Una Famiglia “Canterina”! Kris Delmhorst – Blood Test

kris delmhorst blood test

Kris Delmhorst – Blood Test – Signature Sounds

La prima volta che ho sentito parlare della signora in questione risale a una decina di anni fa, in occasione dell’uscita dell’album Redbird (03,) inciso con i bravi Peter Mulvey e Jeffrey Foucault, il marito (da qui il titolo del “post”), un ottimo lavoro fatto di suoni fatati, di melodie toccanti che univano le radici della musica americana in perfette “folk-song”. Kris Delmhorst, nata e cresciuta a Brooklyn, NY, trova nella Boston area la sua casa musicale, dove si è fatta le ossa suonando per la strada, nelle metropolitane e facendo concerti nei bar, e dopo aver peregrinato per mezza America (e un po’ d’Irlanda), in quindici anni di intensa attività, alla fine si è guadagnata una discreta reputazione nel circuito folk proprio di Boston. Kris ha pubblicato sei album prima di questo Blood Test, tutti per la rispettabile label indipendente Signature Sounds, a partire da due album belli, ma un po’ acerbi, come Appetite (98) e Five Stories (01), trovando poi con i seguenti Songs For A Hurricane (03) e  Strange Conversation (06) quel posto al sole che tutti i “songwriters” cercano e desiderano, confermandosi in seguito con Shotgun Singer (08) e con Cars (11) un tributo alla band di Boston, dal sound corposo e diretto (anche grazie alla presenza di Greg Hawkes, il tastierista del gruppo di Ric Ocasek), in grado di offrirle un nuovo punto di partenza.  

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Per questo nuovo lavoro la Delmhorst ha arruolato solo tre musicisti, a partire dal co-produttore e chitarrista Anders Parker (ex membro di Varnaline e Space Needle oltre che autore di dischi solisti e di un paio di collaborazioni con Jay Farrar, tra cui il disco di inediti di Woody Guthrie http://discoclub.myblog.it/2012/02/23/100-anni-di-woody-guthrie-1912-2012-iniziano-le-celebrazioni/ ), il batterista Konrad Meissner (Brandi Carlile e Silos) e il polistrumentista Mark Spencer (Laura Cantrell e Son Volt): il disco è stato registrato a Brooklyn, dodici tracce che segnano in parte un nuovo inizio del suo percorso musicale.

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Gli “esami del sangue” iniziano con la sanguinosa melodia folk della title track Blood Test https://www.youtube.com/watch?v=08_rIWvRkXc , seguita da due canzoni di compassione e speranza come Homeless https://www.youtube.com/watch?v=m-F3sBc9jBg  e 92nd Street (un omaggio alla sua città natale https://www.youtube.com/watch?v=WJ8l8vgefPc ), passando per la dolcezza di Saw It All e Bees, arrivando alla batteria tribale della splendida We Deliver. Dopo una “flebo” si riparte con la sussurrata e delicata Little Frame,  il mid-tempo pop di Bright Green World (vagamente alla Stevie Nicks), il breve country-rock di Temporary Sun, proponendosi per gli esami finali (i più impegnativi) con due memorabili ballate: l’elettro-acustica Hushabye, e la struggente bellezza “irish” di My Ohio (un elogio per un amico defunto), andando a chiudere il “check-up” con la notturna e vagamente psichedelica Lighhouse.

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Blood Test è un disco sorprendentemente grintoso (merito di Anders Parker) ma melodico, che scorre senza intoppi, e che consente a questa signora, che ora vive sulle colline del Massachusetts orientale (con il marito songwriter Jeffrey Foucault e la loro figlia) di scalare rapidamente gli scalini più alti della gerarchia delle cantautrici più popolari e più brave del nuovo “folk” americano.

Tino Montanari

Di Cover In Cover! Peter Mulvey – The Good Stuff

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Peter Mulvey – The Good Stuff – Signature Sound Records – 2012

Peter Mulvey da Milwaukee, Wisconsin, già autore di dischi promettenti nel passato, continua a fare ciò che ha sempre amato, il “busker” da subway, ricordando le ore passate nei sottopassaggi di Dublino o in quelli americani. I cantanti delle metropolitane prevalentemente eseguono “covers”, e cosi Peter (nel mio immaginario) si siede su una panchina ed esegue le canzoni predilette dei suoi “eroi” musicali, che sono un po’ anche i nostri (Leonard Cohen, Willie Nelson, Tom Waits, Joe Henry).  Mulvey, si era già cimentato in un esperimento simile con Ten Thousand Mornings (2002), registrato proprio in una stazione della metropolitana di Boston, e in quel lavoro aveva pescato da Elvis Costello, Randy Newman, Paul Simon, Bob Dylan, e anche in misura minore in Redbird (2003), con la complicità dei compagni di tour Jeffrey Foucault e Kris Delmhorst. Questo lavoro, The Good Stuff, è una raccolta più tradizionale di brani swing e ballate, dai risultati altalenanti, un disco che pur non essendo complesso, risulta non di facile lettura, specialmente nella rilettura di canzoni di autori standard come Duke Ellington e Thelonious Monk e contemporanei, come Melvern Taylor e Jolie Holland.

Peter. accompagnato da validi musicisti tra i quali il fido David Goodrich alle chitarre, Jason Smith alla batteria, Paul Kochanski al basso  e Randy Sabien al violino e piano, trasforma i pezzi dei suoi favoriti, li modella e li plasma secondo un sentimento puro e convinto, e la bella versione di Everybody Knows che inizia con una risata liberatoria, offre una scanzonata lettura del Cohen più creativo. La scelta delle canzoni da menzionare prosegue con I Don’t Know Why But I Do, un classico trascurato di Bobby Charles, con in evidenza il violino di Randy Sabien, la deliziosa Sugar , una rumba cantata in versione Paolo Conte, e la splendida Richard Pryor Addresses A Tearful Nation , pescata dal canzoniere del grande Joe Henry e precisamente dall’album Scar. Nella selezione sono presenti anche due brani strumentali, una Egg Radio di Bill Frisell in cui eccelle David Goodrich, e una dolce versione in chiave jazz, Ruby, My Dear di Thelonious Monk. Nella stessa occasione Peter Mulvey fa uscire anche un EP complementare con altri 6 brani registrati nelle stesse sessioni e con gli stessi musicisti, dal titolo di Chaser.

Peter Mulvey in questo The Good Stuff, dimostra quanto possa valere un lavoro di “covers” fatto con personalità, rispetto a composizioni non sempre di pari livello, ma si dimostra artista creativo e originale, dalle grandi possibilità, che mi auguro vengano dimostrate prossimamente con brani usciti dalla sua penna.

Tino Montanari

Un Piccolo Supergruppo! Red Horse – Gilkyson, Gorka & Kaplansky

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Red Horse – Eliza Gilkyson, John Gorka, Lucy Kaplansky – Red House Records

Ogni tanto i cantautori hanno la tendenza a unire loro forze e soprattutto le loro voci per creare dei gruppi o (super)gruppi di musicisti: i primi sono stati Crosby, Stills & Nash (e Neil Young) ma poi negli anni, non frequentemente, capita che alcuni di loro decidano di creare dei dischi a “più voci”. Gli ultimi della serie sono questi Red Horse (che è anche il nome di uno dei capi Sioux che parteciparono alla battaglia del Little Bighorn, quella del Generale Custer per intenderci), ma in anni recenti c’erano stati anche i Redbird (Kris Delmhorst, Jeffrey Foucault e Peter Mulvey) autori di un bellissimo disco nel 2005 e, prima ancora, nel 1998 i Cry Cry Cry (di nuovo Lucy Kaplansky, che è quindi recidiva, con Richard Shindell e Dar Williams). Tanto per citarne un paio.

La formula è variabile, anche se prevale leggermente quella delle due voci femminili con un pard maschile, i risultati sono spesso assai soddisfacenti, come è il caso di questo Red Horse, pubblicato, per assonanza, dalla Red House nel mese di luglio del 2010.

Sono quei “piccoli” dischi di musica prevalentemente acustica, di derivazione folk, che spesso ti danno della grandi soddisfazioni.

I nostri tre amici sono ormai dei signori sulla cinquantina con una gloriosa carriera di nicchia alle spalle e, tra tutti e tre, hanno pubblicato, giustamente, quasi una cinquantina di dischi, oltre ad innumerevoli collaborazioni e partecipazioni a dischi di altri e degli altri (soprattutto John Gorka e Lucy Kaplansky la cui carriera si è incrociata più volte).

Il termine tre ricorre spesso in questo disco: ognuno ha scritto tre pezzi e ci sono tre cover, inoltre le voci si amalgano splendidamente in armonie vocali a tre voci (alla C S N per capirci). Per completare il summit di “cervelloni” i dipinti in copertina del disco sono di Tom Russell. Il disco si apre, simbolicamente, con una fantastica cover version di uno dei capolavori di Neil Young, I Am A Child, cantata da Eliza Gilkyson e con le voci degli altri due che si armonizzano alla perfezione, su un tappeto di percussioni, una chitarra acustica ed una elettrica a creare un sound che fa della semplicità la sua arma vincente.

L’altra particolarità del disco è che ognuno canta le canzoni scritte dagli altri, con tre eccezioni (vedete che il tre ritorna): una è Scorpion firmata e cantata da Lucy Kaplansky, con il supporto fondamentale della chitarra elettrica di Duke Levine, compagno di tante canzoni di Mary Chapin Carpenter, il suono è sempre molto “caldo” e amichevole e le voci riempiono gioiosamente i canali del nostro stereo. Oltre a tutto da quello che mi è dato capire leggendo tra le righe nelle note del disco (che sono sempre importanti e non nozionistiche perchè ti illustrano le caratteristiche della musica), sembrerebbe che i tre non abbiamo registrato il disco insieme, visto che a seconda dei brani si parla di additional recordings fatte in Texas (patria adottiva della Gilkyson, che ha registrato; per inciso, anche un bel Live At Austin City Limits) o in quel di New York (per gli altri due) a seconda di chi è la voce guida nei singoli brani.

Red Horse che dà il titolo alla raccolta, scritta dalla Gilkyson, è suonata e cantata in solitario da John Gorka, con la sua bella voce alla Eric Andersen, solo un minimo di armonie in questo caso a due voci. proseguendo nell’interscambio Promise me scritta dalla Kaplansky è cantata dalla Gilkyson, che in questo brano ha una voce che ricorda vagamente quella della Alanis Morissette meno feroce, con l’accompagnamento minimale di una elettrica e di una pedal steel e qualche percussione, oltre alle voci di Gorka e Kaplansky, meno in evidenza rispetto ad altri brani. Don’t mind me, Kaplansky per Gorka, con un bell’organo di supporto ha una andatura più vivace mentre Sanctuary firmata dalla Eliza per Lucy Kaplansky è l’unico brano che si avvale solo dell’accompagnamento di un solitario pianoforte oltre alle immancabili voci di supporto.

Coshieville è un brano scritto da un poeta e cantautore scozzese minore, tale Stuart McGregor, scomparso una quarantina di anni fa e che faceva parte del repertorio del grande folksinger Archie Fisher, qui presente in una bella versione cantata da Gorka. Blue Chalk scritta da Gorka è uno dei brani più belli di questo disco, cantata dalla Kaplansky con la sua bellissima voce leggermente nasale e ben supportata dalla Gilkyson e dalla chitarra di Levine, mentre il ruolo di Gorka è più marginale. Molto bella anche Forget To Breathe di John Gorka cantata dalla Gilkyson la cui voce è quasi interscambiabile con quella della Kaplansky che armonizza naturalmente anche in questo brano. If These Walls Could Talk è l’inedito composto e cantato da Gorka, con un banjo aggiunto alla solita acustica, se volete investigare sull’opera del cantautore, il bellissimo So Dark You See dello scorso anno potrebbe essere un ottimo punto di partenza.

Non dimentichiamo che, pur restando il folk il punto di partenza per tutti e tre, spesso gli arrangiamenti dei loro dischi hanno un suono molto più pieno ed “espansivo” rispetto a questo Red Horse. Torniamo al disco: penultimo brano Walk Away From Love è il brano scritto e cantato dalla Eliza Gilkyson, una bellissima dolce ballata dolente caratterizzata dallo struggente suono del violino nelle mani dell’ottimo Warren Hood e dal dobro di Mike Hardwick che danno alla canzone un country flavor molto peculiare.

Come si usa dire “Last but not least” una bellissima versione del traditional Wayfaring stranger, con Levine che suona qualsiasi tipo di strumento a corda e Lucy Kaplansky che guida le voci dei suoi due amici verso vette di armonizzazione vocale di grande fascino e conclude in gloria un piccolo grande disco. Per chi ama le emozioni semplici e dirette e la buona musica.

Bruno Conti