Un Tipico Cantautore Americano Ma Con Un “Tocco” Italiano. Jaime Michaels – If You Fall

jaime michaels if you fall

Jaime Michaels – If You Fall Appaloosa/Ird

A tre anni di distanza dal precedente Once Upon A Different A Time, un buon album di folk, country ed Americana https://discoclub.myblog.it/2016/09/09/cerano-volta-ci-i-bravi-cantautori-jaime-michaels-once-upon-different-time/ , torna Jaime Michaels, cantautore di Boston, da anni trasferito nel Sud degli States, ancora una volta sotto l’egida dell’italiana Appaloosa, e con l’ottima produzione di Jono Manson, il tutto registrato negli studi casalinghi del musicista di Santa Fe, nel New Mexico. Per l’occasione Manson ha utilizzato una pattuglia di musicisti ancora migliore di quella peraltro eccellente del CD precedente: il nome di spicco è l’ottimo Jon Graboff, a lungo nei Cardinals di Ryan Adams, ma utilizzato anche da Norah Jones, Laura Cantrell, Shooter Jenningsi, un vero mago di tutti i tipi di chitarra, ma soprattutto della pedal steel. Tra i musicisti impiegati anche il bravissimo Radoslav Lorkovic alle tastiere e alla fisarmonica, il nostro Paolo Ercoli al dobro, una sezione ritmica dove ritorna Mark Clark, che si alterna alla batteria con Paul Pearcy, e Ronnie Johnson, il bassista di James McMurtry, più qualche altro collaboratore saltuario. Il disco si ascolta con grande piacere, un album scritto quasi interamente da Michaels, con due o tre sorprese che ora vediamo: i punti di riferimento sono i cantautori anni ’70, il suo idolo Tom Rush in primis, ma anche i componenti della famiglia Taylor, qualche tocco di Graham Nash, Paul Simon e del Jimmy Buffett meno scanzonato.

Le cover illustrano anche questa passione per la musica d’autore: They Call Me Hank è una deliziosa e sentita ripresa di un brano del non dimenticato e compianto Greg Trooper, uno splendido pezzo tra folk e country, dove la fisarmonica di Lorkovic, il mandolino di Graboff e il dobro di Ercoli sottolineano l’afflato melodico e malinconico di questo piccolo gioiellino, cantato in punta di fioretto, se mi passate l’espressione. In coda al CD, come bonus, troviamo anche una elegiaca e delicata Snowing On Raton di Townes Van Zandt, una delle sue più belle e suggestive country songs, con la pedal steel magica di Graboff e le armonie vocali avvolgenti  di Claudia Buzzetti e Jono Manson, una piccola meraviglia; la terza ed ultima cover è la più sorprendente, una versione, tradotta in inglese per l’occasione, di Rimmel di Francesco De Gregori, testo di Andrea Parodi, Jono Manson, Michaels e la collaborazione dello stesso cantautore romano. E tutto funziona a meraviglia, anche se è difficile superare l’originale, una delle canzoni più belle in assoluto di De Gregori, una capolavoro della musica italiana, qui ci si sposta verso un approccio tra Dylan e il country, con risultati di grande fascinazione, la pedal steel è sempre lo strumento guida, ma piano e tastiere accompagnano la voce evocativa per l’occasione di Jaime che convoglia lo spirito dell’originale con risultati eccellenti.

Questi tre brani varrebbero già da soli l’acquisto del CD, che al solito riporta i testi originali e la traduzione in italiano, le altre nove canzoni confermano lo status di cantautore di culto del bravo Jaime Michaels. Come la title-track If You Fall, un incalzante country-rock, dove pedal steel e chitarra elettrica guidano le danze, mentre l’organo propone le sue coloriture sullo sfondo, profondo anche il testo, sulla inevitabilità della vita, veramente una bella partenza, poi ribadita nel country-folk sognante della dolce Any Given Moment, sempre segnata da arrangiamenti di eccellente fattura, con chitarre, tastiere ed armonie vocali a segnarne il sound raffinato, ottima anche la cantautorale Red Buddha Laughs e le volute bluegrass-folk-cajun della divertente Bag o’Bones, con il violino di Gina Forsythe e la fisa di Lorkovic a menare le danze. Almost Daedalus è più intima e raccolta, con qualche rimando al primo James Taylor e anche a Paul Simon, mentre la divertente So It Goes si muove tra blues e ragtime e I Am Only (What I Am) è una pura folk song con un bel fingerpicking di chitarra, You Think You Know una bella ballata soffusa e sempre suonata e cantata con grande classe, come pure Carnival Town un brano più mosso e “roccato” dove si intuisce la mano di Jono Manson.

Nel complesso veramente un bel dischetto.

Bruno Conti

Un Altro Grande Disco Per La “Randy Newman Al Femminile”! Jude Johnstone – A Woman’s Work

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Jude Johnstone – A Woman’s Work – Bojak Records

In questi giorni “post-sanremesi”, mi sembra doveroso e quasi obbligatorio tornare a parlarvi di una “vera” cantante come Jude Johnstone, a distanza di tre anni dal precedente Shatter (13) recensito da chi scrive su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2013/06/01/sconosciuta-ma-non-per-tutti-jude-johnstone-shatter/ . La Johnstone piano e voce (arrivata con questo lavoro al settimo album), come sempre si avvale di grandi musicisti, a partire dal chitarrista Charles Duncan, il batterista Darrell Voss, il tastierista Radoslav Lorkovic, il bassista Ken Hustad, con il consueto apporto di “turnisti” del calibro del polistrumentista Bob Liepman, e di Rob Van Durren, Jill Poulos, Linley Hamilton, Larry Klein (ex marito di Joni Mitchell), Danny Frankel, anche lui alla batteria, il tutto sotto la co-produzione di Steve Crimmel e registrato nei famosi Painted Sky Studios di Cambria nella solare California.

A Woman’s Work si apre con la pianistica Never Leave Amsterdam, con la sorprendente voce di Jude accompagnata da una dolce pedal-steel, a cui fa seguito la title track, un valzer su un delicato tessuto di piano, violoncello e archi (sarebbe perfetta nel repertorio di Randy Newman), il raffinato e sofferto blues People Holding Hands, con il notevole assolo di tromba di Linley Hamilton, stesso discorso per The Woman Before Me (che avrebbe impreziosito qualsiasi disco della migliore Carole King), per poi passare ad una leggermente “radiofonica” Little Boy Blue, con una batteria elettronica che detta il ritmo del brano. Il “lavoro” della brava Jude riprende con una deliziosa What Do I Do Now, seguita da una stratosferica lenta ballata dall’aria celtica Road To Rathfriland, solo pianoforte, arpa e viola, un’altra tranquilla “song” per pianoforte e poco altro come I’ll Cry Tomorrow, per poi passare ad una ballata “rhythm and blues” come Turn Me Intro Water (sembra di risentire il favoloso periodo Stax), e affidare la chiusura ad una intima e malinconica Before You, perfetta da cantare su un qualsiasi buio palcoscenico di un Nightclub.

Le canzoni di A Woman’s Work riflettono senza ombra di dubbio l’attuale situazione sentimentale della Johnstone (un recente divorzio dopo un matrimonio durato 28 anni), un lavoro quindi molto intimo, emozionale, con arrangiamenti raffinatissimi eseguiti con strumentisti di assoluto valore, che danno vita ad un disco dal fascino incredibile, un piccolo gioiello fatto certamente con cuore e passione. Jude Johnstone non la scopriamo adesso (già in passato con l’amico Bruno abbiamo avuto modo di parlare dei suoi dischi), in quanto si tratta di una “songwriter” dalla vena poetica e passionale, e le sue canzoni sono state cantate da  artisti come Bonnie Raitt, Emmylou Harris, Stevie Nicks, Bette Midler e altri (ma è nota soprattutto per quella Unchained resa celebre da Johnny Cash).

Il forte sospetto è che questa (giovanile) signora californiana con questo settimo episodio della sua “storia” discografica, passi ancora una volta inosservata e inascoltata come era stato per i precedenti lavori, ed è un vero peccato perché A Woman’s Work resta comunque un ottimo disco di cantautorato al femminile, che piacerà a chi acquistava i dischi di Rickie Lee Jones e Carole King, ma soprattutto è un grande album per gli amanti della musica con forte presenza di pianoforte, e il grande Randy Newman in particolare viene alla mente. Da ascoltare!

Tino Montanari

NDT: Nei prossimi giorni, sempre per guarire dal “contagio sanremese” parleremo anche di un altro personaggio emarginato, ma amato dal Blog: Otis Gibbs !

Dopo Un Divorzio Si Cambiano Vita E Musica? Shawn Mullins – My Stupid Heart

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Shawn Mullins – My Stupid Heart – Sugar Hill / Rounder Records

Fra un divorzio e l’altro, Shawn Mullins (con una dozzina d’album all’attivo in studio) è ormai considerato un veterano della scena folk-rock cantautorale americana. Il buon Shawn era già un giovane e affermato musicista di Decatur, Georgia, quando nel lontano ’98 ha cominciato a raccogliere i frutti di una carriera comunque abbastanza lunga con l’album Soul’s Core, ma Mullins in precedenza aveva esordito con Better Days (92), quindi due anni dopo aveva pubblicato Big Blue Sky (94), poi due lavori incisi con Matthew Kahler Jeff’s Last Dance Vol. 1 e 2 (credo che a parte il sottoscritto siamo in pochi ad averli, e ormai siano introvabili), e nel ’96 ha visto la luce il successivo Eggheels. Dopo l’interlocutorio Beneath The Velvet Sun (00), anni di silenzio non compromettono la sua buona vena compositiva, a partire da 9th Ward Pickin Parlor (06), Honeydew (08), il primo disco dal vivo Live At The Variety Playhouse  dello stesso anno, fino all’ultimo lavoro in studio, l’ottimo Light You Up (10).

Prodotto dalla cantante country nativa della Florida Lari White, (impegnata anche alle armonie vocali con Shondra Bennett e Max Gomez) e registrato al The Holler di Nashville, My Stupid Heart vanta altri musicisti di valore come il marito della White, Chuck Cannon (cantautore e autore di alcuni brani scritti con Mullins) all’acustica e seconda voce, Dan Dugmore alla steel, Jerry McPherson alla chitarra elettrica, Gerry Hansen alla batteria e percussioni, Michael Rhodes al basso, Guthrie Trapp al mandolino e bouzouki, e i bravissimi Radoslav Lorkovic (Jimmy LaFave) alla fisarmonica e Fender Rhodes e Matt Rollings (Lyle Lovett) al pianoforte, e naturalmente lo stesso Shawn che suona diversi strumenti, il tutto per una raccolta di dieci canzoni, che toccano temi anche profondamente personali.

My Stupid Heart apre con la magia di una classica ballata alla Mullins, The Great Unknown, per poi passare alla recitativa It All Comes Down To Love, che potrebbe sembrare uscita dai solchi di Too Long In The Wasteland di James McMurtry https://www.youtube.com/watch?v=bTCq0MccLro , seguite dall’incantevole Ferguson che inizia lentamente per poi crescere nello sviluppo del brano https://www.youtube.com/watch?v=qr3MwKKjSpc , fatto che si ripete pure nella title track, anche questa  parte acustica con pochi accordi di chitarra, poi la voce di Shawn, gli strumenti e i cori danno spessore alla ballata, mentre Roll On By si avvale di un buon ritmo e della fisarmonica di Radoslav Lorkorvic. Il lavoro prosegue con Go And Fall una canzone di sofferenza, cantata con grande intensità, poi troviamo una magnifica love song come Gambler’s Heart (scritta con il cuore in mano) evidenziata dal piano di Matt Rollings, e ancora la pianistica Never Gonna Let Her Go (un brano alla Robbie Robertson e Band, magari cantato da Levon Helm) https://www.youtube.com/watch?v=ZjK6TdtceNs , una delicata e melodica Sunshine, e a chiudere  il moderno blues di Pre-Apocalyptic Blues, dove si rincorrono il trombone di Roy Agee, la fisarmonica di Lorkovic, e il superbo pianoforte di Rollings.

Con questo My Stupid Heart, la carriera artistica di Shawn Mullins sembra segnare un ulteriore livello di crescita, musicale e narrativa, con canzoni che si dividono tra americana, rock, folk e blues, cantate da una voce che rimane pur sempre una delle più belle e intense del panorama musicale americano. Non so come sia messo attualmente con i “rapporti sentimentali” il buon Shawn, ma se dopo ogni divorzio ci ritroviamo un Mullins più maturo e ispirato, e pienamente consapevole del suo potenziale, forse, ma dico forse, è augurabile tra qualche anno saperlo nuovamente divorziato!

Tino Montanari

“Sconosciuta”? Ma Non Per Tutti! Jude Johnstone – Shatter

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Jude Johnstone – Shatter – Bojak Records 2013

Quello che unisce il sottoscritto, il titolare di questo blog e il compianto Franco Ratti (e, si spera, “molta” altra gente), è la passione musicale per Jude Johnstone, una signora nata nel Maine, ma californiana di adozione che, tanto per cambiare, è tra i segreti meglio custoditi del cantautorato femminile americano. La Johnstone ha iniziato la sua carriera musicale alla precoce età di otto anni, e già a sedici suonava in una band. Scoperta da Clarence Clemons (il mitico sassofonista della E-Street Band e compagno di bevute del Boss), negli anni ha scritto canzoni per grandi artisti come Bonnie Raitt, Bette Midler, Trisha Yearwood, Johnny Cash (la famosa Unchained che dava il titolo al secondo album della serie American Recordings), Jennifer Warnes, Stevie Nicks e tanti altri che evito di menzionare per mancanza di spazio. Ero venuto a contatto con la musica di Jude all’epoca dei suoi primi due dischi da solista, l’esordio Coming Of Age (2003) e soprattutto On A God Day (2005), dove si rivelava una cantautrice dotata e ispirata che faceva un buon uso soprattutto del pianoforte. In seguito i suoi lavori Blue Light (2007), Mr.Sun (2008), Quiet Girl (2011) e anche questo ultimo Shatter sono mutati, hanno preso una impronta diversa, con composizioni dai toni più jazzati, raffinati e intimi, in cui ha riscoperto le sue radici, fatte di ascolti di Sarah Vaughan e Tony Bennett.  

Shatter, prodotto dalla stessa Johnstone e registrato nei Mad Dog Studios di Los Angeles (CA), si avvale di fidati strumentisti, gente del calibro di Danny Frankel alla batteria, Radoslav Lorkovic alle tastiere e alla fisarmonica, Kevin McCormick alle chitarre, Marc Macisso al sax, Dan Savant alla tromba, più altri musicisti di area “losangelina”.

Ad aprire il disco è la title track Shatter, un brano che strappa il cuore, mentre nelle successive What A Fool e The Underground Man la matrice jazz si fa più intensa. La Johnstone si destreggia sia nelle ballate più oscure come When Does Love Get Easier e Girl Afraid, in cui si apprezza uno splendido duetto tra piano e fiati, sia nei brani in cui è maggiore l’influenza blues, come nel caso specifico di Touchdown Jesus, dove brilla il piano di Lorkovic. Una tromba lancinante introduce la splendida Halfway Home, una canzone lenta e sensuale, seguita dal valzer cadenzato di Who Could Ask For More, e verso la fine fanno capolino la ninna nanna di Your Side Of The Bed e il suono caraibico di Free Man dove imperversa il sax di Marc Macisso.

Per chi ha amato i dischi di Rickie Lee Jones e attualmente quelli di Mary Gauthier, Shatter sarà una piacevole sorpresa, infatti Jude Johnstone ha messo insieme undici brani di ottima fattura, dagli arrangiamenti raffinati e dall’anima dolce e romantica. Mi auguro che molti di voi si accostino a questa grande cantautrice, in quanto questo lavoro è un disco dal fascino incredibile, che pur non aggiungendo nulla alla storia musicale americana, evoca un tempo che non c’è più, con canzoni che sembrano fatte apposta per far chiudere gli occhi e costruirci sopra un sogno, e questo mi basta a definirlo un piccolo gioiello di poesia musicale.  

Tino Montanari   

Non Solo “Covers”, Ma Molto di Più! Jimmy LaFave – Depending On The Distance

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Jimmy LaFave – Depending On The Distance – Music Road Records 2012

Un inguaribile fan di Bob Dylan (sono oltre venti le cover totali sparse nei vari album) o un autore da prendere sul serio? Questo è l’interrogativo che molti si posero all’indomani dell’ottimo debutto discografico Austin Skyline (1985), ed era più che lecito. In quel disco (che già nel titolo richiama Nashville Skyline) mostrava una solida passione per Dylan, trovavano spazio, accanto a dodici brani originali, ben quattro “covers” dell’autore di Duluth, un’anomalia se fosse accaduta altrove, non certo nel panorama musicale di quel periodo. Dopo il folgorante esordio, LaFave dispensa negli anni altri ottimi lavori, a partire dal seguito Highway Trance (1994), Buffalo Return to the Plains (1995), Road Novel (1997), Trail (1999), seguiti da album più di “routine” come Texoma (2001), Blue Nightfall (2005), Cimarron Manifesto (2007), più l’immancabile raccolta Favorites 1992-2001 del 2010 a chiudere il cerchio.

A cinque anni dall’ultimo lavoro in studio, il buon Jimmy torna con questo Depending On The Distance (ed ai primi ascolti mi sembra sia ritornato ai livelli degli esordi), e aiutato da un gruppo  di straordinari musicisti di Austin, a partire dal fidato pianista Radoslav Lorkovic,  Bobby Kallus, Chip Dolan, Travis Linville, Glenn Scheutz, Bill Chambers, Richard Feridun, John Inmon, Tim Lorsch, e le coriste Carol Young, Tameca Jones e come ospite la brava cantautrice Eliza Gilkyson, registrando il tutto nei famosi Cedar Creek Recordings, centra l’obiettivo.

Le 13 canzoni di questo disco coprono tutto l’universo musicale di LaFave: le immancabili cover di Dylan, a partire dalla lunga ballata Red River Shore (quasi dieci minuti di grande intensità), alla sofferta e pianistica I’ll Remenber You e la splendida Tomorrow Is A Long Time, e già che ci siamo segnalo una magnifica Land Of Hope and Dreams pescata dallo sterminato repertorio del Bruce, e una sorprendente versione della datata (1980) Missing You, hit di John Waite. Gli originali di LaFave rimangono fedeli al suo stile, come l’iniziale Clear Blue Sky una dolce e bellissima canzone d’amore (rafforzata dal suono del pianoforte), ballate come Living In Your Light e Vanished, cantate con tale sentimento che anche in una giornata di sole, ti danno la pelle d’oca. It Just Is Not Right e Red Dirt Night mostrano come Jimmy sia a suo agio anche con il suono del movimento musicale “Red Dirt”, mentre Bring Back The Trains cantata in duetto con Tameca Jones ha più di un riferimento gospel. Chiude, A Place I Have Left Behind, una ballata sottile, una canzone piena di nostalgia, dalla bellezza glaciale.

Jimmy LaFave  non è mai stato un fuoriclasse, e su questo per chi scrive non c’è dubbio, però è un onestissimo interprete, un ottimo “performer”, un discreto songwriter e un cantante romantico che ti punta una pistola al cuore, quando interpreta le sue ballate. Depending On The Distance è un disco piacevolissimo e scorrevole, con una coerenza tutta sua e un gusto che a Jimmy non si può non riconoscere (non c’è un suono fuori posto), che lo rende più che dignitoso. Ma anche se non avesse fatto la carriera che ha fatto, ad un uomo con una voce così, vorrei bene lo stesso.

Tino Montanari