Produce Joe Bonamassa E Lei Ci Dà Dentro Di Brutto, Forse, Ma Forse, Anche Troppo! Joanna Connor – 4801 South Indiana Avenue

joanna connor 4801 south indiana avenue

Joanna Connor – 4801 South Indiana Avenue  – Keeping The Blues Alive

Ormai sembra che Joe Bonamassa stia perdendo lo scettro di artista più prolifico a favore di Neil Young che ultimamente cento ne pensa e cento ne fa: quindi il buon Joe ha pensato di incrementare il “suo secondo lavoro”, come produttore discografico per la propria etichetta Keeping The Blues Alive che,  dopo la pubblicazione dell’album di Dion Blues With Friends (e l’uscita del CD degli Sleep Eazys) ora si occupa del rilancio di Joanna Connor, una delle musiciste più valide e interessanti in ambito blues, nativa di New York, ma basata a Chicago, con una carriera discografica iniziata nel lontano 1989 con Believe It!, e proseguita, tra alti e bassi, con altri quattordici album, inclusi diversi dischi dal vivo, ed escluso questo nuovo 4801 South Indiana Avenue, dall’indirizzo del famoso locale della Windy City Theresa’s Lounge. La Connors (scusate ma mi scappa di dirlo, non è più una giovanissima, l’anno prossimo compirà 60 anni) fa parte della pattuglia delle musiciste bianche che praticano un blues piuttosto energico anziché no, quindi chitarriste cantanti molto influenzate anche dalla musica rock, con uno stile aggressivo e a tratti roboante, in grado di “maltrattare” spesso la sua Gibson (o una Delaney) per ridurla a più miti consigli https://www.youtube.com/watch?v=suwb2pdE2_g : era parecchi anni che non mi capitava di recensire un suo album per il Buscadero, ma il nuovo CD, grazie anche al lavoro di Bonamassa, mi sembra che la riporti ai fasti passati.

Joanna Connor by Maryam Wilcher

Joanna Connor by Maryam Wilcher

Joe e Joanna.una bella accoppiata. Non guasta il fatto che Joe le abbia affiancato un manipolo eccellente di musicisti, da Reese Wynans alle tastiere, a Calvin Turner al basso e Lemar Carter alla batteria, una piccola sezione fiati che ogni tanto interviene e i due co-produttori, Bonamassa e Josh Smith che spesso e volentieri fanno sentire anche le loro chitarre. La nostra amica è conosciuta soprattutto come una virtuosa della slide, e nel disco ce n’è a iosa: in effetti nel brano di apertura Destination, dal repertorio degli Assassins di Jimmy Thackery, la Connors inizia a mulinare il suo bottleneck a velocità vorticose, ben sostenuta dal piano di Wynans, con la sua voce potente supportata anche da quella del grande Jimmy Hall dei Wet Willie, con tutta la band che tira di brutto https://www.youtube.com/watch?v=89wb2tqg0io , mentre Come Back Home di nuovo con uno scatenato Wynans al piano, è una sorta di boogie rallentato, intenso e scandito, con Joanna che piazza un altro solo vigoroso di slide che ricorda quelli del miglior Thorogood https://www.youtube.com/watch?v=JUj5-MAcoiY . Bad News è uno dei pezzi più conosciuti di Luther Allison, per il quale la Connors in passato apriva i concerti, un lentone di quelli appassionati ed intensi, dove Joanna si cimenta in un lavoro di chitarra ricco di finezza e forza, mentre la sua voce è in grado di evocarne le atmosfere quasi stregate e sofferte, e Wynans alle tastiere è ancora una volta all’altezza della situazione, con i fiati a colorare l’atmosfera sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=FvYKatLNbc0 .

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I Feel So Good è uno dei grandi cavalli di battaglia di Magic Sam, un boogie frenetico e selvaggio, con il bottleneck sempre in grande evidenza, a duettare con la batteria di Carter, prima sfuma e poi riprende forza con finale a sorpresa https://www.youtube.com/watch?v=JUj5-MAcoiY . For The Love Of A Man è un classico blues rovente con fiati, scritto da Don Nix, proveniente dal repertorio di Albert King, seguito da un altro piccolo classico delle 12 battute come Trouble Trouble, a firma Lowell Fulsom, reso noto da Otis Rush, altro slow blues lancinante, con Josh Smith alla seconda chitarra e Wynans che raddoppia a piano e organo, per un pezzo che sta tra Bloomfield, sentire i fiati, please e Stevie Ray Vaughan e la Connors che si infervora alla solista https://www.youtube.com/watch?v=0CgFMl5tGKc . Please Help era di JB Hutto ma è un tributo al grande Hound Dog Taylor, slide music alla ennesima potenza, Cut You Loose la faceva anche il vecchio Muddy, Chicago Blues attualizzato da un arrangiamento moderno, dove la quota rock si fa prevalente e il bottleneck fa sempre furore https://www.youtube.com/watch?v=6-TF4bsd2Fk . Per gli ultimi due pezzi Joe Bonamassa fa un passo avanti e duetta con Joanna, prima nelle volute soul blues di Part Time Love dove organo, sax e fiati tutti prendono la direzione del Sud https://www.youtube.com/watch?v=hTApLuD5Jow  e nella gagliarda It’s My Time, scritta da Josh Smith e che è l’occasione per un duello di slide tra Joe e Joanna, pezzo che rievoca le atmosfere del Cooder più trascinante, con la musica che scivola, scivola, scivola… https://www.youtube.com/watch?v=vDjQMaSL4Nc 

Bruno Conti

Joe Bonamassa – L’Erede Di Eric Clapton O “Solo” Un Grande Chitarrista? Parte II

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Seconda Parte

La Carriera Solista Seconda Parte 2010-2010, Gli Anni Della Consacrazione: Black Country Communion, Collaborazioni Con Beth Hart, Rock Candy Funk Party, Sleep Eazys

A marzo esce il primo disco della nuova decade

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Black Rock – 2010 Mascot Provogue ***1/2 Registrato appunto ai Black Rock Studios nell’isola greca di Santorini il disco sancisce anche il successo commerciale della musica di Bonamassa in giro per tutto il mondo: ancora un brano alla Led Zeppelin come Steal Your Heart Away del bluesman Bobby Parker apre il CD, seguito da una canzone di John Hiatt (per un breve periodo anche lui “cliente” di Shirley) I Know A Place, anche questa duretta, Quarryman’s Lament, influenzata dal folk greco, prevede l’uso di flauto e bouzouki, mentre Spanish Boots, uno dei classici di Jeff Beck, è un altro potente rock-blues. Tra le altre cover, interessanti quelle di Bird On A Wire di Leonard Cohen, di nuovo con elementi folklorici e un violino insinuante, mentre Three Times A Lady di Otis Rush è un solido blues shuffle, e ottima pure la cover di Night Life di Willie Nelson, che vede la presenza di una ancora pimpante B.B. King, e un ottimo uso di fiati e archi, per non parlare della vivace Look Over Yonder’s Wall, un pezzo di Freddie King e il blues anni ‘20 Baby You Gotta Change Your Mind di Blind Boy Fuller e interessante la di nuovo acustica e cooderiana Athens To Athens. Per mantenere la media dei due dischi all’anno a fine anno esce anche il primo album dei Black Country Communion, il supergruppo formato con Glenn Hughes, di Trapeze e Deep Purple, Jason Bonham e Derek Sherinian dei Dream Theater, disco per certi versi anticipato dalle sonorita hard rock di alcuni brani di Black Rock. Li vediamo tutti quattro insieme qui sotto (anzi 5 compreso il Live).

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Black Country Communion – 2010 Mascot Provogue ***1/2 Il sound è evidentemente un omaggio a quello delle classiche band hard rock anni ‘70, in primis Led Zeppelin e Deep Purple: Glenn Hughes, basso e voce è la forza trainante della band, scrive quasi tutti i testi delle canzoni, mentre la musica appartiene ad entrambi, con qualche aiuto dagli altri, come direbbe Abatantuono “viulenza”, Hughes è un ottimo cantante, superiore a Bonamassa, specie nel genere, Joe che “si limita” a suonare la chitarra, sfogando tutta il suo amore per la musica hard, non tutto nel disco brilla, e gli odiatori del Bonamassa “casinaro” stiano a distanza, ma The Great Divide un brano tra Gary Moore e Deep Purple, la lunga cover di Medusa dei Trapeze, un pezzo dall’anima prog, Song Of Yesterday, firmata da Hughes e Bonamassa, tra Zeppelin, Free e qualche citazione Hendrixiana, non sono male, come pure la lunghissima canzone corale conclusiva Too Late For The Sun, oltre 11 minuti, con Bonamassa e Sherinian a dividersi gli spazi solisti, specie nella estesa coda strumentale.

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Black Country Communion 2 – 2011 Mascot Provogue ***1/2 il canovaccio è quello, lo stile sonoro pure, i quattro picchiano sempre come fabbri, qualche variazione sul tema in Faithless, con il suono della chitarra di Joe che rimanda ai Cream, ma Hughes è sempre dalle parti di Purple e Zeppelin, mentre An Ordinary Son è un tributo alla famiglia di Bonamassa, che lo ha sempre sostenuto nella sua carriera, notevole pure il blues lancinante Little Secret: questo è quello che avevo scritto sul disco nella mia recensione dell’epoca “In definitiva: derivativo, già sentito mille volte, con tanti assoli, una voce sopra le righe, tutti gli ingredienti di un disco di musica rock, va bene, hard rock, ma ogni tanto ci vuole”, confermo. Neanche un anno ed ecco che esce, il doppio dal vivo (ma era già uscito a fine 2011 il DVD)

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Live Over Europe – 2012 Mascot Provogue ***1/2 stesso discorso dei precedenti, con un paio di cover aggiunte al menu https://www.youtube.com/watch?v=w82V4gsSW-4 : Burn dei Deep Purple, mentre Sista Jane cita nella coda Won’t Get Fooled Again degli Who e Bonamassa riprende la propria The Ballad Of John Henry. A fine anno esce il terzo album di studio, Bonamassa impegnato anche nella sua carriera solista appare poco come autore e anche il suo rapporto con Hughes inizia a deteriorarsi (tradotto, i due non si possono più vedere).

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Afterglow – 2012 Mascot Provogue ***1/2 Prendo di nuovo a prestito quanto scritto dal sottoscritto all’epoca: “Niente di nuovo, ma solo del sano buon vecchio rock, suonato come Dio comanda, vedremo se sarà il loro ultimo capitolo. Nella prima tiratura c’è anche un DVD con il making of e quattro video delle canzoni”. Fine della prima fase, dopo essersene dette di tutti i colori sembrava che la storia fosse finita, e invece

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Black Country Communion IV -2017 Mascot Provogue Mi faccio aiutare ancora dal mio amico che vedo tutte le mattine allo specchio, che scrisse “Con una certa dose di autoironia, il banner che annuncia l’uscita del nuovo album dei Black Country Communion recita, lo riporto in inglese perché fa più scena: “They Said It Would Never Happen!”. E invece è successo, dopo la brusca separazione del 2012, dovuta a quelle che erano state appunto definite inconciliabili divergenze tra Joe Bonamassa e Glenn Hughes, torna il quartetto anglo-americano (Hughes e Bonham sono inglesi) con un quarto album che, forse in omaggio ad una delle loro fonti di ispirazioni sonore, si intitola BCC IV”. Le tre stellette e mezza costanti di tutti gli album, sono ovviamente dirette agli amanti del genere. Nel frattempo il nostro amico, sempre più bulimico a livello discografico nel 2011, a inizio anno, pubblica anche

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Dust Bowl – 2011 Mascot Provogue ***1/2 un altro disco accolto da ottime critiche, con un sound per certi versi più rootsy, visto che il lato più rock lo sfogava con i BCC. Nella gagliarda Slow Train un ottimo blues-rock va di slide alla grande, mentre nella title track ci sono citazioni morriconiane e qualche tocco folk grazie all’uso di strumenti della tradizione greca, nella parte del disco registrata a Santorini. Bellissimo il duetto con John Hiatt nella deliziosa Tennessee Plates e anche quello con Vince Gill nel country-blues Sweet Rowena che mi ha ricordato molto certe cose di Lyle Lovett. Visto che nel 2011 erano pappa e ciccia ce n’è anche uno con Glenn Hughes in una eccellente Heartbreaker dal repertorio dei Free. Kevin Shirley, di cui spesso si dimentica l’importanza nelle scelte di Bonamassa, produce da par suo, con un suono molto ben delineato e sempre “vivo”: ovviamente non mancano i pezzi blues, come The Meaning Of The Blues, un originale di Joe, e la cover di You Better Watch Yourself di Little Walter. Tra le “stranezze” di un musicista che è anche un music lover e ama tutti i generi, pure la rilettura di un altro pezzo di Tim Curry, come l’intensa No Love On The Street, dove va di wah-wah alla grande e una canzone di Barbra Streisand (?!?) Prisoner trasformata in una incantevole blues ballad.

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E per citare un modo di dire, non c’è il due senza il tre, nel corso dell’anno esce il frutto di una nuova collaborazione, questa volta con una grande voce femminile, ovvero Beth Hart, un incontro che gioverà a tutti e due, la cantante californiana si trova un grande chitarrista e il musicista newyorchese una delle più valide voci del panorama rock attuale, con la quale esplorare anche soul, R&B, canzone d’autore e standard della canzone americana. Vediamo a seguire gli album registrati insieme, partendo da

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Don’t Explain – 2011 Mascot Provogue ***1/2 Complessivamente 3 stellette e mezza, ma nel CD ci sono alcuni brani dove la chimica tra i due fa apparire delle piccole perle, che poi si ripetono anche negli album successivi: qui vorrei ricordare Sinner’s Prayer un pezzo di Ray Charles, dove sembra di ascoltare l’accoppiata Rod Stewart/Jeff Beck, con Joe al bottleneck e il nuovo tastierista Arlan Schierbaum in grande spolvero, Chocolate Jesus di Tom Waits dove la voce ricorda molto quella di Mary Coughlan, la jazzata e soffusa Your Heart Is As Black As Night di Melody Gardot, Don’t Explain di Billie Holiday, cantata con grande trasporto, e a proposito di grandi voci la cover di I’d Rather Go Blind di Etta James è fenomenale, quasi alla pari con l’originale, e con un assolo superbo di Bonamassa, uno dei migliori della sua carriera, ottima anche Ain’t No Way dove la Hart si misura anche con Aretha Franklin, e lì si soccombe, dopo una strenua difesa, sulle ali della slide di Joe.

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Seesaw 2013 Mascot/Provogue ***1/2 L’istinto mi direbbe di aggiungere mezza stelletta al giudizio per ogni disco, ma mi trattengo per riservarlo al doppio dal vivo. Anche qui parecchi brani fantastici: lo swing di Louis Armstrong Them There Eyes, fiati in spolvero e Beth Hart che fa la gattona, una Nutbush City Limits dove l’accoppiata Joe e Beth rivaleggia con la soul revue di Ike & Tina Turner, la super blues ballad I’ll Love You More Than You’ll Ever Know, scritta da Al Kooper e con un assolo da manuale di Bonamassa, una intensa Strange Fruit di Billie Holiday, e di nuovo l’accoppiata Etta ed Aretha in A Sunday Kind Love e Seesaw dove la Hart si supera come interprete, mentre Joe cesella sullo sfondo.

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Live In Amsterdam – 2014 Mascot Provogue 2 CD DVD**** Oltre ai brani già ricordati nei singoli album, riproposti anche nel doppio dal vivo, Joe e Beth, sostenuti dalla formidabile band di Bonamassa ci regalano un Live tra i migliori della decade: le versioni di I’d Rather Go Blind https://www.youtube.com/watch?v=UEHwO_UEp7A  e I’ll Love You More… sono fantastiche, tra i brani aggiunti spiccano il blues di Freddie King Someday After a While per Bonamassa e la ballata pianistica Baddest Blues per la Hart, in ambito soul Rhymes di Al Green che scatena il pubblico e Something’s Got A Hold Of Me di nuovo della James, in ambito rock una travolgente Well, Well che rinverdisce i fasti di Delaney & Bonnie. Dopo cinque anni tornano con quello che è forse il loro migliore disco in coppia in studio.

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Black Coffee – 2018 Mascot Provogue **** Mi faccio aiutare ancora da quanto scritto dal sottoscritto in passate recensioni: “Beth Hart e Joe Bonamassa presi singolarmente sono, rispettivamente, la prima, una delle più belle voci prodotte dalla musica rock negli ultimi venti anni, potente, grintosa, espressiva, eclettica, con una voce naturale e non costruita,, il secondo, forse il miglior chitarrista in ambito blues-rock (ma non solamente) attualmente in circolazione, entrambi degni eredi di quella grande tradizione che negli anni gloriosi della musica rock, quindi i ’60 e i ’70, sfornava di continuo nuovi talenti che ancora oggi sono i punti di riferimento per chi vuole ascoltare della buona musica”: in Black Coffee evidenziano di nuovo queste caratteristiche, anche grazie alla presenza di nuovi elementi nella band di Bonamassa, Reese Wynans alle tastiere, Michael Rhodes al basso, la sezione fiati e la pattuglia di coriste, guidate da Mahalia Barnes, tra i brani spiccano Give It Everything You Got un pezzo di Edgar Winter in vesione soul revue, con wah-wah di Joe a manetta, Damn Your Eyes, un ennesimo brano di Etta James che ci permette di gustare la voce della Hart, ottima anche Lullaby Of The Leaves della Fitzgerald, di nuovo con rimandi a Mary Coughlan, tra i pezzi più rock Joy di Lucinda Williams, per la seconda volta reinterpretata dalla accoppiata Beth e Bonamassa https://www.youtube.com/watch?v=mkS-q5hq7qY , che poi si esibisce in una versione di Sittin’ On Top Of The World, vicina a quella dei Cream.

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Per evitare che l’articolo si trasformi in un saggio, vista l’immane quantità del repertorio del nostro amico, cerco di sintetizzare molto di più il repertorio, magari per argomenti, vediamo una selezione di dischi dal vivo che nella seconda decade del 2000 si moltiplicano: sono otto, escluso quello appena citato, a cui sono da aggiungere i 4 DVD della serie Tour De Force Live In London- Mascot Provogue ***1/2 usciti in contemporanea nel 2013 e poi in doppi CD nel 2014, e relativi a quattro concerti tenuti a Londra a marzo in diverse venue, dove a seconda della capienza cambiava il tipo di repertorio, mentre il titolo per ognuno era appunto Tour De Force, e sono tutti molto belli.

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Però tra le cose migliori del suo repertorio Live c’è sicuramente Beacon Theatre: Live From New York – 2012 Mascot Provogue 2 CD DVD **** due serate speciali al famoso teatro di New York, dove, come nella data londinese alla RAH del 2009, Joe invita sul palco alcuni ospiti: Beth Hart, per la immancabile e strepitosa I’d Rather Go Blind e Sinner’s Prayer, John Hiatt con due suoi brani, Down Around My Place e I Know A Place, infine Paul Rodgers che canta Walk In My Shadow e Fire In The Water dei Free, mentre Bonamassa può rendere omaggio al grande Paul Kossoff, tra le chicche della serata anche Midnight Blues di Gary Moore e Young Man’s Blues degli Who via Mose Allison.

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Poi nelle decade parte un sorta di tour discografico dei grandi teatri: An Acoustic Evening at the Vienna Opera House – 2013 Mascot Provogue 2 CD – 2 DVD –  Blu-Ray**** ovvero Joe Bonamassa goes acoustic, ma a modo suo, con altri quattro musicisti sul palco della casa dei Wiener Philarmoniker, oltre a Bonamassa che suona qualsiasi tipo di chitarra, meno quelle elettriche, in modo egregio, ci sono mandolino, violino, mandola, harmonium, nyckelharpa e qualsiasi tipo di percussione, suonata da Lenny Castro. Nessuno dei suoi idoli della chitarra rock e colleghi aveva mai fatto una cosa del genere, riuscita perfettamente https://www.youtube.com/watch?v=v8lOSERcJFE .

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Nel 2015 non è in un teatro ma in una delle location più suggestive del mondo, l’anfiteatro naturale vicino a Denver Muddy Wolf at Red Rocks – 2015 Mascot Provogue 2 CD DVD **** Come dice il titolo una serata speciale dedicata a Muddy Waters e Howlin’ Wolf, perché Joe (e penso anche il fido Kevin Shirley) cercano sempre un’idea particolare per rendere questi eventi unici https://www.youtube.com/watch?v=GbIr9CUfjZ8 . Una serata speciale sul Chicago Blues della Chess, come lo avrebbero suonato queste grande icone, ma anche i suoi idoli, Beck, Page e Clapton e Jimi Hendrix, di cui riprende nella parte finale della serata Hey Baby (New Rising Sun), grande concerto.

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Lo stesso anno, sempre per la serie dei teatri esce anche Live At Radio City Music Hall – 2015 Mascot Provogue CD+DVD **** meno di 80 minuti, un’altra fantastica performance nella location newyorchese, con un repertorio molto diverso da quello di altri concerti. L’anno successivo approda sulla West Coast, in un altro teatro storico, di Los Angeles

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Live at the Greek Theatre – 2016 Mascot Provogue 2 CD DVD**** Questa volta quale è l’argomento del concerto? Una serata speciale dedicata ai tre grande King del blues, Freddie, Albert e B.B., nell’ordine di apparizione dei loro brani, e, manco a dirlo, un altro disco dal vivo strepitoso https://www.youtube.com/watch?v=qoX0Olfqziw . Lo stesso anno viene registrato (pubblicato l’anno dopo) anche Live at Carnegie Hall: An Acoustic Evening 2017 Mascot Provogue 2 CD DVD **** che non è la replica americana del concerto di Vienna, ma per il 15° disco dal vivo, Bonamassa si presenta sul palco in veste acustica, però accompagnato da una Big Band di nove elementi (lui incluso) con musicisti anche da Cina ed Egitto, per una serata tipo quelle della serie Unpuggled, quando sul palco erano comunque la metà di mille.Altro ottimo concerto.

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Fedele alla sua filosofia del “una pensa e cento ne fa), poi tocca alla serata della British Blues Explosion Live2018 Mascot Provogue 2 CD 2 DVD **** dopo il tributo ai tre Re del blues questa volta tocca alla triade inglese dei “Re” della chitarra, ovvero Jeff Beck, Eric Clapton e Jimmy Page, registrato nell’estate del 2016 nel cortile dell’Old Royal Naval College di Greenwhich, nei sobborghi di Londra: questa volta Bonamassa e la sua band ci danno dentro alla grande, pescando anche nel repertorio di Cream. Jeff Beck Group e Led Zeppelin. L’ultimo live, per ora, fa parte di nuovo della serie dei teatri, siamo Down Under in Australia in un’altra delle location più suggestive del mondo Live at the Sydney Opera House – 2019 Mascot Provogue ***1/2 uscito solo in singolo CD, niente DVD, per ora, ma esistono le immagini, registrato, come il precedente nel 2016, a parte una cover di Mainline Florida di Clapton, solo materiale originale dai suoi dischi di studiohttps://www.youtube.com/watch?v=ntBsXyImdKI . A proposito completiamo la lista delle uscite della decade, a parte Royal Tea del 2020, di cui vi ho parlato recentemente https://discoclub.myblog.it/2020/10/24/saluti-da-londra-abbey-road-joe-bonamassa-royal-tea/ , “solo” altri quattro dischi di materiale nuovo.

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Driving Towards The Dayligth – 2012 Mascot Provogue ***1/2 dopo Dust Bowl che era un disco più “rootsy” questo nuovo ha un suono più duro, molte cover, anche “lavorate” come Stones In My Passway di Robert Johnson, che sembra un pezzo dei Led Zeppelin, come pure il riff inziale di Whole Lotta Love era contenuto in Who’s Been Talking di Howlin’ Wolf https://www.youtube.com/watch?v=L-wz2gxGucM , nell’ambito ballate la rara title track, un pezzo di Danny Korchmar, e sempre in ambito blues (rock) I Got What You Need di Wilie Dixon per Koko Taylor, alla Bluesbreakers, e per la serie l’eclettismo impera, un Bill Withers, un Tom Waits, un Buddy Miller e un Jimmy Barnes.

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Different Shades of Blue2014 Mascot Provogue ***1/2 tutte canzoni originali, a parte la cover iniziale di Hey Baby (New Rising Sun) di  Hendrix, nessuna memorabile, ma una qualità media ottima, visto che c’è spazio anche per blues e soul https://www.youtube.com/watch?v=i7-CTdeRk2s  , grazie alla presenza costante dei fiati.

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Blues Of Desperation – 2016 Mascot Provogue ***1/2 la title track ha sempre elementi degli amati Led Zeppelin, come pure Mountain Climbing molto Jimmy Page, You Left Me Nothin’ But the Bill and the Blues va di boogie, mentre nella tirata e gagliarda This Train Reese Wynans innesta una marcia barrelhouse, Drive ha un approccio più elettroacustico benché sempre con l’uso della doppia batteria https://www.youtube.com/watch?v=euMNVyuqmwo , No Good Place For The Lonely è una blues ballad alla Gary Moore e What I’ve Known for a Very Long Time è uno slow blues alla B.B. King con uso fiati.

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Redemption – 2018 Mascot Provogue ****per il disco numero 13, tra i migliori in studio di Bonamassa si torna di nuovo ad un approccio più roots, nella corale title track tra gli autori troviamo anche Dion, e un assolo micidiale di Joe, nel disco questa volta solo un batterista, ma due chitarristi aggiunti, Doug Lancio e Kenny Greenberg, The Ghost Of Macon Jones è un country-rock and western di ottimo impatto dal ritmo galoppante, con Jamey Johnson, notevole anche un torrido slow blues elettrico, con uso fiati e piano, come Love Is A Gamble dove Joe Bonamassa scatena ancora una volta tutta la sua verve chitarristica in un lancinante assolo e Molly O, tra Led Zeppelin e Black Country Communion, (quasi) la stessa cosa dirà qualcuno.

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Facciamo un breve passo indietro che tra il 2013 e il 2017, nei ritagli di tempo Joe ha registrato anche quattro album con i Rock Candy Funk Party, un side project dove in teoria Bonamassa è solo ospite, ma in questa band si diletta anche a mettere in mostra la sua passione per fusion, jazz-rock e funky, come da nome della band, il migliore anche in questo caso direi che sia il doppio Rock Candy Funk Party Takes New York: Live at the Iridium – 2014 2CD + DVD ***1/2.

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E sempre in ambito strumentale ad aprile è uscito, sotto pseudonimo, ma lo sanno tutti chi suona, ovvero Bonamassa con tutta la band al completo più John Jorgenson e Jimmy Hall dei Wet Willie, anche l’eccellente disco degli Sleep Eazys – 2020 Easy To Buy – Hard To Sell – Mascot/Provogue***1/2 un omaggio al suo vecchio mentore e maestro Danny Gatton, ma anche al suono di Roy Buchanan e Link Wray, tra i grandi maestri della chitarra elettrica. Ci sarebbero poi da ricordare miriadi di collaborazioni nei dischi di chiunque, ma almeno la citazione della produzione del bellissimo disco da solista di https://discoclub.myblog.it/2019/03/05/anche-lui-per-un-grande-disco-si-fa-dare-un-piccolo-aiuto-dai-suoi-amici-reese-wynans-and-friends-sweet-release/ è doverosa. Forse non sarà l’erede di Eric Clapton (e neppure di Jeff Beck, Jimmy Page e Jimi Hendrix), ma è sicuramente uno dei migliori chitarristi degli ultimi anni. Peccato faccia pochi dischi!

Bruno Conti

Non Gli Avranno Portato Sfortuna? Jerry Jeff Walker – Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years

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Jerry Jeff Walker – Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years – Morello/Cherry Red 5CD Box Set

Una spiegazione per l’ironico titolo del post: il cofanetto di cui mi accingo a parlare non è uno di quei casi di “instant anthology” messa fuori da una casa discografica per capitalizzare la recente morte di un artista, ma era già stata messa in cantiere quando Jerry Jeff Walker, grande singer-songwriter scomparso lo scorso 23 ottobre, era ancora in vita, e la conferma di ciò si trova nel libretto incluso nel box, che parla del musicista newyorkese ma texano d’adozione al presente e non fa riferimento al triste epilogo. Oggi non sono qui per commemorare il countryman nato Ronald Clyde Crosby (per questo vi rimando al mio post di ottobre https://discoclub.myblog.it/2020/10/25/purtroppo-e-arrivato-quel-tempo-da-venerdi-scorso-il-texas-e-un-po-piu-povero-a-78-anni-se-ne-e-andato-mr-bojangles-jerry-jeff-walker/ ), ma appunto per parlare nel dettaglio di questo Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years, un pratico cofanettino con dentro cinque CD rimasterizzati, ma senza bonus tracks, risalenti a due periodi ben diversi della carriera del nostro, e cioè i suoi tre primi album da solista dopo gli esordi con i Circus Maximus e due lavori di fine anni settanta, quando Jerry Jeff era già diventato famoso grazie ai dischi pubblicati con la MCA (e ristampati qualche anno fa dall’australiana Raven, che purtroppo ha chiuso i battenti da alcuni anni).

Ascoltando questi cinque dischetti uno ad uno si tocca quasi con mano l’evoluzione di Walker come songwriter e musicista: già pronto a farsi notare con il primo album in cui piazza subito la sua canzone più famosa, lo lasciamo dopo il terzo lavoro per poi ritrovarlo maturo e texano al 100% con il primo dei due LP per la Elektra, nei quali paradossalmente si rivolge quasi totalmente a brani altrui. Ma iniziamo da Mr. Bojangles (1968), esordio prodotto dal grande Tom Dowd e con una band capitanata da David Bromberg: tutti i brani presenti sono scritti da Jerry Jeff, a partire dalla leggendaria title track, che diventerà un classico assoluto della canzone americana e verrà portata al successo due anni dopo dalla Nitty Gritty Dirt Band, ma discretamente famosa sarà anche lo scintillante bluegrass Gypsy Songman, che diventerà uno dei soprannomi del nostro.

Altri brani di punta di un debutto niente male sono l’intima e deliziosa Little Bird, la spedita I Makes Money (Money Don’t Make Me), altro bluegrass coi fiocchi, la vivace ed orecchiabile Round And Round, la folk tune Broken Toys, molto anni 60 e con il piano di Gary Illingworth in evidenza, e la complessa The Ballad Of The Hulk, brano che in sette minuti tratta diversi temi, dalla politica al Vietnam passando per il controllo delle nascite e le compagnie discografiche, e che musicalmente paga tributo a It’s Alright Ma di Bob Dylan.

Dopo un album con la Vanguard (Driftin’ Way Of Life) Walker torna alla Atco e nel 1970 pubblica Five Years Gone con la produzione di Elliot Mazer, che si farà poi un nome con Neil Young e Linda Ronstadt, e l’aiuto di un gruppo di “Nashville Cats” con personaggi del calibro di Norbert Putnam, Kenny Buttrey, David Briggs, Hargus “Pig” Robbins, Charlie McCoy, oltre al ritorno di Bromberg. Nonostante il disco sia inciso nella capitale mondiale del country, l’album presenta diversi stili, a partire dalla rockeggiante Help Me Now, con tanto di chitarra “fuzz”, per proseguire con Blues In Your Mind, dal chiaro sapore soul, e con la leggera psichedelia del country cosmico About Her Eyes.

Non mancano episodi di songwriting classico come le toccanti ballate Seasons Change e Janes Says, e tra i pochi brani mossi di un disco molto intimista segnalerei il bel country-rock Dead Men Got No Dreams, con il backing sound tipico dell’epoca (pensate a Nashville Skyline di Dylan), l’elettrica e godibilissima Happiness Is A Good Place To Visit, But It Was So Sad In Fayetteville e l’irresistibile country song dal tocco vaudeville Born To Sing A Dancin’ Song. C’è anche una ripresa acustica della sempre splendida Mr. Bojangles, registrata durante un broadcast radiofonico del 1967 e quindi antecedente al primo album.

Sempre nel 1970 Jerry Jeff concede il bis con Bein’ Free, che vede il ritorno di Dowd in consolle e con i Dixie Flyers in session, un gruppo collaudato che comprende Jim Dickinson e Mike Utley al piano, Charlie Freeman alle chitarre e Tommy McClure al basso. Si inizia in modo divertente con il contagioso honky-tonk corale I’m Gonna Tell On You e si prosegue con la limpida ballata Stoney e con l’ironico country-rock Where Is The D.A.R. When You Really Need Them?

In generale questo è il migliore dei tre dischi targati Atco, e lo dimostrano A Secret, che profuma di folk song irlandese, l’intenso slow But For The Time, con piano e chitarra a lavorare di fino, il rock’n’roll with a country touch Vince Triple-O Martin e la bella e toccante More Ofter Than Not, scritta da David Wiffen. Facciamo un salto di qualche anno per ritrovare nel quarto CD un Walker decisamente più “texano” ed in generale migliore come musicista anche se, come ho già accennato, si affida al 90% a brani non suoi.

Jerry Jeff (1978) è comunque un signor disco, un lavoro grintoso e molto più rock che country, con una band tostissima guidata dal chitarrista Bobby Rambo e dalla nostra vecchia conoscenza Reese Wynans alle tastiere. Jerry porta in dote solo una canzone, la solare e quasi caraibica Her Good Lovin’ Grace, mentre tra gli altri pezzi meritano un cenno lo splendido slow pianistico di Mike Reid Eastern Avenue River Railway Blues posto in apertura, la roccata e trascinante Lone Wolf di Lee Clayton, con assolo potente di Rambo (d’altronde con quel cognome…), il country-rock venato di errebi sudista Bad News di John D. Loudermilk (ma che JJW ha imparato da Johnny Cash), il coinvolgente rock’n’roll scritto da Rambo Boogie Mama e l’intensa ballata Comfort And Crazy dell’amico Guy Clark.

Nel 1979 Jerry pubblica Too Old To Change, altro ottimo disco composto esclusivamente da canzoni scritte da altri, prodotto dallo stesso Jeff e con più o meno gli stessi musicisti del precedente lavoro. A parte belle versioni di un classico assoluto (Me And Bobby McGee di Kris Kristofferson) e di un brano che lo diventerà (I Ain’t Living Long Like This di Rodney Crowell), sono da segnalare anche lo strepitoso honky-tonk I’ll Be Your San Antone Rose, scritto da Susanna Clark (moglie di Guy) e cantato dal nostro in duetto con Carole King, l’acustica Hands On The Wheel, il puro Texas country Cross The Borderline e la profonda Then Came The Children di Paul Siebel.

L’invasione di ristampe, antologie e cofanetti tipica della stagione natalizia potrebbe far passare inosservato questo Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years, ma sono sicuro che gli appassionati del buon vecchio country-rock texano lo avranno già inserito nella loro “wish list”.

Marco Verdi

Stevie Ray Vaughan 1954-1990. 30 Anni Fa Ci Lasciava L’Ultimo Guitar Hero, Parte II

Seconda parte.

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Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Texas Flood – 1983 Epic ****1/2

Il disco arriva “solo” al 38° posto delle charts USA, ma vende oltre 2 milioni di copie nel mondo: non male per un disco di blues-rock in power trio, in un’epoca, gli anni ‘80, dove purtroppo imperava altra musica. L’album è uno dei “debutti” classici del rock. Molte canzoni le abbiamo appena descritte nella prima parte dell’articolo, Love Struck Baby, Pride And Joy e Texas Flood poste in sequenza in apertura sono un incipit veramente superbo per il disco, per non dire della potente cover di Tell Me di Howlin’ Wolf e di quella di Testify degli Isley Brothers, altri portatori sani di “hendrixismo”, con alcuni critici che scrissero che Vaughan era il miglior chitarrista ad uscire dal Texas dai tempi di Johnny Winter.

Nella seconda facciata troviamo Rude Mood un altro dei suoi tipici velocissimi boogie shuffles strumentali, la ritmata cover di Mary Had A Little Lamb di Buddy Guy, un’altra delle sue influenze primarie, l’intenso slow blues Dirty Pool, la saltellante I’m Crying dedicata ad una precedente girlfriend e il raffinato e sognante strumentale Lenny, dedicato alla moglie, nonché nome di una delle sue chitarre. Nella edizione in CD del 1999 vengono aggiunte 4 bonus, la splendida Tin Pan Alley registrata in studio, con sublime uso di timbri e livelli, e dal vivo al Palace di Hollywood il 20/9/83 Testify, Mary Had A Little Lamb e la esplosiva cover di Wham, di un altro dei suoi maestri Lonnie Mack.

Se volete fare tombola l’ideale sarebbe prendere la versione in doppio CD uscita per la Legacy nel 2013, che aggiunge un concerto inedito a Philadelphia del 20/10/83, ma toglie i 3 brani del concerto a L.A., misteri delle case discografiche, però ci sono due cover di Jimi fantastiche, Voodoo Child /Slight Return e un medley con una commovente Little Wing e Third Stone From The Sun. Texas Flood rimane il suo capolavoro assoluto. Però altri dischi molto belli ne ha fatti parecchi, a partire da uno che scopriremo solo 9 anni dopo la sua morte: la testimonianza dell’incontro con un altro maestro.

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Albert King & Stevie Ray Vaughan – In Session – 1999 Stax Records ****1/2

In quel periodo, per rimanere in ambito musicale, e parafrasando il Barbiere Di Siviglia, “Tutti lo cercavano, tutti lo volevano”, per cui il 6 Dicembre del 1983 si reca negli studi di una stazione televisiva a Hamilton, nell’Ontario, per registrare uno special che documenta il suo incontro con un altro dei giganti del Blues, Albert King, una delle sue grandi influenze. Vaughan aveva 29 anni, King 60: all’inizio Albert non voleva fare lo spettacolo perché non sapeva chi fosse Stevie Ray, poi si ricordò che era “Little Stevie”, un ragazzino che veniva spesso ai suoi concerti in Texas, ma forse è la solita leggenda metropolitana, per fare spettacolo, visto che i due avevano suonato insieme all’Antone’s nel 1977. Il “concerto” è condotto da Albert King che utilizza gran parte del suo repertorio, oltre ad usare la propria band, ma lascia ampio spazio per le divagazioni soliste di SRV, che esegue anche due suoi brani, Pride And Joy, dove canta anche, e Texas Flood, presente solo nella versione in DVD.

Sarebbe inutile dire (ma lo stiamo dicendo) che l’incontro  si rivelò una vera delizia, con i due che si integrarono a meraviglia, anche chiacchierando tra un brano e l’altro, come due vecchi amici. Tutto il concerto fu splendido ma brillano soprattutto le versioni di Call It Stormy Monday, soffusa all’inizio e poi in un crescendo entusiasmante, con i due che se le suonano di santa ragione, una superba Pride And Joy con Albert che se la gode, una pantagruelica Blues At Sunrise, che King ricorda di avere suonato anche con Jimi Hendrix, sfidando Vaughan a suonarla come lui, e Janis Joplin, dove il Blues raggiunge livelli siderali. Eccellenti anche Match Box Blues e la conclusiva Don’t Lie To Me. Due maestri in azione. Poco dopo, a gennaio 1984, Stevie Ray entra in studio per registrare

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Couldn’t Stand The Weather – 1984 Epic ****

Registrato ai Power Station di New York il disco è un altro grande successo per SRV, sia di critica, che di pubblico (solo 31° posto delle classifiche ma 1.000.000 di copie vendute): 4 pezzi originali e 4 cover, ma al solito la versione da avere è quella Deluxe in doppio CD della Legacy Edition, con quasi due ore di musica complessiva. Nel disco originale brillano la citata Scuttle Buttin’, l’energica title track, la cover della blues ballad di Guitar Slim The Things (That) I Used To Do, entrambe con il fratello Jimmie alla chitarra ritmica, ovviamente Voodoo Child (Slight Return) del suo idolo Jimi Hendrix, la massima influenza del texano che dichiarò “Non sono nemmeno sicuro che lui suonasse la chitarra, suonava la musica”.

Ottime anche la travolgente Cold Shot e lo slow blues preternaturale di Tin Pan Alley, il primo brano registrato per l’album, con Hammond presente in studio che esclamò “Non potrai mai suonarla meglio, era meravigliosa”! Tra le tantissime chicche nelle bonus Come On (Part III), Hide Away, The Sky Is Crying, Wham e Little Wing. Nel secondo CD c’è uno splendido concerto allo Spectrum di Montreal dell’agosto 1984.

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Sempre in quel periodo, il 4 ottobre del 1984, verrà registrato un concerto alla Carnegie Hall di New York, con John Hammond a presentare il suo pupillo, il CD uscirà postumo come Live At Carnegie Hall – 1997 Epic ****1/, un concerto formidabile per una serata speciale, con molti ospiti, il fratello Jimmie Vaughan, Dr.John, George Rains alla batteria e la vecchia amica Angela Strehli che canta C.O.D, oltre ad una sezione fiati, guidata da Greg Piccolo. Secondo molti è il più bel Live di Stevie Ray Vaughan (e ce ne sono tra cui scegliere): suono eccezionale e performance superba, power trio sound all’ennesima potenza, come se un TIR ti venisse addosso: Scuttle Buttin’ e Testify aprono le operazioni alla grande, poi arriva Love Struck Baby, una rara Honey Bee, la scandita Cold Shot, Letter To My Girlfriend dell’amato Guitar Slim, dove arriva la sezione fiati e sembra di essere andati in trasferta a New Orleans.

Stessa ambientazione sonora per il torrido lentone Dirty Pool, con pianino di Mac Rebennack e fratello Jimmie aggiunti, Pride And Joy con fiati è libidinosa, e anche The Things That I Used To Do, sempre di Guitar Slim, è dominata da un ispiratissimo Stevie Ray che divide le parti di chitarra con Jimmie Vaughan, mentre nella successiva e rara C.O.D. di Leo Gooden cede il microfono alla pimpante Angela Strehli, mentre Dr. John è all’organo.

Iced Over, detta anche Collins’ Shuffle, è il tributo a Albert Collins preso con grande ritmo, che poi si placa nella soave Lenny, da solo all’elettrica, prima del congedo con la turbolenta Rude Mood, di nuovo in solitaria.

Nel frammento il consumo di droghe per lui e Shannon si è fatto massiccio, SRV trova sempre più difficile concentrarsi sulla musica, e si decide per la registrazione del disco successivo di aggiungere Reese Wynans alle tastiere e a marzo a Dallas si entra in studio per

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Soul To Soul – 1985 Epic ***1/2

Le critiche non sono buonissime, non c’è la versione Deluxe, ma una Legacy che aggiunge un paio di bonus: comunque un disco rispettabile, che si apre sull’orgia wah-wah della hendrixiana Say What, bene anche la fiatistica Look At Little Sister, con un ottimo Wynans al piano, un altro di quei blues lenti in cui Stevie era maestro come Ain’t Gone ‘n’ Give Up on Love, con assolo di grande finezza, buone ma non entusiasmanti le altre canzoni, con l’eccezione del brano di Hendrix Come On (Part III) a tutto wah-wah e la conclusiva splendida ballata di Earl King Life Without You.

Nelle tracce extra spicca il fantastico medley hendrixiano Little Wing/Third Stone From The Sun che varrebbe mezza stelletta in più. A questo punto, come parte del loro contratto, SRV e i Double Trouble devono un nuovo album alla Epic e decidono di registrare un doppio dal vivo estratto da tre date a Austin e Dallas nel luglio 1986: il problema è che tutti, a questo punto compreso anche Layton, per dirla con parole chiare, sono dei “drogati persi”, e il risultato è una serie di concerti caotici, dove la qualità delle esibizioni è scarsa, tanto che ci saranno parecchie sovraincisioni per tappare i buchi, anche tecnici, delle registrazioni.

Il disco esce il 15 novembre come

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Live Alive – 1986 2 LP Epic ***

Ed è il più “brutto” tra i tanti dischi dal vivo della carriera di Vaughan: intendiamoci, in quel periodo ci furono parecchi altri concerti dalla qualità” scadente”, anche negli anni a venire, e benché la disintossicazione dalle droghe venne iniziata quasi subito, ci sarebbe voluto un lungo periodo prima di tornare in forma. Se aggiungiamo che a gennaio del 1987 la moglie Lenny chiese il divorzio (anche se, senza cadere nel pettegolezzo, diciamo che frequentandolo per 13 anni, pure lei non era immune da problemi di dipendenza), ottenendo anche una ingiunzione che proibiva a Stevie di scrivere e registrare nuove canzoni per almeno due anni, il periodo non fu tra i migliori per Vaughan; un ricordo personale è la serata del luglio 1988 al Palatrussardi di Milano, dove SRV si esibì insieme ai Los Lobos (gli unici da salvare) e ai Pogues di Shane MacGowan, dando vita ad una sorta di festival degli strafatti, questa almeno fu la mia impressione, unita alla “ottima” acustica della location.

Tornando al doppio ufficiale, che mi sono risentito per scrivere questo articolo, oggi il disco rimasterizzato a tratti non suona neppure male, anche se sembra quasi un disco di studio (con il pubblico lontanissimo), tra i brani apparsi nel frattempo in repertorio Superstition, I’m Leaving You (Commit a Crime), un brano attribuito a Howlin’ Wolf, ma che forse non era suo, almeno con questo titolo, vi risparmio i distinguo dei vari critici, visto che la canzone è abbastanza buona, Willie The Wimp del bravo Bill Carter e le “solite” Pride And Joy, Texas Flood, Voodoo Child e Life Without You (esclusa dalla versione in CD, solo su cassetta e LP, ma reinserita nella versione presente nel box Complete Epic Recordings Collection , di cui parliamo a fine articolo, visto che sarebbe quella da avere se volete tutta l’opera di SRV su Sony).

Dopo il divorzio, finalmente un ex tossico ed alcolizzato, Stevie entra in studio a Memphis e poi a L.A, tra gennaio e marzo del 1989, per registrare quello che sarà il suo ultimo disco ufficiale di studio.

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In Step – 1989 Epic ****1/2

Vaughan scrive parecchie nuove canzoni, molte con il suo co-autore Doyle Bramhall, anche lui reduce da un percorso di disintossicazione, unite alle solite cover scelte con cura. Il risultato è un ottimo album, appena inferiore all’esordio Texas Flood. Apertura affidata al Boogie R&R di The House Is Rockin’ che sembra un pezzo dei Blasters, con la band scatenata, in particolare Reese Wynans al piano, ottima anche Crossfire, scritta da Bill Carter insieme agli altri Double Trouble, canzone fiatistica (i Texicali Horns) dal retrogusto R&B, eccellente anche Tightrope, con un suono funky ben evidenziato dal produttore Jim Gaines.

Non manca il blues à la SRV di Let Me Love You, un brano di Willie Dixon e il “bluesazzo” lento e torbido di Leave My Girl Alone, dell’amato Buddy Guy. Travis Walk è uno dei suoi classici scatenati strumentali con il plus del piano di Wynans, mentre l’autobiografica Wall Of Denial è un altro ottimo esempio del suo stile inconfondibile e pure Scratch-N-Sniff, altro boogie scatenato certifica la ritrovata vena, assolo con wah-wah e slide incluso.

L’altro brano con fiati è una cover di Love Me Darlin’ di Chester Burnett aka Howlin’ Wolf, blues di quelli tosti, lasciando al raffinatissimo strumentale finale Riviera Paradise il compito di illustrare quella che avrebbe potuta essere una futura svolta jazz, con un superbo assolo in punta di dita. Le bonus della ristampa in CD del 1999 prevedono 4 tracce dal vivo, tra cui una colossale ripresa di Life Without You che segnalano la forma ritrovata.

Durante il tour del 1990 SRV apre varie volte per Eric Clapton, inclusa l’infausta data a Alpine Valley del 26 agosto, dove il mattino del 27 agosto troverà la morte. Pochi giorni dopo, il 25 settembre viene pubblicato il disco registrato con il fratello

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Vaughan Brothers – Family Style – 1990 Epic ***1/2

Sull’onda emotiva della notizia della morte il disco arriva fino al 7° posto delle classifiche Usa. Ma non è un gran disco, anche se, risentito oggi, non è poi malaccio; prodotto da Nile Rodgers, blues non ce n’è molto, a parte l’iniziale Hard To Be, che ricorda i migliori Fabulous Thunderbirds, Good Texan che ricorda molto gli ZZ Top, la frenetica Long Way From Home e la conclusiva tiratissima Brothers. Ma alcuni brani non si possono sentire: lo strano strumentale Hillbillies From Outer Space, Telephone Song e Baboon/Mama Said che sembrano delle outtakes degli Chic, ottimi i chitarristi ma il resto…

Jimmie Vaughan in memoria del fratello compila una eccellente antologia di materiale inedito registrato tra il 1984 e il 1989.

Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – 1991 Epic The Sky Is Crying ****

A dispetto del materiale proveniente da tante fonti diverse, il secondo disco postumo di Stevie Ray sembra un album fatto e finito, con una serie di brani, tra cui alcuni fenomenali, del tutto all’altezza della sua eredità sonora. Dall’ottima Boot Hill, passando per una lancinante versione del classico di Elmore James The Sky Is Crying , attraverso la scatenata Empty Arms, una suggestiva e splendida versione strumentale di Little Wing del suo maestro Jimi Hendrix, quasi alla pari dell’originale, usata inseguito in alcuni spot pubblicitari,

una compattissima dello strumentale Wham del conterraneo Lonnie Mack. E ancora May I Have a Talk with You un altro slow blues d’annata di Howlin’ Wolf, per non dire di Close To You un Willie Dixon scritto per Muddy Waters, lo strumentale jazz Chitlins Con Carne di Kenny Burrell, un altro chitarrista che SRV ammirava moltissimo. Un ulteriore strumentale So excited tipico del Vaughan appunto più eccitato per le 12 battute classiche del blues e l’unico brano acustico della sua carriera, una intima Life By The Drop registrata nel 1989 per l’ultimo album.

*NDB Se avete letto il mio articolo sul Buscadero, purtroppo per un errore in fase di stampa è saltato questo ultimo paragrafo, che per giusta completezza ripristino in questo Post, scusandomi per li disguido non dipendente dalla mia volontà.

Esistono molte antologie del nostro amico, ma se volete farvi un regalo di Natale l’ideale sarebbe acquistare

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The Complete Epic Recordings Collection – 12 CD Epic 2014 *****

Costa intorno ai 50 euro e ci sono tutti gli album della discografia ufficiale di Stevie Ray Vaughan, senza bonus o versioni deluxe, ma con aggiunti A Legend In The Making—Live At The El Mocambo ****, altro fantastico concerto dal vivo registrato al leggendario locale canadese nel 1983 per un broadcast radiofonico, con una colossale Texas Flood e due dischi intitolati Archive Volume 1 e 2 che raccolgono tutto il materiale inedito poi pubblicato a livello bonus, inclusi i pezzi di The Sky Is The Crying.

Non ci sono state particolari celebrazioni (anzi nessuna) per il 30° Anniversario della sua morte, e quindi ho pensato di rimediare con questo articolo, ma ascoltando questo cofanetto magari ci mancherà un po’ meno.

Bruno Conti

 

Stevie Ray Vaughan 1954-1990. 30 Anni Fa Ci Lasciava L’Ultimo Guitar Hero, Parte I

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Nella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1990 c’era nebbia nella zona del Resort di Alpine Valley, vicino a Lafayette, East Troy, Wisconsin, una località sciistica, ma anche un campo da golf, dove in una area limitrofa era situato l’Alpine Valley Music Theatre, un anfiteatro con una capacità di ospitare fino a 37.000 persone, all’epoca il più grande degli Stati Uniti. In quella nottata si erano esibiti Eric Clapton con la sua band e l’opening act Stevie Ray Vaughan con i Double Trouble. Sui quattro elicotteri che avrebbero dovuto portare molti dei presenti al concerto da Alpine Valley a Chicago, in uno era previsto dovessero salire con SRV il fratello Jimmie Vaughan con la moglie Connie, mentre all’ultimo momento scoprirono che i posti erano stati riservati all’agente di Clapton, una guardia del corpo e il tour manager, lasciando un solo posto libero oltre a quello del pilota e Stevie chiese se poteva salire lui visto che aveva fretta di recarsi a Chicago. Per una delle “sliding doors” della storia, come quella del famoso disastro aereo in cui nel 1959 persero la vita Buddy Holly, Richie Valens e “The Big Bopper”, The Day The Music Died, come cantò Don McLean in American Pie  , e in cui per un caso Waylon Jennings invece si salvò, cedendo il suo posto, mentre Vaughan, all’età di 35 anni, ci lasciò prematuramente.

Vediamo, in modo abbastanza dettagliato, quale è stato il suo lascito musicale.

stevie ray vaugham early seventies

I Primi Anni, dal 1970 al 1980, le “origini” della leggenda.

Già all’inizio degli anni ‘60, sulla scia dell’ammirazione per il fratello Jimmie, e per cercare di “distrarsi” dalle violenze del padre Jimmie Lee, che terrorizzava la famiglia con il suo pessimo carattere, amplificato dall’abuso di alcol e che sfociò anche in successivi episodi di violenza diretta, Stevie Ray decise di rifugiarsi nella musica, prima dandosi alla batteria e al sax, ma poi già nel 1961 arrivò la prima chitarra: lentamente, attraverso l’ascolto di bluesmen come Albert King, Otis Rush e Muddy Waters, e poi i suoi idoli musicali Lonnie Mack e soprattutto Jimi Hendrix, SRV si costruì un solido patrimonio di influenze, che poi avrebbe messo a frutto nel corso degli anni successivi. Nel 1969, ad una audizione per il gruppo Southern Distributor, sapeva già suonare Jeff’s Boogie degli Yardbirds, nota per nota, e alla fine dell’anno incontra per la prima volta Tommy Shannon, ma le loro strade si dividono in fretta, poi arrivano i Liberation, i Texas Storm del fratello Jimmie e “jamma” pure dal vivo con gli ZZ Top.

Nel 1971 arriva il primo gruppo proprio, i Blackbird(s), non è chiaro, di cui esiste qualche documento sonoro, in registrazioni dal vivo del 1973, più o meno ufficiali che mi sono andato ad ascoltare: qualità sonora molto rudimentale, ma il talento già si intravede nello slow blues I Can’t Sleep, in My Babe e in una frenetica Barefootin’, mito o leggenda? Nel 1973 entra nella band di Marc Benno, dove c’è già il cantante/batterista Doyle Bramhall (il babbo), registrano un album per la A&M che viene rifiutato, e firmano un contratto con il manager degli ZZ Top, Bill Ham. Nel 1975 entra nel gruppo Paul Ray And The Cobras, con il sassofonista Joe Sublett, e con loro si costruisce una reputazione suonando nei locali di Austin, attraverso innumerevoli jam session, arrivando anche a pubblicare un singolo, ma poi lascia quando la band decide di optare per un suono più mainstream.

A questo punto arrivano i Triple Threat Revue, una band dal grande potenziale, con Lou Ann Barton come cantante, il veterano W.C. Clark al basso, padrino della scena locale, nonché autore di Cold Shot, e il batterista Freddie Pharaoh. Quando Clark lascia all’inizio del 1978, SRV decide di chiamare la band Double Trouble, dal titolo del famoso brano di Otis Rush, e un po’ alla volta arrivano, prima il batterista Chris Layton e poi Shannon, Nel frattempo Lenora Bailey, detta “Lenny”, diventa la sua ragazza e poi sarà sua moglie, ma iniziano a crescere i suoi problemi con alcol (ereditati dal padre) e droga, che diverranno nel corso degli anni sempre più simili ad una forte dipendenza, tanto che già alla fine del 1979 viene arrestato a Houston per uso di droga, e l’anno successivo condannato a due anni con la condizionale, problema che poi si riverbererà a lungo negli anni a venire.

1980-2000. L’Incontro con David Bowie e poi gli anni dei dischi con i Double Trouble.

Abbiamo detto che all’inizio del 1978 nascono i Double Trouble, ma la formazione definitiva si assesterà con l’arrivo di Tommy Shannon al basso nel gennaio del 1981. Cerchiamo di mettere un ordine la discografia di SRV in base alle date di registrazione e non a quelle di uscita, molte avvenute in modo postumo, magari con qualche scostamento di data.

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Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – In The Beginning – 1992 Epic ****

Registrato il 1° aprile del 1980 allo Steamboat 1874 di Austin per un broadcast radiofonico: al basso c’è ancora Jackie Newhouse e mancano tre anni alla pubblicazione di Texas Flood il primo album, ma lo stile è già formato, un torrente di blues elettrico inarrestabile da 5 stellette, per il collega e critico Cub Koda, mentre Robert Chistgau del Village Voice parla di performance immatura, visto che parliamo di un disco dal vivo. A mio modesto parere è già un gran disco: per lo speaker è Stevie Vaughan, ma lui suona già come un uomo posseduto dalla sua chitarra, In The Open, un brano di Freddie King, ci consente di gustare quel suo stile unico ed inimitabile, un misto di blues (texano) e folate di rock hendrixiano, con note accatastate con impeto e violenza, ma anche con una tecnica invidiabile, il mondo ancora non lo sa, ma è arrivato, forse, l’ultimo dei “guitar heroes”.

40 minuti scarsi dove si susseguono una torrenziale Slide Night, dove va alla grande di bottleneck, seguita dalla programmatica e vorticosa They Call Me Guitar Hurricane di Guitar Slim, dove se si sente anche quella voce sgangherata e rotta, non da grande cantante, ma sincera. All Your Love (I Miss Loving) di nuovo di Freddie King, è un brano imprescindibile con cui si devono misurare tutti i grandi chitarristi, versione ruvida ma fascinosa e impetuosa, ragazzi se suonava! Vaughan, forse perché era l’ “ultimo arrivato”, nel suo stile riportava un po’ le influenze di tutti coloro che erano venuti prima di lui, ma aveva comunque un suo tocco, un sound che lo faceva riconoscere immediatamente, e che poi dopo la sua scomparsa avrebbe generato una lunga serie di epigoni, quando andava bene e di cloni, in molti altri casi.

Fine della digressione. Tin Pan Alley (aka Roughest Place In Town) un pezzo di Robert Geddins (bluesman poco noto che però ha scritto anche Mercury Blues e My Time After A While) era già nel repertorio di Stevie e verrà inserito nella ristampa potenziata in CD del 1999 di Texas Flood, uno slow blues di quelli dove il solista deve “soffrire” per contratto, magari mentre fa le classiche faccine dei chitarristi quando creano i loro assoli. Love Struck Baby scritta da SRV sarà il primo singolo estratto da Texas Flood con tanto di video su MTV, qui già perfettamente delineato, un R&R per le le future generazioni, che Chuck Berry e Keith Richards sono sicuro hanno apprezzato; Tell Me di Howlin’ Wolf e Shake For Me di Willie Dixon, sempre scritta per il “Lupo”, sono due omaggi ai grande suono della Chess, mentre Live Another Day, un altro brano originale di SRV, uscirà poi su Texas Flood con il titolo I’m Crying.

Eccellente serata, peccato che lo scopriremo solo nel 1992, quando il CD verrà pubblicato postumo. Anche se il gruppo era conosciuto solo in Texas, la loro reputazione inizia a crescere, e su raccomandazione di Jerry Wexler che li vede in una serata al Continental Club di Austin, e quindi li consiglia a Claude Nobs, il patron del Festival di Montreux, vengono scritturati per una serata alla manifestazione svizzera.

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Live At Montreux 1982 & 1985 – 2 CD Epic Legacy 2001 e 2 DVD Legacy 2004 ****/****1/2

Visto che non si possono scindere ne parliamo insieme, ma cronologicamente partiamo dalla serata al Casino di Montreux del 17 luglio 1982. Stevie Ray Vaughan e i Double Trouble sono degli illustri sconosciuti in Europa, e inoltre vanno a suonare in uno dei templi del jazz mondiale, dove però nel corso degli anni hanno suonato anche artisti dei generi più disparati. Ovviamente il fatto che il pubblico, preparato per uno spettacolo “acustico”, si trovi davanti tre scalmanati che suonano un blues elettrico ad alto voltaggio, di cui uno vestito come Zorro, con tanto di cappello da giocatore d’azzardo e Stratocaster del ‘59 ad altezza fianchi, non aiutò molto.

Il suo manager dell’epoca racconta che “boos e oos” erano quasi alla pari, con le disapprovazioni prevalenti, ma il set, ascoltato e visto al momento dell’uscita ad inizio anni 2000, riascoltato oggi mi sembra più che adeguato, e qualcuno tra il pubblico, leggi David Bowie, apprezzò molto, tanto da proporgli all’impronta di suonare nel suo prossimi disco Let’s Dance, e Jackson Browne, dopo un after hours di jam che andò avanti fino al mattino del giorno dopo, gli propose di registrare gratuitamente nei suoi studios personali, cosa che poi fu fatta. Come dicevo, più che adeguato, con un medley strumentale eccitante di Hideaway e una Rude Mood, presa a velocità boogie da ritiro della patente, e se non hanno cambiato il sottofondo sonoro, mi sembra che il pubblico all’inizio sia soddisfatto a giudicare dagli applausi, fischi per ora pochi, la sezione ritmica tira alla grande e SRV suona sempre come uno posseduto dal Blues, colla chitarra che va ovunque, con diverse citazioni hendrixiane.

Pride And Joy con il suo riff ripetuto è già un classico istantaneo, il nostro amico ci regala una performance “cazzuta” (Si può dire? Ormai l’ho scritto) e il mito inizia a materializzarsi in una serie di assoli micidiali, e qui ammetto che una parte del pubblico, si dice almeno quello delle prime file, comincia ad inquietarsi. Segue una versione da manuale, di oltre 10 minuti, di Texas Flood, lo slow blues elettrico elevato a pura potenza, il figlio illegittimo di Red House, torrido e senza requie, forse parte dei presenti avrebbe apprezzato maggiormente il fratello Jimmie, più rigoroso nelle 12 battute, ma che però in quegli anni ci dava dentro di brutto anche lui con i Fabulous Thunderbirds, ma c’era l’altro fratello, e quindi prendere o lasciare.

Pochi lasciano e lui li prende di petto con Love Struck Baby e poi con una soffertissima Dirty Pool, il brano scritto con Doyle Bramhall babbo, un altro blues lento di quelli superbi, lasciateli fischiare avrà pensato, come un novello Bob Dylan a Newport, sempre di Festival parliamo: “regala” ancora al pubblico, che continua ad incazzarsi, una fumante Give My Back My Wig di Hound Dog Taylor, a tutto boogie e con slide in libertà e chiude con una veemente Collin’s Shuffle del grande Albert. Quando torna a Montreux nel 1985 è diventato una superstar del (rock)blues, e non più un semi sconosciuto senza contratto discografico da fischiare, nella band c’è anche Reese Wynans all’organo e il concerto è decisamente più lungo, il doppio come durata, la foga è la stessa, ma il nostro è afflitto da problemi di alcol e droga non indifferenti, per quanto suoni ancora come una cippa lippa.

Scuttle Buttlin’ è una partenza da sballo (mi è scappato), uno strumentale vibrante, con le tastiere di Wynans a doppiare la chitarra fremente di SRV, l’hendrixiana Say What con wah-wah a manetta e lo slow blues Ain’t Gone N’ Give Up On Love provengono entrambe dal recente Soul To Soul, mentre Pride And Joy è uno dei suoi brani più belli e conosciuti, con Wynans al piano, seguita da una cover eccellente di Mary Had A Little Lamb di Buddy Guy e da un tour de force letale di oltre 13 minuti per Tin Pan Alley con Johnny Copeland come ospite (nella versione in CD, Copeland è presente anche in una veemente Cold Shot e in Look At Little Sister); poi arriva l’omaggio diretto all’amatissimo Jimi Hendrix con una travolgente e magica Voodoo Chile (Slight Return), uno dei pochi che ha potuto avvicinare la maestria superba del mancino di Seattle.

E c’è tempo ancora per una torrenziale Texas Flood, e per un altra ballata blues sontuosa come Life Without You dove uno Stevie particolarmente ispirato distilla note dalle sua chitarra, ricordando con orgoglio al pubblico presente che tre anni prima era tempo di fischi, mentre ora era tempo di Grammy. Si chiude con la jazzata Gone Home e con un’altra perla tra Jimi e Stevie Ray come Couldn’s Stand The Weather. Un grande concerto.

Ma facciamo rewind e torniamo al gennaio del 1983: Vaughan entra in studio con David Bowie per registrare Let’s Dance, dove appare in sei brani, compresa la title track e China Girl, per un album che diventa uno dei maggiori successi anni ‘80 per il Duca Bianco, vendendo 1 milione di copie negli USA. Sulla scorta di questi eventi la Epic lo mette sotto contratto a marzo del 1983, anche se nel frattempo SRV e soci, con l’aiuto del grande talent scout e produttore John Hammond, avevano già registrato a fine ‘82 proprio al Down Town Studio di Jackson Browne in quel di L.A., il loro album di debutto.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Saluti Da Londra, Abbey Road. Joe Bonamassa – Royal Tea

joe bonamassa royal tea front joe bonamassa royal tea

Joe Bonamassa – Royal Tea – Mascot/JR Adventures/Provogue

E’ passato pochissimo dall’uscita di A New Day Now, la riproposizione riveduta e corretta del suo album del 200https://discoclub.myblog.it/2020/08/29/una-edizione-riveduta-e-corretta-del-suo-primo-album-joe-bonamassa-a-new-day-now-20th-anniversary-edition/ , ma, come ormai tutti sanno, Joe Bonamassa una ne pensa e cento ne fa: bisogna trovare sempre qualche idea nuova, un “progetto” come dicono quelli che parlano bene. L’ultima pensata è stata quella di realizzare un disco ideato e concepito in Gran Bretagna, a Londra in particolare, l’estate scorsa, dedicato ai British Guitar Heroes (qualcuno dirà, ma non era già uscito British Blues Explosionhttps://discoclub.myblog.it/2018/05/13/uno-strepitoso-omaggio-ai-tre-re-inglesi-della-chitarra-joe-bonamassa-british-blues-explosion-live/ ).

Vero, ma ci sono neppure tanto  sottili differenze: quello era un disco dal vivo dedicato a cover di brani del repertorio di Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, questa volta Joe si è recato a Londra per respirarne l’aria e soprattutto collaborare con alcuni “luminari” come Bernie Marsden dei Whitesnake (ma prima anche negli UFO), il paroliere dei Cream Pete Brown, e il pianista Jools Holland (Squeeze, ma anche una leggenda della TV e radio inglese), per scrivere una serie di canzoni ispirate da quel mondo, e Bonamassa cita alcuni dei suoi idoli dell’epoca, i Bluesbreakers di Mayall con Eric Clapton, il primo Jeff Beck Group e i Cream. Ovviamente trovandosi a Londra si è pensato bene con il suo produttore Kevin Shirley di incidere l’album a Abbey Road, nel famoso Studio Uno, da dove partì la Mondovisione di All You Need Is Love dei Beatles, il tutto è stato completato a gennaio 2020, prima della partenza della pandemia, dieci canzoni nuove, registrate soprattutto con il nucleo della sua band, Anton Fig batteria, Michael Rhodes basso e Reese Wynans tastiere, visto che Bonamassa ha detto che per l’occasione si è privilegiato principalmente un sound più duro a tutto volume, con la musica che ha invaso anche gli altri studios di Abbey Road, pure quelli più austeri, dedicati alla musica classica.

Al solito ho recensito il disco molto prima dell’uscita prevista per il 23 ottobre, non avendo ancora tutte le notizie, ma le più importanti sì, e quindi sono andato anche a orecchio, come si dovrebbe. When One Door Opens è il primo pezzo dell’album, ma il secondo video uscito, già in circolazione da alcuni mesi: apertura con orchestra sinfonica, perché non approfittare delle facilities della location, poi una epica blues ballad lenta e scandita, maestosa, con l’orchestra che rimane, una voce femminile di supporto, presumo la solita Mahalia Barnes, con Joe che intona una bella melodia “classicamente” britannica, quasi da tema per un film di 007, in leggero crescendo, la chitarra che prima sottolinea il tema e poi rende omaggio ai musicisti che ascoltava nei vecchi dischi della collezione del padre, con un assolo che parte su un crescendo “boleriano” direttamente ispirato dal vecchio brano di Jeff Beck e poi vola in overdrive verso i lidi del rock più classico con un wah-wah di una potenza inusitata e ulteriore citazione zeppeliniana nel finale.

La title track Royal Tea è un rock-blues, sempre con voci femminili di supporto, l’organo di Wynans in evidenza e una atmosfera sonora tipica dei primi anni ‘70, con l’immancabile esuberante assolo di Bonamassa, mentre Why Does It Take So Long To Say Goodbye, il terzo singolo/video, è un altro bel lento, duro e scandito, con un lavoro raffinato della band, in supporto del cantato di Joe, sempre più sicuro ed appassionato, anche in questo caso con accelerazione finale e vigoroso finale chitarristico con la seconda solista di Marsden di supporto. Lookoout Man introdotta da un giro di basso fuzz, è decisamente più dura e vibrante, hard rock di buona fattura, con le coriste ed una armonica aggiunte per variare il repertorio, in attesa delle folate della solista. High Class Girl ci sarebbe stata benissimo in un disco di Mayall o dei Cream, un hard shuffle tipico del British Blues, con passate dell’organo di Wynans, un tocco di errebì nei coretti femminili e assolo di ordinanza.

A Conversation With Alice era stato il primo singolo ad uscire ad aprile, un travolgente rock and roll con uso di slide dall’eccellente impatto sonoro, seguita dall’orgia wah-wah di una veemente I Din’t Think She Would Do It, ritmo scandito ed impiego di differenti chitarre per dargli un tessuto sonoro avvolgente e accattivante. L’inquietante Beyond The Silence, introdotta dagli arpeggi di chitarre acustiche ed elettriche, poi si sviluppa in una canzone più gentile e ricercata, si può dire folk-prog? Seguita dalla fiatistica e swingante Lonely Boy, atmosfere tra jazz e R&B, divertente e scanzonata, anche grazie al piano di Wynans., e a chiudere la countryeggiante e deliziosa Savannah, con mandolino e slide accarezzata e una chiara variazione sulle tematiche principali del disco, preludio a Bonamassa Goes Country?

Si vedrà: per ora un ennesimo buon album dell’uomo di New York, An American In London!

Bruno Conti

Replay: Anche Uno Dei Nostri Texani Preferiti Ha Deciso Di Alleviarci La Quarantena, Ora Anche In CD. Joe Ely – Love In The Midst Of Mayhem

joe ely love in the midst of mayhem

*NDB Ne avevamo parlato a fine aprile in piena pandemia quando l’abum era disponibile solo per il download, ora, da ieri 3 luglio, è stato stampato anche in CD, sia pure non di facilissima reperibilità, in quanto è distribuito sul sito dell’etichetta personale del musicista texano, per cui vi ripropongo la recensione di allora.

Joe Ely – Love In The Midst Of Mayhem – Rack’em Records Download e CD

Joe Ely, grandissimo singer-songwriter-rocker di Amarillo, Texas, ha parecchio diradato la pubblicazione di nuova musica nelle ultime decadi: il buon Panhandle Rambler è ormai di cinque anni or sono https://discoclub.myblog.it/2015/10/09/il-ritorno-dei-grandi-texani-joe-ely-panhandle-rambler/ , ed il precedente Satisfied At Last (per chi scrive il suo miglior lavoro del nuovo millennio) è datato 2011 https://discoclub.myblog.it/2011/06/26/alla-fine-soddisfatti-joe-ely-satisfied-at-last/ . Joe però è sempre stato un artista molto sensibile, e ha quindi pensato (con ragione) di far cosa gradita ai suoi fans pubblicando a sorpresa un nuovo album per cercare di alleviare questo lungo periodo di lockdown. Ma se, per esempio, nel caso di Phish, Laura Marling, Dream Syndicate e X (nonché il nuovo singolo dei Rolling Stones) sono usciti per lo streaming lavori che hanno anticipato future uscite “fisiche” già programmate (sicure nei casi di Syndicate e X, auspicabile in quello dei Phish), Love In The Midst Of Mayhem è un vero e proprio “instant record” che Joe ha inciso e pubblicato in brevissimo tempo, sfruttando dieci brani scritti in passato ma che per una ragione o per l’altra non avevano mai trovato una collocazione nei suoi dischi (NDM: in questo caso il CD dovrebbe comunque uscire, pare a fine Maggio, poi rivelatosi inizio luglio).

Il titolo del lavoro d’altronde dice tutto, “Amore Nel Mezzo Del Caos”, dove la parola chiave, evidenziata anche in copertina, è proprio “amore”: Ely ha infatti scelto i brani seguendo proprio il tema del sentimento più nobile ma non limitandosi al solo amore uomo-donna, bensì includendo anche quello per il prossimo, che comprende anche compassione e carità, e per le piccole cose della nostra quotidianità. Quando ho letto dell’esistenza di questo album registrato in quattro e quattr’otto ho inizialmente pensato ad un lavoro acustico voce e chitarra, ma invece Joe mi ha stupito in quanto Love In The Midst Of Mayhem è inciso con l’ausilio di ben tre chitarristi (Mitch Watkins, Rob Gjersoe e Bradley Kopp), quattro bassisti (Roscoe Beck, Gary Herman, Jimmy Pettit ed il vecchio pard Glen Fukunaga), due tastieristi (Bill Ginn ed il fuoriclasse Reese Wynans), quattro batteristi (Davis McClarty, Pat Manske, Steve Meador e lo stesso Joe), per finire con la splendida fisarmonica di Joel Guzman, grande protagonista in almeno metà dei brani.

L’album si rivela intenso e riuscito già dal primo ascolto, con un Joe Ely molto più cantautore e balladeer che rocker, ed un dosaggio molto parco dei pur numerosi musicisti: canzoni profonde, forti ed appassionate nonostante il mood interiore, che tutte insieme non sembrano affatto degli “scarti” ma brani di prima scelta, anche se, devo essere sincero, un paio di sventagliate elettriche in più le avrei oltremodo gradite. L’album inizia con il messaggio di speranza di Soon All Your Sorrows Be Gone, una ballata acustica con la voce del nostro che non ha perso nulla in bellezza ed espressività nonostante gli ormai 73 anni d’età: solo Joe e la sua chitarra per un minuto e mezzo, poi entra una seconda voce e la splendida fisa di Guzman ed il brano si anima all’improvviso spostandosi idealmente al confine col Messico. Garden Of Manhattan è sempre un lento ma questa volta elettrico e full band, con Ely che declama una melodia decisamente bella e toccante tipica delle sue, ed il gruppo che inizialmente lo segue con passo felpato fino al refrain, nel quale chitarre e sezione ritmica alzano i toni.

A Man And His Dog è una deliziosa folk song di stampo bucolico e dal motivo subito coinvolgente, ancora con la fisarmonica a ricamare sullo sfondo ed un accompagnamento in punta di dita: Joe ha scritto decine di canzoni come questa, ma ogni volta è sempre un piacere nuovo; There’s Never Been è uno slow pianistico intenso e profondo, con un background elettrico ed un crescendo melodico di sicuro impatto al quale partecipa nuovamente anche il buon Guzman: uno dei pezzi più riusciti del disco (pardon, download). Il pianoforte è protagonista anche nella toccante Your Eyes, un brano che conferma l’approccio introspettivo di Joe, meno rock’n’roller e più songwriter: eppure anche qui il pathos è a livelli alti, e riuscirci con l’uso esclusivo di voce, piano ed un paio di chitarre e prerogativa dei grandi; la breve All You Are Love è un altro delicato “pastiche” acustico.

Cry una rock ballad nella quale la backing band al completo fornisce un tappeto sonoro solido e compatto (con uno dei rari assoli chitarristici del lavoro), mentre Don’t Worry About It è un lento avvolgente ad ampio respiro, dalla musicalità molto fluida e perfetto da ascoltare in una bella giornata all’aperto (magari quando ricominceremo ad uscire con regolarità). L’album si chiude con You Can Rely On Me, soave ballata elettroacustica dal leggero sapore country, e con gli intensi cinque minuti della suggestiva Glare Of Glory, ottima ballata rock con tanto di organo farfisa, chitarre in bella evidenza ed una lunga coda strumentale di notevole impatto. Probabilmente i posteri indicheranno Love In The Midst Of Mayhem come un lavoro minore nella discografia di Joe Ely (e di certo uno di quelli in cui la parola “rock” c’entra meno), ma in questo momento difficile è esattamente quello che ci serve.

Marco Verdi

Un Bel Disco Dalle Radici Incontaminate. Michael Doucet – Lacher Prise

michael doucet lacher prise

Michael Doucet – Lacher Prise – Compass Records – CD – LP – Download

Mi sono accorto che dalla nascita di questo Blog, colpevolmente, non avevamo mai parlato di Michael Doucet, e del suo gruppo di riferimento, ovvero i Beausoleil, dei quali è stato il fondatore. Questo signore originario di Scott, piccolo centro non molto distante da Lafayette, città simbolo del territorio “cajun”, è indubbiamente tra i più importanti violinisti attualmente sulle scene della musica della Louisiana, con un suono peculiare che ha un legame territoriale specifico con la cultura della popolazione francofona della regione. Depositario (a partire dal lontano 1976) di una ventina di lavori con il suo gruppo (i citati Beausoleil, con i fratelli Kenneth e Sterling Richard), e altrettanti da solista ( senza contare le varie collaborazioni con altri artisti), il “prof” Doucet dopo una pausa di riflessione torna con questo nuovo lavoro Làcher Prise (uscito da qualche tempo, ma passato sotto silenzio in questi tempi di virus), registrato nei noti Dockside Studios di Maurice nella “natia” Louisiana, accompagnato da validi musicisti di “area” tra i quali i bravi Chad Viator e Sarah Quintana, chitarre elettriche ed acustiche, Chris French al basso, Jimmy Kolacek alla batteria e percussioni, e “turnisti” di valore come David Balakrishnan e Alex Hargreaves al violino, Jim Hoke a sax e pedal steel, Chad Huval alla fisarmonica, il bravo tastierista Reese Wynans (Joe Bonamassa e il grande Stevie Ray Vaughan), con il notevole contributo alle armonie vocali di Sarah Dugas (The Duhks), Andrina Turenne e della stessa Sarah Quintana, affidando la co-produzione a Gary West e Chad Viator.

Una decina di brani cantati anche in lingua francofona, tipica della Louisiana, dai suoni e stili innovativi, che spaziano dalla moderna musica di New Orleans, agli immancabili ritmi “cajun”, fino ad arrivare a sorprendenti temi “caraibici”, e udite, udite, anche un intrigante sound “gitano”. Il disco parte con le deliziose atmosfere cajun di Water, Water, con in prima linea la fisarmonica, il violino e una base ritmica incalzante, seguita da una cover di Boozoo Chavis (musicista pioniere del genere “zydeco-cajun”), Lula Lula Don’t You Go To Bingo in una versione alla Bo Diddley dove il violino di Mr. Doucet è davvero inspirato, per poi passare alle sfumature cadenzate di una dolce Dites Moi Pas (cantata in francese) in coppia con la brava Sarah Quintana, ed arrivare ad uno dei punti più alti del lavoro, una lenta e tambureggiante Walking On A Mardi Gras Day, il tutto giocato su violino e fisarmonica, con un cantato adulto e maturo. Si riparte con la solenne Abandonne, un traditional di pura liricità, dove inizialmente il violino disegna trame arabesche, e poi nella parte finale spicca ancora la splendida voce di Sarah.

Si (ri)scoprono pure le atmosfere cool di un valzer gitano come Bad Woman, per poi portarci su una pista da ballo con il “cajun” allegro di Marie Catin (dove è proprio impossibile non muovere il piedino), con un delizioso violino in primo piano, seguita da un’altra cover, He’s Got All The Whiskey di Bobby Charles, uno splendido brano con cadenze blues, ideale per una serata romantica. Ci si avvia alla fine con il tradizionale Chere Emelie, dove Michael Doucet in questa occasione suona il mandolino su un sottofondo di percussioni, segue il bellissimo brano strumentale Cajun Gypsy, impreziosito da una sezione d’archi composta da David Balakrishan e Alex Hargreaves al violino, Benjamin Von Gutzeit alla viola e Malcolm Parson al violoncello, dove ancora una volta il livello superiore del violino del “professore” fa la differenza, concludendo il CD con una versione estesa, più ruspante e spettacolare di Lula Lula Don’t You Go To Bingo.

Michael Doucet è stato ed è tuttora indubbiamente tra i più importanti violinisti “cajun” sulle scene della Louisiana, e con i suoi Beausoleil, il bravissimo C.J. Chenier e Zachary Richard (per la parte più rock), ha riportato in auge il “zydeco-cajun” tradizionale rielaborandolo giusto quel poco per essere presentato anche ad un “nuovo” pubblico internazionale, non quindi solo locale come avveniva nel passato. Se mai dovesse esistere un Nobel per la divulgazione della musica, state sicuri che sarebbe certamente assegnato a Michael “prof of fiddle” Doucet, come il più autentico artigiano e ambasciatore della tradizione sonora della vecchia e paludosa Louisiana. Cajun-zydeco forever!

*NDT: Se volete approfondire ulteriormente il genere, recuperate il bellissimo Live In Montreal di Zachary Richard.

Tino Montanari

E’ Sempre Il Buon Vecchio Joe Bonamassa, Ma “Diverso” E In Incognito! Sleep Eazys – Easy To Buy – Hard To Sell

sleep eazys easy to buy hard to sell

Sleep Eazys – Easy To Buy – Hard To Sell – Mascot/Provogue

Ultimamente il chitarrista newyorchese ha rallentato di molto la frequenza delle sue uscite, nel corso dello scorso anno è uscito solo un disco dal vivo https://discoclub.myblog.it/2019/10/23/sia-pure-in-ritardo-ma-non-poteva-mancare-un-suo-nuovo-album-nel-2019-joe-bonamassa-live-at-the-sydney-opera-house/ , mentre per trovare un album di studio bisogna risalire a quasi due anni fa https://discoclub.myblog.it/2018/09/17/ormai-e-una-garanzia-prolifico-ma-sempre-valido-ha-fatto-tredici-joe-bonamassa-redemption/  : questo significa che il buon Joe Bonamassa ha messo la testa a posto, almeno rispetto alla sua nota “bulimia” discografica? Vedremo, per il momento gustiamoci questo nuovo album che esce sotto lo pseudonimo di Sleep Eazys, un disco completamente strumentale, qualcuno ha detto il primo per lui, ma in effetti ci sono stati in questi anni anche i quattro album, tre in studio e uno dal vivo, a nome Rock Candy Funky Party, dove la chitarra di Bonamassa, diciamolo chiaramente, era nettamente lo strumento principale, per quanto in un ambito sonoro decisamente diverso e con musicisti diversi dal suo gruppo abituale, come esplicato dal nome della band.

Mentre per gli Sleep Eazys Joe si è avvalso del lavoro dei suoi collaboratori abituali, e come era stato per il disco di https://discoclub.myblog.it/2019/03/05/anche-lui-per-un-grande-disco-si-fa-dare-un-piccolo-aiuto-dai-suoi-amici-reese-wynans-and-friends-sweet-release/  ha curato lui stesso la produzione: quindi nell’album troviamo proprio Reese Wynans alle tastiere, Anton Fig alla batteria, Michael Rhodes al basso, Lee Thornburg alla tromba e Paulie Cerra al sax, più l’ex leader dei Wet Willie Jimmy Hall, e un altro grande chitarrista come John Jorgenson. Come era cosa nota, tutto era nato per essere un tributo alla musica di Danny Gatton, con Roy Buchanan, uno degli “unsung heroes” della chitarra, musicista amatissimo dai suoi colleghi, ma poco conosciuto dal grande pubblico che era in grado di spaziare con tecnica sopraffina e raro gusto tra blues, jazz, country, rockabilly, con una varietà di temi sonori veramente superba. Poi il discorso si è allargato perché Bonamassa ha colto l’occasione per rendere omaggio anche a personaggi diversi che lo hanno influenzato, al di fuori delle sue note propensioni per il blues-rock della triade del british blues, ovvero Page, Beck e Clapton,e anche Peter Green, ovviamente Jimi Hendrix e il suo discepolo Stevie Ray Vaugahn, e nel blues i tre King, Freddie, B.B e Albert.

Quindi nell’album non vengono ripresi esclusivamente brani di chitarristi, o non solo, ma anche personaggi abbastanza ai confini della musica rock: Fun House, non quella degli Stooges, è un pezzo di Danny Gatton, una sorta di brano a cavallo tra jazz per “big band” ristretta (se così si può dire), oppure organ trio allargato, grazie all’eccellente lavoro alla tastiera di Wynans e dei fiati e quei temi da telefilm americani anni ’60, tutto molto elegante, tra assoli di sax e Joe che parte piano con la sua chitarra, ma poi si lascia andare con un assolo dei suoi. Anche Move di Hank Garland si muove tra jazz e rock delle origini, con la sinuosa solista di Bonamassa, che si muove veloce e felpata tra le pieghe di organo, vibrafono e della batteria di Fig impegnata in un breve assolo.Ace Of Spades è l’omaggio ad un altro dei grandi precursori della chitarra rock, quel Link Wray che con Rumble è stato uno dei primi a portare la distorsione nei suoni del R&R, qui il nostro amico può alzare il volume dell’ampli e scatenare la sua potenza di fuoco, ben sostenuto sempre da Wynans e dai fiati, con i brani che rimangono sempre confinati nell’ambito dei tre/quattro minuti di durata.

Jimmy Bryant è uno di quei chitarristi che partendo dal country poi ha sviluppato uno stile “inconsueto” dove si potevano trovare influenze orientali, surf, quel “chicken picking” country praticato da Gatton e poi da John Jorgenson degli Hellecasters, che infatti appare in questa vorticosa e divertente Ha So a duettare a tutta velocità con Joe. Anche Hawaiian Eye appartiene a questo catalogo di “stranezze”, sigla di una serie di telefilm di inizio anni ’60, che nelle mani di Bonamassa e soci assume un suono contemporaneo e vibrante che consiglierei ai produttori delle attuali serie TV di (ri)pescare perché farebbe un figurone sui titoli di testa e di coda, o magari in qualche film di Tarantino. Pure il tema di Bond (On Her Majesty’s Secret Service) è delizioso, con Bonamassa che si sbizzarisce alla chitarra con un assolo di grande tecnica e varietà che di nuovo consiglierei ai curatori delle colonne sonore dei nuovi film di 007, invece di quelle tavanate pseudo-moderno-elettroniche che sentiamo ai giorni nostri.

L’ultimo terzetto di canzoni ci presenta Polk Salad Annie, il classico swamp rock di Tony Joe White riletto in una chiave molto personale, decisamente più accelerata e bluesy, con l’armonica di Jimmy Hall a fare da contrappunto alla chitarra scatenata di Joe, tra Creedence e Blasters, con fiati e organo a spingere una sezione ritmica che pompa di brutto, anche con uso di armonie vocali sullo sfondo, e un assolo pimpante e complesso di quelli che avrebbe fatto piacere a Danny Gatton. Che stilisticamente viene citato anche nella versione epica di un brano Blue Nocturne del repertorio di King Curtis, grande sassofonista e anche collaboratore di Duane Allman, un blues lento che però si anima in un crescendo continuo per un assolo lancinante di Bonamassa che presenta punti di contatto anche con lo stile di Roy Buchanan (e in tempi recenti di Ronnie Earl, altro grande stilista della chitarra). L”ultima canzone è un brano di Frank Sinatra, ebbene sì, It Was A Very Good Year, che mantiene la melodia del brano originale, ma in questa versione strumentale si tramuta in un pezzo intimo e sognante, prima sulle ali di una chitarra acustica e poi con un approccio para orchestrale e classico, con l’elettrica quasi impiegata come un violino in una romanza classica.

Tutto molto interessante, indirizzato e consigliato non solo ai fans del Bonamassa più ruvido e caciarone, ultimamente molte meno, ma anche di chi vuole provare ad ascoltare qualcosa di diverso.

Bruno Conti

Mike Zito: Un Texano Onorario Tra Rock E Blues, Parte I

mike zito 1

Sul finire dello scorso anno è uscito un bellissimo disco, attribuito a Mike Zito & Friends, intitolato Rock’n’Roll – A Tribute To Chuck Berry, nel quale il musicista di St. Louis (ma Texano onorario, visto che da parecchi anni vive a Nederland, una piccola cittadina nella contea di Jefferson, sulla Gulf Coast, vicino a Viterbo – giuro! – dove ha aperto degli studi di registrazione, Marz Studios, casalinghi, ma bene attrezzati, dove pianifica le sue mosse in ambito musicale, sia come cantante e chitarrista in proprio, che come produttore)  rendeva omaggio al suo illustre concittadino https://discoclub.myblog.it/2019/12/11/ventuno-anzi-ventidue-chitarristi-per-un-disco-fantastico-mike-zito-friends-rock-n-roll-a-tribute-to-chuck-berry/ . Anche lui, come altri bluesmen, ha avuto una lunga gavetta, e vari problemi con droghe e alcol nel corso degli anni, ma ora sembra avere trovato la sua strada e si sta sempre più affermando come una sorta di “Renaissance Man” in ambito rock e blues, ma nella sua musica, praticamente da sempre, sono comunque presenti elementi country e southern, soul e R&B, per uno stile che definire eclettico è fargli un torto.

Le origini e il periodo Eclecto Groove 1996-2011

Mike Zito, grande chitarrista, ma anche ottimo cantante, con una voce che potremmo avvicinare, per chi non lo conoscesse e per dare una idea, a quella del Bob Seger più rock: la sua progressione verso il successo e i giusti riconoscimenti è stata lunga e tortuosa, già in azione a livello locale da quando era poco più di un teenager (è del 1970) Zito ha poi in effetti iniziato a pubblicare album indipendenti e distribuiti in proprio da metà anni ’90, il primo Blue Room è del 1996 ed è stato ristampato dalla sua attuale etichetta, la Ruf, nel 2018.

mike zito blue room mike zito today

In seguito ne sono usciti altri due o tre negli anni 2000, ma andiamo sulla fiducia, perché non mi è mai capitato né di vederli, né tantomeno di sentirli, per cui diciamo che l’inizio della carriera ufficiale avviene con la pubblicazione di Today – Eclecto Groove 2008 *** che esce appunto per la piccola ma gloriosa Eclecto Groove, una propaggine della Delta Groove, che cerca di lanciarlo con tutti i crismi del caso: il suo stile è già quasi perfettamente formato, il disco è co-prodotto da Tony Braunagel, che suona anche la batteria, e da David Z, tra i musicisti coinvolti ci sono Benmont Tench alle tastiere, James “Hutch” Hutchinson al basso, Mitch Kashmar all’armonica, Joe Sublett e Darrell Leonard ai fiati, più Cece Bullard e la texana Teresa James alle armonie vocali. Le canzoni sono tutte firmate da Zito, meno la cover di Little Red Corvette di Prince, e l’album lascia intravedere il futuro potenziale di Mike.

Love Like This suona come un incrocio tra John Fogerty e Bob Seger, da sempre grandi punti di riferimento, con la voce da vero rocker del nostro, aspra e potente, mentre la chitarra è meno prominente rispetto ai dischi attuali, Superman è un funky non perfettamente formato e acerbo, mentre Holding Out For Love, tra jazz alla Wes Montgomery e smooth soul non convince e pure la cover di Prince non è eccelsa.Tra le canzoni migliori la lunga e potente Universe, altro brano dal piglio rock, dove Mike comincia a strapazzare la sua chitarra, il mid-tempo elettroacustico di Blinded, lo slow blues urticante di Slow It Down, il country-southern piacevole di Today, Big City che anticipa in modo embrionale il futuro sound dei Royal Southern Brotherhood e in finale l’eccellente ballata autobiografica Time To Go Home.

mike zito pearl river

L’anno successivo esce Pearl River- Eclecto Groove 2009 ***1/2, registrato tra Austin, New Orleans e Nashville, illustra le diverse anime della musica di Zito, ma soprattutto il blues, e presenta un ulteriore step positivo nello sviluppo della sua musica, Dirty Blonde è un eccitante shuffle texano alla Stevie Ray con Mike Zito che mulina la sua chitarra assistito da Reese Wynans all’organo, Pearl River è uno intenso blues lento scritto con Cyril Neville e cantato alla grande, ottima anche la bluesata Change My Ways, molto bella inoltre la collaborazione con Anders Osborne nella delicata One Step At A Time e la brillante versione di Eyesight To The Blind di Sonny Boy Williamson con Randy Chortkoff all’armonica e un ondeggiante pianino che fa tanto New Orleans.

Come ribadisce la deliziosa e scandita Dead Of Night con Jumpin’ Johnny Sansone alla fisarmonica, per un tuffo nel blues made in Louisiana, 39 Days è un blues-rock di quelli gagliardi e tirati con Susan Cowsill alle armonie vocali, che rimane anche a duettare nella stonesiana Shoes Blues, ma questa volta non c’è un brano scarso in tutto il disco, fantastica pure la cover di Sugar Sweet di Mel London, con un groove di basso libidinoso e Zito e Wynans che duettano alla grande, e in Natural Born Lover Mike sfodera il bottleneck per un altro blues di quelli tosti.

mike zito live from the top

Nel 2009 esce anche Real Strong Feeling, un disco dal vivo uscito per la sua etichetta personale di cui non vi so dire nulla, ma sono le prove generali per il disco Live From The Top – Mike Zito.Com 2010/Ruf Records 2019 ***1/2, ristampato dalla etichetta tedesca sul finire dello scorso anno, con il repertorio pescato a piene mani dall’album del 2009, più alcune cover di pregio e una sfilza di ospiti notevoli: intanto c’è Jimmy Carpenter, futuro sassofonista dei The Wheel, Ana Popovic alla solista per una robusta e super funky versione di Sugar Sweet, con la chitarrista serba in modalità wah-wah e Mike che ribatte colpo su colpo.

E ancora una bellissima versione elettrica di One Step At A Time di Osborne, che sembra una brano del miglior Seger anni ’70, e ancora una torrida 19 Years Old di Muddy Waters, con Nick Moss alla slide e Curtis Salgado all’armonica, e un gran finale con lo slow blues All Last Night di George Smith, una tiratissima Hey Joe di Mastro Hendrix a tutto wah-wah, che pare uscire dal disco con i Band Of Gypsys e Ice Cream Man un oscuro brano di John Brim, contemporaneo di Elmore James, brano ripreso anche dai Van Halen, dove Zito va di nuovo a meraviglia di slide.

mike zito greyhound

L’anno successivo, registrato ai Dockside Studios di Lafayette, Louisiana, con la produzione di Anders Osborne, che appare anche come secondo chitarrista, esce Greyhound – Eclecto Groove 2011 ***1/2, altro solido album dal suono più roots e swampy, vista la location, e la sezione ritmica di Brady Blade alla batteria e Carl Dufrene al basso, abituali collaboratori di Tab Benoit, e quindi già orientati verso quel tipo di sound: tutto materiale originale di Mike, con due collaborazioni con Osborne e Gary Nicholson, si passa dal solido groove rock di Roll On, ancora con la slide in evidenza, alla brillante title track che sembra un brano perduto dei Creedence di John Fogerty.

Passando per il blues acustico e malinconico di Bittersweet e Motel Blues, ben supportato sempre da Anders, passando ancora per il robusto sound della poderosa e chitarritistica The Southern Side, il riff & roll di una quasi hendrixiana Judgement Day, alle sferzate potenti della zeppeliniana The Hard Way, entrambe con i due solisti in modalità “cattiva”, con Stay che sembra uscire dalle paludi della Louisiana, sempre con le slide che imperano https://www.youtube.com/watch?v=fjdawkVl10A , per chiudere con l’intensa Please Please Please, una canzone d’amore quasi disperata.

Fine della prima parte.

Bruno Conti