Howlin’ Wolf d’annata nella inquietante Somebody In My Home, sempre in un intreccio di chitarre ed armonica. Per chiudere mancano una corale e divertente One Mountain At A Time, sempre incalzante e tagliente, e la bellissima e sognante Christmas Time In New Orleans, altro pezzo firmato da Johnson https://www.youtube.com/watch?v=5ZJgSaEjNYU , ennesimo fulgido esempio del loro saper coniugare blues e radici in modo sapido e personale.

Bruno Conti   

Per Essere Una “Reliquia” Del Mississippi Delta Blues Suona Vivo E Vibrante Come Pochi! Cedric Burnside – Benton County Relic

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Cedric Burnside – Benton County Relic – Single Lock Records

Se fate una ricerca in rete nelle sue biografie, Cedric Burnside viene quasi sistematicamente indicato come batterista, e infatti il suo ultimo premio ai Blues Music Awards del 2014 lo ha vinto proprio nella categoria strumentisti per il suo lavoro alla batteria. A ben vedere la cosa ha un senso, visto che Cedric ha iniziato la sua carriera proprio dietro lo sgabello, nella band del nonno R.L. Burnside, subentrando al padre Calvin Johnson. Poi però il nostro amico, pur suonando ancora spesso la batteria, si è affermato come chitarrista e cantante, ed è tra le punte di diamante dell’Hill Country Blues, spesso in dischi dove la formula era quella classica chitarra/batteria, tipica dei juke joints dove aveva suonato il nonno, ma modernizzata con un approccio più moderno ed elettrico, suono sporco e potente, condiviso con gente come i North Mississippi Allstars, Lightnin’ Malcolm (con cui ha condiviso un album come 2 Men Wrecking Crew), altri componenti della famiglia, tra cui il fratello Cody, scomparso nel 2012, e lo zio Garry.

Nel 2015, ma arrivato alla fama (si fa per dire) nel 2016, grazie alla candidatura ai Grammy, ha pubblicato quello che forse è il suo miglior disco finora, una sferzata di blues elettrico condito da ampie venature rock, intitolato Descendants Of Hill Country https://discoclub.myblog.it/2016/12/10/figli-nipoti-del-blues-delle-colline-cedric-burnside-project-descendant-of-hill-country/ , quasi un manifesto della sua musica. Il nuovo album Benton County Relic è ironicamente dedicato al fatto di essere una sorta di reliquia (o un “relitto” se preferite) della Contea di Benton, sempre zona Mississippi Delta e dintorni, come la cittadina di Holly Springs da cui proviene il 39enne Cedric, che questa volta si accompagna con il batterista (e chitarrista slide, se non sanno suonare almeno due strumenti non li vogliono come compagni) Brian Jay, che però viene da Brooklyn, e nel cui studio casalingo sono stati registrati in due giorni ben 26 brani, tra cui scegliere le dodici canzoni che sono finite sul CD. Girando il suono intorno a due batteristi/chitarristi ovviamente il groove e l’uso dei riff sono gli elementi portanti delle tracce contenute nell’album: dall’iniziale We Made It, che racconta di una infanzia povera passata in una casa modesta dove non c’erano acqua corrente, radio e TV e dell’orgoglio di avercela fatta, il tutto fra potenti sventagliate di chitarra e batteria, su cui Burnside declama con la sua vibrante voce.

Get Your Groove On evidenzia fin dal titolo l’importanza del ritmo in questo tipo di musica, scandito e in crescendo, con forti elementi rock ma anche le scansioni della soul music più cruda, grazie ad un basso rotondo e pulsante; Please Tell Me Baby è il presunto singolo del disco, un bel boogie che sarebbe piaciuto agli Stones di Exile o all’Hendrix più nero, ma anche agli attuali North Mississippi Allstars. Typical Day è un altro rock-blues di quelli tosti e vibranti, mentre Give It To You è un potente slow blues, sempre elettrico ed intenso, ma non mancano anche un paio di brani più intimi e raccolti, la bellissima Hard To Stay Cool che ruota intorno ad una slide risonante che ricorda il miglior Ry Cooder, e il delicato country blues acustico del traditional There Is So Much, che con la sua andatura ondeggiante rimanda anche al gospel. L’omaggio al repertorio del nonno avviene con la potente Death Bell Blues, un pezzo che era anche nel repertorio di Muddy Waters, un tipico lento di quelli palpitanti, dove la voce declama e la chitarra scandisce grintosamente il meglio delle 12 battute più classiche https://www.youtube.com/watch?v=5qQJ-IuqdJQ ; Don’t Leave Me Girl è un altro fremente rock con elementi hendrixiani ben evidenti e la chitarra viaggia che è un piacere. Call On Me è un atmosferico lento che ricorda certe cose del Peter Green meno tradizionale, con la chitarra in vena di finezze e la voce porta con gentilezza e trasporto https://www.youtube.com/watch?v=Aug2e-i8osY ; I’m Hurtin’ è un poderoso boogie tra Hound Dog Taylor e le cavalcate elettriche dell’ultimo R.L. Burnside, notevole, e a chiudere un ottimo album che conferma la statura di outsider di lusso di Cedric Burnside, troviamo un’altra scarica rock ad alto contenuto adrenalinico come Ain’t Gonna Take No Mess, con slide e batteria che impazzano veramente alla grande.

Bruno Conti

Nuovamente “Blues Delle Colline”: Questa Volta Acustico! Reed Turchi – Tallahatchie

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Reed Turchi – Tallahatchie – Appaloosa/Ird

Prosegue la saga di Reed Turchi, dopo gli album in studio e dal vivo con la sua band Turchi, il disco in duo Scrapyard (con Adriano Viterbini) e il disco solista elettrico, l’ottimo Speaking Tongues http://discoclub.myblog.it/2016/04/04/dal-boogie-blues-del-mississippi-agli-ardent-studios-memphis-reed-turchi-speaking-shadows/ , il musicista americano approda all’album acustico di blues, quindi un ritorno alle origini, al motivo per cui ha iniziato a fare musica, un disco di hill country blues, nudo e puro, solo voce, chitarra (spesso in modalità slide) e un repertorio pescato nella tradizione di alcuni grandi bluesmen classici. Per certi versi spinto a fare questo anche dalla dissoluzione della band che lo aveva accompagnato nell’ultimo tour e disco, i Caterwauls, e dalla morte della nonna, da sempre grande estimatrice della sua musica. Il CD prende il nome da quella zona dello stato del Mississippi dove si trovano le colline e scorre il fiume Tallahatchie, un luogo dove è nata la musica di R.L. Burnside, Otha Turner, Fred McDowell, ma anche la cittadina sul ponte della quale si svolgeva la storia immortalata nella famosa Ode To Billie Joe di Bobbie Gentry. La prima impressione all’ascolto ( e anche la seconda e la terza) è quella di sentire un disco di Robert Johnson, registrato in qualche stanza d’albergo negli anni ’30 dello scorso secolo, senza il fruscio delle registrazioni originali, ma con la presenza negli undici brani (quasi tutte cover rivisitate) dello stesso spirito minimale che pervadeva quella musica, crudo ed intenso. Pochi fronzoli e molta sostanza, un disco che non emoziona con la potenza di suono (che peraltro non eccitava il sottoscritto, chiamatemi un fan della seconda ora o di “riporto”) degli album elettrici, dalle sonorità volutamente distorte e cattive dei Turchi, ma con il fingerpicking o il lavoro al bottleeck di Reed Turchi qui impegnato a “minimalizzare” il suo blues.

Il disco è stato registrato a Murfreesboro nel Tennessee e contiene, come detto sopra, una serie di cover di celebri brani blues, anche se nel libretto interno sono attribuite a Reed Turchi. La traccia di apertura Let It Roll, è un pezzo, credo, di Reed, un brano che ruota attorno ad un semplice giro di chitarra, anche in modalità slide naturalmente, la voce sofferente e trattenuta,  quasi narcotica, pescata dalle radici del blues più “antico”, un leggero battito di piede a segnare il tempo e poco altro, musica che richiede attenzione e che potrebbe risultare ostica all’ascoltatore occasionale. Poor Black Mattie ha un drive più incalzante, un ritmo ondeggiante che ci riporta allo stile del suo inventore, quel Robert Lee Burnside che giustamente i musicisti di quella zona (dai North Mississippi AllStars allo stesso Reed), considerano uno dei loro maestri, uno stile ipnotico e ripetitivo, quasi ossessivo, che poco concede alla melodia; anche la successiva Like A Bird Without A Feather (che giustamente nel titolo, come usa nel blues, perde il Just iniziale dell’originale) è un altro brano di Burnside, contenuto nella colonna sonora di  Black Snake Moan, il film con Samuel L. Jackson,  e sempre per la proprietà transitiva ed incerta delle canzoni pescate dal repertorio del blues del Delta risultava essere scritta dall’attore, un secondo pezzo senza uso della slide, con poco cantato e il lavoro sottile ma efficace dell’acustica di Turchi. Per completare il primo trittico delle hill country songs di Burnside arriva anche Long Haired Doney, quasi atonale nel cantato del biondo (rosso?) Reed, che aggiunge qualche tratto percussivo all’intreccio ossessivo e ripetuto del riff della chitarra acustica, sempre per la teoria del less is more.

Una slide che parte subito per la tangente annuncia l’arrivo di Write A Few Lines, un brano dal repertorio di Mississippi Fred McDowell, una canzone dove sembra quasi di ascoltare i Led Zeppelin acustici del terzo album, per l’atmosfera sonora che rimanda ai Page/Plant più “rigorosi”, e anche loro spesso diventavano “autori” di brani altrui, la versione bianca di una musica che nasce dai neri, ma può essere suonata benissimo anche da dei signori più pallidi, come la storia ha ampiamente dimostrato. Ne sanno qualcosa quegli Stones che hanno fatto del pezzo successivo uno dei loro cavalli di battaglia, stiamo parlando di You Got To Move, altro capolavoro di McDowell, una delle canzoni che rappresenta la vera essenza di questa musica, e che Turchi nella sua versione rende ancor più spoglia dell’originale. Jumper On The Line, di nuovo di Burnside,  un ritmo più movimentato (si fa per dire), ritorna a quel hill country blues basilare e quasi sussurrato in modo religioso dal musicista di Asheville, mi sembra di sentire, con le dovute proporzioni, anche echi del lavoro fatto da John Hammond nei suoi dischi acustici, caratterizzati da un fervore quasi filologico. Ulteriori composizione di R.L. Burnside, l’ipnotica Skinny Woman , che reitera questo approccio rigoroso e minimale, quasi spoglio, della rilettura del lavoro del bluesman nero, un ascoltatore, col tempo trasformatosi in performer e pure John Henry, un brano tradizionale di dubbia attribuzione, una canzone contro la guerra che molti associano al repertorio di Lead Belly, mantiene questo approccio, di nuovo con un riff ipnotico e circolare, suonato alla slide, che poi si stempera nella conclusiva Mississippi Bollweevil, un brano degli “amici” North Mississippi Allstars, che pur spogliato dalla foga della versione elettrica, mantiene il suo approccio grintoso, grazie ancora all’uso del bottleneck insinuante di Turchi. Un disco sicuramente non “facile”, per quanto di ottima qualità e fattura.

Bruno Conti

Potrebbe Essere L’Ultima Occasione Di Averlo, Non Mancatela! Kenny Brown – Goin’ Back To Mississippi

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Kenny Brown – Goin’ Back To Mississippi – Big Legal Mess Records/Fat Possum

Non è un nuovo disco di Kenny Brown, si tratta dell’ennesima riedizione del suo primo disco, registrato nel 1996 e pubblicato nel 1997 dalla Fat Possum, poi ristampato, con un’altra copertina,  nel 2006, dalla Hermans (?) distr. Taxim. Questa volta, con autoironia, esce su “Big Legal Mess Records” e con la copertina originale ripristinata. E sapete una cosa? E’ sempre un gran disco! Se ve lo siete perso nelle altre occasioni questa è l’occasione giusta per rimediare. Brown, nativo di Selma, Alabama, ma cresciuto sulle colline del Nord Mississippi, ha pubblicato solo altri due dischi solisti nella sua carriera discografica, entrambi ottimi, Stingray nel 2003 https://www.youtube.com/watch?v=Lrc-qLzj7qM  e l’eccellente doppio Can’t Stay Long nel 2011 https://www.youtube.com/watch?v=cN5mPwkIA1o , per il resto della sua vita musicale è stato il fedele compagno di R.L. Burnside, che lo ha di volta in volta definito, “il mio figlio adottivo”, “un ragazzo bianco con la chitarra” e “il mio figlio bianco”, nel corso di una lunghissima collaborazione, iniziata nei primi anni ’70 e proseguita fino alla scomparsa di Burnside nel 2005 https://www.youtube.com/watch?v=dcgaP_HPGhU .

kenny brown stingray kenny brown can't stay long

In mezzo ci sono stati migliaia di concerti, alcuni dischi, non tantissimi, con il suo mentore, che non era molto prolifico (ma postumi ne sono usciti un bel po’). Dopo la morte di R.L.,  un paio di colonne sonore, in particolare quella di Black Snake Moan, dove era una sorta di controfigura sonora per Samuel L. Jackson. Ma prima era uscito questo Goin’ Back To Mississippi, penalizzato dai problemi vari di distribuzione della Fat Possum, l’etichetta originale, cionondimeno una delle ennesime confutazioni dell’assunto secondo cui “i musicisti bianchi non possono suonare il blues”. Possono eccome, e anche il rock and roll e il rock puro, come dimostra questo CD che è un distillato perfetto di North Hill Country Blues (e il nostro, con la moglie Sara, ogni anno organizza il benemerito Festival, denominato North Mississippi Country Picnic https://www.youtube.com/watch?v=XNRvXKs8xaI ), rock stonesiano periodo Sticky Fingers/Exile, blues classico, R&R e boogie micidiali, rivisitazioni selvagge del rockabilly/swamp rock di Dale Hawkins, mister Suzie Q, non per nulla il publishing dei suoi brani riporta Suzy Q Pub.

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Tutti elementi che ritroviamo nei dieci brani di questo disco: accompagnato da Dale Beavers (nomen omen), secondo chitarrista e vocalist, Terence Bishop al basso e John Bonds alla batteria, proprio con Dale Hawkins che produce il tutto a Little Rock, Arkansas, nell’autunno del 1996. From Now On, una stilettata di blues con slide, che è parente stretta anche del rock and roll Made in Sun Sudios di Jerry Lee Lewis, a cui la voce di Brown si avvicina, passando per la formidabile Frankie & Albert, un tradizionale rivisitato dal repertorio di Joe Callicott, una leggenda del blues che è stato il primo mentore di Kenny, intorno all’età di dieci anni, qui interpretato come se fosse una perduta gemma da qualche session sconosciuta di Willie Nelson con gli Stones, nel periodo di Sticky Fingers, country blues dondolante e sensuale, sempre con uso di slide e lap steel. Ma anche la grinta e la potenza della title-track, Goin’ Back To Mississippi, un rock and roll che sta al crocevia tra Chuck Berry e Rolling Stones, riff di chitarra come piovesse, ritmi e sonorità perverse come il miglior rock insegna. Wretched Mind potrebbe essere una outtake da qualche disco dei Creedence più roots, mentre gli oltre 6 minuti di Jumper On The Line, un traditional arrangiato dagli stessi Burnside e Brown https://www.youtube.com/watch?v=NbEGKLhoyQM , virano sui ritmi ipnotici e ripetuti dei classici di Dale Hawkins, rivisti però nell’ottica minimale, pur se assai accelerata del boogie blues elettrico proprio di gente come Bunrnside, Kimbrough, i primi Canned Heat, la famiglia Dickinson, il kudzu blues dei Turchi,  il tutto con la fantastica slide di Kenny Brown che si staglia potente nei meandri del brano.

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Talk about me è uno dei due contributi del chitarrista Dale Beavers, un classico blues cadenzato che incontra i ritmi urbani di quello proveniente da Chicago, l’altro è Grease Monkey, uno strumentale delizioso che è un perfetto esempio di rock and roll vecchio stile. I’m A lover è un lentone reiterato e selvaggio che potrebbe venire ancora dalla penna di Hawkins o Fogerty, ricco di echi e chitarre stranissime e lancinanti. Hold Me Baby, sempre per proseguire il parallelo con gli Stones https://www.youtube.com/watch?v=v_0P_2RsuSw , la si sarebbe potuta trovare nei primi album della band inglese, quelli più primitivi e sinceri, ma con l’aggiunta della slide in overdrive di Brown e la conclusiva In The Mood, ancora dell’accoppiata Kenny/R.L., è un altro lento, minaccioso e dall’atmosfera avvolgente che conferma tutte le buone vibrazioni di questo bellissimo album https://www.youtube.com/watch?v=XNRvXKs8xaI . Mancarlo anche al terzo passaggio sarebbe un delitto!

Bruno Conti    

Fin Troppo “Primitivo”! Per Quanto…Lonesome Shack – More Primitive

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Lonesome Shack – More Primitive – Alive Natural Sound Records

Chi scrive, genericamente parlando, non solo nel caso specifico, è sua volta un lettore di altri: la curiosità e l’impossibilità di poter ascoltare tutto quello che esce ogni giorno, a livello musicale, sull’orbe terracqueo, ti spinge a leggere avidamente le notizie relative a questo o a quell’artista che ogni giorno vengono pubblicate in rete o sulla carta stampata. Quello che avevo letto sui Lonesome Shack mi aveva già spinto a voler approfondire la conoscenza di questo terzetto di Seattle https://www.youtube.com/watch?v=xcRgBawj4LA  (almeno come loro base attuale, in origine vengono dal New Mexico), dipinti come prosecutori di quella tradizione country-boogie-blues che nasce intorno alle colline del Mississippi, quell’Hill Country Blues, “inventato” da gente come Junior Kimbrough, R.L. Burnside e di cui sono stati vessilliferi in tempi recenti anche la la famiglia Dickinson e i North Mississippi Allstars più “campagnoli”. Allo stesso tempo però, l’etichetta per cui incidono attualmente (hanno già pubblicato degli album in passato https://www.youtube.com/watch?v=Z5LdCQdpmdQ , non sono dei giovanotti all’esordio, ma dei signori avviati alla mezza età), la Alive Natural Sound Records, è specializzata, in senso lato, in un suono più da power trio, Mount Carmel http://discoclub.myblog.it/2014/05/17/nuovo-batterista-vecchio-rock-blues-mount-carmel-get-pure/ , rock, Lee Bains III, John The Conqueror http://discoclub.myblog.it/2014/04/17/rock-blues-bianco-nero-john-the-conqueror-the-good-life/ , Left Lane Cruiser, Hollis Brown e in passato, sono stati la prima casa discografica a mettere sotto contratto i Black Keys con The Big Come Up (prima di approdare alla Fat Possum, etichetta dei bluesmen neri appena citati), quando il duo di Akron, Ohio, proponeva un blues misto a rock, grezzo e deragliante, meno artefatto dell’attuale rock.

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Quindi, letti tutti questi nomi, indicati come punto di riferimento, scatta l’operazione San Tommaso, ossia l’ascolto del CD. Le foto di copertina di More Primitive, con quelle ossa inquietanti e un tipo barbuto che si crogiola in una vecchia vasca da bagno, sarebbero già indicative di cosa ci aspetta ascoltando la musica della band di Ben Todd, chitarrista, cantante, autore del materiale ed eminenza grigia del gruppo, ma poi per avere la conferma basta schiacciare il tasto play e parte una Wrecks, che, già al primo ascolto, conferma molte cose di quanto detto: un boogie-blues ipnotico e ripetitivo, cantato con una voce acuta e “trattata” da Todd https://www.youtube.com/watch?v=T5cfd_FBM2k , che oltre ai nomi ricordati potrebbe rimandare ai blues meno selvaggi e tirati dei primi Canned Heat, quelli dove cantava Alan Wilson, chitarra elettrica suonata in finger picking, scarne note ma ben piazzate, ritmica poco mossa ma ricca di groove, con il basso inesorabile di Luke Bergman e la batteria agile di Kristian Garrard. Alcune riviste e siti americani hanno parlato di musica su cui puoi ballare, ma se proprio vuoi, visti i ritmi è più un dondolio o un ondeggiare che una danza, molto reiterata, come conferma la successiva Head Holes, meno mossa e ritmata della precedente o addirittura Old Dreams, dove Ben Todd si fa tentare da qualche giro di solista più acido ma sempre di brevissima durata, quasi istantaneo, il virtuosismo non parrebbe la loro priorità.

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I ritmi quasi monotoni, in un certo senso, testano la pazienza dell’ascoltatore, anche se dopo alcuni ascolti, magari a volumi “allegri” tendono a entrare in circolo. Nella title-track Todd canta, “I want to live, I want to live more primitive”, su un ossessivo e, indovinato, primitivo e molto scandito giro di basso, la voce sempre filtrata che galleggia sul ritmo boogie dai suoi soci di avventura, mentre la chitarra viene utilizzata sempre in questa modalità che ricorda quella dei vecchi marpioni della Fat Possum. Una musica “ottimista e vivace”, direbbe Tonino Guerra, “primitivo”, ma mai come nell’opera ultima di Neil Young, come conferma la successiva Die Alone, dove però si affaccia una variazione sul tema, quando Ben aggiunge alla tavolozza scarna dei colori sonori una slide minacciosa, per quanto sempre assai rarefatta nei suoi interventi. Medicine, sempre con questa chitarra elettrica suonata in finger picking, ricorda comunque quel country blues arcano che probabilmente scendeva dalle colline e dai juke joints del Mississippi nel secolo scorso. Potrei dirvi i nomi di tutti i brani ma, bene o male ci siamo intesi, sempre da quelle parti si ritorna, qui si accelera, Big Ditch, un boogie più veloce, ma più spesso si rallenta, la minacciosa Evil (con un giro di basso che ricorda Dazed and confused degli Zeppelin, il resto del pezzo no), che conclude il CD o l’unico brano acustico, Trying To Forget, per chitarra e cucchiai. Magari più interessante che eccitante, a parte qualche momento, però dal vivo, come potete verificare nel primo video linkato ci danno dentro: si può sopravvivere anche senza, se però siete in vena di “esperimenti”  oppure, siete fans accaniti degli stili descritti sopra, avrete di che gioire!

Bruno Conti

Breve Ma Intenso! Junior Kimbrough – First Recordings

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Junior Kimbrough – First Recordings – Big Legal Mess Records

Quando, all’inizio degli anni ’90, R.L. Burnside e Junior Kimbrough, vennero (ri)scoperti dalla Fat Possum, etichetta fondata da quello che era stato uno degli editori della rivista Living Blues, i due erano degli ultra sessantenni poco conosciuti dal grande pubblico, ma molto stimati dagli altri musicisti e dai critici. Proprio ad uno di loro, Robert Palmer, già critico del New York Times e di Rolling Stone, venne affidata la produzione dei primi dischi di entrambi. Loro facevano già da anni questa musica, che venne definita “North Hill Mississippi Country Blues” (indovinate i nostri amici da dove hanno preso il nome?) o anche “Juke Joint Music”, termine derivato da quei piccoli locali arcaici dove i bluesmen neri si ritrovavano per suonare e che in italiano potremmo definire “baracchini” perché rende bene l’idea. Senza andare a ritroso a fare la storia di questa musica, tra i cui progenitori lo stesso Kimbrough citava Lightnin’ Hopkins e Mississippi Fred McDowell,  non si può fare a meno di pensare anche a John Lee Hooker, di cui un giornalista inglese ha però rivoltato la paternità dicendo che questa musica “rozza e ripetitiva, ipnotica, suggeriva una sorta di arcaico antenato di quella di Hooker”, che secondo chi scrive già faceva la sua musica quando Kimbrough portava ancora i pantaloni corti, ma le opinioni sono sempre rispettabili.

Tra i fans e sostenitori di Kimbrough c’è sempre stato anche Charlie Feathers, più o meno un suo coetaneo, che ha spesso sostenuto che il musicista di Hudson, Mississippi fosse “il principio e la fine di tutta la musica”, come è scritto sulla sua pietra tombale. Al di là di questi attestati di stima, se togliamo quella decade gloriosa in cui i musicisti della Fat Possum venivano riveriti, oltre che dalla stampa specializzata, anche da molti musicisti bianchi, uno per tutti, John Spencer, che ha registrato anche con Burnside, la musica di questi incredibili personaggi rivive periodicamente quando esce qualche ristampa o si trova del materiale inedito, come questo contenuto in First Recordings.

Già pubblicate in vinile nel 2009, queste registrazioni risalgono all’inizio della carriera discografica di Junior Kimbrough, quando il musicista, in cerca di un contratto, si recò nel 1966 presso gli studi della Goldwax Records, l’etichetta guidata dal grande Quinton Claunch (scopritore di talenti “sfortunati” come O.W. Wright e James Carr e tutt’ora in pista alla veneranda età di 90 anni). “Sfortunati” a livello discografico ma voci incredibili, comunque anche i migliori qualche volta sbagliano e Claunch decise di non pubblicare le registrazioni dicendo che erano “troppo country”! Risentiti oggi, questi sei brani, di cui uno diviso in due parti, a formare una sorta di EP, con poco meno di quindici minuti di musica, contengono già in nuce tutte le caratteristiche future della musica di Kimbrough: come già ricordato, tempi ipnotici e ripetitivi anche della sezione ritmica, assoli secchi e brevi, con delle derive modali (probabilmente inconsce) simili alla musica orientale o alle future sonorità di gente come Ali Farka Touré e di altro “blues africano”.

Anche se il sound che più viene in mente è proprio quello di John Lee Hooker, con qualche piccola traccia pure di soul, per esempio, in un brano come Meet Me In The City dove la voce di Kimbrough ha il timbro melodico di alcuni cantanti neri dell’epoca. Mentre l’iniziale Lonesome In My Home prende Howlin’ Wolf e lo schiaffa sulle colline del Mississippi insieme al vecchio Hook con il suo stile ripetitivo e reiterato, quasi ieratico, semplice ma molto efficace. Senza gridare al miracolo, era bella musica già allora, la prima parte di Feels So Good, anticipa il sound dei primi Canned Heat, altri seguaci di Hooker che nascevano in quel periodo e la seconda parte ha poche variazioni rispetto alla prima, forse un sound più serrato. Ma le scansioni ritmiche sono più o meno sempre quelle, anche in Feels So Bad, che “si senta bene o male” Kimbrough ha già in mente quella musica che poi perfezionerà una trentina di anni dopo. Citiamo anche Done Got Old, il sesto brano, e li abbiamo ricordati tutti, ma i titoli in fondo hanno poca importanza, sono tutte variazioni sullo stesso tema e in quanto tali tutte interessanti. Breve ma intenso, consigliato ai fans della sua musica ma anche a chi ama il Blues più crudo e sanguigno, naturale e non adulterato.

Bruno Conti 

Un “Vecchietto” Arzillo E Gagliardo! Little Freddie King – Chasing Tha Blues.

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 Little Freddie King – Chasing Tha Blues – Madewright Records

Little Freddie King non è stato sicuramente uno dei “grandi” del Blues e neppure tra i più prolifici, ma un posticino tra gli onesti gregari sicuramente lo merita. Nato a McComb, Mississippi nella zona delle piantagioni nel luglio del 1940, cugino di Lightnin’ Hopkins, a 14 anni anni si trasferisce a New Orleans. Nel frattempo impara a suonare la chitarra sia acustica che elettrica dal padre, basando il suo stile su Freddie King (di cui, per onestà, non avvicina neppure lontanamente la perizia tecnica) ma con un approccio più country blues e suona soprattutto nei juke joints dove molti anni dopo si ritornerà con il sound dell’etichetta Fat Possum con la quale, casualmente o meno, Fred Eugene Martin (vero nome) ha inciso un album nel 2005. Ma prima, anche lui, ha avuto una vita travagliata e una carriera quantomeno ricca di alti e bassi (più i secondi direi a giudicare dai testi), il primo album con Harmonica Williams è del 1969 (a 29 anni, quindi un “giovane” per i parametri del Blues), per registrare il secondo Swamp Boogie in quel di New Orleans ne dovranno passare altri 27. Si dice il “difficult second album” ma qui abbiamo esagerato! Poi negli anni 2000 ha registrato abbastanza regolarmente pubblicando 5 dischi compreso questo Chasing The Blues.

Che è un disco onesto, sanguigno, quasi eroico, nel riprendere le 12 battute classiche per una dozzina di brani che ricordano molto i dischi della maturità di musicisti come Muddy Waters o John Lee Hooker.  Accompagnato dalla sua band questo arzillo signore sa ancora far vibrare le corde della chitarra e con una voce vissuta e malinconica ma ancora ricca di sfumature canta delle mille disgrazie della vita: l’infanzia nelle piantagioni, la perdita di tutti i suoi averi, casa compresa, nell’uragano Katrina e un ritorno a casa per scoprire una infezione nelle mura del nuovo appartamento, sangue, sudore e lacrime assortite, gli manca una bomba atomica in testa e qualche rapina a mano armata e le ha avute tutte. Nel disco, oltre all’armonicista Lewis Di Tullio si sente anche un pianista non identificato e il groove è perlopiù abbastanza rilassato, tipico di New Orleans, dove è stato registrato,  ma contiene molto classico Chicago Blues e anche quel boogie reiterato alla Hooker che fa muovere il piedino.

Si parte con Born Dead, un brano che non avrebbe sfigurato nel repertorio di Waters ed è un piccolo classico di suo, per passare alle trame più agili di Crackho Flo e al boogie primigenio di Lousiana Train Wreck introdotta dal fischio di un treno, sempre argomenti “allegri” nei testi come si diceva in sede di presentazione, niente virtuosismi particolari ma un suono molto curato nei particolari con armonica, piano e chitarra che si dividono gli spazi con la voce di Little Freddie King. Ci sono tutti gli ingredienti classici, lo slow blues di Got Tha Blues On My Back, nuovamente il boogie sapido alla John Lee Hooker di Pocket Full Of Money. I tempi pigri di Back In New Orleans e l’omaggio al titolare del nome, King Freddie’s Shuffle, uno strumentale dal sound volutamente arcaico ma non noioso come quello di molti bluesmen attuali dediti al recupero delle radici.

Great Great Bamboozle è un altro divertente strumentale più ritmato mentre Night Time In Treme è un omaggio alla sua città di adozione, nuovamente un brano strumentale con i tre solisti della band che si dividono equamente gli spazi. Bywater Crawl ha quel sound da juke joint delle produzioni della Fat Possum di R.L. Burnside o di Junior Kimbrough, un ulteriore pezzo strumentale dal ritmo incalzante dove sembra che accada poco ma c’è tutto un mondo alle spalle se sentita a volumi alti. Standin’ At Your Door è un altro sofferto blues di impianto classico mentre Mixed Bucket Of Flood presentata come special bonus track si avventura in sonorità moderne tra elettronica, hip hop e nu soul con risultati alterni e spiazzanti.

Scevro dalla bonus track un buon album di Blues indirizzato soprattutto agli appassionati del genere.

Bruno Conti