Vi Mancano Gli Stones? Beccatevi Questi! Deadstring Brothers – Cannery Row

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Deadstring Brothers – Cannery Row – Bloodshot CD 02-04-2013

Se avessero dovuto bendarmi e farmi ascoltare questo disco senza dirmi nulla, avrei pensato ad una oscura session dei primi anni settanta dei Rolling Stones, rimasta poi nei cassetti. I Deadstring Brothers sono un gruppo di Detroit cresciuto veramente a pane e Stones, ma non gli Stones classici (quelli più rock’n’roll per intenderci), ma quelli appunto del periodo 70/72, che flirtavano con la California e con il cosmic country di Gram Parsons e dei suoi Flying Burrito Brothers. Cannery Row è già il loro quinto album (non conosco i precedenti, tutti usciti per la Bloodshot), ed è un godibilissimo excursus in un sound d’altri tempi, ma sempre attuale (basti pensare all’ultimo album di Ryan Adams, Ashes & Fire) ed affascinante: il leader e deus ex machina del gruppo è Kurt Marschke, che in effetti tratta la band come una sua creatura, cambiando spesso i componenti (la versione attuale comprende JD Mack al basso, Brad Pemberton alla batteria, Mike Webb al piano ed organo, tra l’altro bravissimo, e Pete Finney a steel e dobro, molto valido anche lui, mentre Kurt si occupa delle chitarre).

Una band di elementi esperti, gente che ha suonato con Poco, Dixie Chicks, Hank Williams Jr. e lo stesso Ryan Adams, ai quali si aggiunge come special guest Mickey Raphael, armonicista storico della Willie Nelson Family Band. Gente che sa il fatto suo, e pure Marshke, cognome impronunciabile a parte, non è certo un pivello: il suo suono dipende sì dalle Pietre Rotolanti, ma in alcuni casi riesce a smarcarsi brillantemente da questa dipendenza e dimostra di saper camminare anche con le sue gambe. Cannery Row è, considerazioni a parte, un signor disco, e nei suoi quaranta minuti non c’è un solo secondo da buttare. Si parte davvero alla grande con Like A California Wildfire, classica ballata alla Jagger & Co., sembra una outtake incisa il giorno dopo la registrazione di Wild Horses, molto bella anche se derivativa. It’s Morning Irene inizia come una ballata folk, poi entra la band ed il brano si tramuta in un gustoso cocktail di country e cajun, con un’atmosfera nostalgica di fondo: un brano più personale questo. Oh Me, Oh My palesa altre influenze, come il periodo bucolico di Van Morrison (Tupelo Honey e dintorni, sempre di early seventies parliamo), ma anche The Band per l’uso dell’organo. The Lonely Ride è puro Stones sound, tra country e rock’n’roll (splendido l’uso del piano), grandissima canzone, molto coinvolgente: ricorda molto (ma molto) Dead Flowers e quindi sono di parte, perché lo considero il brano più bello di sempre dei Rolling. 

Cannery Row è un’intensa ballata, fluida e distesa, con un bel solo di organo, mentre Lucille’s Honky Tonk è un country-blues acustico, che si stacca un po’ dall’ombra degli Stones ma rimane ben dentro la grande musica (ottimi piano, slide e steel): musica suonata col cuore, e si sente. The Mansion, ancora acustica, è emozionante e ricca di pathos: quasi quasi mi viene da scomodare gli ultimi Black Crowes (*NDB Tra qualche giorno a proposito dei fratelli Robinso, bella sorpresa sul Blog, così costringo Marco a lavorare) quelli che alternano le loro classiche jam elettriche a splendide digressioni acustiche. Just A Deck Of Cards è guidata da un’ottima slide e dalla voce alla Jagger di Kurt; Talkin’ With A Man In Montana è un’altra grande canzone, una slow ballad pianistica e scintillante, un pezzo così Jagger e Richards non lo scrivono da una vita.  L’album si chiude, come era iniziato, cioè con una languida ballad figlia del binomio Stones/Parsons (Song For Bobbie Jo). Davvero un’ottima band questi Deadstring Brothers (o dovrei dire Kurt Marschke & The Deadstring Brothers), un po’ derivativa ma non sempre: se vi mancano gli Stones più roots e bucolici, questo dischetto fa al caso vostro.

Marco Verdi

Pete Townshend e Keith Richards: chi è l’inventore del “mulinello”

Molti, girando per libri e per siti (Wikipedia incluso, che non è la Bibbia), avranno letto della presunta paternità del windmill attribuita al chitarrista degli Stones.
Vero, lo ammette anche il buon Pete, il primo a cui lo ha visto fare è stato proprio Keith Richards, e qui cadrebbe un mito!
Perchè dico cadrebbe: in effetti l’episodio preciso lo ha raccontato lo stesso Townshend all’interno del capitolo Guitar Heroes a sua volta all’interno della bellissima Storia del Rock al solito in inglese History of Rock’n’roll, quintuplo dvd che era stato pubblicato dalla Warner Home Video anche in Italia con sottotitoli, ora fuori catalogo ma magari import si trova ancora, cercatelo perchè ne vale la pena.
Il filmato che accompagna quella breve intervista è proprio quello che vedete qui sopra (con Pete Townshend barbuto): per farla breve, correva l’anno 1963, gli Who si chiamavano ancora Detours e in quel di Putney aprivano per il concerto degli Stones.
Finita la propria esibizione Townshend si ferma a guardare il riscaldamento preconcerto dei propri idoli: tra gli altri c’è Keith Richards accovacciato che sta facendo dello stretching e nel contempo con entrambe le braccia fa dagli ampi mulinelli per favorire la circolazione del sangue. A questo punto, a sorpresa, si apre il sipario e Richards con assoluta nonchalance prosegue con questi ampi mulinelli che finiscono sulle corde della chitarra, tripudio del pubblico e Pete Townshend stregato dal trucchetto decide di provarlo anche lui.
Passa qualche mese e gli Who nel frattempo sono diventati famosi, quindi il nostro nasuto amico decide di affrontare Richards: “Scusa Keith, volevo chiederti se posso copiare il tuo mulinello?”. A questo punto Townshend dice che Keith Richards “mi ha guardato come se fossi un verme!”, testuali parole e in quel momento ho realizzato che non si ricordava una mazza di quella serata.
Nascevano contemporaneamente uno degli stili di suonare la chitarra tra i più inconfondibili (ed efficaci, perchè quella tecnica, per chi la sa usare, come ha detto Pete dà una potenza di suono devastante, vedi riff nel filmato) e una delle “false leggende” del rock più false.
Bruno Conti