Nonostante I Continui Riferimenti Al Suono Di “Quella Band”, Un Bel Disco! John Illsley – Long Shadows

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John Illsley – Long Shadows – Creek Records CD

Confesso che per me John Illsley è stato per anni “solo” il bassista dei Dire Straits (hai detto niente, uno degli acts più popolari di sempre), tra l’altro l’unico membro del gruppo, a parte il leader Mark Knopfler, ad essere presente su ogni disco ed in ogni tour della celebrata band inglese. Un paio di dischi solisti negli anni ottanta, passati perlopiù inosservati, e due album agli inizi del nuovo secolo insieme al cantautore irlandese Greg Pearle. Poi nel 2010 mi sono imbattuto quasi per caso in Streets Of Heaven (forse incuriosito da una recensione positiva letta da qualche parte), primo vero lavoro da solista di John dai tempi di Glass (1988), e ne sono rimasto talmente folgorato da metterlo addirittura nella mia top ten dell’anno. Un disco bellissimo, suonato alla grande e con una serie di canzoni superlative, che avevano un unico difetto (ma che per me difetto non era): suonavano in tutto e per tutto come brani inediti del gruppo grazie al quale Illsley era diventato famoso, le stesse atmosfere laidback, una chitarra dal timbro decisamente “knopfleriano”, ed anche la voce sussurrata di John che ricordava molto quella del suo ex boss; per dirne una,  l’opening track Toe The Line da sola era meglio di tutto il materiale incluso in On Every Street, l’ultimo deludente album di studio dei Dire Straits. Nel 2014 Illsley ha pubblicato il discreto Testing The Water, nettamente inferiore al precedente, nonostante la presenza di Knopfler in qualche brano, e lo scorso anno è uscito il godibile Live In London, un album dal vivo ben fatto che però scontava l’effetto cover band quando John intonava i pezzi degli Straits, canzoni che non gli appartengono se non perché ci ha suonato.

E’ quindi con interesse che mi sono avvicinato al nuovo Long Shadows, e devo dire che ne sono rimasto soddisfatto: il CD, otto canzoni per 35 minuti di musica, è molto meglio di Testing The Water ed appena un gradino sotto a Streets Of Heaven, e presenta una serie di ottime canzoni (tutte di John) al solito ottimamente suonate e cantate con buon piglio dal nostro, che come voce non è eccezionale ma molto meglio di tanti altri sidemen che si mettono a fare i solisti (chi ha detto Bill Wyman?), con un timbro che ricorda abbastanza quello di Knopfler ma ha anche dei punti in comune con Leonard Cohen, anche se il canadese ha una tonalità più profonda. Certo, il disco presenta sempre il solito “difetto”, cioè di suonare più Dire Straits di quanto non facciano gli album solisti di Knopfler, ma, ripeto, se le canzoni ci sono per me non è assolutamente un problema. Gran parte del merito (o della responsabilità, a seconda dei punti di vista) del suono va al polistrumentista nonché produttore Guy Fletcher, membro degli Straits dal 1984 e compagno di lungo corso del Knopfler solista, uno quindi che in questi suoni ci sguazza; nel disco troviamo anche fior di musicisti (oltre a John che suona la chitarra acustica oltre naturalmente al basso e Fletcher alle tastiere), come l’ex Pretenders e Paul McCartney band Robbie McIntosh alla solista, Phil Palmer ancora alla sei corde (uno che ha suonato davvero con tutti, da Bob Dylan, Eric Clapton, Roger Daltrey, fino ai nostri Lucio Battisti, Pino Daniele e…Paola E Chiara!), Steve Smith al piano e Paul Beavis alla batteria, ed una serie di backing vocalists utili a sostenere la voce non certo potente del leader.

Il CD a dire il vero comincia in maniera particolare, con uno strumentale intitolato Morning, per piano, chitarra acustica arpeggiata e quartetto d’archi, un inizio imprevisto ma poi se vogliamo neanche tanto strano se pensiamo a brani come Private Investigations (l’uso della chitarra lo ricorda vagamente); con In The Darkness si entra nel vivo, un suggestivo uptempo molto raffinato anche se derivativo (indovinate da che cosa), la voce knopfleriana di John intona una melodia decisamente orecchiabile, sostenuta a dovere dal big sound creato dal gruppo, compreso un assolo chitarristico denso di riverberi. L’inizio di Comes Around Again è puro Straits sound, dall’accompagnamento vellutato alla chitarrina evocativa, ma poi la canzone prende una direzione quasi da western song, ancora caratterizzata da una melodia fluida ed un ottimo ritornello corale, mentre There’s Something About You è una ballata soffusa e di gran classe, con una strumentazione rarefatta che ha quasi dei punti in comune con il suono di Daniel Lanois, mentre la melodia è più dalle parti di Cohen: decisamente il brano meno dipendente dall’ex gruppo di Illsley. Ship Of Fools (i Grateful Dead non c’entrano, la canzone è originale come tutte le altre) è ancora una raffinatissima ballad (la classe non manca al nostro) che sconfina addirittura nello stile del Knopfler solista, soprattutto per il sapore leggermente folk (e qui vedo lo zampino di Fletcher), ma il motivo ed il refrain sono di primissima qualità, come anche la coda strumentale; Lay Me Down sembra quasi una outtake da Brothers In Arms, un delizioso e vivace motivo con un tocco country, di quelli che fanno muovere da subito il piedino. L’album si chiude in crescendo con la splendida Long Shadow, una rock song trascinante e dal ritmo acceso, bella slide ed altro chorus diretto e fruibile, e con Close To The Edge, brano d’atmosfera suonato alla perfezione e con la chitarra che ricorda indovinate chi, ma il brano sta in piedi sulle sue gambe, ed anzi si propone come uno dei più riusciti.

Se, come me, avete sempre considerato John Illsley soltanto un ottimo bassista, accaparratevi Long Shadows (ma anche Streets Of Heaven) e forse comincerete a cambiare opinione. E poco importa se penserete di avere fra le mani un disco dei Dire Straits cantato da un altro.

Marco Verdi

Speriamo Che Prima Del Prossimo Disco Passino Altri 33 Anni! Bill Wyman – Back To Basics

bill wyman back to basics

Bill Wyman – Back To Basics – Proper CD

Prima di iniziare, una precisazione: se contiamo l’album Stuff gli anni sarebbero “solo” 23, ma siccome quel disco è uscito soltanto in Giappone ed Argentina, normalmente ci si riferisce all’omonimo Bill Wyman del 1982 come ultimo disco solista del bassista nato William George Perks 79 anni fa. Ma andiamo con ordine: è opinione comune, e sensata, che i Rolling Stones senza Bill Wyman (che li lasciò nel 1993 ufficialmente per logorio fisico e mentale) siano sempre i Rolling Stones, mentre Bill Wyman senza gli Stones è un bassista in pensione senza una ben precisa direzione artistica. Wyman, aldilà della sua capacità con lo strumento che nessuno ha mai messo in discussione, non è mai stato un songwriter prolifico: appena due brani scritti durante il suo regno con le Pietre Rotolanti (In Another Land, da lui anche cantata ed uscita perfino come singolo, e la rara Downtown Suzie – era sulla compilation Metamorphosis – cantata però da Mick Jagger) ed il resto distribuito nei tre album solisti usciti tra il 1974 ed il 1982 (Monkey Grip, Stone Alone ed il già citato Bill Wyman), nessuno dei quali conteneva canzoni meritorie di essere tramandate alle generazioni future.

(NDM: a metà anni ottanta ci sarebbero anche i due dischi che Bill ha inciso con Willie And The Poor Boys, ma quando sei in una band con Jimmy Page, Paul Rodgers e Charlie Watts o fai il disco del secolo o è meglio che lasci perdere…)

Ciò che si ricorda più facilmente di Wyman in campo musicale negli anni recenti (dato che in altri campi è sempre stato molto “attivo”, dalla relazione scandalosa con la starlette minorenne Mandy Smith, all’apertura di ristoranti, fino alla vendita di metal detectors) è sicuramente la sua mini-carriera con i Bill Wyman’s Rhythm Kings, un combo variabile che ha visto al suo interno fior di musicisti (qualche nome: Albert Lee, Gary U.S. Bonds, Georgie Fame, Gary Brooker, Eddie Floyd, Andy Fairweather-Low) e che negli anni dal 1997 al 2004 ha pubblicato cinque album, più due live postumi: dischi nei quali, pur non mancando i momenti piacevoli, la miccia non si è mai accesa del tutto, dimostrando che quando manca l’anima non bastano bravura e mestiere (altrimenti i Toto sarebbero la più grande rock band del mondo…).

Ora quindi che fa il buon Bill? Un disco come solista! Devo però avvertirvi di lasciar perdere pugni al cielo e fregatine alle mani, perché se lo fate vuol dire che non sapete, o non vi ricordate, come se la cava il nostro come cantante (dato che comunque con i Rhythm Kings si avvicinava raramente al microfono). Ve lo dico io: malissimo! Un cantante cosa deve avere per essere considerato tale? Voce, intonazione, feeling, capacità interpretativa: a volte basta anche una sola di queste cose per cavarsela, ma nel caso di Wyman io non riesco a trovarne mezza. Il suo “cantare” è infatti una via di mezzo tra un sussurro ed un rantolo, quasi sempre sulla stessa tonalità, zero feeling ed ancora meno intonazione, un approccio che sarebbe in grado di penalizzare qualsiasi canzone. E se mi dite che anche J.J. Cale non aveva voce, e pure Lou Reed parlava invece di cantare, vuol dire che non avete mai sentito Bill all’opera… E non date la colpa all’età avanzata, non ha mai avuto voce, punto. L’età al massimo ha peggiorato le cose.

Ma questo non è l’unico problema di Back To Basics, in quanto, oltre al Bill Wyman cantante abbiamo anche il Bill Wyman compositore, che non è molto meglio, e quindi l’ascolto dei dodici brani (fortunatamente non esistono versioni deluxe) si rivela un compito al limite del proibitivo; peccato, in quanto la band che accompagna Bill è formata da ottimi sessionmen, che rispondono ai nomi di Robbie McIntosh (chitarre, ex Pretenders e Paul McCartney touring band), Terry Taylor (chitarre, già nei Rhythm Kings), Guy Fletcher (tastiere, collaboratore storico di Mark Knopfler) e Graham Broad (batteria, Van Morrison, Roger Waters), ed il disco, grazie al produttore Andy Wright, avrebbe anche un bel suono.

L’inizio del CD non è nemmeno da buttare: What & How & If & When & Why (più che un titolo, una lezione di grammatica) ha un bel tiro, basso e batteria “a pompa” ed un ottimo riff chitarristico, ed il “parlar rantolando” di Bill a tempo con il ritmo sembra quasi avere un senso. Già con I Lost My Ring, un errebi-funky suonato comunque bene, il disco comincia a mostrare la corda, con il sussurro di Bill paragonabile a quelli dei maniaci omicidi dei film, mentre servirebbe semplicemente un cantante: meno male che nel ritornello ci sono le voci femminili a cercare di rimettere la melodia in carreggiata. Love, Love, Love, voce a parte, è un pop quasi beatlesiano (da un ex Stone…) abbastanza risaputo, e con un testo da seconda elementare; Stuff è un rifacimento della title track dell’album “giapponese”, e sinceramente mi chiedo cosa ci trovi Bill di tanto interessante da doverla incidere di nuovo. Running Back To You non sarebbe male se fosse uno strumentale, ma purtroppo è cantata anche questa, She’s Wonderful vorrebbe essere una soul ballad con accenni swamp, ma solo nelle intenzioni, e comunque Bill come apre bocca ammoscia tutto.

Seventeen è brutta e basta, anche se a cantare ci fosse Freddie Mercury, I’ll Pull You Through ha lo stesso attacco strumentale di almeno altre quattro canzoni all’interno del CD, e questo lascia capire il valore di Wyman anche come songwriter. Credo di aver scritto anche troppo, se vi dico che i restanti quattro pezzi non alzano il valore del disco (anzi) mi dovete credere sulla parola.

Bill Wyman è tornato: alzi la mano chi ne sentiva la mancanza.

Marco Verdi

bill wyman solo box

P.S: quasi in contemporanea la Edsel mette in commercio un box di 4CD con tutti i precedenti lavori di Bill (Stuff compreso), con tanto di bonus tracks per ogni disco, che ha al suo interno anche un DVD: così in due colpi soli vi potete fare la sua discografia completa.

Ideona, vero?

Pagine “Antiche” E Nuove Di Rara Bellezza ! Thea Gilmore – Ghosts & Graffiti

thea gilmore ghost and graffiti

Thea Gilmore – Ghosts & Graffiti – Full Fill Records –CD o 2 LP Deluxe Edition

Dal suo esordio (a soli 18 anni) con Burning Dorothy (98), Thea Gilmore ha pubblicato da allora 14 album (13 in studio e 1 live), quattro EP e numerosi singoli (oltre a brani in vari album “tributo” assortiti), e oggi, all’alba dei 36 anni, sposata e madre di 2 figli, raggiunge quota quindici con questa sorta di raccolta, Ghosts & Graffiti, dove rivisita il suo catalogo inserendo quattro canzoni nuove, sei brani con nuove versioni di vecchio materiale, rarità e pezzi radiofonici, e collaborazioni con artisti del calibro di Joan Baez, Billy Bragg, Waterboys, King Creosote, Joan As Policewoman, I Am Kloot e John Cooper Clarke (poeta inglese e cantante punk-rock).

Nei 25 brani della Deluxe Edition in vinile, gli album più saccheggiati sono Strange Communion, Avalanche, Don’t Stop Singing http://discoclub.myblog.it/2011/11/20/forse-non-come-l-originale-ma-sempre-un-ottima-cantautrice-m/  , Murphy’s Heart, Rules For Jokers e Regardless (recensito da chi scrive http://discoclub.myblog.it/2013/06/08/la-piu-americana-folk-singer-inglese-thea-gilmore-regardless/ ), mentre le canzoni nuove (o precisamente mai apparse prima) partono con l’iniziale mid-tempo di Copper https://www.youtube.com/watch?v=UW9aWc0FPyE , il singolo Coming Back To You con i suoi svolazzi di violoncello e violino, il country-folk di un’ariosa Live Out Love e il blues paludoso di una intrigante Wrong With You.

Le rielaborazioni partono con This Girl Is Taking Bets https://www.youtube.com/watch?v=E1wm58dpKCk , una specie perfetto “rockabilly” con la chitarra di Robbie McIntosh, che vede Thea condividere la voce con la brava Joan Wasser (Policewoman) al pianoforte , e proseguono con la scintillante Glistening Bay (tratta dall’album dedicato alla grande Sandy Denny Don’t Stop Singing) che la vede accompagnata dall’attuale incarnazione dei grandi Waterboys, che danno al brano un suono più corposo https://www.youtube.com/watch?v=YK6zUnLziwM . Poi arrivano in sequenza il giro di chitarra di una Razor Valentine (una storia d’amore con Billie Holidayhttps://www.youtube.com/watch?v=TuRo17BVs2M , eseguita con il gruppo I Am Kloot (e la voce del cantante John Bramwell), con in sottofondo il sax di Pete McPhail, l’eccellente ballata Old Soul, cantata da Thea con violini e violoncelli a sostegno, l’atmosfera molto diversa di Don’t Set Foot Over The Railway Track, che non poteva che essere declamata dal leggendario poeta-punk John Cooper Clarke (su un tessuto di tastiere), e il lento valzer Inverigo eseguito con il cantautore scozzese King Creosote, dalla melodia molto “dylaniana”. Da segnalare inoltre il pop alla Indigo Girls di una gioiosa Start As Mean To Go On, una canzone politica come My Voice cantata con il censore più politico anglosassone Billy Bragg e il banjo del compagno di vita Nigel Stonier, con un’altra stupenda ballata in duetto con la sempre giovane Joan Baez Inch By Inch, su un tessuto di pianoforte e fisarmonica https://www.youtube.com/watch?v=jj-ysx4_r8w , i suoni spettrali di una sussurrata Avalanche https://www.youtube.com/watch?v=caNh-GklCZU , le scorribande folk di Juliet, e le atmosfere natalizie delle note di That’ll Be Christmas https://www.youtube.com/watch?v=Ep2ilaIU8g8 , che chiudono per ora un percorso di una carriera lunga 17 anni, vissuta tra alti (tanti) e bassi (pochi), ma sempre con grande coerenza.

Per chi scrive Thea Gilmore, con Jude Johnstone e Angie Palmer, si gioca lo scalino più alto del podio come  migliore songwriter inglese “sconosciuta” dell’ultima generazione, con un cocktail musicale che spazia dal folk al pop, attraverso il rock di chiara matrice americana, e tutto questo lo deve  ai suoi genitori Irlandesi che l’hanno cresciuta in un villaggio (da favola) nella campagna inglese dello Oxfordshire, dove è stata “abbeverata” con una solida colonna sonora di base, composta da Dylan, Beatles, Hendrix, e Fairport Convention. Per chi ama il genere un lavoro e una raccolta superba!

Tino Montanari

La Più “Americana” Folk Singer Inglese! Thea Gilmore – Regardless

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Thea Gilmore – Regardless – Fullfill Records – 2013

Oggi vi parlo, con estremo piacere, di una cantautrice che nel cuor mi sta. Thea Gilmore è una cantante anglosassone, nata nell’Oxfordshire da genitori irlandesi, alla ribalta dal lontano ‘98 , giunta con questo lavoro Regardless al quattordicesimo album (se non ho sbagliato i conti). Thea ha iniziato la sua carriera lavorando in uno studio di registrazione, dove è stata scoperta da Nigel Stonier, collaboratore di lunga data prima, e dal 2005 anche produttore, nonché co-autore e, last but not least, suo marito. Dopo l’esordio con Burning Dorothy (98), sforna con “certosina” regolarità The Lipstick Conspiracies (2000), Rules For Jokers (2001), Songs From The Gutter (2002), Avalanche (2003), Loft Music (2004), Harpo’s Ghost (2006), Liejacker (2008), lo splendido live in parte acustico ed in parte elettrico, Recorded Delivery (2009), Strange Communion (2010), Murphy’s Heart (2011), raggiungendo la piena maturità con gli omaggi a Bob Dylan John Wesley Harding, e alla grande Sandy Denny con Don’t Stop Singing (2011). forse-non-come-l-originale-ma-sempre-un-ottima-cantautrice-m.html

Le tracce registrate in questo Regardless sono tutte sue, con l’eccezione di tre brani firmati con il marito Nigel: a partire dallo scorrevole pop di  Start As We Mean To Go On, sorretto da brillanti chitarre e con un ritornello piuttosto orecchiabile, proseguendo con una romantica slow ballad dalla buona melodia come Punctuation, e finendo il trittico con l’ariosa Love Came Looking For Me dal seducente riff orchestrale.

Aiutano la Gilmore  in questo nuovo album (oltre al suddetto marito polistrumentista), un manipolo di valenti musicisti, tra cui è giusto menzionare Paul Beavis alla batteria e percussioni, Robbie McIntosh alle chitarre (non dimenticato componente dei Pretenders e della band di paul McCartney) e le violiniste Sarah Spencer e Susannah Simmons. Il disco è molto godibile, alterna momenti rock, come la veloce Something To Sing About, a deliziose ballate di stampo cantautorale come la title-track Regardless e I Will Not Disappoint You, per poi passare alle percussioni latine di This Road, e finire con il lato più intimo di Thea con Let It Be Known e My Friend Goodbye, che colpiscono per la delicata interpretazione.

Regardless è un lavoro davvero buono (forse non un capolavoro), un CD dagli arrangiamenti vari e ricchi (una sorta di piccola orchestra diretta dal marito Nigel Stonier) e Thea Gilmore è un’artista di vaglia, possiede una bella voce (per chi scrive ricorda un po’ quella di Sheryl Crow) *, depositaria di un suono diretto e senza fronzoli, che colpisce per freschezza e personalità. Da ascoltare più volte, con la certezza, che se avete dubbi al riguardo, per il sottoscritto basta ascoltarla anche una volta sola.

Tino Montanari

*NDB E perché non Sandy Denny!?