Una Delle “Signore” Del Blues Bianco. Rory Block – Keepin’ Outta Trouble: A Tribute To Bukka White

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Rory Block – Keepin’ Outta Trouble: A Tribute To Bukka White — Stony Plain/Ird                          

Rory Block è certamente una delle “signore” del Blues bianco, ma è anche una delle più rigorose e fervide portatrici della tradizione delle 12 battute, tra coloro che più si battono per preservarne la memoria tra gli ascoltatori e gli appassionati. Ormai non più giovanissima (come Springsteen è del 1949), ma dalla foto di copertina i suoi 67 anni li porta veramente bene, ciò non di meno è sulle scene dal 1965 circa, quando poco più che quindicenne decise che quella sarebbe stata la sua musica: prima frequentando i locali dove si esibivano gli ultimi giganti del folk blues acustico, gente come Mississippi John Hurt, Reverend Gary Davis, Son House, Skip James, Mississippi Fred McDowell,  a cui ha dedicato i suoi album della cosiddetta “Mentor Series”, incentrata su questi grandi e che ora si arricchisce di un nuovo capitolo, sempre pubblicato dalla Stony Plain, ma in precedenza la Block aveva inciso The Lady And Mr. Johnson, dedicato a Robert Johnson. Come al solito questo Keepin’ Outta Trouble è registrato in solitaria da Rory Block, voce e chitarra acustica (e qualche percussione sparsa), caratteristica che è il grande pregio di tutta la serie, rigorosa e filologica, ma in parte ne è anche il “piccolo” difetto, se uno non è un grande fan del Country Blues, alla fine potrebbe trovare i vari volumi ripetitivi e un filo noiosi.

Potrebbe, ma non è detto, perché comunque la nostra amica è in possesso di una bella voce (temprata da oltre 50 anni di dischi, il primo uscito nel lontano 1967) e a fianco dei vari brani pescati dal repertorio di questi grandi bluesmen, inserisce sempre qualche canzone scritta da lei e ispirata dalle storie di questi musicisti. Nel caso di Bukka White, forse uno dei meno conosciuti tra quelli citati finora, sono le prime due tracce, una sorta di preludio alle canzoni originali: Keepin’ Outta Trouble e Bukka’s Day sono delle piccole biografie in musica, su cui poi si innestano Parchman Farm Blues e Fixin’ To Die, quest’ultima riscoperta da Bob Dylan nel suo primo album (sia pure come sempre riadattata a modo suo) e poi ripresa, sotto varie forme, dai Led Zeppelin, da Plant come solista, dagli Avett Brothers in una collaborazione con G Love, e da altri. Tra i brani celebri mancano Shake ‘Em On Down, che nell’interpretazione di Eddie Taylor diventerà Ride ‘Em On Down, e appare anche nel nuovo degli Stones, come pure Po’ Boy, che con il titolo Poor Boy  e similari, è stata incisa in decine di versioni, prima e dopo quella di White. Rory Block si conferma chitarrista sopraffina, anche nell’uso della slide acustica, come nell’iniziale Keepin’ Outta Trouble, oltre che vocalist superba, una voce temprata dal tempo, ma sempre limpida e fresca come quella di una ragazzina, ottima narratrice di storie, in grado di arrangiare i suoi brani in solitaria, con un tocco di modernità, anche grazie al multitracking di sé stessa. Voce che tocca anche falsetti deliziosi, quasi di stampo gospel o soul, come nella successiva Bukka’s Day.

Dopo i due brani composti per l’occasione dalla nostra amica si passa a Aberdeen Mississippi Blues il primo dei classici di Bukka White (che forse molti non sanno, era cugino di B.B. King), dedicato alla sua città natale, un classico country blues rurale incalzante e ricco di variazioni chitarristiche, a seguire Fixin’ To Die Blues, il brano che più di tutti rimane legato al mito di Booker White, un complesso, elegante ed intenso brano, classico Delta blues, con le percussioni, suonate dalla stessa Block che fanno le veci del washboard, mentre Rory la canta con grande forza ed intensità, sempre con eccellente uso della slide acustica (che nell’originale del 1940 era quella presa in prestito da Big Bill Broonzy). Ottima versione anche del talkin’ blues Panama Limited, mentre Parchman Farm Blues narra della detenzione di Bukka nel famoso (e famigerato) penitenziario dello Stato del Mississippi, dove il nostro passò circa due anni e mezzo, prima di essere rilasciato, proprio nel 1940, in occasione delle sue registrazioni a Chicago di quell’anno. La versione della Block è una delle più vivide ed intense del disco, sempre con lo splendido dualismo tra voce e slide acustica, come pure per la successiva tambureggiante Spooky Rhythm. New Frisco Train è tra le prime registrazioni del bluesman nero, viene dalle incisioni per la RCA Victor del 1930, quindi molto prima di Robert Johnson, e la versione della musicista di NY è sempre rigorosa, ma comunque ricca di variazioni e vitale. Anche le ultime due tracce, Gonna Be Some Walkin’ Done e soprattutto Back To Memphis, confermano il valore e la bravura di questa paladina del country blues che si è presa, come dice lei stessa nelle note, l’impegno di diffondere l’eredità di questa musica che è in parte cantare, in parte “parlare”, ma anche testimoniare e danzare. E forse, a dispetto di quanto detto da chi scrive, meriterebbe un giudizio ancora più favorevole, per quanto  limitato agli “adepti”. Tanto di cappello!

Bruno Conti         

Era Ora, Finalmente Un Bel Johnny Winter Dal Vivo: Woodstock Revival 10 Year Anniversary Festival 1979

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Johnny Winter – Woodstock Revival 10 Year Anniversary Festival 1979 – Klondike

Oh, finalmente un bel Johnny Winter dal vivo! Ironie a parte (ma non troppo, se è la verità), anche questo Live radiofonico relativo ad un broadcast del 1979 è molto buono. Leggendo le note, l’estensore ci ricorda che per il Festival di Woodstock ci sono stati concerti per festeggiare i 10, 25 e 30 anni (ma anche nel 2009, quello per il 40° Anniversario, e già progettano il 50° per il 2019): ma poi ci informa che però quello del decennale è stato uno dei migliori in assoluto perché la memoria dell’evento era fresca e i partecipanti ancora in forma e pimpanti (più o meno, a parte quelli morti). Ci viene comunicato che l’evento si tenne ai Park Meadows Racetrack di Long Island, Brookhaven, stato di New York e non nel sito originale, e che, a dimostrazione del fatto che i tempi erano cambiati, la Pepsi era lo sponsor della serata. Comunque, come detto, dettagli a parte, il concerto dell’8 settembre è decisamente buono; Johnny Winter si presenta con il suo classico trio dell’epoca, Jon Paris, basso e armonica e Bobby T Torello, alla batteria.

Non vi ricordo per l’ennesima volta l’immenso talento di Winter (ma l’ho appena fatto) sia come chitarrista che come portabandiera del blues più sanguigno, ma anche del R&R più selvaggio, entrambi ottimamente rappresentati in questa serata. Quindi se non ne avete ancora abbastanza di concerti del musicista texano, questo si situa su una fascia medio-alta, sia come contenuti che come qualità sonora, eccellente (tra le migliori dei molti broadcast a lui dedicati), e il menu della serata comprende l’apertura affidata a una sparatissima Hideaway di Freddie King, presa a velocità di crociera elevatissima e con rimandi e citazioni anche per Peter Gunn e inserti wah-wah hendrixiani, gran versione, con la ritmica che pompa di brutto, assolo di basso di Paris incluso. Messin’ With The Kid, il brano di Junior Wells, era di recente apparso su Red Hot & Blue, il disco del 1978, ma dal vivo è tutta un’altra storia, Winter è in gran forma anche a livello vocale e dopo il vorticoso pezzo di Wells si lancia subito nel riff immortale di Johnny B. Goode, preceduto dal suo classico urlo “Rock and Roll” e quello è, la sua versione sempre una tra le più belle di questo standard del R&R.

Ma pure l’omaggio al blues e a Robert Johnson con una splendida Come On In My Kitchen è da manuale, con Jon Paris anche all’armonica e Winter che passa alla slide, dove è uno dei maestri assoluti dello stile, come dimostra la turbinosa ripresa di Rollin’ And Tumblin’, un Muddy Waters d’annata, in cui il bottleneck di Winter viaggia come un treno senza guidatore, a livelli di intensità micidiali, in uno dei momenti migliori di un concerto comunque sempre ad alto livello. Help Me rallenta i tempi ma non il vigore della performance, il classico groove del pezzo viene illuminato da altri sprazzi di bravura di Johnny con la sua solista. Perfino un brano “minore” come Stranger, che era su John Dawson Winter III, riceve un trattamento sontuoso, con la solista accarezzata, titillata, strapazzata, con grande ardore, e il nostro che canta con verve decisa, in una serata di quelle ottime, senza lati negativi, solo musica di grande qualità. Serata che si conclude con una versione squassante di Jumpin’ Jack Flash che forse neppure gli Stones migliori avrebbero potuto pareggiare, quanto a potenza e grinta. E, non contento, richiamato a gran voce dal pubblico, ritorna per un altro mezzo terremoto R&R (breve drum solo di Torello annesso) sotto forma di Bony Moronie di Little Richard via Larry Williams, altro devastante esempio di quello che poteva regalare Johnny Winter quando era in una serata giusta, e questa lo era. Solo 63 minuti, ma non un secondo superfluo!

Bruno Conti

Ma Non Si Era Ritirato? Per Fortuna Che Almeno In Studio “Lo Fa Ancora”! Eric Clapton – I Still Do

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Eric Clapton – I Still Do – Bushbranch/Surfdog CD

Lo scorso anno Eric Clapton ha annunciato il ritiro dall’attività live, almeno per quanto riguarda le tournée vere e proprie (un mese fa si è però esibito in una serie di cinque concerti al mitico Budokan di Tokyo), celebrando l’evento con lo splendido Slowhand At 70, registrato nella sua location preferita, la Royal Albert Hall (e infatti noi come avevamo titolato? http://discoclub.myblog.it/2015/11/30/speriamo-che-ci-ripensi-eric-clapton-slowhand-at-70-live-at-the-royal-albert-hall/ . Per fortuna Clapton non sembrerebbe intenzionato ad interrompere anche il suo cammino per quanto riguarda gli album in studio (anche se le ultimissime dichiarazioni lascerebbero presagire il contrario, ma non ci voglio credere), ed ecco quindi arrivare fresco fresco I Still Do, nuovo lavoro del chitarrista inglese e titolo che è tutto un programma. Dopo almeno 25 anni di passaggi a vuoto, Eric si è rimesso a fare dei bei dischi dal 2010 (Clapton) http://discoclub.myblog.it/2010/09/10/provare-per-credere-eric-clapton-clapton/ , almeno per quanto riguarda i lavori “normali”, escludendo quindi i live, gli album a tema blues (From The Cradle, Me & Mr. Johnson) ed i CD in duo con altri, come quello con B.B. King o The Road To Escondido con J.J. Cale: in tutti questi casi infatti il nostro non aveva mai deluso, mentre nei lavori composti da materiale originale (anche se in tutti i suoi dischi si trovano sempre diverse cover) sembrava che si fosse inceppato qualcosa, fino appunto a sei anni fa. I Still Do, nel quale Eric torna a collaborare con il leggendario produttore Glyn Johns (già con lui nel mitico Slowhand e anche nel successivo Backless), è un buon disco, che alterna come al solito qualche brano originale, alcuni blues e diverse ballate, un lavoro suonato con la consueta classe e maestria che ogni tanto sconfina un po’ nella routine e nel mestiere. Ma Clapton ormai è un musicista che non deve dimostrare più niente, ha raggiunto un’età ed uno status che gli consentono di fare la musica che vuole e come vuole, e non siamo certo noi a dovergli dire che direzione prendere.

I Still Do è in ogni caso un CD che si ascolta con indubbio piacere e, anche se a mio parere è inferiore di uno scalino rispetto sia a Clapton che a The Breeze (nel quale comunque il nostro era aiutato da gente del calibro di Tom Petty, Mark Knopfler e Willie Nelson) e di due scalini al bellissimo Old Sock http://discoclub.myblog.it/2013/03/16/manolenta-va-ai-caraibi-eric-clapton-old-sock/ , è comunque di gran lunga superiore a dischi pasticciati ed altalenanti come Pilgrim, Reptile e Back Home. Il suono è splendido, ed Eric è coadiuvato dal solito manipolo di fuoriclasse, tra cui spiccano i fedelissimi Andy Faiweather-Low alla chitarra ritmica, Paul Carrack all’organo, Simon Climie alle chitarre e tastiere e Chris Stainton al piano (un fenomeno), con l’aggiunta della batteria di Henry Spinetti, del figlio di Johns, Ethan, alle percussioni, delle voci di Michelle John e Sharon White, e soprattutto, in molti brani, di Dirk Powell alla fisarmonica, uno strumento non usuale per Clapton, ma che dona un sapore diverso alle canzoni.

Il CD inizia in maniera potente con Alabama Woman Blues, un classico di Leroy Carr, un blues del tipo che Eric mastica a colazione, ma eseguito con classe immensa e con il gruppo che suona da Dio (Stainton su tutti, ed anche la fisa inizia a farsi sentire), e poi il sound è spettacolare. Can’t Let You Do It è l’omaggio che ormai non può mancare a J.J. Cale, con Eric che adotta il tipico stile vocale e chitarristico laidback del vecchio amico, un pezzo che non avrebbe sfigurato su The Breeze…ed il ragazzo alla sei corde ci sa sempre fare! I Will Be There è un brano del songwriter iralndese Paul Brady, e vede alla seconda chitarra e voce il fantomatico Angelo Mysterioso: tutti subito a pensare ad una vecchia collaborazione lasciata nei cassetti con George Harrison, dato che lo stesso soprannome era stato dato all’ex Beatle (ma con la “i” al posto della “y”) nella versione originale di Badge dei Cream. Clapton però si è affrettato a smentire, e dall’ascolto non sembra neppure il figlio di George, Dhani, come qualcuno aveva ipotizzato: a monte di tutto la canzone è molto bella, fluida, rilassata, e suonata al solito molto bene, con un tempo leggermente reggae, un genere che non amo particolarmente ma qui ci sta. Spiral (il primo dei due brani originali) è il primo singolo, un rock-blues lento ed abbastanza attendista, con la chitarrona in evidenza e gran lavoro di Carrack all’organo, anche se dal punto di vista compositivo non è tra le migliori, mentre Catch The Blues, secondo ed ultimo pezzo scritto da Eric, sembra quasi un brano di Santana per il suo gioco di chitarra e percussioni, Manolenta canta in maniera rilassata e la canzone risulta raffinata ma non stucchevole.

Con Cypress Grove (un brano antico di Skip James) Enrico torna al sound robusto di quando suona blues elettrico, un pezzo dal sapore tradizionale ma dalla strumentazione decisamente rock, anche se qui affiora una certa routine; Little Man, You’ve Had A Busy Day è un oscuro brano del passato, inciso anche da Elsie Carlisle e Sarah Vaughn, una versione elettroacustica che vede il nostro affrontare un tipico motivo d’altri tempi con notevole classe ed una punta di mestiere. Sembra strano che esistano ancora dei brani di Robert Johnson che Eric debba ancora affrontare, ma è questo il caso di Stones In My Passway (che però veniva eseguito nel DVD incluso in Sessions For Robert J.), un blues suonato in maniera abbastanza canonica, nobilitato comunque dall’utilizzo della fisarmonica e dalla voce grintosa del leader. Nel corso della carriera Eric ha inciso più volte brani di Bob Dylan, passando dal famosissimo (Knockin’ On Heaven’s Door) al meno noto (Born In Time) o addirittura all’inedito (Walk Out In The Rain, If I Don’t Be There By Morning): I Dreamed I Saw St. Augustine non è tra le più famose di Bob, ma è una scelta da intenditori (era su John Wesley Harding), ed è eseguita in maniera molto diversa dall’originale, con la fisa che è quasi lo strumento guida (mai usato così tanto da Eric), con il nostro che canta da par suo e costruisce un ottimo arrangiamento da rock ballad classica, con un coro alle spalle a dare il tocco gospel. I’ll Be Alright è un traditional nelle quali Clapton assume le vesti del folksinger (il brano è incredibilmente simile a We Shall Overcome, anche nel testo), e lo fa con risultati egregi: un pezzo di grande pathos, bel gioco di voci tra Eric ed il coro e solita chitarra super, un Clapton diverso ma di indubbio fascino.

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Somebody’s Knockin’, ancora JJ Cale, è una via di mezzo tra il classico stile del musicista dell’Oklahoma ed un blues alla Clapton, con Eric che canta bene e suona meglio; l’album si chiude con I’ll Be Seeing You, uno standard jazz interpretato ancora con classe e finezza, un brano quasi afterhours con il piano a guidare le danze ed Eric che smette i panni della rockstar per fare il crooner. Pensavate non ci fosse anche l’edizione deluxe? E invece c’è, ed è pure costosissima, un cofanetto rivestito in tessuto jeans e con all’interno, tra le altre cose, una USB a forma di “vacuum-tube”, ovvero la valvola degli amplificatori, e, a livello musicale, “ben” due bonus tracks, Lonesome e Freight Train (che ad oggi non sono ancora disponibili per l’ascolto).

Quindi un altro buon album da parte di Eric “Manolenta” Clapton, anche se non il migliore della sua discografia, ma un CD piacevole, ben fatto, ottimamente suonato e che alla fine dei conti è destinato a venire inserito tra i suoi più positivi degli ultimi anni.

Marco Verdi

Speriamo Che Ci Ripensi! Eric Clapton – Slowhand At 70: Live At The Royal Albert Hall

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Slowhand At 70: Live At The Royal Albert Hall – Eagle Rock/ 2CD/DVD – 3LP/DVD – DVD – BluRay – Deluxe 2CD/2DVD

Nel corso della sua lunga carriera Eric Clapton non ci ha mai fatto mancare incisioni dal vivo, sotto forma, a seconda dei momenti di LP, CD o DVD, e con almeno due di essi assolutamente imperdibili (l’elettrico Just One Night del 1980, del quale ancora attendo una ristampa come si deve, ed il famoso e pluripremiato Unplugged del 1992) (*NDB E il cofanetto quadruplo Crossroads 2 tutto con materiale dal vivo anni ’70 dove lo mettiamo?), ma questo Slowhand At 70 ha un’importanza particolare, in quanto testimonia il meglio delle serate conclusive (lo scorso mese di Maggio) del suo ultimo tour, in quanto il nostro al compimento dei 70 anni ha deciso di appendere la chitarra al chiodo, almeno come live performer. Non è un caso che questo doppio CD (o DVD/BluRay se vi interessa anche la parte video) sia stato registrato nella splendida cornice della Royal Albert Hall, in quanto il famoso teatro londinese è sempre stato un po’ la sua seconda casa, avendoci suonato la bellezza di 178 volte come solista e 205 se aggiungiamo anche le esibizioni con i vari Yardbirds, Cream, Delaney & Bonnie e partecipazioni varie a spettacoli benefici insieme ad altri artisti. Alcune di queste apparizioni fanno peraltro parte del DVD aggiuntivo della versione Deluxe (comprese alcune con i Cream e, purtroppo, anche una con Zucchero), che per una volta mi sento di consigliare dato il costo stranamente contenuto e la bella confezione a libro con stupende foto in alta definizione.

Ma veniamo al concerto documentato su questo doppio CD, che è manco a dirlo, bellissimo (direbbe il Mollicone nazionale, come lo chiama Bruno *Altro NDB Anche Vince Breadcrump per gli anglofili!)): Clapton sapeva che erano le ultime volte che calcava un palco, e quindi ha dato tutto sé stesso, sia come chitarrista che come cantante, seguito dalla sua abituale band, un combo dal suono assolutamente potente e con una serie di fuoriclasse assoluti al suo interno (il grande Chris Stainton al pianoforte, l’altrettanto bravo Paul Carrack all’organo e voce, la possente sezione ritmica formata da quei due maestri di Nathan East al basso e Steve Gadd alla batteria, oltre alle coriste Michelle John e Sharon White), un gruppo che fornisce l’alveo perfetto per le canzoni del nostro, un suono potente e robusto, dove ovviamente domina la chitarra di Manolenta, ma anche piano ed organo dicono la loro; dulcis in fundo, il disco è registrato in maniera magnifica, l’ho ascoltato a volume adeguato e mi sembrava di avere Eric davanti che suonava per me.

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L’album inizia con un dovuto e sentito omaggio all’amico e fonte d’ispirazione JJ Cale, con una versione robusta della poco nota Somebody’s Knockin’ On My Door, che serve per scaldare l’ambiente a dovere; l’amore principale di Clapton, si sa, è il blues, ed in questo concerto ce n’è parecchio, a partire da una strepitosa Key To The Highway, trascinante come non mai, con il nostro che arrota come sa e la band che lo segue a ruota (e Stainton inizia a fare i numeri sulla tastiera). Tell The Truth è uno dei brani di punta di Layla And Other Assorted Love Songs, e qui la troviamo in una roboante versione che potrei definire quella definitiva, con assolo finale formidabile (altro che mano lenta…); Pretending sul disco Journeyman non mi piaceva molto a causa dei suoi synth e di un suono un po’ gonfio, ma qui gli strumenti sono veri ed il brano aumenta notevolmente il suo appeal, mentre il classico di Willie Dixon (o Muddy Waters) Hoochie Coochie Man è blues deluxe, classe e potenza che si fondono insieme per una rilettura tutta da godere (un plauso anche alle due ottime coriste). You Are So Beautiful è un pezzo di Billy Preston che Eric fa cantare a Carrack, che è bravo ma in un concerto di Clapton io vorrei sentire solo Clapton, ancora di più quando il classico dei Blind Faith Can’t Find My Way Home è ceduto a Nathan East, grande bassista ma come cantante non proprio (ma non si poteva coinvolgere Steve Winwood anche se solo per una canzone?).

Per fortuna Manolenta si riprende la scena con una fluida e possente I Shot The Sheriff: io non amo il reggae, ma se Eric è in serata riuscirebbe a farmi digerire anche l’hip hop, e poi questa volta il classico di Bob Marley ha un arrangiamento decisamente più rock (e che chitarra!); è quindi il momento della parte acustica, con quattro pezzi: due classici blues, Driftin’ Blues e Nobody Knows You When You’re Down And Out, nei quali Eric ci dà un saggio della sua immensa classe (e la seconda è davvero splendida), la sempre toccante Tears In Heaven, dedicata al figlioletto tragicamente scomparso, alla quale uno strano arrangiamento questa volta sì reggae toglie un po’ di pathos, ed una Layla eseguita in puro unplugged style, sempre bella ma per le serate finali di una carriera avrei preferito la versione elettrica. La band riattacca la spina per una vibrante e maestosa Let It Rain, seguita dalla famosissima Wonderful Tonight, una ballad che non ho mai amato moltissimo (e secondo me neppure George Harrison…scusa George per la battuta squallida ma anche tu da lassù so che apprezzi l’ironia), ma non potevo certo pretendere che Eric non la facesse.

Poteva mancare Robert Johnson? Assolutamente no, e quindi ecco una solida Crossroads ed una scintillante Little Queen Of Spades, ancora con un formidabile Stainton; chiude la serata Cocaine (ancora Cale, come all’inizio), una scelta forse scontata ma sempre una grande canzone. L’unico bis, al quale partecipa anche Andy Fairweather-Low, è in tono secondo me minore: non è che High Time We Went di Joe Cocker sia brutta (a proposito, il buon Fornaciari deve aver ascoltato una o due volte questa canzone, per usare un eufemismo, prima di “comporre” la sua Diavolo In Me), ma perché come gran finale avrei preferito ascoltare una White Room o una Sunshine Of Your Love, anche perché, a parte Crossroads che è comunque una cover, i Cream sono stati incredibilmente ignorati. Ma alla fine sono quisquilie: Slowhand At 70 è un signor album dal vivo (se consideriamo il superbox dei Grateful Dead una ristampa potrebbe essere anche il live dell’anno), che mi fa sperare che, come dico nel titolo del post, Eric Clapton ritorni sulle sue decisioni e si faccia ancora vedere su qualche palcoscenico ogni tanto.

Marco Verdi

40° Anniversario Per Un “Piccolo Classico” Del Rock. Steve Miller Band – The Joker Live In Concert

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Steve Miller Band – The Joker Live In Concert – Edsel 

Da qualche anno a questa parte è invalsa l’usanza delle serate concertistiche dedicate alla ripresa di un album completo della discografia degli artisti più disparati: lo hanno fatto Springsteen e Patti Smith, Tom Petty e gli Stones, poi ci sono le jam bands che fanno i dischi degli altri, Gov’t Mule e Phish, a Halloween e Capodanno, sono maestri in questo, ora si aggiunge anche la Steve Miller Band, che in occasione del 40° anniversario dell’uscita di The Joker ha voluto festeggiare con un concerto quello che forse non è il più bello o di maggiori vendite album della propria discografia ( titolo che spetta rispettivamente a Fly Like An Eagle e Book Of Dreams, e al Greatest Hits) ma sicuramente uno dei più divertenti e piacevoli, come conferma questa riproposizione Live, uscita in origine solo per il download digitale lo scorso anno e ora pubblicata in versione fisica dalla Edsel.

Sono solo 9 pezzi per poco più di 40 minuti di musica, non nella stessa sequenza del disco originale, ovviamente The Joker, il brano più conosciuto conclude in bellezza l’esibizione, ma tutti da gustare, con la versione più recente della band di Miller, Kenny Lee Lewis, Gordy Knudtson, Joseph Wooten, Sonny Charles e Jacob Petersen, oltre alle ospitate di Gary Mallaber e Lonnie Turner che suonavano nel disco originale. I brani mantengono la freschezza dell’album del 1973, con in più lo spirito e l’improvvisazione della esibizione dal vivo, a partire dalla apertura, con tanto di finta puntina che scende sul disco, e la versione di Come On In My Kitchen di Robert Johnson, che era comunque Live anche nel disco di allora, e ci permette di gustare le radici blues del nostro, che iniziò appunto come Steve Miller Blues Band, e si conferma, per tutto il disco, fior di chitarrista. The Lovin’ Cup, con florilegio di chitarre acustiche, perfettamente riprodotte anche nella dimensione dal vivo, si avvale pure di organo e armonizzazioni vocali in puro stile sixties, grazie anche alla presenza di Sonny Charles, che sostituisce pure all’armonica il compianto Norton Buffalo, mentre Something To Believe In, che con le sue armonie country chiudeva la seconda facciata del disco originale, e dove la pedal steel era suonata da Sneaky Pete Kleinow, illustra un lato poco noto della musica di Miller https://www.youtube.com/watch?v=aZd0Y3W9BKY , che torna a colorarsi delle classiche 12 battute, con il sinuoso slow Blues Evil, non il pezzo di Howlin’ Wolf, bensì una composizione di Steve, una morbida ballata, ma con la solita chitarra solista in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=qsGlhTGYUlo .

Mary Lou è un divertente funky R&B che oltre a Miller hanno anche inciso Ronnie Hawkins, Bob Seger, Gene Clark e Frank Zappa, tra i tanti, con Steve alle prese con un minaccioso wah-wah e, Shu Ba Da Du Ma Ma Ma Ma, che come il titolo fa il paio con quelli più “sciocchini” scritti da Sting, che ha un riff e un ritornello quasi memorabile tipo quello della title-track, con la band che si diverte e trascina il pubblico, come la Steve Miller Band dei tempi d’oro. E anche Your Cash Ain’t Nothi’ But Trash rientra nel ristretto novero delle canzoni più coinvolgenti del gruppo, di nuovo con il wah-wah a menare le danze, per proseguire nella festa del riff con una “ululante” Sugar Babe, sempre condotta con un irresistibile groove che era appannaggio della band allora come oggi, quando la senti non puoi non esclamare “ma è Steve Miller” https://www.youtube.com/watch?v=nCPW56RFEKg ! A maggior ragione con uno dei brani che ha uno dei riff e ritornelli più riconoscibili della storia del rock, quella The Joker che per la prima volta li portò alle vette delle classifiche americane, che è l’occasione per riunire lo “Space Cowboy” e il “Gangster of Love” ancora una volta con i suoi amici, cinque minuti di puro divertimento, come peraltro tutto il resto dell’album: non sarà un capolavoro ma il disco, pure in questa versione dal vivo rivisitata, è un vero piacere da (ri)ascoltare.

Bruno Conti

Slidin’ Blues At Its Best! Sonny Landreth – Bound By The Blues

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Sonny Landreth – Bound By The Blues – Provogue CD

Clyde Vernon Landreth, detto Sonny, è un musicista che nel corso della sua ormai più che quarantennale carriera non ha inciso molti dischi, ma quando lo ha fatto ha quasi sempre colpito nel segno: il suo ultimo lavoro, Elemental Journey (risalente a tre anni fa) è forse il meno brillante del lotto, ma in passato il nostro ci ha regalato vere proprie perle come Levee Town e The Road We’re On (i due che preferisco) ed ottime cose come Grant Street e quel South Of I-10 che nel 1995 lo fece uscire dal semi-anonimato nel quale viveva immeritatamente da anni. Landreth è un grande chitarrista, maestro della tecnica slide (in America, secondo il sottoscritto, inferiore solo a Ry Cooder, almeno tra i viventi) che negli anni è stato sempre molto richiesto anche sui dischi altrui: John Hiatt, uno che di chitarristi se ne intende, lo ha voluto come leader della sua band per ben tre dischi (Slow Turning, The Tiki Bar Is Open, Beneath This Gruff Exterior) e relative tournée.

Sonny è sempre stato avvicinato al genere blues, ma non è un bluesman canonico: nei suoi dischi infatti è sempre partito da una base blues, per poi rivestire le sue canzoni di influenze zydeco-cajun (è infatti soprannominato “il Re dello Slydeco”), country e rock’n’roll, una fusione di stili che è quasi d’obbligo per un musicista cresciuto in Louisiana sin da bambino (essendo nato in Mississippi, altro luogo dove il blues ce l’hai nel sangue). Quindi Landreth un vero disco tutto di blues non lo aveva mai fatto, almeno fino ad oggi: Bound By The Blues è infatti un excursus personale da parte di Sonny nel mondo delle dodici battute, un lavoro fatto con amore e passione esattamente bilanciato tra brani nuovi ed omaggi ai grandi che lo hanno influenzato.

Registrato e prodotto in maniera diretta e senza fronzoli (in trio: oltre a Sonny abbiamo David Ranson al basso e Brian Brignac alla batteria), Bound By The Blues non è quindi un esercizio scolastico fine a sé stesso, ma un vero e proprio Bignami lungo dieci brani nel quale Landreth esplora da par suo i meandri della musica del diavolo: il disco è suonato da Dio (e non c’erano dubbi), prodotto in maniera asciutta da Sonny stesso con Tony Daigle e cantato in maniera più che accettabile (e d’altronde la voce è sempre stato un po’ il tallone d’Achille del nostro, diciamo non altrettanto blues come le sue dita…), un album quindi che soddisferà pienamente sia i fans di Landreth che gli appassionati di blues, e che merita di essere messo a fianco, se non dei suoi lavori migliori in assoluto, sicuramente di quelli appena un gradino sotto (e dunque belli lo stesso).

Il disco si apre con la classica Walkin’ Blues (di Son House, ma resa celebre da Robert Johnson) ed è subito goduria, a partire dal colpo di batteria iniziale e fin dalle prime note di slide, un suono “grasso” che mette subito a suo agio l’ascoltatore, con Sonny che inizia a ricamare assoli. La title track è una rock song fluida e diretta, che ha sì il blues nei cromosomi ma si sviluppa in maniera non canonica, e Landreth alterna con maestria la slide acustica e quella elettrica; The High Side ha un suono paludoso, la sezione ritmica che pressa e Sonny che fa i numeri all’acustica, sopperendo ai suoi limiti vocali con massicce dosi di feeling. It Hurts Me Too è nota soprattutto per le versioni di Tampa Red ed Elmore James, ma l’hanno fatta in mille (tra cui Junior Wells, Eric Clapton, John Mayall, Bob Dylan, Grateful Dead), e qui non riserva grandissime sorprese, ma a me basta che il nostro trio suoni bene, e poi quando Sonny lascia scorrere le dita sul manico non ce n’è per nessuno; Where They Will è un’intrigante rock ballad, intensa e sinuosa, che a ben vedere non è neanche tanto blues (ha quasi un’atmosfera alla Chris Isaak), ma è comunque piacevole e, devo dirlo?, ben suonata.

Cherry Ball Blues, di Skip James (ma l’ha fatta anche Cooder) è tesa ed affilata, quasi più rock che blues, con il nostro che suona come se non ci fosse domani, lo strumentale Firebird Blues è un sentito omaggio al grande Johnny Winter, uno slow blues caldo e vibrante nel quale i tre musicisti danno prova di grande affiatamento: le casse del mio stereo quasi sudano … Dust My Broom (Robert Johnson, ma la versione “storica” è quella di Elmore James) è uno dei classici assoluti della musica del diavolo in generale, e della chitarra slide in particolare, e Sonny ci dà dentro di brutto, fornendo una prestazione da applausi, anche se qui più che mai si sente l’assenza di un vocalist adatto; chiudono il lavoro Key To The Highway (Big Bill Broonzy, ma tutti conoscono quella di Clapton), ripresa abbastanza fedelmente e con la consueta classe da Landreth (anche se verso la fine gigioneggia un po’ ma tenderei a perdonarlo …), e Simcoe Street, uno scatenato boogie strumentale dove tutti girano a mille.

Anche se non sarà un capolavoro, Bound By the Blues è un disco corroborante, che ci fa ritrovare il Sonny Landreth che conosciamo dopo il mezzo passo falso di Elemental Journey.

Marco Verdi

Asso (Di Picche) Della Chitarra? Dave Fields – All In

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Dave Fields – All In – FMI Records

A distanza di uno anno e mezzo circa dal precedente Detonation  http://discoclub.myblog.it/2013/02/17/piu-un-grosso-petardo-che-una-bomba-ma-il-botto-lo-fa-dave-f/ eccoci di nuovo a parlarvi di Dave Fields. E non posso che confermare per questo All In quanto detto per il precedente album. Il signore in questione è bravo, tecnicamente è quello che si può definire un “chitarrista della Madonna”, però anche questo CD ha gli stessi “difetti” e i pochi pregi del precedenti: non c’è più alla produzione il mio arci-nemico David Z, ma il sound rimane, per non dire bombastico, comunque molto robusto, un rock-blues energico, dove la quota blues è molto limitata rispetto al rock, che trovate in abbondanza. Il disco è autoprodotto (nel frattempo ho scoperto che Fields ha una sua società che realizza musica per colonne sonore, commercials per TV e radio e anche dischi di tanto in tanto, ed in passato era stato il direttore musicale per i New Voices Of Freedom, il gruppo newyorkese che appariva in Rattle and Hum degli U2, quindi direi non un novellino), e questo è il quarto, non secondo, disco per il musicista (due in vendita solo sul suo sito http://www.davefields.com/): per onestà vi segnalo anche che il musicista ha avuto vari attestati di stima, a partire da Hubert Sumlin a vari colleghi e musicisti che gravitano nell’area intorno al blues, e quindi confermo che sicuramente è bravo, non lo discuto, ma rimango del mio parere, anche in questo ambito il buon Dave non è uno da prima fascia, forse soddisferà chi è alla ricerca di buon rock-blues chitarristico, ancorché assai tirato https://www.youtube.com/watch?v=kRVaUMTcGxI .

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Non per nulla, e partiamo dal mezzo, due dei brani “salienti” dell’album sono delle cover di brani celeberrimi: una versione di Crossroads, proprio quella di Robert Johnson, che diventa Cross Road, forse perché Dave Fields ha aggiunto un quarto verso alla canzone (ce n’era bisogno?!?) e l’ha tramutata in un pezzo alla Satriani o Vai, durissima ed iper tecnica, con chitarre molto lavorate e a tratti hendrixiane, anche se Jimi era un’altra cosa. Per non parlare di Black Dog, proprio quella dei Led Zeppelin, registrata dal vivo in un piccolo club in Norvegia, con musicisti locali, che invece diventa una sorta di funky-blues rallentato https://www.youtube.com/watch?v=SGhkRltJzN8 , forse perché Fields non può competere a livello vocale con Plant, insomma ho sentito migliori versioni di entrambe, per essere buoni!

Anche altre parti del disco sono registrate live, ma in studio, come la poderosa Changes In My Life, che apre le operazioni e ci permette di gustare l’abilità chitarristica di Dave che sciorina una serie di solo notevoli, non per nulla la migliore, che illude sulla consistenza dell’album, ma se merita diciamolo. O l’orgia hendrixiana, fin dal titolo, Voodoo Eyes, dove wah-wah e organo cercano di ricreare atmosfere rock storiche, ma l’originale era inarrivabile e questa è una pallidissima copia. Let’s Go Downtown è un funkettone piacevole ma nulla più, con Fields che si esibisce anche al basso e l’assolo più di tanto non può redimere, Dragon Fly, ha una bella intro strumentale atmosferica giocata su toni e livelli, ma poi il brano non decolla, virando su sonorità quasi prog, dove si apprezza giusto la chitarra solista. Il brano più blues (rock) è sicuramente Wake Up Jasper, una sorta di shuffle robusto, posto tra le due cover, dove si apprezza il piano di Dave Keys e anche Got A Hold On Me si salva, ma nulla più. Conclude Lovers Holiday in cui Fields ci propone una sorta di piacevole variazione acustica sul tema. Anche in questo caso il disco meriterebbe almeno tre stellette per il lavoro chitarristico, ma per il resto una è di mancia!

Bruno Conti

Un Altro “Maghetto” Del Collo Di Bottiglia! Nikk Wolfe – Slide Stormin’

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Nikk Wolfe – Slide Stormin’ – Wolves At The Door

Nikk Wolfe è l’ennesimo veterano che sbuca dai meandri del sottobosco musicale Americano, area rock-blues, uno dei tantissimi animati da una passionaccia per la musica sin dalla più tenera età, spesa inizialmente nelle grandi pianure del Nord Dakota, poi per seguire i suoi istinti, accesi dall’ascolto di Robert Johnson negli anni formativi, si trasferisce, prima a Portland, Oregon e poi nelle Twin Cities, dove cerca di sbarcare il lunario con la musica. Visto che le cose non funzionano decide di abbandonare, ma come racconta lui stesso, spronato dall’ascolto di South Of I-10 di Sonny Landreth decide di fare un nuovo tentativo, si trasferisce nel Wisconsin con la nuova partner (e consorte) Kai Ulrica, conosciuta ad una audizione, e fonda il gruppo dei Wolves At The Door (da non confondere con degli omonimi metallari) si affida al produttore Kevin Bowe (che ha lavorato con Jonny Lang, Shannon Curfman, Etta James, tra i tanti) e pubblica un paio di album a nome della band https://www.youtube.com/watch?v=TD-JQLEad-E .

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Poi gli viene in mente di fare un album tutto dedicato alla slide guitar, da qui il titolo Slide Stormin’, ingaggia Mike Vlahakis, tastierista e collaboratore in passato della famiglia Allison (Luther e Bernard), pure il bassista di Bernard, Jassen Wilber, suona nell’album, insieme ad alcuni musicisti locali https://www.youtube.com/watch?v=Wy91eweeJNc . Il risultato è un onesto disco di rock-blues: come Landreth, Wolfe non è un gran cantante, quella brava in famiglia è la moglie Kai, come si arguisce dalla sua presenza come backing vocalist, comunque il nostro Nikk se la cava, con questa voce che vira molto verso le note basse, poco potente, ma grintosa, quasi laconica, in certi momenti ricorda vagamente quella del grande Lou Reed, sentire Nothin’ But Trouble o Blues From Baton Rouge, però la musica è bella tirata, la slide viaggia che è una meraviglia, ottime le evoluzioni nello strumentale Slide Stormin’, che dà il titolo a questa raccolta, l’organo e il piano di Vlahakis sono molto presenti, l’organo in particolare ha uno strano suono, mentre ascoltavo il CD, ogni tanto mi sembrava di sentire suonare il telefono di casa.

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Insomma non è un disco per cui strapparsi i capelli (e dalle foto non mi pare ne abbia molti, più cappelli) e se accetta un consiglio gli direi di tornare a fare dischi con i Wolves At The Door (un terzo è in cantiere), a giudicare dalla’ultima canzone, Fortune’s Wheel, uno slow blues cantato proprio dalla moglie Kai Ulrica, dai risultati, che anche in questo caso, intendiamoci, non sono niente di trascendentale, però, almeno a livello vocale sembrano decisamente migliori. Se ve lo sparate a volumi congrui, ovvero decisamente alti, magari in macchina, su una delle nostre highways, potreste passare trequarti d’ora più che piacevoli in compagnia di un vibrante rock tendente al blues, animato da una miriade di soli di slide, che sono il motivo principale del fascino di questo disco, influenzato ed ispirato oltre che da Landreth, da gente come Johnny Winter e Dave Hole, come lui virtuosi dell’attrezzo. Come si diceva poc’anzi, non un capolavoro ma si può fare, cresce dopo vari ascolti.

Bruno Conti

E’ Gia Partita La Grande Jam In Cielo? E’ Scomparso Johnny Winter, Aveva 70 Anni

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Se ne è andato ieri a Zurigo John Dawson Winter III, Johnny Winter per tutti, nella sua camera di albergo o in una clinica, non è chiaro, come non sono certe le circostanze della sua morte. A darne notizia sarebbe stata Jenna Derringer, la moglie del suo collaboratore di lunga militanza Rick. Non è stato ancora emesso un comunicato ufficiale per chiarire le cause del decesso. Quello che è certo è che Johnny Winter, da moltissimo tempo, dall’inizio degli anni ’90, non godeva più di buona salute: dopo essersi liberato da una lunghissima dipendenza dalle droghe, ex eroinomane e tossicodipendente, con il vizio dell’alcol e degli antidepressivi, Winter le aveva proprio tutte, ma testardamente, per virtù o per necessità, negli ultimi dieci anni della sua vita sotto la guida di Paul Nelson, chitarrista e manager, continuava la sua carriera di performer e musicista. Il suo ultimo concerto dovrebbe essere avvenuto il 14 luglio al Cahors Blues Festival in Francia, era stato anche in Italia, a maggio, per tre date, ed erano già previste altre date per un tour nordamericano, come pure la pubblicazione del nuovo disco Step Back, la cui uscita era annunciata per il prossimo 2 settembre e dovrebbe rimanere l’unica cosa certa, purtroppo, per il futuro.

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Step Back Track Listing

1. Unchain My Heart – Johnny Winter
2. Can’t Hold Out (Talk To Me Baby) – Johnny Winter with Ben Harper
3. Don’t Want No Woman – Johnny Winter with Eric Clapton
4. Killing Floor – Johnny Winter with Paul Nelson
5. Who Do You Love – Johnny Winter
6. Okie Dokie Stomp – Johnny Winter with Brian Setzer
7. Where Can You Be – Johnny Winter with Billy Gibbons
8. Sweet Sixteen – Johnny Winter with Joe Bonamassa
9. Death Letter -Johnny Winter
10. My Babe – Johnny Winter with Jason Ricci
11. Long Tall Sally – Johnny Winter with Leslie West
12. Mojo Hand – Johnny Winter with Joe Perry
13. Blue Monday – Johnny Winter with Dr. John

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Nel frattempo, come memento per ricordare quello che è stato uno dei più grandi chitarristi che la storia del blues e del rock ricordino, (ri) pubblico la recensione che gli avevo dedicato in occasione dell’uscita del bellissimo cofanetto commemorativo (in tutti i sensi) True To The Blues: The Johnny Winter Story, pubblicato lo scorso febbraio, in occasione del suo 70° compleanno.

Forse è già partita una lunghissima jam lassù nel cielo dei grandi musicisti, con i due musicisti effigiati in apertura del Post e con tanti altri che hanno condiviso con lui i palchi dei concerti, in giro per tutto il mondo!

R.I.P. John Dawson Winter (Beaumont, Texas 23 Febbraio 1944 – Zurigo, Svizzera 16 Luglio 2014).

Ieri, Oggi E Sempre! True To The Blues: The Johnny Winter Story

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Johnny Winter – True To The Blues: The Johnny Winter Story – 4 CD Sony Music/Legacy 25-02-2014

John Dawson Winter III, come recitava il titolo di un suo disco degli anni ’70, ma Johnny Winter per tutti, è uno dei più grandi chitarristi della storia del Blues (e non solo), bianchi o neri non fa differenza, punto! E per lui, che è più bianco del bianco, albino si dice, essere considerato alla stessa stregua di quelli che erano stati gli eroi della sua gioventù, da Robert Johnson a T-Bone Walker, passando per Elmore James, Hubert Sumlin e nel R&R Chuck Berry, per non parlare di Muddy Waters, credo che sia stato un onore non trascurabile. Si diceva albino, texano, un mare di tatuaggi, non necessariamente nell’ordine, “scoperto” da Michael Bloomfield (di cui in questi giorni esce un altrettanto bel cofanetto) nel dicembre del 1968, quando lo introdusse al grande pubblico del Fillmore East di New York, in una delle date del Super Session Tour con Al Kooper, lo stesso che aveva fatto conoscere anche Carlos Santana http://www.youtube.com/watch?v=5zECNsIeH9g .

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Ma già una piccola leggenda a livello locale, per i concerti e per il fatto di avere inciso il suo primo album, che fin dal titolo metteva le cose bene in chiaro, The Progressive Blues Experiment (anche se poi era una accozzaglia di materiale inciso per vari singoli) poi pubblicato a livello nazionale dalla Liberty nel 1969, lo stesso anno in cui usciva il suo primo omonimo album per la Columbia, in conseguenza di un contratto per cui Winter aveva ricevuto un assegno in anticipo di sei cifre (600.000 dollari), che per quegli anni era qualcosa di inimmaginabile http://www.youtube.com/watch?v=FrQeIJm41dk .

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Il 1969 è un anno magico per Johnny Winter, oltre a Johnny Winter esce Second Winter, uno strano disco inciso su tre facciate, che è ancora migliore del primo, e, soprattutto c’è la partecipazione al festival di Woodstock, dove però il nostro Johnny non è inserito né nel film, né nella colonna sonora tripla del film e neppure in Woodstock 2, il doppio postumo uscito nel 1971. E sì che Winter suonò la domenica notte, prima di CSN&Y, in uno dei momenti topici della manifestazione http://www.youtube.com/watch?v=M6kPQLLLYAc .

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Per sentire due brani della sua esibizione abbiamo dovuto aspettare l’edizione sestupla della colonna sonora, pubblicata per i 40 anni, oppure l’eccellente doppio Woodstock Experience, uscito sempre nel 2009 per la Sony Legacy, che riporta l’esibizione completa. Al tempo Winter girava con il suo trio, dove c’erano Tommy Shannon al basso (poi anche con Stevie Ray Vaughan, uno dei suoi “discepoli”) e Uncle John (Red) Turner, presenti pure nei due album di studio http://www.youtube.com/watch?v=ULB4QQ9vvko  e invece al 2° Atlanta International Pop Festival del 1970, che si tenne nel luglio di quell’anno, esordirono i Johnny Winter And con Rick Derringer alla seconda solista. Proprio da quella esibizione vengono le tre chicche di questo cofanetto: un brano, Mean Mistreater, che uscì nel triplo vinile, The First Great Rock Festivals Of The Seventies – Isle Of Wight/Atlanta Pop, mai pubblicato su CD e due completamente inediti, Eyesight ToThe Blind (popolarissima in quel periodo, perché appariva in Tommy degli Who, anche se era riportata, all’inizio, come The Hawker) e Prodigal Son, due, anzi tre, grandissimi brani dal vivo che però non so se giustificano completamente l’acquisto di questo cofanetto per chi ha già tutto di Winter. E’ per questo che in un giudizio sul cofanetto meriterebbe cinque stellette per il contenuto musicale e  quattro perché ci si sarebbe aspettato qualcosa di più a livello di materiale inedito, possibile che non ci fosse altro? Comunque il cofanetto è imperdibile in ogni caso.

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Fine della digressione, riprendiamo la disamina dei contenuti. Anzi, prima parliamo brevemente della qualità sonora, che mi sembra decisamente ottima e della scelta dei brani, pure questa molto oculata. I primi due CD sono ovviamente i migliori, si va, in ordine cronologico, dal blues acustico dell’iniziale Bad Luck And Trouble, dove Winter, è all’acustica con bottleneck, accompagnato da un mandolino e da una armonica, si passa alle prime sventagliate slide di R&R e boogie texano con una gagliarda Mean Town Blues, poi è subito tempo per una fantastica jam dal repertorio di BB King con una It’s My Own Fault, tratta dal concerto al Fillmore citato prima, uno slow blues di una intensità inusitata e con il texano già ai vertici della sua arte chitarristica, formidabile.

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Pubblicato su CD solo nel 2003 nei Lost Tapes di Bloomfield & Kooper. Dal debutto CBS troviamo I’m Yours and I’m Hers, Mean Mistreater con Willie Dixon e Walter “Shakey” Horton, un po’ grezza a livello tecnico, Dallas, un altro blues acustico e Be Careful With A Fool, altro lento di quelli torridi, degno della sua fama; Leland Mississippi Blues viene da Woodstock, forse non la scelta migliore da quella serata, ma evidentemente è per evitare di duplicare troppe volte gli stessi brani. Da Second Winter cominciano ad arrivare i primi capolavori: Memory Pain ricorda il suono dei Cream mentre Highway 61 Revisited viene considerata, a ragione (con All Along The Watchtower di Hendrix), tra le più belle cover mai fatte di un brano di Bob Dylan, con la sua incredibile slide galoppante contribuisce a creare la leggenda di questo grande musicista texano http://www.youtube.com/watch?v=hPnGXTIQHZw , Miss Ann, con i fiati, attinge da Little Richard, mentre Hustled Town In Texas è un rock-blues di quelli tosti. Dalla versione doppia edita dalla Legacy sono tratti due brani registrati dal vivo alla Royal Albert Hall di Londra nel 1970, entrambi fantastici, una Black Cat Bone che avrebbe fatto felice il maestro Elmore James e la prima di una serie interminabile di versioni di Johnny Be Goode, vero cavallo di battaglia di Johnny, che la fa come nessuno al mondo http://www.youtube.com/watch?v=lUGgXvhLKE4 .

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I primi tre brani del secondo CD nel Box sono quelli tratti dal concerto ad Atlanta del 1970, Eyesight To The Blind, a velocità supersonica, Prodigal Son e Mean Mistreater assai più tosta della versione in studio. Da Johnny Winter And vengono Rock and Roll Hoochie Koo, altro classico della band, Guess I’ll Go Away, quasi hendrixiana nella sua costruzione e On The Limb, cantata con Derringer, di cui non si sentiva particolarmente la mancanza. Da Johnny Winter And Live non si può fare a meno di nulla, qui ci sono 4 brani, ma il disco è uno dei più bei dischi della storia del rock e del blues, quindi è fondamentale averlo, comunque nel cofanetto si trovano It’s My Own Fault, Jumpin’ Jack Flash fatta quasi meglio degli Stones http://www.youtube.com/watch?v=wQPlU5q1CBI , Good Morning Little School Girl http://www.youtube.com/watch?v=10G7rV0xYvM  e una versione “diabolica” di Mean Town Blues, che è un festival della slide.

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Da Still Alive And Well, forse l’ultimo grande album di studio, vengono la title-track, Rock Me Baby, altra grande rilettura di un brano di BB King, fatta sempre a velocità di crociera winteriana http://www.youtube.com/watch?v=Q0NBnClUEDA  e Rock and Roll, omonima solo nel titolo di quella degli Zeppelin, ma altrettanto feroce. Proseguendo con il terzo CD troviamo tre brani da Saints And Sinners che introduce un sound più rock e commerciale, ma non è poi malvagio, come Rollin’ ‘Cross The Country, la fiatistica Hurtin’ So Bad e la funky Bad Luck Situation stanno a testimoniare. Tre anche da John Dawson Winter III, pubblicato l’anno prima nel 1974, Self Destructive Blues, che illustra forse anche la situazione di vita del nostro amico in quel periodo, Sweet Papa John, un classico blues elettrico e Rock and Roll People (scritta da John Lennon e apparsa postuma su Menlove Ave.), omaggio all’altro amore di Winter http://www.youtube.com/watch?v=GoaK6hEKh_A .

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Dal violentissimo Live con il fratello Edgar, Together, viene una Harlem Shuffle di buona qualità, mentre dall’altrettanto tirato (ed esagerato) Captured Live sono estratte Bonie Moronie http://www.youtube.com/watch?v=6Q1o5uuw6ag  e Roll With Me. Tired Of Trying e TV Mama vengono dal disco che segna il ritorno alle origini, Nothing But The Blues, preludio alle collaborazioni con Muddy Waters (e la sua band) qui riprese in”Walkin’ Thru’ The Park (con James Cotton all’armonica) e nella rara Done Got Over, registrata dal vivo http://www.youtube.com/watch?v=CmnT8gcljXo .

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Ci sono ancora tre pezzi per album (forse troppi) dagli ultimi due dischi per la Blue Sky/Cbs, White, Hot And Blue e Raisin’ Cain (tra cui una strana, per Winter, Bon Ton Roulet). Rimangono un brano a testa dai tre bellissimi album per la Alligator, più volte nominati per il Grammy, una Stranger Blues, tratta dalla “misteriosa” Live Bootleg Series, vol.3 (e però giunta al volume 10), di cui nemmeno i compilatori di questo cofanetto sono stati in grado di risalire alla provenienza, indicando un generico “registrato nei tardi anni ‘80”! Rimangono Illustrated Man (altro brano autobiografico) con Dr.John e tratto da Let Me In uscito per la Point Blank nel 1991. Hard Way (notevolissima) da Hey Where’s Your Brother dell’anno successivo e, dal concerto del 1993 al Madison Square in onore del “bardo”  Bob Dylan – The 30th Anniversary Concert Celebration, una fenomenale versione dal vivo di Highway 61 Revisited.

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Infine da Roots, l’ultimo grande disco di studio uscito per la Megaforce nel 2011, i duetti con Vince Gill in Maybellene e Derek Trucks in Dust My Broom http://www.youtube.com/watch?v=VIpmUroL2D4 , quasi a chiudere al cerchio. Lo danno per morto da anni, ma anche lui il 23 febbraio del 2014 festeggerà il suo 70° compleanno e due giorni dopo uscirà questo stupendo cofanetto. Poche parole per concludere, il resto l’ho detto prima: “mano ai portafogli”!

Bruno Conti

In Due Parole: Era Ora! John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall

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John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall – Mercury/Universal CD USA 08/07/2014 EUR/ITA 22/07/2014

Di tutti i cosiddetti “big” della musica internazionale, John Mellencamp era l’unico che non aveva ancora pubblicato un vero e proprio album dal vivo, a parte qualche bonus track sparsa qua e là nei singoli ed un EP (Life, Death, Live And Freedom), che però riprendeva soltanto una manciata di brani tratti dal suo disco del momento (il quasi omonimo Life, Death, Love And Freedom). Tra l’altro stiamo parlando di uno di quei musicisti che trova sul palco la sua dimensione ideale, uno che negli anni ottanta riempiva le arene e si rimpallava con Springsteen e Petty il ruolo di rocker numero uno in America (Bob Seger aveva perso un po’ di terreno negli eighties), quindi l’assenza di live albums nella sua discografia gridava ancor più vendetta. Ora finalmente anche il nostro ripara a questa grave mancanza, ma lo fa a modo suo: Trouble No More Live At Town Hall non è un live canonico, in quanto palesemente (ed anche il titolo lo indica) sbilanciato verso quello che comunque è obiettivamente uno dei migliori lavori della seconda parte della carriera dell’ex Puma, Trouble No More.

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Pubblicato nel 2003, l’album era una sorta di ripasso da parte di Mellencamp delle sue radici, un disco di pura roots-Americana che, con un feeling formato famiglia, presentava una serie di covers prese a piene mani dal ricco songbook a stelle e strisce . Brani tradizionali, cover di canzoni blues, riletture di vecchi folk tunes (ed un solo brano contemporaneo): un disco che lasciava un po’ indietro il Mellencamp rocker e ci presentava il Mellencamp musicista a tutto tondo, che proseguì con i seguenti dischi il suo discorso di brani che, anche se autografi, erano profondamente legati alla tradizione dei songwriters blues e folk più classici https://www.youtube.com/watch?v=xi3w9eduwXI .

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Trouble No More Live At Town Hall riprende (quasi) interamente quel disco, aggiungendo un omaggio a Bob Dylan e, solo nel finale, tre classici di John: registrato nel 2003 a New York con la sua touring band dell’epoca (Mike Wanchic ed Andy York alle chitarre, Miriam Sturm al violino, John Gunnell al basso, Dane Clark alla batteria e Michael Ramos alle tastiere e fisa), davanti a 1.500 persone, tra le quali anche membri della famiglia di Woody Guthrie.

Il disco è, manco a dirlo, bellissimo (mi sembra di essere il Mollicone nazionale): Mellencamp dimostra di essere un fuoriclasse sul palco, la band dietro di lui va come un treno, dipingendo le canzoni con tinte rock che le loro versioni di studio non avevano, ed i brani, va da sé, sono straordinari. L’unica piccola pecca è l’aver lasciato fuori due canzoni che quella sera (era il 31 Luglio) John suonò, e se all’assenza di The End Of The World possiamo sopravvivere. *NDB Però… https://www.youtube.com/watch?v=8GpxR2H241g , mi sarebbe invece piaciuto parecchio ascoltare la versione di Mellencamp dell’ultraclassico House Of The Risin’ Sun (non presente peraltro sul Trouble No More di studio).

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1. Stones In My Passway (Robert Johnson)

2. Death Letter (Son House)

3. To Washington (John Mellencamp/Traditional)

4. Highway 61 Revisited (Bob Dylan)

5. Baltimore Oriole (Hoagy Carmichael/Paul Francis Webster)

6. Joliet Bound (Kansas Joe McCoy)

7. Down In The Bottom (Willie Dixon)

8. Johnny Hart (Woody Guthrie)

9. Diamond Joe (John Mellencamp/Traditional)

10. John The Revelator (Traditional)

11. Small Town (John Mellencamp)

12. Lafayette (Lucinda Williams)

13. Teardrops Will Fall (Marion Smith)

14. Paper In Fire (John Mellencamp)

15. Pink Houses (John Mellencamp)

Apre Stones In My Passway, di Robert Johnson, con Wanchic (o è York?) scatenato alla slide ed il nostro subito in partita; Death Letter (Son House), ancora blues, senza un momento di respiro, ancora la slide a dominare e John che canta alla grande https://www.youtube.com/watch?v=vN2AMvDdOAk . To Washington è splendida, una folk song tradizionale alla quale John ha aggiunto delle parole nuove, non proprio carine verso l’allora presidente George W. Bush: accompagnamento rootsy, con chitarre acustiche, violino e slide, una vera goduria. Highway 61 Revisited è il già citato omaggio a Dylan, nel quale viene fuori il Mellencamp rocker: solito grande lavoro di slide (una costante per tutto il CD) ed il violino che le dà un sapore meno urbano, facendola sembrare una outtake del grande The Lonesome Jubilee (per chi scrive il miglior disco di Mellencamp).

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Baltimore Oriole è il più celebre brano scritto da Hoagy Carmichael: la versione di John è bluesata, quasi tribale, profonda, suggestiva, con strumentazione scarna ma tanta anima (il duetto tra fisarmonica e violino è da brividi). Il pubblico ascolta in rigoroso silenzio per poi esplodere in un fragoroso applauso nel finale. Joliet Bound è un antico brano reso noto da Memphis Minnie: versione frenetica, dalla ritmica spezzata, sempre con il giusto bilanciamento tra folk, blues e roots; Down In The Bottom vede Mellencamp alle prese con Howlin’ Wolf, una trascinante resa tra rock, blues ed un pizzico di swamp, tanto che non sarebbe dispiaciuta a John Fogerty: ritmo alto e solita grande slide. E’ la volta di Guthrie a venire omaggiato: Johnny Hart mantiene intatto lo spirito dell’originale, una versione splendida per purezza e sentimento, il miglior ricordo che John poteva tributare a Woody.

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Diamond Joe è un traditional rifatto da un sacco di gente (anche da Dylan): John la personalizza parecchio, suonandola full band, elettrica, ritmando e roccando, e facendola sembrare sua. Un capolavoro rifatto alla grande, uno dei momenti salienti del CD. John The Revelator è un gospel che hanno cantato in mille: ancora un intro swamp e John che si traveste da predicatore, versione intensa come al solito, manca solo il coro alle spalle. Ci avviamo alla conclusione: Small Town è uno dei tre classici di John presenti, una delle canzoni rock con il più bel riff in assoluto, anche se qui viene stravolta ed adeguata al mood della serata (tanto che il pubblico la riconosce solo quando John inizia a cantare).

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Lafayette, di Lucinda Williams, era l’unico brano contemporaneo presente su Trouble No More, e siccome io non sono un fan della Williams performer, ho gioco facile ad affermare che la versione di John è di gran lunga superiore; Teardrops Will Fall l’hanno incisa da Wilson Pickett a Ry Cooder, e Mellencamp la personalizza, grazie anche alla sua band coi fiocchi, e la fa sembrare anch’essa sua (cosa non facile quando su un brano ci ha già messo le mani Cooder) https://www.youtube.com/watch?v=JOk8kv_Tecc . La serata si chiude in crescendo con le straordinarie Paper In Fire, il pezzo che apriva col botto The Lonesome Jubilee (e qui la resa è molto più aderente all’originale, anche se manca la batteria esplosiva di Kenny Aronoff), e con Pink Houses, un manifesto roots-rock, scritta quando il movimento roots era di là da venire: leggermente più blues della versione apparsa all’epoca su Uh-Huh, resta comunque un capolavoro https://www.youtube.com/watch?v=-fDZmEW4TMs .

Grande disco questo “esordio” dal vivo di Mellencamp (anche se comunque prima o poi ci vorrà anche un live, diciamo, career-spanning): esce l’8 Luglio in America ed il 22 in Europa (anche in vinile, ma con solo 10 canzoni contro le 15 del CD).

Non lasciatevelo sfuggire.

Marco Verdi