Il Magico Mondo Di Robin Pecknold Capitolo Quarto. Fleet Foxes – Shore

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Fleet Foxes – Shore – Epitaph-Anti

Questo album è stato reso disponibile per il download alle 15 e 31 minuti dello scorso 22 settembre, nell’esatto momento in cui era stato calcolato l’equinozio, ovvero il passaggio dall’estate all’autunno. Tale pignoleria rende l’idea dell’estrosa personalità di Robin Pecknold, l’indiscusso leader dei Fleet Foxes, giunti alla quarta uscita, a distanza di dodici anni dal loro omonimo brillantissimo esordio. Shore, (che verrà pubblicato nel suo formato fisico in questo mese di febbraio il giorno 5) già dal titolo e dall’immagine di copertina ci indica le ambiziose intenzioni del suo autore, vale a dire creare un disco che suoni semplice e sofisticato allo stesso tempo, ennesimo tentativo di coniugare modernità e classicismo, avventura e approdo sicuro, come la battigia del titolo evoca la zona dove terra e mare si incontrano e si fondono l’una con l’altro.

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La sua gestazione è partita due anni fa, essendo stato registrato in gran parte a New York negli studi di Aaron Dessner dei National e poi completato in Francia e a Los Angeles, con l’apporto di numerosi musicisti ospiti. Tanta musica, ma i testi sono arrivati solo lo scorso giugno, in pieno lockdown, lasciando l’impressione più di una prova da solista che di un lavoro di gruppo. A conferma di ciò Pecknold ha dichiarato di voler rientrare in studio quest’anno per incidere la decina di canzoni rimaste fuori da Shore insieme ai suoi attuali compagni di viaggio, il chitarrista Skyler Skjelset, il bassista Christian Wargo, il tastierista Casey Wescott e il polistrumentista Morgan Henderson. Rispetto al precedente Crack-Up https://discoclub.myblog.it/2017/06/02/fortunatamente-non-si-sono-persi-per-strada-anteprima-fleet-foxes-crack-up/  qui si apprezza una maggiore immediatezza e solarità. Sono presenti tutti gli ingredienti che hanno reso i Fleet Foxes una band di culto per un pubblico molto variegato, che comprende new hippies, appassionati di folk prog inglese, nostalgici delle sonorità californiane degli anni settanta, seguaci del folk revival dell’ultima decade o semplici estimatori di pop raffinato.

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Photo Credit Emily Johnston

Già nell’iniziale suite Wading In Waist-High Water che sfocia in Sunblind veniamo proiettati in una dimensione sospesa tra reale e fantastico, in cui all’iniziale arrangiamento vocale degli ospiti San Fermin fa seguito una di quelle melodie vincenti che Pecknold ha ereditato dal maestro Brian Wilson  . Can I Believe You prosegue il viaggio spirituale del suo autore tra cori sognanti e chitarre che riportano indietro agli anni sessanta https://www.youtube.com/watch?v=L2E2DpWO3-Y , mentre Jara si apre e si sviluppa con le allucinazioni vocali della cantante e compositrice Meara O’Reilly che accentuano il suo carattere atemporale https://www.youtube.com/watch?v=YWJSKwgQjSs . Featherweigh e la successiva A Long Way Past The Past sono impreziosite dal notevole apporto canoro degli Whitney, band emergente di Chicago, e si rivelano una vera delizia per le orecchie. For A Week Or Two è un breve onirico intermezzo (con tanto di coda con cinguettio di uccellini), che sfocia nella turgida Maestranza. Young Man’s Game spinge sull’acceleratore in territori consoni ai gioielli della premiata ditta Crosby, Stills & Nash https://www.youtube.com/watch?v=OHsGsMD9wW0 , prima di un’oasi intima ed acustica intitolata I’m Not My Season.

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Gli ultimi fuochi d’artificio di questo album piacevolissimo amplificano la nostra immaginazione con le stratificazioni vocali e i contrappunti jazz della suite Quiet Air/Gioia e con l’uso solenne degli ottoni nella sognante Going-To-The-Sun Road, (splendido il finale con gli ultimi versi cantati in portoghese dall’ospite Tim Bernardeshttps://www.youtube.com/watch?v=DQ48DeooyTQ . Ancora un gioiellino acustico con ricamo di fiati in Thymia, poi uno dei vertici della raccolta, Cradling Mother, Cradling Woman, che parte quasi citando la DèjaVu di David Crosby per poi esplodere in una sovrapposizione di suoni e voci davvero efficace https://www.youtube.com/watch?v=n2SZCIZrllc . La chiusura è riservata alla lenta e meditativa title-track, manifesto di un lavoro che nelle stesse parole del suo giovane autore “deve esistere in uno spazio subliminale tra passato e presente, in una dimensione spirituale che comunichi un senso di sollievo”. Per quanto mi riguarda, missione compiuta mister Pecknold!

Marco Frosi

Recensioni Cofanetti Autunno-Inverno 7. Gli Inizi Di Uno Dei Gruppi Più Originali Degli Ultimi Anni. Fleet Foxes – First Collection 2006 – 2009

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Fleet Foxes – First Collection 2006 – 2009 – Nonesuch/Warner 4CD – 4LP (1×12” + 3×10”)

I Fleet Foxes, band di Seattle capitanata dal vulcanico e geniale Robin Pecknold, sono indubbiamente tra i gruppi più originali e particolari degli ultimi quindici anni: la loro miscela di folk, rock, pop e sonorità californiane tipiche degli anni settanta, un suono elaborato ed accattivante nello stesso tempo, è quanto di più innovativo si possa trovare oggi in circolazione. Il loro secondo album, Helplessness Blues (2011), aveva ottenuto consensi ed ottime vendite ovunque https://discoclub.myblog.it/2011/05/03/una-attesa-conferma-fleet-foxes-helplessness-blues/ , ed il suo seguito uscito lo scorso anno, Crack-Up, pur essendo leggermente inferiore https://discoclub.myblog.it/2017/06/02/fortunatamente-non-si-sono-persi-per-strada-anteprima-fleet-foxes-crack-up/ , era comunque un lavoro più che buono. Ora, per quanti (sottoscritto incluso) hanno conosciuto la band solo con Helplessness Blues, Pecknold e compagni pubblicano questo box quadruplo (consiglio la versione in CD, che ha un prezzo contenuto) intitolato First Collection 2006 – 2009, che raccoglie i due rari EP d’esordio del gruppo, il loro primo album Fleet Foxes del 2008, ed un altro EP esclusivo intitolato B-Sides And Rarities.

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Il cofanettino, almeno quello in CD, è piccolo e maneggevole, ma in ogni caso è molto curato e dotato di un bel libretto ricco di foto, informazioni e testi di tutte le canzoni, ed il suono è stato rimasterizzato alla grande: vediamo dunque il contenuto musicale disco per disco (il box presenta l’album come CD1 ed i due EP come CD2 e 3, ma io andrò in ordine cronologico, che è anche il modo in cui consiglio di ascoltare i vari dischetti). The Fleet Foxes EP (2006): mini album di sei pezzi venduto dalla band ai concerti, pare ne esistano solo 50 copie “fisiche”, mentre in download è più facile da reperire. Nonostante il gruppo fosse all’epoca già un quintetto, nel disco suona tutto Pecknold, tranne la batteria che è nelle mani di Garret Croxon; il suono è più rock e diretto che in seguito, ma qua e là ci sono già i germogli dello stile che verrà. She Got Dressed è una rock song potente ed elettrica, piuttosto rigorosa anche nella struttura melodica; anche meglio In The Hot Hot Rays, una deliziosa e solare canzone pop, dal ritmo sostenuto e con una chitarra decisamente “californiana”. Anyone Who’s Anyone è contraddistinta da una splendida chitarra twang e da una performance forte e vitale, con un uso delle voci molto creativo, mentre Textbook Love è ancora pop deluxe, con Robin che mostra già di avere una personalità debordante. Il mini album termina con la vigorosa ed elettrica So Long To The Headstrong, tra pop e rock e melodicamente complessa, e con Icicle Tusk, folk, cantautorale e più vicina ai Fleet Foxes di oggi.

Sun Giant (2008): secondo EP del gruppo, uscito appena due mesi prima del loro debut album (ma con il quale non ha pezzi in comune). Ed ecco i Fleet Foxes che conosciamo (a proposito, qua ci sono anche gli altri: Skyler Skjelset, chitarra, Casey Wescott, tastiere, Craig Curran, basso e Nicholas Peterson, batteria), con melodie quasi eteree, di stampo folk, ma con qualche elemento di psichedelia ed un vulcano di idee. La title track apre in modo suggestivo, con un canto corale a cappella, quasi ecclesiastico, seguito a ruota dall’intrigante Drops In The River, brano cadenzato, decisamente folk-rock nella struttura ed un motivo diretto, sempre giocato sull’uso particolare delle voci. Restiamo in territori folk con la saltellante English House, che ricorda un po’ lo stile dei Lumineers, ed anche con la splendida Mykonos, una canzone intensa, fluida e dalla melodia davvero suggestiva, con armonie vocali degne di CSN; chiusura con la lenta Innocent Son, solo per voce e chitarra. Fleet Foxes (2008): ed è la volta del primo album, che ha compiuto una decade esatta proprio quest’anno: inizio con la sognante e folkie Sun It Rises, ancora più vicina al suono odierno, un brano elettroacustico dal crescendo strumentale coinvolgente ed una melodia sospesa alla David Crosby; la corale White Winter Hymnal è davvero bellissima, ha un motivo circolare ed un sottofondo musicale di grande respiro, mentre Ragged Wood è sostenuta da un ritmo acceso e da uno sviluppo disteso e forte al tempo stesso, con decisi cambi di tempo e melodia tipici di Pecknold.

Sentite poi Tiger Mountain Peasant Song, folk ballad splendida, pura e cristallina, o la mossa Quiet Houses, sempre con un uso molto interessante delle voci e soluzioni melodiche mai banali, o ancora He Doesn’t Know Why, altra deliziosa canzone tra folk d’autore e pop adulto. Tra i pezzi rimanenti, non posso non segnalare lo strumentale (ma le voci non mancano) Heard Them Stirring, puro Laurel Canyon Sound, l’acustica ed intensissima Meadowlarks o la conclusiva Oliver James, in cui la voce di Robin è praticamente lo strumento solista. B- Sides And Rarities: EP di otto canzoni che contiene quattro brani usciti solo su singolo e quattro versioni inedite. False Knight On The Road è un folk etereo ancora caratterizzato da un motivo squisito e di facile assimilazione (canzone un po’ sprecata come lato B), mentre la rilettura del noto traditional Silver Dagger è semplicemente stupenda, solo voce e chitarra ma emozioni a profusione (e Pecknold canta in maniera sublime). La gentile White Lace Regretfully è più normale, ma Isles è ancora un delizioso bozzetto acustico di grande presa emotiva. Chiudono il dischetto tre interessanti demo inediti di brani presenti sul primo album e sul secondo EP (Ragged Wood, He Doesn’t Know Why, English House), che sembrano canzoni fatte e finite, ed un frammento strumentale di appena 52 secondi intitolato Hot Air.

Se vi piacciono i Fleet Foxes ma non conoscevate le loro origini (e poi sfido chiunque a possedere i primi due EP), questo cofanetto fa al caso vostro, anche perché una volta tanto non costa una cifra esagerata (in CD).

Marco Verdi

Prossime Uscite Autunnali 5. Fleet Foxes: 2006-2009. Non Solo Dischi Storici Anche Il Loro Album Riceve il Trattamento Deluxe Per Il 10° Anniversario, Esce il 9 Novembre

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Fleet Foxes – Collection 2006-2009 – 4 CD oppure Box in vinile con un 12″ e tre 10″ – Nonesuch EU – Sub Pop USA e Resto del mondo – 09-11-2018

Anche il primo album dei Fleet Foxes, pubblicato in origine nel 2008, viene ampliato in un cofanetto da quattro CD o quattro vinili, il primo con un prezzo decisamente contenuto, il secondo formato molto più costoso. La band di Robin Pecknold, in attività dal 2006, agli inizi era molto più prolifica, tanto da avere pubblicato oltre all’album omonimo diversi EP, e poi nel 2011 un secondo album Helplessness Blues, prima di entrare in una sorta di letargo, interrotto solo poco più di un anno fa dal disco del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/06/02/fortunatamente-non-si-sono-persi-per-strada-anteprima-fleet-foxes-crack-up/  , di cui potete leggere al link.

Ma tra il 2006 e il 2009 il gruppo aveva pubblicato parecchio materiale che ora viene raccolto in questo box da 4 CD, che oltre all’album raccoglie l’EP Fleet Foxes del 2006, pubblicato solo su CD-R e 10″ autogestiti a tiratura ultra limitata, l’EP Sun Giant del 2008, e una serie di brani definiti B-Sides And Rarities, usciti su diversi singoli di quel periodo. Come leggete ad inizio Post il tutto esce per due differenti etichette, la Sub Pop che era quella che aveva edito il tutto in quegli anni, che pubblica il cofanetto negli Stati Uniti e nel resto del mondo, e la Nonesuch, l’attuale casa discografica del gruppo di Seattle, che invece cura l’uscita per il mercato europeo, Italia inclusa, data di rilascio prevista il 9 novembre.

Ecco la lista completa dei contenuti.

 CD1]
1. Sun It Rises
2. White Winter Hymnal
3. Ragged Wood
4. Tiger Mountain Peasant Song
5. Quiet Houses
6. He Doesn’t Know Why
7. Heard Them Stirring
8. Your Protector
9. Meadowlarks
10. Blue Ridge Mountains
11. Oliver James

[CD2]
1. Sun Giant
2. Drops In The River
3. English House
4. Mykonos
5. Innocent Son

[CD3]
1. She Got Dressed
2. In The Hot Hot Rays
3. Anyone Who’s Anyone
4. Textbook Love
5. So Long To The Headstrong
6. Icicle Tusk

[CD4]
1. False Knight On The Road
2. Silver Dagger
3. White Lace Regretfully
4. Isles
5. Ragged Wood (transition basement sketch)
6. He Doesn’t Know Why (basement demo)
7. English House (basement demo)
8. Hot Air (basement sketch)

Alla prossima uscita.

Bruno Conti

Fortunatamente Non Si Sono Persi Per Strada! Anteprima Fleet Foxes – Crack-Up

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Fleet Foxes – Crack-Up – Nonesuch/Warner CD

A ben sei anni dal loro secondo album Helplessness Blues, uno dei dischi più sorprendenti e creativi del 2011, si rifanno vivi i Fleet Foxes, band di Seattle guidata da Robin Pecknold, carismatico musicista dalla personalità debordante, con un lavoro nuovo di zecca, intitolato Crack-Up (esce il 16 Giugno, questa recensione è in anteprima assoluta). Helplessness Blues aveva positivamente stupito per il suo contenuto, una serie di brani di ispirazione folk, ma con copiose dosi di rock, progressive ed un tocco di psichedelia, caratterizzati da complesse armonie vocali che rimandavano allo stile classico di Crosby, Stills & Nash: Pecknold è un leader vulcanico, una sorta di hippy fuori tempo (un po’ come Alex Ebert degli Edward Sharpe & The Magnetic Zeros o, se ve lo ricordate, Michael Glabicki dei Rusted Root), ed i suoi compagni di viaggio, tutti validi polistrumentisti (Skyler Skjelset, Carey Wescott, Morgan Henderson e Christian Wargo) sono il gruppo perfetto per la sua musica sognante, eterea, di chiara derivazione californiana, ma la California dei primi anni settanta, quando si credeva ancora che con la musica si potesse cambiare il mondo ed il Laurel Canyon era il centro nevralgico e cool di quei tempi. Dopo sei anni di silenzio assoluto temevo però una delusione, oppure un cambio netto di direzione verso sonorità più commerciali, un po’ la fine che hanno fatto di recente gruppi come Mumford & Sons, Arcade Fire, Needtobreathe e Low Anthem: fortunatamente Crack-Up continua il discorso intrapreso con il disco precedente, con le medesime atmosfere, lo stesso tipo di canzoni molto creative e personali caratterizzate da un gusto spiccato per la melodia e con ripetuti cambi di ritmo anche all’interno dello stesso brano, e lo stesso suono evocativo di un’epoca irripetibile della storia della nostra musica.

Se proprio vogliamo, rispetto a Helplessness Blues qui manca l’effetto sorpresa, i brani sono strutturati allo stesso modo, quasi Crack-Up fosse il secondo volume del medesimo progetto, anche se nel disco di sei anni fa mi sembra che le sonorità fossero più solari, mentre qui il mood è più intimo, riflessivo, quasi cupo in certi momenti: ma la cosa importante è che il livello delle composizioni e del suono sia sempre alto, e che i nostri non abbiano perso la via maestra. Quando poc’anzi ho detto che Crack-Up continua il discorso del disco precedente, intendevo proprio alla lettera, in quanto le prime note del brano iniziale, I Am All That I Need/Arroyo Seco/Thumbprint Scar, sono le stesse con le quali si chiudeva Grown Ocean, l’ultimo pezzo di Helplessness Blues (i ragazzi un po’ bizzarri lo sono…): il pezzo comincia in maniera straniante, con Pecknold che canta come se si fosse appena svegliato (o si fosse appena fatto una canna, più probabile…), poi entra una chitarra strimpellata con grande forza, il ritmo cresce e le voci intonano un motivo molto CSN (più dalle parti di David Crosby), ma con elementi quasi psichedelici, un brano un tantino ostico ed un po’ ripetitivo nonostante i cambi di ritmo e melodia, ma di certo non banale. Cassius parte ancora piano, ma qui le tipiche armonie della band entrano subito ed il brano si trasforma in una folk song bucolica, ma senza rinunciare alle atmosfere oniriche che collocano il pezzo proprio nel bel mezzo della California post-Summer of Love: bello il finale strumentale che confluisce nella gradevole Naiads, Cassidies, una ballata senza stranezze di sorta, nobilitata dalle solite ottime voci ed un mood evocativo e rilassato, uno stile quasi cinematografico; Kept Woman inizia come un lento alla Crosby, dagli accordi pianistici, al timbro di voce alla melodia, un brano affascinante e di grande intensità, un pezzo che potrebbe benissimo essere una outtake del mitico If I Could Only Remember My Name.

Molto bella la lunga, quasi nove minuti, Third Of May/Odaigahara, un folk-rock energico anche se con strumentazione acustica al 90%, un motivo godibile e lineare dove non mancano i soliti cambi di ritmo e melodia che sono un po’ il trademark del gruppo. Con If You Need To, Keep Time On Me siamo invece dalle parti di Neil Young, una ballad acustica e con un bell’uso del piano, con una certa malinconia di fondo ma anche feeling a profusione; Mearcstapa (titoli normali pochi) ricicla un po’ le stesse sonorità, con qualche rimando ai Pink Floyd bucolici di dischi come More e Obscured By Clouds: il disco si conferma in generale più cupo ed un po’ meno immediato del suo predecessore, ma non per questo meno interessante. La pianistica On Another Ocean è ancora sospesa e sognante (ma a metà diventa una rock song pura, ed anche bella), Fool’s Errand è folk-prog al 100%, ritmo alto, tappeto strumentale suggestivo e voci perfette, I Should See Memphis è interiore ed un pochino più involuta delle precedenti; il CD si chiude con la title track, anch’essa lunga, fluida, leggermente psichedelica ed impreziosita da un corno in sottofondo. Crack-Up è quindi un buon disco, che si lega a doppio filo con il lavoro che lo ha preceduto, anche se dopo sei anni forse le aspettative erano più alte (ma, come ho già detto, c’era anche il rischio-ciofeca): diciamo che il prossimo album sarà forse il più difficile per i Fleet Foxes, in quanto questa formula probabilmente non potrà reggere in eterno.

Marco Verdi

Una Attesa Conferma! Fleet Foxes – Helplessness Blues

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Fleet Foxes – Helplessness Blues – Bella Union/Coop/Universal – Sub Pop

Esce oggi in tutto il mondo questo Helplessness Blues dei Fleet Foxes: disco del mese per Mojo e Uncut (dove erano in copertina il mese scorso), ma pure per Uncut e il Buscadero (dove sono in copertina questo mese). Quindi giudizi unanimi? Sembrerebbe di no, c’è anche parecchia gente che non lo apprezza o non del tutto. Al sottoscritto sembra che Robin Pecknold e soci (tra cui l’ottimo J Tillman, anche solista in proprio, qui impegnato alla batteria e ai cori) abbiamo centrato l’obiettivo. Non saranno originalissimi (ma chi lo è), forse non sono trascinanti ma sicuramente quel trademark degli arrangiamenti curatissimi e i cori sempre superbi e sopraffini sono un loro atout.

L’album è il famoso sophomore (che nella “iconografia” inglese precede il “difficult album”, che è il terzo), ovvero il secondo disco del gruppo originario di Seattle ma idealmente figlio della West Coast californiana e del folk-rock britannico (e quindi Fairport Convention e dintorni). Loro ci aggiungono, almeno a livello di approccio musicale, la musica di Van Morrison e mille altre influenze, come ammettono candidamente in molte interviste. Sono dodici brani per una cinquantina di minuti di musica ed avendolo ascoltato a lungo visto che il promo circola da parecchi mesi (ma come dicono le case discografiche quando ti affidano un promo o un link per lo streaming, usando una frase alla Giucas Casella, recensione “solo quando lo dirò io!).

Per cui, alla fine, mi sono ridotto all’ultimo minuto ma due parole sui brani le voglio dire anch’io. Il famoso altro punto di riferimento non citato, ma che aleggia nell’aria, sono C,S,N (& Y) e le loro morbide acrobazie vocali (ma io, in alcuni momenti e senza offesa, ho riscontrato anche qualche similitudine con i primi America, che in quanto a cori e bravura, almeno gli inizi, non erano secondi a nessuno, nel genere specifico). Se esaminiamo da vicino la voce del leader Robin Pecknold si tratta di uno strumento piacevole ancorché non memorabile, ma la somma delle parti vocali dei vari componenti del gruppo è nettamente superiore alle voci prese singolarmente e si unisce a quella cura nei particolari che li ha indiziati tre anni fa tra gli iniziatori di questo filone neo-folk che, in varie forme, impazza piacevolmente nell’etere e sulle pagine dei giornali specializzati.

Si diceva dei brani: The Shrine/An Argument è un ottimo esempio di quanto detto finora. Divisa in tre movimenti, parte con la sola voce di Pecknold e un leggero picking di chitarra per poi trasformarsi in una seconda parte più complessa, quasi solenne dove entrano la batteria e i soliti cori celestiali e si conclude con un’ultima parte che mi ha ricordato, stranamente ma non troppo, gruppi come i Van Der Graaf Generator o i King Crimson meno estremi, con i suoi fiati e archi quasi jazzati, con quel finale quasi free-progressive. Un altro medley The Plains/Bitter Dance segnala questo incrocio tra psych-prog morbido e folk, vagamente nello stile dei citati Fairport, con queste melodie che profumano anche di celtic rock. E che dire di Bedouin Dress che al tempo da giga aggiunge anche influenze orientali? Ne diciamo bene. Anche il crescendo glorioso di Grown Ocean ha molte frecce al suo arco.

Per il resto prevale la consueta miscela di West Coast, country e folk con ampie spruzzate del pop più raffinato con una preferenza per le dolci atmosfere di Sim Sala Bim (vedete che i “maghi”, o presunti tali, ritornano) o per il country-rock ricercato di Montezuma, o le derive dylaniane in trasferta a San Francisco di Lorelai, ma anche l’ovvio riferimento alla Crosby, Stills, Nash & Young di Someone You’d admire.

Una ultima citazione va alla title-track, quella Helplessness Blues che già da qualche mese delizia le orecchie degli appassionati di buona musica. Ma in definitiva, con qualche lungaggine qui e là, e un filo di noia per chi non l’apprezza, il disco piace nella sua interezza, almeno a chi scrive.

Se vi chiedete perché l’ho inserito nella rubrica “in breve”, con indulgenza pensate alla lunghezza abituale delle altre recensioni. In questa occasione, si fa per dire, mi sono parzialmente trattenuto da attacchi di verbosità che torneranno prossimamente, potete esserne sicuri, non è una minaccia ma una promessa. Quando inizio a scrivere un post sono sempre un po’ riluttante poi mi prende la mano e vado a ruota libera. Spero di non rompere troppo le scatole ma come detto più volte il Blog è mio e me lo gestisco io (questa frase mi dice qualcosa) per cui se non vi piace potete cambiare canale o esprimere, con educazione, il vostro dissenso o la vostra approvazione. Fine della concione e alla prossima.

Comunque il disco è bello e consigliato, non credete troppo alle iperboli di molte recensioni ma neppure a chi fa lo snob per partito preso salvo poi appiopparvi e consigliarvi dischi “improbabili”, qui andate sul sicuro. Vediamo se faranno anche loro il “botto” nelle classifiche come Arcade Fire e Decemberists, non sarebbe male!

Bruno Conti