Un Grande Vecchio Texano Doc! Ray Wylie Hubbard – The Ruffian’s Misfortune

ray wylye hubbard the ruffian's

Ray Wylie Hubbard – The Ruffian’s Misfortune – Bordello Records

Questo signore ormai viaggia anche lui verso i settanta, e dopo quasi quarant’anni di carriera (e, con questo, 16 album alle spalle) http://discoclub.myblog.it/2012/04/23/l-ultimo-fuorilegge-ray-wylye-hubbard-the-grifter-s-hymnal/ , è ancora oggi considerato come una delle figure di maggior riferimento del movimento country progressivo texano, quello che ha fatto conoscere Austin sulle cartine geografiche musicali (anche per merito della epica Up Against The Wall, Redneck Mother, resa famosa da Jerry Jeff Walker). Chi segue fedelmente la produzione discografica di questo grande “outlaw texano”, sa che non deve aspettarsi una copiosa uscita di album, ne tantomeno dischi realizzati per “majors” altisonanti, e fin dalla bellissima foto del retro del digipak che lo ritrae in un primo piano quanto meno impietoso, con le rughe che gli segnano il volto e la barba bianca incolta, Ray Wylie Hubbard mostra tutta la sua “onestà”. Una schiera di musicisti, più o meno famosi, fa bella mostra di sé nei solchi virtuali delle dieci tracce del CD in questione: oltre a Ray Wylie alle chitarre e armonica, troviamo il figlio Lucas Hubbard alle chitarre acustiche e elettriche, Gabe Rhodes al mandolino e percussioni, Rick Richards batteria e percussioni, il co-produttore George Reiff al basso, la bella e brava Eleanor Whitmore al violino, con l’apporto vocale delle quasi immancabili McCrary Sisters, che rendono estremamente piacevoli le canzoni del nuovo album.

Ray-Wylie-Hubbard 2Ray-Wylie-Hubbard 1

La prima cosa che noterete quando inserirete The Ruffian’s Misfortune nel lettore CD è la voce di catrame e intrisa da mille bourbon di Hubbard, a partire dall’iniziale All Loose Things, un blues dalla potente sezione ritmica, come nella seguente Hey Mama My Time Ain’t Long (scritta con il giovane Jonathan Tyler https://www.youtube.com/watch?v=5Iu5A9GmpxA) con le chitarre che entrano sotto la pelle, mentre Too Young Ripe, Too Young Rotten è una superba serenata texana (da cantare sotto un cielo di stelle) https://www.youtube.com/watch?v=ooEDBsok1qQ , impreziosita dal violino della Whitmore, per poi passare alla ritmata e sanguigna Chick Singer Badass Rockin’, con tanto di armonica a chiudere il brano, e al roots-blues di Bad On Fords https://www.youtube.com/watch?v=UN-kqQRfp98 . Il disco continua alla grande, senza tentennamenti, con un sontuoso arrangiamento che accompagna una Mr.Musselwhite’s Blues (penso un doveroso omaggio al grande Charlie), imbevuta di armonica e telecaster https://www.youtube.com/watch?v=b3BYlL-yHjs , un vero gioiello, proseguendo con il ritmo sincopato di una Down By The River che non è quella di Neil Young, una Jesse Mae  crepuscolare che sembra  suonata sui monti Appalachi, i coretti “soul” di Barefoot In Heaven, andando a chiudere con una meravigliosa ballata Stone Blind Horses, cantata e suonata à la Mark Knopfler, con un malizioso ritornello che ricorda la mitica Wild Horses degli Stones https://www.youtube.com/watch?v=dTz68xgocjA .

Ray Wylie Hubbard è uno di quei rari talenti musicali che non si possono classificare in un solo genere, avendo cavalcato negli anni tra il ’70 e l’inizio anni ’90 il periodo country targato Lloyd Maines, poi il roots-rock nel decennio successivo con Gurf Morlix (il meglio dei produttori di settore dell’epoca), e il blues dell’ultimo periodo da Eternal & Lowdown (01) fino a questo ultimo The Ruffian’s Misfortune, valorizzato come i precedenti, da una musica che striscia come un serpente attraverso l’erba. Domanda delle cento pistole: cosa ci vuole per fare un bel disco come questo? Lo spirito giusto, il coraggio di suonare il proprio blues, dei bravi musicisti, il tempo che serve e dell’ottimo Bourbon.

Tino Montanari

La “Banda” Della Domenica Mattina. Band Of Heathens – Sunday Morning Record

band of heathens sunday morning.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The Band Of Heathens – Sunday Morning Record – Boh Records/Blue Rose 2013

Band Of Heathens è il riuscito esperimento sonoro di un “ensemble” di musicisti che da qualche anno anima le notti di Austin, Texas, con il loro mix musicale che comprende country e blues, folk e roots rock, arrivando ad essere nominati come band dell’anno nella capitale mondiale proprio della roots music (Austin). I primi due album d’esordio sono stati dal vivo, Live From Momo’s (2006) e Live At Antone’s (2007), poi, sotto la produzione di Ray Wylie Hubbard, escono allo scoperto con il primo album di studio, intitolato semplicemente The Band Of Heathens (2008,) una delle migliori miscele di rock, country e blues (in una parola “americana”). La band non ha mai avuto un vero e proprio leader, in quanto gli autori dei brani erano tre, Ed Jurdi, Gordy Quist e Colin Brooks (tutti chitarristi), ben sostenuti da Seth Whitney al basso e da John Chipman alla batteria, formazione che ha inciso pure One Foot In The Ether (2009) e il notevole Top Hat Crown & The Clapmaster’s Son, dove spaziano tra la musica del Texas e la Louisiana (una-riuscita-miscela-di-black-ad-white-band-of-heathens-top.html).

Persi per strada durante gli anni Brian Keane (uno dei fondatori del gruppo) Seth Whitney, John Chipman e Colin Brooks, la band texana continua la sua incessante attività live, testimoniata dal bellissimo The Double Down (2012) contenente la bellezza di 24 canzoni (due confezioni ognuna con un CD e un DVD) con un suono potente da vera band americana, degni eredi di gruppi come Little Feat e The Band. A circa due anni dal precedente lavoro, pubblicano questo nuovo Sunday Morning Record scritto a quattro mani da Jurdy e Quist, (chitarre e voce) con una nuova line-up composta da Trevor Nealson al piano e tastiere, Richard Millsap alla batteria, e con la partecipazione di validi musicisti tra i quali, Ryan Big Bowman al contrabbasso, Nick Jay e Joshua Zarbo al basso, George Reiff alle chitarre e Ricky Ray Jackson alla pedal steel.

Il brano iniziale Shotgun  è un country rock cadenzato, a cui fanno seguire Caroline Williams dalla forte impronta cantautorale, e una Miss My Life, brano pop blues, dominato dall’uso della chitarra e pianoforte, mentre nella chitarra che accompagna Girl With Indigo Eyes rivive lo spirito acustico dei Grateful Dead. Si riparte con la tambureggiante Records In Bed e le tenue atmosfere anni ’70 di Since I’ve Been Home (ricorda anche le cose più delicate dei Beatles), mentre The Same Picture è una dolce melodia pop, con un buon impasto vocale. One More Trip accompagnata dalla pedal steel di Ricky Ray Jackson, sembra uscita dalla penna di Robbie Robertson (The Band), seguita dalla energia contagiosa di Shake The Foundation, un boogie-blues che invita a pigiare il tasto “replay” del lettore, per poi chiudere con la ballata riflessiva Had It All, e la canzone finale Texas, (una pura meraviglia) uscita dalla collaborazione dei due leader, una piccola poesia sostenuta dalle chitarre acustiche e dal pianoforte,

I “nuovi” The Band Of Heathens con Sunday Morning Record, un gioiellino da gustare per la sua atmosfera rilassata, e al tempo stesso intensa, promettono bene, iniziando un nuovo percorso musicale, dinamico e creativo, in grado di mantenerli ai vertici per molto tempo della scena Americana, perché quello che loro hanno in più rispetto ad altri gruppi, è la superba qualità delle canzoni, merce rara in questi anni difficili.

NDT: Da menzionare che nelle note di copertina del disco, vengono ricordati gli ex membri del gruppo Colin Brooks, Seth Whitney e John Chipman, a testimomianza dell’importanza avuta nella crescita del gruppo texano.

Tino Montanari

Un Fulmine A Ciel Sereno! The White Buffalo – Shadows, Greys & Evil Ways

white buffalo shadows.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The White BuffaloShadows, Greys & Evil Ways – Unison Music CD

Dopo aver ricevuto critiche più che lusinghiere lo scorso anno per l’ottimo Once Upon A Time In The West, i White Buffalo, ovvero la creatura di Jake Smith (con Matt Lynott e Tommy Andrews), ritornano a distanza di appena un anno con un lavoro ancora più ambizioso.

Shadows, Greys & Evil Ways è un disco molto bello, che a poche settimane dalla sua uscita ha già attirato l’attenzione delle testate più prestigiose (Entertainment Weekly ed il Wall Street Journal ne hanno parlato in maniera entusiastica), ed è l’album che dovrebbe consacrare definitivamente Smith come uno dei maggiori talenti degli ultimi anni.

Shadows, Greys & Evil Ways è un concept album, nel quale, in poco meno di quaranta intensissimi minuti, Jake e soci raccontano la storia di Joey White, un uomo comune, un personaggio come tanti che, tornato dalla guerra, cerca di riprendere la vita normale e di riallacciare i rapporti con l’amata Jolene, ma si rende presto conto che il mondo è cambiato e che ricominciare la vita di prima è tutt’altro che semplice. Una storia come tante, che però fornisce a Smith il pretesto per consegnarci un disco di grande spessore, dove la sua bravura come scrittore si unisce alla sua sensibilità musicale: un perfetto esempio di puro cantautorato in stile Americana, con elementi country, rock, folk e blues fusi insieme alla perfezione, il tutto suonato alla grande (fra i sessionmen troviamo anche Rick Shea ed il leggendario batterista Jim Keltner) e cantato benissimo dalla voce profonda di Jake. In alcuni momenti, nei brani meno rock, sembra quasi di aver a che fare con canzoni scritte da Guy Clark o Kris Kristofferson, e state certi che non sto esagerando. Tra l’altro Jake sembra proprio un texano doc: peccato che sia nato in Oregon e viva in California.

Si inizia alla grande con Shall We Go On, una ballata pianistica molto bella, passo lento, melodia profonda ed evocativa, con un toccante violino in sottofondo. Un avvio da manuale. The Getaway ha più o meno lo stesso arrangiamento, ma il tempo è quasi da valzer texano e l’atmosfera procura più di un brivido, grazie anche alla carismatica presenza vocale del leader.

When I’m Gone, più mossa ed elettrica, ha un testo molto diretto ed un suono solido e potente, mentre Joey White, nervosa e scattante, ha elementi blues e punti di contatto con il suono di Ray Wylie Hubbard: notevole la parte centrale, decisamente roccata. La breve 30 Days Back è molto triste e toccante, e prelude a The Whistler, che è uno degli highlights del CD: ballata western classica, lenta, intensa, con un crescendo assolutamente degno di nota. E’ in brani come questo che Smith dimostra di essere cresciuto a dismisura dai giorni dell’esordio di Hogtied Revisited.

Bella anche Set My Body Free, sempre di stampo western ed una melodia tra le meglio riuscite del lavoro; Redemption # 2, acustica e vibrante, è cantata con un trasporto quasi drammatico. La fluida This Year è un perfetto esempio di songwriting maturo, un altro dei brani di punta del disco; Fire Don’t Know sembra quasi uno slow alla Johnny Cash, mentre Joe And Jolene è diretta e sostenuta nel ritmo.

L’album giunge al termine con Don’t You Want It, orecchiabile ed ancora in odore di Texas, il breve strumentale per violino e contrabbasso # 13 e Pray To You Now, un’altra ballad di grande spessore, degna conclusione di un disco sorprendente.

Ascoltatelo, ne vale la pena.

Marco Verdi

*NDB Così, casualmente, a titolo informativo: questo è il Post n. 1500 del Blog. Per il momento si resiste, continuate a leggere e, se possibile, spargete la voce. Siamo un Blog di “Carbonari”, tra i 15 e i 20.000 contatti al mese, mentre l’utimo video di Miley Cyrus ha avuto più di 83 milioni di visualizzazioni in 4 giorni. Sarà più brava, ma…

Come diceva Gianni Minà, quando faceva una citazione ma non si ricordava di chi era, “come avrebbe detto qualcuno”: Rock On And Keep On Rolling!

Bruno Conti

Un “Oscuro” Storyteller Americano Da Scoprire! Mark Lucas – Uncle Bones

mark lucas uncle bones.jpgmusica. bruno conti. discoclub,mark lucas. country,bluegrass,blues,ray wylye hubbard,malcolm holcombe,guy clark,lyle lovett,mickey newbury,tom mortensen,jeneé fleenor,martina mcbride

 

 

 

 

 

 

Mark Lucas – Uncle Bones – Skillet Dog Records

Nativo del Kentucky (da non confondere con l’omonimo australiano), tra Sud e Midwest, confinante con Missouri e Tennessee, uno non penserebbe che la musica di questo signore, dall’età indefinita ma apparentemente sulla quarantina, possa essere influenzata dalla musica degli Appalachi, dalle string bands e da bluegrass e country, oltre ad un pizzico di blues, anche se Nashville è a due passi, ma questo è quello che si ricava dall’ascolto di Uncle Bones, secondo capitolo (dopo Dust) della saga musicale di uno “storyteller” che risponde al nome di Mark Lucas. Non sono tra coloro che vorrebbero tenere stretti per sé nomi nuovi che, di volta in volta, si affacciano sulla scena americana, anzi più si sparge la buona novella meglio è, se ne vale la pena naturalmente, senza tanti diritti di primogenitura o jus primae noctis, tipo questo l’ho scoperto io prima di te! E nel caso di Lucas vale la pena.

Paragonato a Ray Wylie Hubbard o a Malcolm Holcombe per il tipo di voce vissuta, ma forse più vicino a Guy Clark o al primo Lyle Lovett (con cui condivide un suonatore di dobro e pedal steel sopraffino come Tom “Bleu” Mortensen), Mark Lucas sembra uno di quei tipici “raccontatori di storie” che ogni tanto appaiono come dal nulla nel panorama musicale americano. E oltre allo stile musicale, in questo Uncle Bones, sono molto importanti i testi (che purtroppo non sono inclusi nella confezione del CD ma si trovano integralmente sul suo sito brothermarkmusic.com): anzi direi fondamentali. Dall’iniziale Uncle Bones una sorta di storia di Orfeo ed Euridice rivisitata nella campagna americana, con “Dicey” che muore per il morso di un serpente e viene cercata fino agli inferi dal suo “Orphie”, disposto a suonare laggiù con il suo violino per Uncle Bones in cambio del ritorno della sua amata, ma anche lui commette l’errore di guardarsi indietro e lì suonerà il suo fiddle per l’eternità (in questo caso la bravissima Jeneé Fleenor si limita a fare guizzare il suo violino per i 3:36 della canzone, ben coadiuvata dal dobro di Mortensen, che ha suonato anche con Mickey Newbury, un altro che di belle canzoni se ne intendeva), il banjo di Wanda Vick e la chitarra dello stesso Lucas aggiungono spessore “rurale” a questa bella favola.

La delicata e deliziosa Take Me Back, Water, cantata con dolcezza e partecipazione genuina dal bravo Mark, racconta la storia della ragazza che “piangeva perle”, su un tappeto di violino e dobro si dipana questa piccola delizia sonora. Dragon Reel con delle piccole percussioni aggiunte e il solito violino indiavolato della Fleenor (che abitualmente suona con Martina McBride) è un’altra storia peculiare a tempo di giga country-irish, quella di un assassino che “parlava” per enigmi, mentre Every Day I Have The Greens potrebbe essere uno di quei brani acustici ed ironici che ci deliziavano nei primi dischi di Lyle Lovett (ma anche Guy Clark, potrebbe essere un riferimento) e anche la voce è impostata in modo simile. Altro giro, altro racconto, Carrying Fire narra di un padre che porta le braci di un fuoco fino alla “fine del mondo”, questa volta sono il mandolino della Vick e il solito violino della Fleenor, unite al dobro di Mortensen, ad accompagnarci in questo viaggio epico, con il ritmo sottolineato dal contrabbasso di Matt McKenzie. Grits And Redeye Gravy con il basso elettrico di Lucas a segnare il tempo, se esiste questo formato musicale, è una sorta di boogie-bluegrass-country.

Hezekiah è il classico valzerone country, sempre uguale ma sempre diverso, se ben suonato, e come al solito violino, dobro e chitarra acustica dominano. Improvvisamente in Big Bad Love le sonorità diventano più elettriche, basso, una batteria sintetica, chitarre elettriche e un suono bluesato che ci porta dalle parti di Hubbard e Holcombe, un’altra faccia della musica di Lucas che introduce anche il suono di quella che potrebbe una chitarra con il wah-wah ma probabilmente è il violino elettrificato della Fleenor, proprio brava la ragazza. Per sottrazione, nella successiva The Price, l’ottimo Mark si presenta in solitaria solo voce e acustica, per un brano che potrebbe essere anche dello Springsteen più intimista, tanto è bella. Pick Up è un altro blues elettrico mid-tempo caratterizzato dalle svisate della pedal steel di Blue Mortensen e con un’altra storia surreale inventata dalla mente geniale di Lucas, una vedova che manda un messaggio al cellulare nella bara del marito infedele! Trouble è un country-blues,ancora con il violino che guida le danze, anche se in tono minore rispetto ad altri episodi del disco. Per dirla in due parole, anzi tre: uno bravo, consigliato!

Bruno Conti    

“L’Ultimo Fuorilegge”? Ray Wylye Hubbard – The Grifter’s Hymnal

ray wylye hubbard.jpg

 

 

 

 

 

 

Ray Wylie Hubbard -The Grifter’s Hymnal– Bordello Records 2012

Torna, a poco più di due anni dal suo ultimo disco, Ray Wylie Hubbard, uno dei migliori texani in circolazione in assoluto, musicista e cantautore di culto, con alle spalle una carriera sviluppata in un arco di tempo più che quarantennale. Ray è diventato subito famoso negli anni settanta per avere scritto Up Against The Wall, Redneck Mother, canzone resa celebre dal grande Jerry Jeff Walker, brano che ha contribuito a lanciare la sua carriera nell’ambito del settore “outlaws”. Hubbard non è solo un “country singer”, come quella canzone poteva far prevedere, ma anche un songwriter vicino al folk, al blues ed a certe linee melodiche tipicamente Dylaniane, con una discografia abbastanza lunga, dilatata nel tempo, tra alti e bassi, ma con alcuni album di spessore, su tutti Loco Gringo’s Lament, Dangerous Spirits, Delirium Tremolos, Crusades of the Restless Knights sino ai più recenti Growl e Snake Farm.

Sono almeno venti anni che Ray dispensa grande musica e The Grifter’s Hymnal non fa eccezione, anzi è facile collocarlo tra i suoi lavori migliori. A lavorarci sono essenzialmente lui e George Reiff (co-produttore del disco), con Rick Richards alla batteria, Billy Cassis e il figlio Lucas alle chitarre, Brad Rice al basso, e con alcuni ospiti davvero speciali come Ringo Starr (grande cultore di country music) e il pianista Ian McLagan, per dodici brani tra rock, blues e folk in cui predominano le atmosfere fangose e cupe, con sonorità  crepuscolari e desertiche, il tutto guidato da una voce fumosa che mastica blues ed una sezione ritmica sempre presente quando viene chiamata in causa.

Si parte con Coricidin Bottle un honky-tonky travolgente dove le percussioni la fanno da padrone, e sembra di sentire il sibilo di un serpente a sonagli. La seguente South of the River è una delle perle del disco, una ballata desertica, ben lavorata, con l’armonica in evidenza, cantata col cuore. Con Lazarus brano bluesato ed insinuante si viaggia sulle foci del Delta, mentre New Year’s Eve at the Gates of Hell, bella e roccata, si basa solamente su chitarre e batteria (niente basso). Moss and Flowers ricorda un altro superbo songwriter texano, ovvero James McMurtry, mentre Red Badge of Courage è un blues nero e tenebroso fino al midollo, con una slide maledetta. Si cambia registro con Train Yard un talkin’ blues dalla ritmica sostenuta, e nella seguente, divertente e ossessiva, Coochy Coochy, che vede come ospite Ringo Starr, l’autore del brano, che stando alle note del libretto canta e suona vari strumenti. Un recitativo introduce Mother Blues, ballata acustica cantata con voce cavernosa, che potrebbe essere usata come “soundtrack” di un film tratto da un romanzo di Cormac McCarthy. mentre la seguente Henhouse è forse il brano meno riuscito del lotto. Ray si fa subito perdonare con una splendida Count My Blessings, canzone nera e sporca, suonata divinamente e perfettamente coerente con il suo percorso musicale, e si chiude alla grande con Ask God una preghiera blues, con un refrain che ti ritrovi a cantarle dopo solo due ascolti.

Ray Wylie Hubbard durante la sua carriera ha sempre fatto i dischi che ha voluto, quando ha voluto, senza mai scendere a compromessi, ma andando diritto per la sua strada, e come sempre nelle sue opere, gli eroi non sono né buoni né cattivi, ma coloro che accettano la dura realtà della vita; un personaggio al quale, fortunatamente, per chi scrive, è mancata soltanto la celebrità. Cosa ci vuole per ascoltare un CD come The Grifter’s Hymnal? Lo spirito giusto, il tempo che serve, e dell’ottima Tequila.

 Tino Montanari