Novità Di Agosto Parte Ia. Civil Wars, Vince Gill & Paul Franklin, Explosions In The Sky, Frankie Miller, David Clayton-Thomas

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Riprendiamo la rubrica delle anticipazioni discografiche (a breve scadenza, le altre, le più importanti e sfiziose, arrivano a raffica, con molto anticipo) con le uscite del 5 agosto e un CD che era sfuggito,  pubblicato qualche tempo fa, molti altri titoli hanno avuto e avranno un loro spazio a parte specifico e poi ci sarà una sorta di “ripasso” delle vacanze con alcuni dischi interessanti di cui non ero riuscito ad occuparmi, ma che penso meritino una recensione più approndita.

Come potete notare, sui mercati intermazionali le pubblicazioni di novità, a differenza dell’Italia, dove tutto tace, si intensificano e nelle prossime settimane usciranno, ad esempio, anche Jimmy Buffett, Tedeschi Trucks band e altro materiale interessante, ma ne parliamo al momento opportuno, ossia nei prossimi giorni.

Partiamo con un terzetto eterogeneo di novità.

I Civil Wars lo scorso anno vinsero due Grammy per il loro primo album Barton Hollow, peraltro già uscito una prima volta nel 2011 e poi ripubblicato nel 2012 dalla Sony, che aveva rilevato il loro contratto, con alcune tracce aggiunte. Poi, a novembre, nel bel mezzo di una tournéè promozionale e della registrazione del secondo album, il duo annunciò che si prendeva una pausa a tempo indefinito per “inconciliabili differenze di ambizione”. Considerando che i due, Joy Williams e John Paul White erano stati anche una coppia a livello sentimentale non era difficile capire da potevano provenire queste frizioni. Poi però, nel corso del 2013, prima è uscita una colonna sonora prodotta da T-Bone Burnett con la loro partecipazione e ora questo album eponimo, “postumo”? Il disco, che è prodotto in parte da Rick Rubin e in parte da Charlie Peacock, il loro primo produttore, è comunque bello, come si evince da altri album nati da separazioni e rotture come Rumors dei Fleetwood Mac o l’ultimo di Richard & Linda Thompson (nel primo album c’era già un brano che si chiamava Poison and Wine, una premonizione?).  Esce per la Sony, che, evidentemente, per evitare di rimanere con il cerino in mano, lo mette comunque sul mercato. Lo sto ascoltando in questi giorni, recensione a breve.

Vince Gill ha una produzione alquanto ondivaga che alterna buoni album a dischi decisamente più commerciali. Gli ultimi due, Guitar Slinger e ora questo Bakersfield in coppia con Paul Franklin, fanno parte di quelli buoni. Si tratta di un disco di materiale tratto dal repertorio di Buck Owens e Merle Haggard che facevano parte del cosiddetto “Bakersfield Sound” rivale, negli anni ’60, del suono più caramelloso e commerciale che veniva da Nashville. Franklin è quel bravissimo musicista che suona la pedal steel guitar, slide e dobro in qualche migliaio di dischi di musica country registrati nelle ultime decadi, Gill pure, ma questa volta, anche in virtù del repertorio scelto, tra i classici Together Again e The Bottle Let Me Down, hanno centrato decisamente l’obiettivo: se amate il genere, ovviamente! Distribuzione MCA Nashville/Universal.

Prince Avalanche è un film di cui non so molto, se non che, su suggerimento di Chris Hrasky degli Explosions In The Sky è ambientato in Texas, Bastrop State Park. La colonna sonora è stata scritta da David Wingo, appunto con gli Explosions In The Sky, è totalmente strumentale, esce domani in America per la Temporary Residence e, a differenza dei dischi precedenti del gruppo, ha un sound meno elettrico, più “bucolico”, sempre leggermente psichedelico ma tipo i Pink Floyd primi anni ’70, con inserti orchestrali in una struttura prevalentemente acustica. Comunque non mi sembra male da quello che ho sentito.

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Un paio di personaggi dal passato.

Il primo è uno dei miei cantanti preferiti, Frankie Miller, e questo cofanetto, triplo CD o doppio DVD è una piacevolissima sorpresa. Esce per la Mig Music si chiama Live At Rockpalast e contiene tre concerti:

DVD 1 Traclisting:
Ain’t Got No Money
Zap Zap
Be Good To Yourself
A Fool In Love
It’s All Coming Down Tonight
Angels With Dirty Faces
To Dream The Dream
Danger Danger
Standing On The Edge
The Jealous Kind
A Woman To Love
Down The Honky Tonk
Bad Case Of Loving You
Don’t Stop
Let’s Spend The Night Together

DVD 2 Tracklisting:
Rockpalast Capture (Peter Ruchel)
A Fool In Love
Brickyard Blues
Papa Don’t Know
When I’m Away From You
A Woman To Love
Cold Turkey
Ann Elisabeth Jane
Fallin’ In Love
When Something Is Wrong With My Baby
Be Good To Yourself
Ain’t Got No Money
The Fire Down Below
Down The Honky Tonk
Little Queenie
Let’s Spend The Night Together

Il CD triplo è anche meglio perché contiene ancora più materiale, questo è il retro della copertina, dove potete leggere titoli dei brani, anni di registrazione e musicisti utilizzati:

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Inutile dire, grandissimo cantante, alla pari con i primi Eric Burdon, Joe Cocker, Rod Stewart e, aggiungerei, Paul Rodgers e il primissimo Robert Palmer, quello di Alan Bown Set e Vinegar Joe con Elkie Brooks, nonché dei primi album solisti Sneakin’ Sally Through The Alley, registrato in quel di New Orleans con Meters e Lowell George, e che sembra un disco dei Little Feat e Pressure Drop, con tutti i Little Feat, che verranno ristampati in un doppio dalla Edsel a fine mese. Notizia nella notizia. Rock Got Soul!

Anche David Clayton-Thomas viene dal passato, altra voce formidabile, è stato per moltissimi anni il cantante dei Blood, Sweat And Tears. Il nuovo album, A Blues For The New World, è già uscito da qualche tempo, su Antoinette Records distr. Universal Music Canada, quindi non di facile reperibilità, per usare il solito eufemismo. Blues con fiati di buona fattura, come di consueto.

Fine della prima parte, domani gli altri titoli.

Bruno Conti

Ce L’Hanno Fatta! Black Sabbath – 13 (With Bonus Tracks)

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Black Sabbath – 13 Universal Cd – 2CD Deluxe Edition – LP – 2CD/DVD/LP Super Deluxe Edition

Questo disco è stato da tempo presentato come l’evento musicale del 2013, e forse un po’ di verità c’è: i Black Sabbath, una delle più importanti ed innovative band di sempre (gli inglesi direbbero influential), per molti gli inventori dell’heavy metal, si riformano nella formazione originale (o quasi).

L’album è infatti il prodotto delle lunghe sessions che hanno seguito l’annuncio che Ozzy Osbourne, Tony Iommi, Geezer Butler e Bill Ward fecero l’11 Novembre del 2011, cioè che i Sabbath della prima ora si sarebbero rimessi insieme per un disco di inediti, il primo da Never Say Die! del 1978, con la produzione dello specialista Rick Rubin, e per una tournée mondiale.

Il seguito è noto: Ward si allontanò quasi subito, reclamando divergenze contrattuali, anche se più recentemente Osbourne ha dichiarato che il batterista non era nelle condizioni di poter offrire un valido supporto (e se lo dice uno come Ozzy, allora il povero Bill era proprio messo male), ed i tre Sabbath superstiti chiamarono il drummer dei Race Against The Machine, Brad Wilk, che così garantiva le stesse iniziali e lo stesso numero di lettere fra nome e cognome di Ward (coincidenza?), mossa che però fece storcere la bocca a parecchi fans, che sostenevano, a ragione, che questa reunion non poteva più essere strombazzata come quella del gruppo originale.

Che l’album non nascesse sotto i migliori auspici ci si misero pure le condizioni di salute di Iommi, al quale nel Gennaio 2012 venne riscontrato un tumore allo stato iniziale ai linfonodi: Iommi non si è però perso d’animo, e ha alternato le pesanti cure per il cancro alle registrazioni del disco, che sono inevitabilmente rallentate (per fortuna, l’organismo di Tony sembra aver assorbito bene le cure, ed i quattro si stanno già esibendo con regolarità dal vivo, segno che la malattia è sotto controllo). Con tutte queste disavventure (aggiungiamo che per qualche tempo Ozzy si era anche pericolosamente riavvicinato a quegli stravizi che lo hanno reso celebre, anche se pare che ora sia definitivamente sobrio), il titolo di 13 non sembra il più beneaugurante, dato il potere negativo che la superstizione assegna a questa cifra: accogliamo quindi quasi con un sospiro di sollievo l’uscita di questo album, anche se in realtà la data ufficiale è fra circa una settimana (l’11 giugno), con le abituali differenze tra mercato europeo ed americano.

Come già detto, 13 il primo disco della formazione originale dei Sabbath (beh, diciamo con Ozzy alla voce…) da 35 anni a questa parte (anche se i quattro, con Ward, avevano dato alle stampe nel 1998 il doppio Reunion, che però era un live con appena due brani nuovi in studio) ed il primo con canzoni nuove da Forbidden del 1995, al quale partecipava solo Iommi.

(NDM: in realtà nel 2009 è uscito un disco, The Devil You Know, della formazione dei Sabbath dei primi anni ottanta, cioè con Ronnie James Dio e Vinnie Appice al posto di Osbourne e Ward, ma per motivi di diritti si dovettero ribattezzare Heaven & Hell).

Ebbene, com’è questo tanto atteso 13? Beh, se pensate di trovarvi davanti al disco che cambierà il mondo dell’hard rock avete sbagliato tutto, ma di certo è un ottimo album di puro Sabbath sound, certamente migliore degli ultimi tre album con Ozzy negli anni settanta (Sabotage, Technical Ecstasy e Never Say Die!), e che quindi si propone come l’ideale seguito di Sabbath Bloody Sabbath. Chi temeva di trovarsi di fronte ad un normale disco solista di Ozzy Osbourne può stare tranquillo: 13 è pieno di riff che solo uno come Iommi può far uscire dalla chitarra, ed il basso inquietante e martellante di Butler lo si riconosce subito: qualcuno lo definirà un disco prevedibile, ma alzi la mano chi voleva qualcosa di diverso dai quattro (ehm…tre, scusa Brad, ottimo lavoro comunque dietro i tamburi).

Apre End Of The Beginning, e subito siamo in pieno festival doom, con il ritmo lento tipico della band di Birmingham, la voce particolare di Ozzy e Iommi che macina riff pesantissimi, con Butler che colpisce duro con il suo basso (l’inizio rimanda decisamente a Black Sabbath, la canzone, che apriva il loro primo disco e diede inizio a tutto): all’improvviso il ritmo aumenta e Ozzy inizia a seguire Tony come solo lui riesce a fare, cantando anche meglio del solito, poi arriva l’assolo di Iommi che stende tutti.

Un inizio convincente.

La lunga God Is Dead è anche il primo singolo, ma non aspettatevi nulla di radiofonico, anche se Rubin fa di tutto per rendere il suono pulito: Iommi ricama sullo sfondo, Osbourne canta bene (Ozzy sembra decisamente in palla), e non mancano, per la gioia delle orecchie dei fans, quei cambi di ritmo per il quali i Sabbath vanno giustamente famosi, con Tony che rilascia un assolo molto lirico.

La movimentata Loner è finora la più radio friendly, anche se il suono è Sabbath al 100%, e poi Iommi macina riff che è un piacere; Zeitgeist si apre con una risata satanica di Ozzy e con Tony che suona l’acustica, un inizio quasi etereo e psichedelico, poi entra una percussione leggera e la ballata si snoda fluida e piacevole, quasi rilassata, con un assolo di chitarra elettrica decisamente melodico. Con Age Of Reason torniamo in territori tipici, Butler e Iommi picchiano di brutto, Wilk non si tira indietro, ed Ozzy…fa Ozzy; Live Forever è una rock song dal ritmo sostenuto (ottima la prestazione di Wilk, uno che non fa certo rimpiangere Ward), con il solito Iommi che fa il bello ed il cattivo tempo, ben seguito da un Ozzy convinto come non lo sentivo da anni. Damaged Soul è heavy music come se i nostri fossero ancora negli anni settanta, con Osbourne che segue vocalmente gli sviluppi chitarristici del suo chitarrista mancino: otto minuti di puro rock, con un finale strabiliante da parte di Iommi.

La versione “normale” dell’album si chiude con la potente Dear Father, che mette il sigillo su un ottimo ritorno, da parte di quattro musicisti in forma smagliante: la versione deluxe offre tre canzoni in più (Methademic, Piece Of Mind e Pariah), che non ho ascoltato, canzoni che diventano quattro (Naiveté En Black) nella versione esclusiva in vendita solo nella catena americana Best Buy (ma scommetto che questo brano spunterà come bonus in qualche special tour edition futura).

Iniziate a tremare: i Principi dell’Oscurità sono tornati (e qui ci vorrebbe una bella risata demoniaca di Ozzy).

Marco Verdi

 

Post Scriptum! Black Sabbath – 13 – Bonus Tracks

Come avevo scritto parlando in anteprima del nuovo album dei Black Sabbath, 13, la Deluxe Edition esce con tre brani in più, e siccome ne sono finalmente venuto in possesso, ho ritenuto doveroso aggiungere un breve post scriptum.

Methademic è un brano di sei minuti che parte con delicati arpeggi di chitarra acustica, ma dopo una breve pausa avviene un’esplosione elettrica che fa quasi sobbalzare sulla poltrona, con Ozzy che canta comunque in maniera abbastanza pacata, mentre Iommi, Butler e Wilk scatenano l’inferno.

Piece Of Mind è più breve e diretta, ma anche con meno guizzi, anche se i quattro si difendono con il mestiere, mentre Pariah chiude il lotto delle bonus tracks con la consueta dimostrazione di potenza e tecnica, con Iommi grande protagonista (come tra l’altro nel resto del disco), un cantato incredibilmente pulito e rigoroso di Osbourne ed un ritornello immediato.

Un bel trittico di canzoni, non degli scarti ma, almeno nel primo e terzo caso, di pari valore di quelle dell’album principale (e, come al solito, vorrei proprio sapere chi comprerà la versione “monca”).

Marco Verdi

A Volte “Non” Ritornano: Come Volevasi Dimostrare! C S N & Y Live 1974 Rinviato.

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 “Cosa dite, ragazzi lo facciamo o aspettiamo altri 40 anni?”

*NDB Dal nostro inviato tra il gruppo più puntuale e preciso del mondo. Il loro motto è formato da una sola parola: “Forse”!

 

Un paio di settimane fa circa ho scritto un breve post su una ghiotta anticipazione: l’uscita, il 27 Agosto, di un CD dal vivo di Crosby, Stills, Nash & Young che avrebbe dovuto documentare il meglio dei concerti della mitica tournée del 1974, un progetto di cui si vociferava da anni.

Ho usato il condizionale perché, giusto un paio di giorni fa, è uscita la notizia, neanche troppo inattesa se vogliamo, di un ulteriore rinvio alla primavera del 2014.

Graham Nash, curatore del progetto ed anche degli archivi del supergruppo (con o senza Neil Young) ha affermato di aver deciso di posporre la messa in commercio del CD in quanto l’anno prossimo cade il quarantesimo anniversario del tour, e poi sta ancora lavorando a diverso materiale che vorrebbe includere (tra cui un brano inedito di Young dedicato all’allora presidente americano Richard Nixon).

Quindi sembrerebbe che, una volta tanto, non ci sia lo zampino di Young nel ritardo: alcune malelingue (ma come diceva Giulio Andreotti, pace all’anima sua, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca) sostengono che i quattro, che l’anno prossimo sarebbero liberi da impegni, vorrebbero far coincidere l’uscita del disco con un nuovo tour insieme.

Staremo a vedere: per ora è certo che, quando Nash annuncia un progetto (tra cui anche il famigerato disco di cover ad opera di CSN prodotto da Rick Rubin) comincia ad avere la stessa credibilità di un politico italiano che dice di voler fare le riforme.

Marco Verdi

P.s Marco, ma avevi specificato l’anno di uscita (nel post non lo dici)? E in ogni caso, come da video, con questa canzone avevano già anticipato la situazione da quel bel dì (ricordate il testo?)!

Bruno Conti

Pop In Excelsis Deo! Avett Brothers – The Carpenter

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Avett Brothers – The Carpenter – American Recordings/Universal

La breve premessa è che in questo giorni ho ascoltato molto questo The Carpenter degli Avett Brothers, godendo come un riccio. Il CD è in heavy rotation sul mio lettore in alternativa con Babel dei Mumford and Sons, al quale per il momento, lo preferisco per una breve incollatura (ma i giudizi nel tempo potrebbero cambiare). E quindi ve lo consiglio, e qui potrebbe finire il giudizio critico, per chi ha poco tempo per leggere.

Se avete pazienza vorrei esporvi una mia breve teoria. Gli Avett Brothers, secondo me, sono l’ultimo gruppo in una lunga teoria che prende l’abbrivio a fine anni ’60, primi ’70 con Nitty Gritty Dirt Band e Poco (ma anche i Dillards), per passare attraverso i canadesi Blue Rodeo negli anni’80 e i Jayhawks negli anni ’90 (tutti ancora in attività), che partendo da una base country, chi più chi meno, ha saputo fonderla con una attitudine pop, nel senso più nobile del termine, belle canzoni, armonie vocali, arrangiamenti sempre diversi, praticamente i Beatles, per creare questo ibrido che nel corso delle decadi si è chiamato di volta in volta, country-rock, Americana, alternative country, insurgent country, roots music, nelle sue varie declinazioni, ma che in fondo è l’arte, partendo da un banjo, una chitarra acustica o un mandolino, di creare una bella canzone pop.

Gli Avett Brothers sono uno dei gruppi più versati in questa diificile alchimia. Dagli esordi acustici dei primi anni 2000, quando erano solo i due fratelli Scott e Seth Avett, con il contrabbassista Bob Crawford, e il primo CD del 2002, profeticamente, si chiamava Country Was, da allora hanno fatto parecchia strada, dalla piccola Ramseur sono approdati alla American Recordings di Rick Rubin, che li ha portati dalla Sony all’attuale distributore Universal. Hanno raggiunto il 16° posto delle classifiche di Billboard con il precedente album I And Love And You, il primo prodotto dal “barbudo” e ora con questo The Carpenter, settimo disco in studio, oltre a una sequela di live ed EP, in un mondo alternativo in cui le classifiche sono “serie” e di solito non esistono, ma nel momento in cui scrivo è realtà, debuttano al 4° posto della classifica americana, nella stessa settimana in cui Dave Matthews è 1°, i Little Big Town (un discreto gruppo country) sono secondi, Bob Dylan è 3° con Tempest, e il trio alternativo degli xx e quello non molto alternativo degli ZZ Top, li seguono al 5° e 6° posto. Cose da non credersi! 

Ma torniamo ai nostri amici. I fratelli Avett hanno un raro dono, quello di saper scrivere belle canzoni, aiutati dal fido Crawford, dal violoncellista Joe Kwon, dal batterista Jacob Edwards e da un gruppo di amici tra cui spiccano Lenny Castro che suona le percussioni in tutto l’album, Benmont Tench che suona le tastiere in ben otto brani, Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers alla batteria in tre brani, gli ottimi Doug Wamble e Blake Mills alle chitarre elettriche nella bellissima Live And Die (ma sono tutte belle) e molti altri artisti che sotto la produzione di Rubin ci regalano un Pop raffinato, solare e malinconico, con degli arrangiamenti spesso superbi e delle armonie vocali magiche che ricordano di volta in volta i già citati Beatles, Jayhawks, Poco e persino, a chi scrive, parere molto personale ma provate a sentire in alcuni momenti i Bee Gees dell’era pre-disco, quando facevano della musica semplice ma sublime, che passava dal singolo perfetto ad un album ricercato come Odessa.

La musica pop quando non è fatta da ragazzine ansanti e sospirose o da boy band francamente improponibili è un genere assolutamente da non disprezzare perché ti regala melodie che ti rimangono nel cervello e momenti di puro genio, se a suonarla ci sono musicisti di talento. E tra un disco e l’altro, di Canterbury, di psichedelia, di acid-rock, di alternative, di jazz-rock, di rock-blues o di quant’altro ascoltiate abitualmente è un “piacere proibito” a cui è possibile indulgere senza che il solito critico rompicoglioni vi dica “si però, è musica orecchiabile”! Ovviamente ci sono stati i geni e ci sono gli artigiani di lusso nel genere, gli Avett Brothers fanno parte, con merito, della seconda categoria.

Il disco contiene 12 bellissimi brani (14 nella versione per la catena Target, e ho visto sul loro sito che ce n’è una versione SuperDeluxe, che oltre a memorabilia varia contiene anche un CD con 6 versioni demo inedite, peccato costi sugli 80 dollari ed esca a ottobre): si parte con la bellissima The Once And Future Carpenter che contiene il verso “If I Live The Life I’m Given i Won’t Be Scared To Die”, forse dedicato ai temi della mortalità ed in particolare alla piccola figlia di due anni del bassista Bob Crawford che combatte con un tumore al cervello. La canzone parte con un giro di chitarra acustica, poi entra la sezione ritmica, l’organo di Benmont Tench, il cello di Kwon che aggiunge quella patina di malinconia alle continue aperture melodiche del ritornello, con quegli stupendi crescendi vocali che sono il loro marchio di fabbrica, con le voci che armonizzano deliziosamente. Se possibile, la già citata Live And Die è ancora più bella, aperta da un banjo solitario a cui si aggiungono poco alla volta tutti gli altri strumenti, è il singolo apripista, un esempio di come fare musica pop toccata dal genio, con un refrain irresistibile e quei delicati impasti vocali mentre il banjo guida il tema del brano in alternanza con la slide dell’ospite Doug Wamble. Winter In My Heart con Benmont Tench che si sposta al piano, è una melancolica ode alla stagione invernale, con una costruzione sonora che mi ricorda i Bee Gees citati prima, quelli di brani come New York Mining Disaster 1941, Holiday o l’intro di I’ve A Get A Message to you o To Love Somebody (se le hanno cantate gente come Nina Simone, Leonard Cohen, Janis Joplin e i Blue Rodeo, tanto per citarne alcuni, non doveva essere solo musica pop usa e getta): qui si sente anche la mano di Rubin, con un arrangiamento complesso che mette in evidenza il cello e il saw (in questo caso come strumento e non come sega).

Pretty Girl From Michigan è l’ultima di una serie di canzoni dedicate “alle belle ragazzuole” (che impazziscono per loro), ce n’è una in ogni album, cambia il luogo di provenienza della Pretty Girl. In questo caso c’è ampio spazio per la chitarra elettrica di Seth Avett che punteggia tutto il tema del brano. I Never Knew You con le voci dei fratelli che si rispondono dai canali dello stereo, è molta Beatlesiana ma anche ricorda il country-rock di Jayhawks e Blue Rodeo (che peraltro una o due canzoni dei Beatles devono averle sentite). Il clima è gioioso come ci si aspetta dalla musica pop più classica. February Seven è una classica ballata in quello che molti hanno definito l’Avett Sound, con il cello che si amalgama con le chitarre acustiche prima della consueta esplosione corale delle voci. Through My Prayers è un’altra deliziosa costruzione sonora, con acustiche e cello che ci conducono, insieme alle voci dei fratelli (di nuovo alla Bee Gees, insisto), in una dimensione quasi cameristica, con harmonium, oboe, piano e clarinetto a colorare tenuamente il brano.

Down With The Shine è un’altra bellissima ballata guidata dal banjo di Scott Avett, con le trombe che aggiungono un flavor quasi da border song messicana e le due voci che si alternano alla guida del brano, come nella migliore tradizione del country-rock più epico. Anche Father’s First Spring è un’altra elucubrazione sui temi della paternità, costruita sulla solita base acustica, arricchita da organo e cello e che poi si apre in quelle ricche soluzioni melodiche dove le voci si appoggiano sul tessuto sonoro, delicata e struggente al tempo stesso. Geraldine sono 1 minuto e 38 secondi degli Avett Brothers che si danno al rock, per un brano tra Young e Beatles (le solite armonie) che farà faville nella probabile versione ampliata live.

Ancora chitarre elettriche fumanti e rock per una Paul Newman Vs The Demons, dedicata alla intensa vita del grande attore americano. Questi sono gli Avett degli ultimi anni, con Chad Smith alla batteria, quelli che hanno imparato a convivere anche con la loro anima più “rumorosa” ma non dimenticano mai l’importanza delle loro intricate evoluzioni vocali. La conclusione è affidata ad un’altra strepitosa ballatona di quelle DOC, Life, dove il reparto vocale viene potenziato dalle Magnificent Webb Sisters come le chiamava mastro Leonard Cohen sul palcoscenico dei suoi concerti. Si conclude così in gloria questo disco che conferma il valore del gruppo. D’altronde se sono stati scelti con i “confratelli” d’oltre oceano Mumford And Sons per accompagnare Dylan nella serata dei Grammy un motivo ci sarà pure stato!

C’è di meglio? Sicuramente, ma anche, molto, moltissimo di peggio, osannato senza motivo. Questi almeno sono falegnami e quindi bravi artigiani.

Bruno Conti

Un Grande Piccolo Trio Da Houston, Texas Di Nuovo In Pista. ZZ Top – La Futura

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ZZ Top – La Futura – American Recordings/Universal  11-09-2012

Se vogliamo aprire brutalmente, non è che gli ultimi album degli ZZ Top siano stati memorabili, e per ultimi intendiamo almeno un trentennio (forse anche qualcosa di più, perché molti non hanno ancora metabolizzato i sintetizzatori di Eliminator e i video su MTV, ma quelli almeno avevano le belle donnine). Gli ultimi album buoni (El Loco,) o anche eccellenti (Deguello), i 30 anni di vita li hanno superati da un bel pezzo e, casualmente, o forse no, sono stati gli ultimi ad avere un titolo in spagnolo, come quasi tutti i loro grandi dischi. Non a caso, anche l’ultimo disco decente del trio, Antenna del 1994, aveva quelle radici linguistiche, se non musicali.

Gli ZZ Top sono sempre stati un gruppo anomalo nel mare magnum del southern rock: un trio di boogie-rock-blues texano che però non aveva tra gli elementi fondanti del proprio sound anche quella quota country che era (ed è) uno degli elementi quasi indispensabili per chi fa musica “sudista”. Però hanno sempre abbondantemente bilanciato con spruzzate corpose di (hard) rock. Cosa ci voleva per far sì che tornassero a fare della buona musica? Questo era il quesito fondamentale. La risposta ovvia era: un buon produttore! Hanno scelto Rick Rubin che è un buon alchemista del suono ma non quel genio della consolle che ci vogliono far credere (chiedere a CSN!) o non sempre (anche se tra barbuti ci si intende). Uno dei grandi problemi di Rubin sono i tempi: questo album è in gestazione da almeno quattro anni, per un totale di dieci brani, fa una canzone ogni cinque mesi. Poi è ovvio che non è così e si dice che il materiale registrato, e scartato, avrebbe potuto riempire 20 CD, ma la percezione esterna è quella. Se poi aggiungiamo che a giugno, in formato digitale, era già stato pubblicato l’EP Texicali, le canzoni nuove da ascoltare rimangono solo sei. Comunque se prendiamo La Futura globalmente come album c’è di che rimanere soddisfatti. Non un capolavoro ma un solido lavoro di quel southern-boogie-hard-rock-blues che ce li ha sempre fatti amare (beh, non proprio sempre!).

Gotsta Get Paid, il brano di apertura, è una sorta di risposta virtuale a Just Got Paid, uno dei loro super classici che si trovava su Rio Grande Mud,e se la voce di Billy Gibbons ti fa venir voglia di prenotargli una visita dall’otorino, le chitarre di Billy, il basso di Dusty Hill e la batteria di Frank Beard martellano i loro ritmi con gusto rinnovato come ai vecchi tempi e senza l’ombra di un synth all’orizzonte, ma una “ispirazione” da un pezzo rap degli anni ’90 trattato alla ZZ Top. Chartreuse, che si pronuncia all’inglese, per fare rima con Blues, proprio quello è, un bel blues vecchio stile, l’unico firmato da tutto il gruppo (e anche in questo caso, partendo da un brano di Gillian Welch) e cantato da Dusty Hill che pompa con rinnovato vigore sul suo basso, come peraltro con i soci non aveva mai cessato di fare dal vivo. E la caratteristica principale di questo album è proprio l’immediatezza, che non lascia intendere i quattro anni che ci sono voluti per realizzarlo. Anche Consumption è un funky-blues di quelli ribaldi, nella loro migliore tradizione. Over You è una lenta ballata vagamente soul, in omaggio a quei grandi della musica nera che li hanno ispirati ad amare questa musica. Billy Gibbons la canta con passione prima di lasciarsi andare ad un assolo ispirato e conciso.

E qui finisce l’EP. L’album continua sulla stessa falsariga con Heartache In Blue dove fa capolino anche una armonica, suonata da James Harman, che conferma l’autenticità degli intenti. I Don’t Wanna Lose, Lose, You è una canzone costruita intorno ad un riff che Gibbons dice viene per metà da Keith Richards e metà da Bo Diddley, il risultato è ZZ Top al 100%. Tra l’altro Over You e I Don’t Wanna Lose sono state scritte da Gibbons in coppia con l’ottimo produttore/batterista Tom Hambridge, quello degli ultimi notevoli lavori di Joe Louis Walker, Thorogood e Buddy Guy e mille altri, ha una lista di collaborazioni tipo pagine gialle del Blues. Flyin’ High ha un altro riff poderoso, da rock-blues classico, un po’ alla Free o Bad Company, ed è il famoso brano che è stato sparato nello spazio insieme all’astronauta della Nasa. It’s Too Easy Manana è il brano scritto da Gillian Welch e David Rawlings con Gibbons e riceve il trattamento alla ZZ Top per diventare uno slow blues “lavorato e atmosferico” di qualità. Anche Big Shiny Nine è un brano di cui dici subito dalla prima nota, ZZ Top! Have A Litte Mercy nelle loro intenzioni originali avrebbe dovuto essere un brano alla BB King. Sì, ma come l’avrebbe suonato se fosse stato bianco e nato in Texas. Perché questo è, come tutto il disco: un grande piccolo trio di texani che suona il Blues visto dal profondo Sud. E questa volta ritornano a farlo bene!

Bruno Conti

Un Nuovo EP, “Piccolo Ma Sincero”. ZZTop – Texicali

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ZZTop – Texicali EP – American Recordings/Universal – Solo download

Sono solo quattro brani, ma la prima cosa che mi viene da dire è che “sembrano” gli ZZTop, e già non è poco. Questo Texicali è un piccolo appetizer dell’album ancora senza titolo, prodotto da Rick Rubin, che dovrebbe uscire alla fine dell’estate. E il fatto che escano questi brani è un buon segnale, vuol dire che questo disco non farà la fine del fantomatico progetto di cover di C S N, sempre curato da Rubin. Che nel frattempo è stato scaricato dalla Sony-BMG, dove ricopriva il ruolo di co-presidente della Columbia, e quindi baracca e burattini, con la sua etichetta American Recordings, si è ri-trasferito alla Universal (ormai le major sono quelle, non c’è molta scelta).

Tornando all’EP, il sound è tornato quello classico degli anni ’70, niente sintetizzatori, sequencers, batterie elettroniche, solo del sano boogie-southern-rock-blues. Almeno a giudicare da questi quattro brani, che si possono solo scaricare dalle varie piattaforme per il download, mi sembra che i tre “barbuti” (due veri ed uno di cognome) abbiano deciso, con l’aiuto di Rubin, di tornare a fare quella che è la loro musica: era dai tempi di El Loco e Deguello, e ancora meglio nei precedenti dischi, che il gruppo non si esprimeva a questi livelli. Ok, la voce di Billy Gibbons ormai ti fa venire voglia di regalargli un pacchetto di pasticche per la gola, ma la chitarra del leader e la sezione ritmica hanno ripreso a suonare con un vigore e delle sonorità, che salvo sporadiche eccezioni, sembravano relegate alla notte dei tempi.

Invece, sin dalle prime note di I Gotsta Get Paid, una sorta di sciogilingua in “risposta” alla classica Just Got Paid che si trovava sull’altrettanto classico Rio Grande Mud (e della quale Bonamassa fa una monumentale versione dal vivo con tanto di Flying V Gibson all’opera), le chitarre di Billy tornano a “ruggire” come ai tempi d’oro, con gli immancabili riff boogie del southern rock più legato al blues nuovamente in azione a dispetto degli anni che passano e delle mode musicali che si susseguono. Quindi, per fortuna, niente di nuovo sul fronte musicale, solo chitarre cattive e basso e batteria a martellare i ritmi. E gli altri due brani, anche questi brevi e concisi, meno di quattro minuti ciascuno, Chartreuse e Consumption, avrebbero tranquillamente trovato posto tra i migliori brani della loro discografia: la prima cantata da Dusty Hill, messo meglio nel reparto vocale di Gibbons e ancora in grado di pompare alla grande sul suo basso, con la batteria di Frank Beard immancabile contraparte nella sezione ritmica. Consumption è una ennesima, ma sempre benvenuta, ulteriore variazione dei temi boogie che il trio ha perfezionato nel corso di oltre quarant’anni di onorata carriera. La “sorpresa” è Over You, una inconsueta, per loro, lenta ballata, quasi romantica, cantata con passione e con quel poco di voce rimasta da Billy Gibbons, che la nobilita nella parte centrale con un lirico e bellissimo assolo di chitarra che ci riappacifica ulteriormente con i bei tempi andati, che possono tornare.

Sono solo quindici minuti, ma se il buongiorno si vede dal mattino, bentornati!

Bruno Conti

Soddisfacente! Brandi Carlile – Bear Creek

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Brandi Carlile – Bear Creek – Columbia Records

Ci sono degli artisti che si ascoltano, ed eventualmente si acquistano, a prescindere! Perché sono bravi e quindi sai già che sui loro dischi troverai buona musica e Brandi Carlile fa parte di questa categoria. Bella voce, facilità di scrivere canzoni, un genere che abbraccia il meglio di quello che la musica di qualità ha prodotto nell’era dei cosiddetti singer-songwriters, poi, volendo, uno può discutere la sua discografia disco per disco e financo canzone per canzone, ma prima si vanno a vedere e sentire i contenuti poi eventualmente li si discute e alla fine non si rimane mai completamente delusi o perché no, a seconda dei casi, soddisfatti in quanto “un comunque sì” lo meritano solo quelli di talento e in questo caso ce n’è in abbondanza!

Dopo l’inizio in sordina (ma buono, per i tipi di All Music Guide addiritttura il  suo migliore) dell’esordio omonimo Brandi Carlile del 2005, la nostra amica ha fatto il botto, a livello di critica e di successo, con il secondo album The Story, prodotto da T-Bone Burnett, che viene considerato all’unanimità il suo “capolavoro”. Poi da quel punto i pareri si dividono: la sua casa discografica ci crede e le affianca un altro pezzo da 90 come Rick Rubin (per la verità meno efficace del suo predessore), per produrre il successivo Give Up The Ghost che spacca la critica musicale. Chi lo considera una (parziale) delusione, chi lo osanna forse perfino troppo, ma il disco, sicuramente più discontinuo del precedente, ha in ogni caso alcune belle canzoni e la conferma come una della cantautrici migliori delle ultime generazioni, forse quella in grado di incarnare meglio lo spirito dei grandi del passato, eclettica e non etichettabile in un genere specifico. Anche il successivo Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony è stato soggetto di pareri diversi (e comunque un disco con un’orchestra sinfonica che è arrivato fino al 14° posto delle classifiche americane non deve essere proprio malvagio): chi lo ha definito “pomposo” e magniloquente, troppo ridondante nei suoi arrangiamenti orchestrali ed altri, compreso il sottoscritto, a cui è piaciuto sia per i contenuti che come una sorta di riassunto riveduto e corretto della prima parte della sua carriera from-seattle-with-love-brandi-carlile-live-at-benaroya-hall.html, che non comprende solo i tre album citati, ma nella prima parte degli anni 2000 ha prodotto una serie di EP, dal vivo e in studio, ricchi di cover e sorprese.

Anche per questo nuovo album Brandi Carlile si è ispirata, almeno per la scelta dell titolo, a uno dei suo idoli assoluti, Elton John, che quando registrò ai Chateau d’Hèrouville Studios chiamò quel disco Honky Chateau (é quello con Rocket man); Brandi si è detta, visto che è una delle poche scelte che la casa discografica mi lascia fare, scegliere il titolo, perché non chiamarlo Bear Creek, dal nome dello studio di registrazione vicino a Seattle dove è stato realizzato l’album, suona anche bene! Quindi, in compagnia della nuova produttrice (e ingegnere del suono) Trina Shoemaker (vincitrice anche di Grammy con Sheryl Crow)  e di 13 nuove canzoni, molte rodate da una lunga frequentazione dei palchi americani (nel resto del mondo purtroppo la si vede poco), dalla permanenza in quegli studi questo è il risultato che ne è scaturito.

E’ un capolavoro? Probabilmente no, a parte per i fans e le fans più accanite! Forse neppure un grandissimo disco (lo diranno il tempo e ascolti più approfonditi) ma, di primo acchito, sicuramente, nel piattume generale (illuminato più spesso di quello che si pensa da improvvisi lampi di classe, intesa come buona musica, parlo in generale) fa la sua più che onesta figura. Brandi Carlile è accompagnata come sempre dai fidati gemelli Phil & Tim Hanseroth che scrivono con e senza di lei la quasi totalità dei brani, la batterista Allison Miller (con l’aggiunta di Matt Chamberlain in alcuni brani) e il cellista Josh Neumann a cui si aggiungono per l’occasione Dave Palmer alle tastiere e Jeb Bows della band di Gregory Alan Isakov al violino e mandolino.  

I tredici brani spaziano dal country-folk speziato ed intenso dell’iniziale Hard Way Home che doveva essere il primo singolo, seguita da Raise hell, un brano che la Carlile esegue da molto tempo in concerto e quindi mi era già capitato di ascoltarlo in varie esibizioni su YouTube ma la versione in studio ha quel qualcosa in più fornito dal contrasto tra il mandolino, la struttura elettrica del brano, il battito di mani e quella coloritura quasi country-gospel fornita dalla bella voce di Brandi, definita dalla rivista Paste “The Best Voice in Indie Rock”, ma io direi del rock in generale perché restringere le categorie. Save Part Of Yourself ha ancora questo spirito gospel fornito dai cori e dal ritmo marciante delle percussioni con il mandolino sempre in evidenza e qualche spruzzata di archi qui e là.

That Wasn’t Me è il primo singolo tratto dall’album: si tratta dell’unica ballata pianistica scritta dalla sola Carlile e prende lo spunto da quelle classiche di Elton John del periodo di Tumbleweed Connection ed è inteso come un complimento perché il brano ha la maestosa serenità malinconica del grande cantautore inglese all’apice della sua carriera. Anche Keep Your Heart Young già un must delle esibizioni live qui acquista quell’aria country e paesana mutuata forse dalle frequentazioni con Kris Kristofferson che appare nel video di That Wasn’t Me. 100 è un pezzo classico del suo repertorio, un brano rock dal ritmo incalzante (con echi alla U2) percorso anche dal suono del cello (e qualche violino) e dalle tastiere che coloriscono un suono più moderno e meno roots rispetto al resto dell’album. A Promise To keep con un bel fingerpicking acustico che mi ha ricordato il Paul McCartney acustico è una ballata malinconica dove piano e violoncello sono ancora in primo piano e si dividono gli spazi con la sua bella voce. I’ll still be there è un altro brano tipico del suo repertorio, con aperture melodiche caratterizzate dal falsetto in alcuni momenti e con un bel assolo di fratello Tim.

What Did I Ever Come Here For è l’altra ballata pianistica del disco (ho mentito prima) ma scritta in questo caso non da Brandi ma dall’altro gemello Phil: si sente una ulteriore voce femminile di supporto che non so se è quella doppiata della stessa Carlile (il multitracking grande invenzione) o di qualche ospite (le sue amiche Indigo Girls?) mentre il cello si ritaglia uno spazio solista nella intensa parte centrale prima del gran finale. Piano e cello rimangono anche per la dolce e orecchiabile Heart’s content forse un brano minore ma sempre piacevole, adatta ad eventuali usi per futuri spot o in serie televisive che spesso nel passato hanno utilizzato la musica della cantante americana. Rise Again è uno dei brani dalla struttura più rock, ancorché con la presenza del mandolino, già ascoltato spesso nelle esibizioni live, ricorda qualcosa degli U2 meno pomposi per il riff ricorrente e pressante della chitarra elettrica. In The Morrow ci riporta alle sonorità più rootsy dei primi brani di questo CD anche se con quel timbro antemico e corale che hanno molti brani di Brandi con il mandolino nuovamente in evidenza nella coda strumentale. Il finale è affidato a Just Kids una sorta di ghost-track esplicita, nel senso che non è una traccia nascosta ma appare dopo qualche decina di secondi di silenzio e poi si esplicita in una lunga introduzione strumentale “spettrale” tra tastiere e archi che introducono la voce “trattata” e ricca di eco e riverbero per questo omaggio alla nostalgia dei “vecchi tempi” (a 31 anni!) giovanili con un omaggio al melodramma sonoro di cantanti come Roy Orbison o Patsy Cline, qui modernizzati ma che sono nel DNA di Brandi Carlile.

Come direbbe Nero Wolfe (il ritorno televisivo mi ha stimolato vecchie ri-letture di Rex Stout): “Soddisfacente, Brandi!”.

Bruno Conti

L’Importante E’ La Coerenza! CSN 2012

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Mentre sembrano perdersi sempre di più le tracce del famoso disco di covers di Crosby, Stills & Nash, prodotto da Rick Rubin, più volte annunciato e altrettante rimandato, finché Nash in un’intervista aveva detto che non se ne sarebbe più fatto niente, ma poi, tac, era riapparso in alcune liste delle prossime pubblicazioni, però ci credo poco. Nella stessa intervista Graham Nash aveva annunciato anche l’uscita di un box antologico retrospettivo dedicato a Stephen Stills, come quelli fatti per lui e Crosby, ma poi non si è più saputo nulla neppure di quello.

E vogliamo parlare del cofanetto dedicato al tour di C.S.N & Y del 1974, in audio e video? A cura sempre dello stesso Nash: ma lì ci sarebbe sempre quel famoso problema di due parole, Neil Young, anche se Nash aveva annunciato di avere il beneplacito del canadese: pensaci tu Willy! Infatti si è visto. Young, che come saprete, fra poco pubblicherà il secondo volume degli Archives! Ah no! Mi dite che il 5 giugno uscirà un nuovo album di “cover storiche” con i Crazy Horse Americana. Strano!

E poi cosa ti vedo. Dopo il DVD di Crosby & Nash In Concert pubblicato nel 2011 è annunciato per il 10 luglio un nuovo Csn 2012 in DVD+CD o Blu-ray. Non c’è ancora una copertina ma l’uscita sembra certa: comprende materiale registrato dal trio nel tour 2012 tutt’ora in corso, tra cui anche alcuni brani nuovi come Radio e Almost Gone oltre alla cover di Girl From The North Country che doveva essere una delle canzoni del nuovo disco con Rubin. Poi negli extra della parte video ci sono interviste e dietro le scene come di consueto. Dovrebbe durare 90 minuti, come l’altro, non si sprecano mai molto, ed uscire per la loro etichetta Blue Castle Records.

L’importante comunque è questa coerenza ferrea, quando annunciano una cosa è quella e da lì non si discostano. Bravi! Boutades a parte, attendiamo fiduciosi.

Bruno Conti

Solo Del Sano Buon Vecchio Rock! Howlin Rain – The Russian Wilds

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Howlin Rain – The Russian Wilds – Birdman/American Recordings

Gli Howlin Rain sono la creatura di Ethan Miller, nati come coma una costola, uno spin-off, rispetto ai più psichedelici e sperimentali Comets On Fire ne hanno decretato in un certo senso la fine, visto che dopo Avatar del 2006 questi ultimi non hanno più pubblicato nulla (ma mai dire mai). In pratica non è cambiato moltissimo, chitarre, chitarre e ancora chitarre, ma anche un po’ di organo se è per quello (abbondante), le atmosfere si sono spostate decisamente verso il rock anni ’70, quello hard ma di qualità tralasciando i sixties, e godendo della fiducia (e dei mezzi) di Rick Rubin (guardate le barbe, sembrano gemelli separati alla nascita Miller e Rubin) che veste i panni del produttore esecutivo (che non si sa mai cosa vuol dire) hanno affinato il loro sound affidandosi in una co-produzione all’ingegnere del suono Tim Green che ha contribuito ad un sound più netto e definito, ricco di echi del passato ma che si avvale delle attuali tecniche di registrazione.

Ma non sembra, ossia il disco potrebbero averlo fatto i Led Zeppelin o i Black Sabbath o dei Little Feat meno raffinati ma anche gli Humble Pie di Steve Marriott e quindi il risultato finale di questo The Russian Wilds suona molto simile (ma diverso) rispetto ad altri retro-rockisti come i Black Crowes, sono i classici dieci brani (più un breve interludio) per un’ora abbondante di musica, con Ethan Miller e il suo socio alla chitarra solista Isaiah Mitchell, in prestito dagli Earthless, che danno sfogo al meglio di quello che hanno imparato dalle collezioni di dischi dei loro genitori, lasciando spazio anche alle tastiere, organo, mellotron e qualche synth d’annata e se serve alla terza chitarra di Joel Robinow. Viene dato spazio abbondante anche all’uso di intricate armonie vocali e Ethan Miller rispetto al precedente Magnificent Fiend è notevolmente migliorato come cantante, più misurato ma pronto all’urlo alla Gillan, Marriott e qualcuno aggiunge Byron degli Uriah Heep.

Qui e là affiorano anche altre influenze come nel finale “latin-rock” di Phantom In The Valley dove sembra di ascoltare i primi Santana, quelli con Gregg Rolie, con l’aggiunta di una sezione fiati e una tromba in bella evidenza, che non c’entra nulla con il resto del brano e del disco ma è un retaggio degli anni ’70 quando non eri irreggimentato in nessuno stile particolare, se ti girava di cambiare genere lo facevi e basta. O l’hard rock tra Deep Purple e Led Zeppelin dell’iniziale Self Made Man che dopo qualche omaggio dark anche ai Black Sabbath nella parte centrale approda ad un intervento di twin lead guitars in puro stile Allman Brothers per poi divenire puro blues-rock alla Humble Pie, il tutto nello spazio dello stesso brano. C’è anche la ballatona hard con retrogusti soul alla Frankie Miller o Paul Rodgers dell’ottima Can’t Satisfy Me Now che può ricordare i già citati Black Crowes.

Cherokee Werewolf con piano elettrico e voci femminili di supporto rimane più o meno in quei territori ma aggiunge negli intermezzi strumentali piccoli elementi psichedelici e californiani dell’epoca d’oro, mentre Strange Thunder nella prima parte è un brano acustico cantato quasi in falsetto da Miller poi le chitarre scaldano le corde, il basso e la batteria pulsano alla grande e il brano decolla in un crescendo emozionante degno del miglior Page, come costruzione sonora s’intende. Dark Side è quel “finto soul”, vero funky-rock, che piaceva ai Deep Purple di Coverdale e Hughes ma anche a molti gruppi americani dei primi anni ’70 con un assolo di organo come non si sentiva da secoli. Beneath Wild Wind è quasi blue-eyed-soul, una ballata mid-tempo molto radiofonica vagamente alla Queen (la FM di quei tempi non di oggi), Collage è una cover di un vecchio brano della James Gang di Joe Walsh, con quell’equilibrio tra elettrico ed acustico soprattutto, che avevano i brani della band nel periodo di Barnstorm.

Walking Through Stone con le chitarre tra fuzzy e wah-wah è del sano blues-rock d’annata mentre la conclusiva Still Walking è uno strano divertissement strumentale dove piano e chitarra solista si dividono il proscenio per una conclusione virtuosistica.

Come dice il titolo “Solo Del Sano Buon Vecchio Rock”, niente di più ma neanche di meno, non aspettatevi altro e rimarrete soddisfatti.

Bruno Conti

Un Vero Peccato, Ma Non E’ Mai Troppo Tardi! 13 Featuring Lester Butler

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13 Featuring Lester Butler – Floating World Records

Quando alcune settimane fa, recensendo il CD di Big Pete un-armonicista-olandese-big-pete-choice-cuts.html, vi citavo fra le fronti primarie di ispirazione per l’armonicista olandese proprio Lester Butler, non immaginavo che a circa un mese di distanza mi sarei ritrovato nuovamente a parlare dello scomparso musicista americano. Come molti di voi sapranno, se non altro per averlo letto nella mia recensione, Lester Butler è morto il 10 maggio 1998 per una overdose di eroina e cocaina, interrompendo quella che era una carriera di “culto” per uno dei Bluesmen più originali della sua generazione. Anche se al momento della scomparsa non era più un giovanissimo avendo quasi 39 anni, Butler era comunque un artista in crescita, molto popolare in Olanda, e piuttosto conosciuto negli ambienti musicali americani anche se era decisamente osteggiato dai puristi del Blues che non gradivano il suo approccio, oggi lo chiameremmo lo-fi, diciamo ruspante ed anticonvenzionale alle classiche 12 battute. index2.html

In una carriera iniziata negli anni ’80, Lester, nativo dalla Virginia, ma di stanza a Los Angeles si era fatto conoscere nel 1992 con il primo disco dei Red Devils, la formazione che pubblicò l’ottimo King King dal nome del locale di L.A. dove agivano abitualmente e che aveva tra i proprio ranghi Bill Bateman e Gene Taylor dei Blasters oltre al chitarrista Paul Size. Il disco fu pubblicato dalla Def American, l’etichetta di Rick Rubin, che ne aveva curato la produzione. In seguito a quel disco il gruppo entrò anche in contatto, prima con Bruce Willis e, tramite Rubin, con Johnny Cash con il quale suonarono alcuni brani poi pubblicati postumi (per entrambi) nel box Unearthed. Nel 1997 dopo lo scioglimento dei Red Devils, Lester Butler pubblicò un nuovo album omonimo per la Hightone come 13.

In precedenza aveva suonato anche nel disco Wandering Spirit di Mick Jagger, sempre prodotto da Rubin, ma pure in questo caso solo un brano è uscito nella antologia di Jagger del 2007. Ma quello che ci interessa è che entrambi i gruppi facevano un tipo di Blues, gagliardo ed incontaminato, simile a quello dei primi gruppi bianchi ad inizio anni ’60, Stones, Animals, Them e Yardbirds, con quel blues elettrificato ed elettrizzante che da lì a poco si sarebbe trasformato anche nel rock-blues dei Cream di Crossroads e Spoonful, con l’aggiunta della energia dei gruppi punk californiani ma con una grande perizia strumentale e competenza musicale e il vigore rinnovato dei gruppi della Fat Possum che dai loro juke-joints proponevano un blues primigenio e sferragliante ricco di rinnovata energia come quella della prima ondata elettrica di Howlin’ Wolf, John Lee Hooker, Little Walter e Co. Accanto a Lester Butler, armonicista dallo stile irrefrenabile e cantante istintivo, c’erano il chitarrista Alex Schultz appena uscito dai Mighty Flyers di Rod Piazza, oltre a Smokey Hormel e Paul Bryant, sempre alla chitarra in alcuni brani, Stephen Hodges e Johnny Morgan che si alternano alla batteria e Tom Leavey e James Moore al basso oltre al tastierista Andy Kaulkin.

Il risultato è esplosivo, capisco perché il giovane Big Pete si è entusiasmato per questo musicista, l’energia scorre tra i brani di questo album, che all’origine aveva una copertina con una serie di mani rosse e una verde che emerge inquietante dal terreno mentre la nuova cover è più tradizionale. In ogni caso sin dall’inizio con l’ottima So Low Down passando per HNC e Sweet Tooth si capisce che siamo di fronte ad una band di talento con un frontman come Butler che si scrive anche i pezzi.

Qualcuno li ha paragonati ai primi Fabulous Thunderbirds per la grinta e la passione che traspare dalle loro canzoni, voce ed armonica (incise in modo separato) spesso volutamente distorte, chitarre e piano sempre in overdrive, ritmi incalzanti che accelerano di continuo come nella cover micidiale di Boogie Disease di Dr.Isaiah Ross che non è seconda ai Boogie del vecchio Hook  o alle riprese di classici come Smokestack Lightning di Howlin’ Wolf e So mean To me di Elmore James, per non parlare di una spettacolare Baby Please Don’t  Go che dà dei punti anche alla versione dei Them, ma è tutto l’insieme che sprizza energia, non c’è quell’autocompiacimento di molti musicisti che fanno blues oggi, quel guardate quanto siamo bravi o ligi alle regole, qui si tendono a frantumare le barriere tra blues e rock più che fonderle, comunque il risultato è eccitante. C’è anche dello humour all’opera, Down In The Alley,suona proprio come se fosse stata registrata in un vicolo vicino. Come Bonus ci sono anche tre tracce registrate dal vivo in Francia nel 1997 che sono ulteriore testimonianza della grande potenza di questo gruppo. Non è mai troppo tardi per scoprirli, questa ristampa è “quasi” imperdibile e caldamente consigliata!

Bruno Conti