Un Ritorno Coi Fiocchi! Dave Insley – Just The Way That I Am

dave insley just the way

Dave Insley – Just The Way That I Am – D.I.R. CD

E’ sempre bello quando un musicista che consideravamo perso per strada torna a fare musica, ed è ancora più bello quando lo fa con il suo disco migliore. Non mi ero dimenticato di Dave Insley, countryman originario del Kansas ma trapiantato fin dall’adolescenza in Arizona, autore di tre convincenti album di puro country tra il 2005 ed il 2008 (Call Me Lonesome, Here With You Tonight e West Texas Wine), tre dischi che rivelavano un talento indiscutibile, con una bella serie di canzoni profondamente influenzate dal Texas, terra nella quale nel frattempo Dave si era spostato (più precisamente ad Austin). Poi, all’improvviso, ben otto anni di silenzio assoluto, una lunga pausa di cui ignoro la causa (il suo sito sorvola sull’argomento, ed anche in giro per il web non ho trovato molte info): otto anni di nulla danneggerebbero la carriera di un big, figuriamoci quella di un musicista che stava ancora cercando la giusta via, significa consegnarsi all’oblio totale; ma Dave non si è perso d’animo, ha continuato a scrivere, si è preso il tempo necessario, ed ora torna tra noi con quello che posso senz’altro definire come il suo lavoro più riuscito.

Just The Way That I Am è un album davvero scintillante, dodici canzoni di vera country music texana, elettrica quanto basta, suonata e cantata alla grande (il nostro ha una bella voce profonda, simile in alcuni momenti ad un Willie Nelson più giovane): un cocktail sonoro a tratti irresistibile, che ci riconsegna un artista in forma smagliante, notizia ancora più gradita dato che credevo di averlo perso. Per questo suo ritorno, Insley si fa aiutare da una bella serie di sessionmen, tra i quali spiccano Rick Shea, Matt Hubbard (già collaboratore di Nelson), Redd Volkaert (ex chitarra solista della band di Merle Haggard), oltre a Kelly Willis e Dale Watson ospiti vocali in due brani. In poche parole, uno dei migliori dischi di vero country da me ascoltato in questo 2016.  L’album parte subito in quarta con Drinkin’ Wine And Staring At The Phone, bellissimo honky-tonk elettrico, ritmato e coinvolgente, con tanto di tromba dixie e fiati mariachi, ed una melodia che ricorda il Willie d’annata: brillante. Ottima anche I Don’t Know How The Story Ends, una western tune intensa, ancora figlia di Willie (anche nel titolo, molto “nelsoniano”), con una bella armonica ed una melodia fluida e distesa; anche Call Me If You Ever Change Your Mind ha il sapore del Texas, una country song sciolta e spedita, con una bella chitarra (Volkaert) e grande classe.

Win Win Situation For Losers è una scintillante honky-tonk ballad, impreziosita dalla seconda voce della Willis, un brano dallo spirito classico, suonato e cantato davvero bene; che dire poi di Arizona Territory, 1904, altro brano di stampo western e dall’impianto quasi cinematografico, grande voce e feeling a palate (il timbro vocale è sempre simile a Nelson, ma lo stile qui è vicino a certe cose di Johnny Cash). Con Please Believe Me si cambia registro, in quanto Dave ci presenta una perfetta ballata romantica anni sessanta con accenni doo-wop, qualcosa di diverso ma assolutamente credibile, mentre con la distesa Footprints In The Snow torniamo su lidi più consueti, anche se permane un’atmosfera d’altri tempi. L’ironica Dead And Gone inizia in maniera funerea, ma presto si trasforma in un gustoso honky-tonk elettrico che più classico non si può, texano al 100%, tra i più godibili del CD; No One To Come Home To vede la partecipazione vocale di Watson, ed in effetti il pezzo è perfetto per il texano, ritmato e coinvolgente, con ottime prove della steel di Bobby Snell e della solista di Shea, mentre We’re All Here Together Because Of You è ancora una deliziosa cowboy tune dal refrain accattivante. Il CD si chiude con la lenta ed intensa Just The Way That I Am e con la bellissima Everything Must Go, tra country, anni sessanta ed un tocco mexican, uno spettacolo.

Spero vivamente che Dave Insley sia tornato per restare tra noi, anche perché di dischi come Just The Way That I Am c’è sempre bisogno.

Marco Verdi

Dai Dintorni Di Bakersfield: Heather Myles – Live On Trucountry

heather myles live on trucountry

Heather Myles – Live On Trucountry – Floating World CD/DVD

Penso di non venire sommerso da insulti, pollici versi ed urla di disapprovazione se affermo che il miglior countryman venuto fuori negli ultimi trent’anni è indubbiamente Dwight Yoakam: lo Steve Earle dei primi due dischi, ancorché già piuttosto imbastardito col rock, poteva essere un serio antagonista, ma poi, come saprete, da Copperhead Road in poi la storia è cambiata. Yoakam invece, pur dando una sferzata elettrica al mondo degli Stetson, stivali, cinturoni e quant’altro paragonabile in un certo senso alla rivoluzione punk del 1977 (ed inventando di fatto il New Country Breed), ha sempre voluto mantenere tutti e due i piedi ben saldi nella tradizione, dandoci una serie di dischi imperdibili (nemmeno uno non dico brutto, ma neppure un mezzo scivolone, era bello pure il suo disco natalizio, solitamente uno dei punti deboli delle discografie di chiunque) e mantenendo una rettitudine artistica che ha pochi eguali nel suo campo.

Ora, già nascere donna, decidere di affermarsi come country singer e non essere neppure una strafiga (pare che aiuti, soprattutto al giorno d’oggi) non è proprio una passeggiata, ed in più essere nata non lontano da Bakersfield, e dire di ispirarti a Buck Owens, rischia da aggravare le cose: se a tutto questo ci aggiungiamo l’etichetta di “Dwight Yoakam al femminile” che ti è stata appiccicata addosso dai media americani fin dal tuo esordio del 1992, allora devo riconoscere che Heather Myles un po’ di palle le deve avere!

heather myles in the wind

Californiana di Riverside (ad appena 180 miglia da Bakersfield, che in America sono una distanza irrisoria), la Myles nel corso di vent’anni di carriera ha centellinato molto le sue uscite discografiche: solo cinque album di studio (l’ultimo, In The Wind, è del 2009), lavori nei quali ha portato avanti in maniera esemplare il suo discorso musicale, fatto di canzoni in puro stile honky-tonk molto Bakersfield-style, brani che non difettano di certo di ritmo e feeling, con le chitarre elettriche sempre in prima fila, insieme a violini e steel guitar http://www.youtube.com/watch?v=BCkOEIHgp0Q .

Il tutto infischiandosene del continuo paragone con Yoakam (anzi, in un disco ci ha pure duettato insieme), ma continuando per la sua strada, una strada che non l’ha di certo mandata ai primi posti di Billboard (quella è roba per Toby Keith, Reba McEntire e Trisha Yearwood, tutta gente che in casa mia non entrerà mai) ma comunque non le ha impedito di togliersi più di una soddisfazione, tra cui l’avere uno show via cavo, denominato Trucountry, tutto per lei.

heather myles trucountry

Ed è proprio dal meglio di quattro anni di show che è tratto questo Live On Trucountry, quarto album dal vivo per Heather http://www.youtube.com/watch?v=hsPV_itWEts , ma sicuramente quello definitivo, in quanto propone (anche in DVD) una panoramica completa in 23 brani della carriera della bionda cowgirl californiana. Ed il disco si rivela per quello che è: una festa honky-tonk, con la Myles assoluta padrona di casa che, accompagnata da una house band da leccarsi i baffi (tra i suoi componenti troviamo Rick Shea alla chitarra, Larry Mitchell alla batteria, Bobby Flores al violino e l’ottimo Rick Price alla steel), ci intrattiene per quasi ottanta minuti (ma senza annoiarci neppure per uno) con il meglio della sua produzione ed anche qualche chicca.

I classici (chiamiamoli così, dato che il singolo di Heather più alto in classifica è arrivato al n. 75) della nostra countrywoman ci sono tutti, veri esempi di honky-tonk di gran classe, suonato con grinta ed energia da tutta la combriccola: l’album è molto coeso, non ci sono cali di tensione, con una leggera preferenza da parte mia per le belle Big Cars (splendida, una delle mie preferite) http://www.youtube.com/watch?v=VzA2HCx_6zc , Broken Heart For Sale, One Man Woman Again, That’s Why I’m Walkin’ (tutti brani che in un mondo perfetto sarebbero delle hits), l’ironica Nashville’s Gone Hollywood, il purissimo country di I Need A Shoulder To Cry On, o il valzerone This Time I Know We’re Gonna Make It, proposta in duetto con il suo autore Justin Trevino http://www.youtube.com/watch?v=QV3YcWeJIik .  

Le ciliegine su una torta già molto saporita sono le cover disseminate qua è là: su tutte la leggendaria There Stand A Glass di Webb Pierce (a mio parere, una delle Top 10 country songs di tutti i tempi) http://www.youtube.com/watch?v=tINovovSw6w , l’altrettanto nota Crazy Arms (Ray Price) o il classico di Charley Pride Kiss An Angel Good Morning, che chiude alla grande l’album.

E c’è anche Buck Owens (non come ospite, chiaramente, Heather sarà brava ma non ha ancora il potere di far resuscitare i defunti), con una fluida interpretazione di I’m Gonna Have Love, una versione scintillante che anche lo stesso Buck avrebbe approvato. Sarebbe ora che Heather Myles assaporasse un po’ di successo, anche se forse a lei basta quello che ha: fare la sua musica, avere un suo show televisivo, suonare divertendosi senza troppe pressioni,  rimanendo però ancorata allo spirito della vera country music.

HeatherMiles,DwightYoakam, MichaelDumas

E forse, alla fine, essere paragonata a Yoakam non le dà poi tanto fastidio.

Marco Verdi

Un Fulmine A Ciel Sereno! The White Buffalo – Shadows, Greys & Evil Ways

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The White BuffaloShadows, Greys & Evil Ways – Unison Music CD

Dopo aver ricevuto critiche più che lusinghiere lo scorso anno per l’ottimo Once Upon A Time In The West, i White Buffalo, ovvero la creatura di Jake Smith (con Matt Lynott e Tommy Andrews), ritornano a distanza di appena un anno con un lavoro ancora più ambizioso.

Shadows, Greys & Evil Ways è un disco molto bello, che a poche settimane dalla sua uscita ha già attirato l’attenzione delle testate più prestigiose (Entertainment Weekly ed il Wall Street Journal ne hanno parlato in maniera entusiastica), ed è l’album che dovrebbe consacrare definitivamente Smith come uno dei maggiori talenti degli ultimi anni.

Shadows, Greys & Evil Ways è un concept album, nel quale, in poco meno di quaranta intensissimi minuti, Jake e soci raccontano la storia di Joey White, un uomo comune, un personaggio come tanti che, tornato dalla guerra, cerca di riprendere la vita normale e di riallacciare i rapporti con l’amata Jolene, ma si rende presto conto che il mondo è cambiato e che ricominciare la vita di prima è tutt’altro che semplice. Una storia come tante, che però fornisce a Smith il pretesto per consegnarci un disco di grande spessore, dove la sua bravura come scrittore si unisce alla sua sensibilità musicale: un perfetto esempio di puro cantautorato in stile Americana, con elementi country, rock, folk e blues fusi insieme alla perfezione, il tutto suonato alla grande (fra i sessionmen troviamo anche Rick Shea ed il leggendario batterista Jim Keltner) e cantato benissimo dalla voce profonda di Jake. In alcuni momenti, nei brani meno rock, sembra quasi di aver a che fare con canzoni scritte da Guy Clark o Kris Kristofferson, e state certi che non sto esagerando. Tra l’altro Jake sembra proprio un texano doc: peccato che sia nato in Oregon e viva in California.

Si inizia alla grande con Shall We Go On, una ballata pianistica molto bella, passo lento, melodia profonda ed evocativa, con un toccante violino in sottofondo. Un avvio da manuale. The Getaway ha più o meno lo stesso arrangiamento, ma il tempo è quasi da valzer texano e l’atmosfera procura più di un brivido, grazie anche alla carismatica presenza vocale del leader.

When I’m Gone, più mossa ed elettrica, ha un testo molto diretto ed un suono solido e potente, mentre Joey White, nervosa e scattante, ha elementi blues e punti di contatto con il suono di Ray Wylie Hubbard: notevole la parte centrale, decisamente roccata. La breve 30 Days Back è molto triste e toccante, e prelude a The Whistler, che è uno degli highlights del CD: ballata western classica, lenta, intensa, con un crescendo assolutamente degno di nota. E’ in brani come questo che Smith dimostra di essere cresciuto a dismisura dai giorni dell’esordio di Hogtied Revisited.

Bella anche Set My Body Free, sempre di stampo western ed una melodia tra le meglio riuscite del lavoro; Redemption # 2, acustica e vibrante, è cantata con un trasporto quasi drammatico. La fluida This Year è un perfetto esempio di songwriting maturo, un altro dei brani di punta del disco; Fire Don’t Know sembra quasi uno slow alla Johnny Cash, mentre Joe And Jolene è diretta e sostenuta nel ritmo.

L’album giunge al termine con Don’t You Want It, orecchiabile ed ancora in odore di Texas, il breve strumentale per violino e contrabbasso # 13 e Pray To You Now, un’altra ballad di grande spessore, degna conclusione di un disco sorprendente.

Ascoltatelo, ne vale la pena.

Marco Verdi

*NDB Così, casualmente, a titolo informativo: questo è il Post n. 1500 del Blog. Per il momento si resiste, continuate a leggere e, se possibile, spargete la voce. Siamo un Blog di “Carbonari”, tra i 15 e i 20.000 contatti al mese, mentre l’utimo video di Miley Cyrus ha avuto più di 83 milioni di visualizzazioni in 4 giorni. Sarà più brava, ma…

Come diceva Gianni Minà, quando faceva una citazione ma non si ricordava di chi era, “come avrebbe detto qualcuno”: Rock On And Keep On Rolling!

Bruno Conti

Con Quel Nome Possono Fare Ciò Che Vogliono, Ma Fanno Del Country-Rock Sopraffino! I See Hawks In L.A – Mystery Drug

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I See Hawks In L.A. – Mystery Drug – Blue Rose

E al country-rock canonico possiamo aggiungere tocchi di quello “cosmico” di Gram Parsons e quello più “esoterico” di Gene Clark, con o senza Byrds e anche qualche spruzzata psichedelica, ma leggera, dei Grateful Dead più acustici, come dimostra il video che vedete qui sotto. Il tutto cantato principalmente da Rob Waller, il leader e autore in capo del gruppo, con una voce bassa e risonante che può ricordare un Johnny Cash o un Waylon Jennings in alcuni momenti, gli altri due cantanti citati, in altri. Belle canzoni, ricche di melodia e cambi di tempo, con un sound pieno di mille sfumature: in copertina sono in otto, ma nel disco suonano addirittura in dieci, anche se il nucleo principale, oltre a Waller, ruota intorno a Paul Lacques, chitarra solista e voce e al bassista Paul Marshall, anche lui cantante ed autore, con gli altri due, della totalità dei brani del disco. E poi hanno questo nome evocativo, in questo ambito possono competere solo gli Starry Eyed And Laughing, un vecchio gruppo, peraltro inglese, di inizio anni ’70, che prendeva il proprio “patronimico” da un verso di Dylan, loro padre spirituale e dai figliocci Byrds, anche a livello musicale, più jingle jangle degli “Hawks”, come li chiamerò d’ora in poi, per brevità.

La formazione nasce nella California del Sud intorno alla fine degli anni ’90, e sino ad ora, compreso questo Mystery Drug (che esce in questi giorni, in ordine sparso, nei vari paesi), hanno realizzato sette album, uno più bello dell’altro. La caratteristica saliente di questo nuovo album, rispetto ai precedenti, è la presenza della pedal steel, strumento che sta ritornando in auge, suonata da due diversi musicisti, Rick Shea (già con Dave Alvin) e Pete Grant, peraltro solo in cinque brani, che però sono tra i più interessanti del disco (di solito, con minor frequenza, come lap steel, la suona Laques). Ad esempio la bellissima Oklahoma’s Going Dry, un brano che parla dei cambiamenti climatici che stanno preoccupando i contadini e gli allevatori americani, il tutto condito da una musica che scivola deliziosamente sulle corde d’acciaio della pedal steel di Rick Shea, e che pare uscire da un vinile dei primi anni anni ’70 degli Ozark Mountain Daredevils, degli Eagles, ma anche dei Flying Burrito Brothers, con cascate di chitarre elettriche ed acustiche, armonie vocali fantastiche e quell’aria tipicamente sognante della migliore musica Weastcoastiana, pre e post Parsons. Ancora intrecci vocali da brividi nella delicata e più acustica Mystery Drug o nella sognante Yesterday’s Coffee, dove il testo su in caffè invecchiato è una metafora su una relazione che sta finendo, sempre con la pedal steel che si fa largo tra la chitarre acustiche e le voci armonizzanti del gruppo, guidate da Waller, che vocalmente mi ricorda per certi versi anche retrogusti à la Gordon Lightfoot o Neil Diamond, o, tra i “moderni”, per una certa indole malinconica, anche i Son Volt di Jay Farrar. 

Ma gli “hawks” sanno andare anche su tempi rock (e negli album precedenti ce ne sono parecchi esempi) e quindi quando parte un ritmo incalzante, segnato da una slide pungente, come in The Beauty Of The Better States, l’ascoltatore non può non godere, perché gli intrecci delle acustiche e delle voci non vengono meno, ma si arricchiscono di nuove nuances più grintose. We Could All Be In Laughlin Tonight, con il suo testo che cita le cover bands che sera dopo sera eseguono versioni di Free Bird (un omaggio indiretto ai Lynyrd), sembra una sorella minore, nata tanti anni dopo, di canzoni come Tequila Sunrise o certi brani del primo Guy Clark, e perché no, anche Michael Martin Murphey (non nella voce, quella di Waller è troppo maschia e particolare), weeping pedal steel guitar inclusa. One Drop Of Human Blood, con i suoi matrimoni rituali nel deserto e una fisarmonica malandrina che si aggiunge alle operazioni potrebbe ricordare certe canzoni di Tom Russell o Joe Ely, miscelate a quelle canzoni desertiche del Gene Clark prodotto da Thomas Jefferson Kaye (No Other). Sky Island è un’altra bellissima ballata, leggermente mid-tempo, nella quale il gruppo eccelle, con le sue armonie vocali avvolgenti ed emozionanti e la musica acustica, ma ricchissima che esce dai solchi digitali di questo eccellente disco.

E pure quando i ritmi rallentano ulteriormente, come nella dolcissima If You remind Me, con un refrain da ucciderli per quanto sono bravi, non puoi fare a meno di meravigliarti perché sono conosciuti, purtroppo, da così poca gente, anche tra i cultori del genere,  sono meglio del 90% di gruppi che vengono presentati da molta critica come i salvatori del mondo (musicale). Rock’n’Roll Cymbal From The Seventies, fin dal titolo, è decisamente più energica, con le chitarre elettriche nuovamente sugli scudi e una delle autrici aggiunte del brano, la batterista Victoria Jacobs, indaraffata al suo strumento (la Jacobs si alterna alla batteria con altri due strumentisti, Shawn Nourse, quello storico del gruppo e con il fratello del chitarrista Paul Lacques, Anthony, uno dei membri fondatori degli Hawks). Tongues Of The Flames è un breve brano che vive su gli intrecci delle acustiche e delle voci, mentre Stop Driving Like An Asshole, è una divertente presa in giro dei frequentatori delle highways, peraltro molto bella musicalmente, peccato duri solo un minuto e mezzo. My Local Merchants parte come Get back e diventa un brano alla Creedence, un rock’n’roll tirato e coinvolgente, dove la band lascia intuire che anche dal vivo non sono da trascurare, per la loro grinta, peccato che anche questa sia cortissima. Ma ci rifacciamo con la conclusiva The River Knows, quasi otto minuti di magia sonora, dove la pedal steel ripende il ruolo che le compete, circondata dalle acustiche insinuanti e dalle armonie vocali magnifiche del trio Waller-Lacques-Marshall, mentre il ritmo del brano si fa sempre più incalzante, in un crescendo fantastico, dove la pedal steel è protagonista assoluta, ma è tutto l’insieme che funziona come un orologio svizzero, costruito in California dai I See Hawks In L.A, prendere nota e non dimenticare.

“Ho visto dei falchi a Los Angeles” ed erano magnifici! 

La ricerca continua.

Brunio Conti

*NDB Non ci sono video dei brani nuovi, ma si capisce lo stesso che sono bravi, la riprova qui sotto.