E Purtroppo Ci Ha Lasciato Anche Maggie Roche, La “Piccola” Grande Cantante Newyorkese, Aveva 65 Anni (E Anche Altri Due Lutti)

maggie roche the roches

Sabato 21 gennaio 2017 se ne è andata anche Maggie Roche, brillante cantante newyorkese, a lungo con le Roches, il trio della Grande Mela “famoso” per le loro armonie vocali che lasciavano senza respiro. La cantante era nata appunto a New York il 26 ottobre del 1951 ed era la maggiore di tre sorelle, le altre due erano Terre, e la più giovane Suzzy. Nel 1973 Maggie e Terre avevano cominciato la loro attività nel campo musicale cantando come background vocalist in There Goes Rhymin’ Simon, il disco di Paul Simon che le aveva fatte conoscere al grande pubblico.

Poi nel 1975 hanno pubblicato per la Columbia l’unico album come duo a nome Maggie & Terre Roche Seductive Reasoning, e in seguito è entrata nel gruppo anche Suzzy Roche, portando all’esordio come The Roches del 1979, pubblicato dalla Warner e prodotto da Robert Fripp, un piccolo gioiellino di equilibri sonori, tra lo splendido contralto di Maggie, il soprano di Terre e Suzzy che stava nel mezzo a fare da collante per le loro celestiali armonie vocali https://www.youtube.com/watch?v=6-LJX9IXiio, un disco che ancora oggi non risente del trascorrere del tempo, e che spero venga in futuro ristampato in CD, come ha fatto la Real Gone nel 2012 per il disco del 1975.

maggie and terre roche seductive reasoning the roches the roches

Poi le tre sorelle hanno pubblicato una serie di album, nove in tutto, compreso uno natalizio (tra i più belli nello specifico argomento) fino al 1995 in cui è uscito Can We Go Home Now l’ultimo album come trio della prima fase, visto che nel 1997 hanno messo la loro carriera come gruppo in pausa a tempo indeterminato. Anche se nel 2003 la Warner/Rhino ha pubblicato una eccellente antologia The Collected Works Of The Roches, e le sorelle, da sole o in duo, hanno continuato a pubblicare dischi, magari solo per la gioia dei fans più accaniti e degli appassionati della bella musica! Poi nel 2007, a sorpresa, è uscito un disco Moonswept, ancora a nome Roches, che ha rinnovato la magia di questo splendido gruppo familiare.

Ma a parte un breve tour l’avventura è finita quasi subito. Nel corso degli ultimi anni le tre sorelle hanno spesso collaborato con Amos Lee, le Indigo Girls e tutta la famiglia allargata McGarrigle/Wainwright, visto che Suzzy è stata la seconda moglie di Loudon Wainwright III e mamma di Lucy Wainwright Roche, altra promettente cantautrice.

E sabato, dopo una lunga lotta con il cancro, si è spenta la stella di Maggie Roche. Nell’augurio che anche lei Riposi In Pace, colgo l’occasione per rimarcare che anche se questi tributi postumi sono forse le uniche occasioni in cui si parla di artisti ed artiste che meriterebbero ben altro spazio, comunque su questo Blog i nomi che avete letto in questo Post non fanno la loro apparizione per la prima volta, visto che cerchiamo sempre di parlare anche dei nomi cosiddetti “minori”, magari non sempre riuscendoci.

A questo proposito, purtroppo ancora, vi segnalo che ieri, a seguito delle complicazioni di una polmonite, è morto anche Jaki Liebezeit, il batterista dei mitici Can. aveva 78 anni. 

Bruno Conti

P.s. Per la serie le disgrazie non vengono mai da sole, soprattutto ultimamente, e in tutti i campi, apprendo solo ora che ieri, domenica 22 gennaio, all’età di 69 anni è deceduto anche Overend Watts, lo storico bassista dei Mott The Hoople (e British Lions), anche lui affetto da qualche tempo da una grave forma di tumore alla gola, e a cui qualche tempo la band americana dei Mambo Suns aveva dedicato una canzone.

Sperando che per oggi non succeda altro!

Un Disco “Acquatico”! Lisa Hannigan – At Swim

lisa hannigan at swim

Lisa Hannigan – At Swim – PIAS/Play It Again Sam – ATO

Terzo album solista per la cantante irlandese, forse il suo migliore in assoluto, dopo i peraltro buoni Sea Sew Passenger. Nel titolo dell’album o dei brani ci sono comunque sempre alcuni rimandi all’acqua, da cui il titolo del Post, ma poi le canzoni si allargano sia tematicamente che a livello musicale in mille direzioni. La voce è sempre stata una delle carte vincenti di Lisa Hannigan, sin dai tempi in cui era la seconda voce nei primi dischi del conterraneo Damien Rice, ma nei suoi album solisti ha saputo sviluppare uno stile musicale e compositivo che se non è originale è sicuramente affascinante. In passato si erano fatti paralleli con Jesse Sykes, Vashty Bunyan, Bjork, Tori Amos, Kate Bush, Fiona Apple, Marissa Nadler e molte altre, io, dopo un attento’ascolto dei brani di questo album, oltre ai nomi appena ricordati mi sentirei di azzardare anche il folk delle Unthanks, o la musica delle Roches Kate & Anna McGarrigle, visto che spesso la Hannigan usa la voce sovraincisa con il double-tracking e quindi sembra di ascoltare diverse cantanti in azione in contemporanea, peraltro con eccellenti risultati, ed atmosfere sonore e vocali sempre differenti e complesse, quasi dark, lasciando da parte quasi totalmente anche quelle derive pop, sia pure eccentriche, presenti negli album precedenti.

Il disco, dopo il precedente Passenger prodotto da Joe Henry, vede in cabina di regia Aaron Dessner dei National. che si era offerto spontaneamente di collaborare con la Hannigan, e dopo un fruttuoso incontro preliminare in quel di Copenaghen, per scambiarsi idee e bozzetti. il tutto è stato registrato in quel di Hudson, New York. Le canzoni sono state concepite tra Dublino, Parigi, dove ha vissuto per qualche mese, e Londra, che per un breve periodo è stata la residenza di Lisa, che vi si era trasferita per superare un blocco dello scrittore (ma “writer’s block” suona meglio) che l’aveva colpita dopo la fine del lungo tour seguito al secondo album. Il trasferimento a Londra deve essere stato un mezzo shock perché le canzoni, almeno dai titoli, non suonano felicissime: Prayer For The Dying, We The Drowned (questa anche di carattere marino), Funeral Suit, mentre l’iniziale Fall porta pure la firma di Joe Henry, ed è anche uno dei brani più vicini come stile al passato, il testo si apre su un  desolato e criptico “Hold your horses, hold your tongue/ Hang the rich but spare the young.”  Con la sua solitaria acustica arpeggiata, una melodia fragile ma che si ravviva leggermente nel ritornello, la voce raddoppiata quasi sussurrata che inizia ad incantare con i suoi deliziosi svolazzi, e poco altro, una elettrica e delle tastiere sullo sfondo, il tutto con un leggero tempo di valzer che pare il ritmo predominante dell’album. Prayer For The Dying è splendida, una commovente canzone mistica, quasi religiosa, come suggerisce il titolo, una sorta di Ave Maria contemporanea, con la voce, di nuovo double-tracked, che sale e scende su una base di piano acustico, tastiere e chitarre slide trattate, una ritmica appena accennata e un’aria di sereno dolore che la pervade, veramente molto bella.

Snow, di nuovo intima e raccolta, ricorda certe cose di Bjork o Kate Bush, la voce a tratti finalmente in solitaria può rammentare anche quella della Dolores O’Riordan prima della svolta rock dei Cranberries o della Sinead O’Connor meno incasinata, con violino in evidenza e un mood irlandese che rafforza questa impressione, mentre Lo, scritta con Aaron Dessner, si appoggia su una cascata di strumenti a corda e tastiere, la solita leggera elettronica e le voci moltiplicate che possono avvicinarsi a quelle di altre cantautrici complesse come Tori Amos Sarah McLachlan, ma anche le Roches, le sottovalutate sorelle newyorkesi. Con Undertow, che grazie alla sua struttura complessa e fruibile ricorda la migliore Kate Bush, con la voce che fluttua su una melodia futuribile dove però fa capolino anche un banjo e Ora, di nuovo firmata con Dessner, che tenta un approccio più bucolico, avvicinandosi a certe splendide e acrobatiche ballate pianistiche delle sorelle McGarrigle, impressione ancora più percepita da chi scrive, nella meravigliosa Anahorish, meno di due minuti di sola voce a cappella raddoppiata e triplicata per musicare un poema del premio Nobel irlandese Seamus Heaney, da brividi.

Ma prima incontriamo le derive acquatiche e marittime della pianistica We, the drowned, dove una batteria quasi marziale sottolinea l’incedere appassionato della voce incredibile e emozionante della Hannigan, ancora una volta protagonista di quella che è comunque, volendo, anche una bella ballata tra classico e pop, raffinata ma “popolare”, con l’inizio che mi ha ricordato addirittura A Day In The Life dei Beatles (e credo sia un grande complimento). Tender, di nuovo pianistica, ma con un tocco mitteleuropeo grazie alla fisarmonica, mischia arie francesi (o canadesi, come facevano le più volte citate grandi sorelle McGarrigle) e la migliore tradizione delle cantautrici britanniche più raffinate in un tutt’uno che poi alla fine è unico ed esclusivo della musica della Hannigan, geniale artigiana creatrice, insieme a Dessner, di un sound di non facile ascolto ma che regala grandi soddisfazioni all’ascoltatore, come nella splendida ballata Funeral Suit, altra canzone gloriosa che riecheggia anche le ascensioni vocali di quella splendida cantante che è stata Mary Margaret O’Hara (chissà se vorrà ancora deliziarci prima o poi?). In conclusione l’ultimo brano scritto con Dessner, Barton, altra misteriosa e notturna composizione degna delle migliori cantautrici. Ripeto, musica non facile, ma che ascolto dopo ascolto si arricchisce di nuovi particolari e gratifica l’ascoltatore. Ovviamente se amate solo il riff e rock lasciate perdere, se i vostri gusti sono più eclettici potete provare. Esce oggi.

Bruno Conti

Un Fiume Di Note Poetiche E Notturne ! Willie Nile – If I Was A River

willie nile if i was a river

Willie Nile – If I Was A River – River House Records/Blue Rose Records/Ird

Avendo avuto la fortuna di vederlo dal vivo (in uno dei tanti concerti tenuti nel nostro paese), ho sempre considerato Willie Nile un piccolo folletto di altri tempi, con un’energia rock difficile da contenere in un giubbotto di pelle. Nile viene da Buffalo, ed è una delle più felici fusioni tra cultura beat, pop e letteratura, uscita dalle parti del Greenwich Village. Sicuramente a questo ha contribuito anche la musica respirata in famiglia: un nonno pianista, un vecchio zio appassionato di “boogie”, con i fratelli “malati” di Fats Domino e i Rolling Stones, hanno fatto di Willie (al secolo Robert Noonan) un songwriter che, sul finire degli anni ’70, ha avuto le carte in regola per esplodere nella scena rock dell’epoca (complice anche una infatuazione per Dylan e Springsteen).

willie nile + springsteen

Ingaggiato dall’Arista, esordisce con l’omonimo Willie Nile (80), composto da undici ballate elettriche dal suono marcatamente ritmico https://www.youtube.com/watch?v=x9QJBFt9WdA , a cui ha fatto seguire a breve distanza Golden Down (81) un disco più maturo, acclamato da stampa e pubblico https://www.youtube.com/watch?v=x9QJBFt9WdA . Causa una lunga controversia e la rottura con la casa discografica, passano dieci anni prima di essere messo sotto contratto con la Columbia ed uscire con un disco di valore come Places I Have Never Been (91), ricco di energia e ballate di grande spessore come la title-track https://www.youtube.com/watch?v=-KqXgNzMIhk , Rite Of  Spring e Heaven Help The Lonely (supportate da ospiti prestigiosi, tra i quali Roger McGuinn, le sorelle Roche, Loudon Wainwright III e Richard Thompson). Eventualmente li trovate tutti qui:

willie nile arista columbia recordings

Dopo un’altra pausa arriva il primo disco dal vivo, Archive Live! Live In Central Park (97), seguito da un lavoro autoprodotto come Beautiful Wreck Of The World (99), album di buona fattura ma ormai destinato ai soli appassionati. Passano ancora sette anni prima che Nile ricompaia con l’eccellente Streets Of New York (06) e il conseguente CD+DVD Live From The Streets Of New York (08), riscoprendo una seconda carriera con un “trittico” di piccoli capolavori come House Of A Thousand Guitars (09), The Innocent Ones (10) e l’ultimo lavoro in studio American Ride (13).

WillieNile-AmericanRide

Per questo nuovo lavoro If I Was A River, il buon Willie accantona la sua amata “Stratocaster” per un pianoforte “Steinway” (lo stesso che suonava agli inizi di carriera), ed accompagnato da pochi musicisti (ma di qualità), tra cui il leggendario chitarrista Steuart Smith (Eagles, Rodney Crowell, Rosanne Cash), il multi strumentista David Mansfield (veterano di lungo corso con Bob Dylan e Johnny Cash), al mandolino e violino e Frankie Lee alle armonie vocali e coautore di alcuni brani, ci propone un disco diverso, un album di ballate solo voce e piano e poco altro. Il “fiume di note” si apre con la bellissima title track If I Was A River, una canzone d’amore cantata con la rabbia di Springsteen e suonata alla Randy Newman https://www.youtube.com/watch?v=_ikxC6mwuCI , così come le seguenti Lost e le toccanti folk-irish Song Of A Soldier e Once In A Lullaby, impreziosite dalla chitarra e dal mandolino di Smith e dal violino di Mansfield.

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Il lavoro prosegue con la dissacrante cantilena di Lullaby Loon, la solenne e maestosa Gloryland, la quasi recitativa I Can’t Do Crazy (Anymore), per poi passare alla scanzonata Goin’ To St.Louis https://www.youtube.com/watch?v=BL6P1QVcxl4 , alle delicate e struggenti note pianistiche di The One You Used To Love, e terminare il viaggio, come l’aveva iniziato, con un testo che si ricollega alla title track, un brano come Let Me Be The River suonato in punta di dita da un magnifico pianista, come ha dimostrato di essere per questo lavoro Willie Nile https://www.youtube.com/watch?v=vTpynzBbOK0 . La rinascita artistica del signor Robert Noonan non accenna a fermarsi, e questo If I Was A River (anche se è distante dal repertorio più amato dai suoi “fans”), breve ma intenso, è un disco che ti conquista, che non vorresti mai togliere dal lettore, che ti rimane dentro (da segnalare anche l’artwork  con scatti in bianco e nero), da ascoltare in queste fredde e umide serate invernali (possibilmente in dolce compagnia).!

Tino Montanari

Quattro Belle Voci! Jennifer Crook, Elle Osborne, Megan Henwood & Lucy Wainwright Roche

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Come promesso eccomi qua con la segnalazione di quattro belle voci femminili, tre dall’Inghilterra e un’americana, per usare un eufemismo “poco conosciute” ma molto piacevoli.

Direi di partire con Jennifer Crook che mi sembra la più interessante del lotto: questo Merry-Go-Round, etichetta Transatlantic Roots (un nome, un programma), è il suo secondo album e se devo fare un paragone il primo nome che mi viene in mente è quello di Eddi Reader (peraltro presente nel disco) o, in altri ambiti musicali, anche Rumer o Eva Cassidy possono venire in mente per l’assoluta “naturalezza” della voce unita a un semplice stile folk che ogni tanto si impreziosisce di gradevoli coloriture pop. La produzione è affidata a Boo Hewerdine, già di per sé marchio di garanzia, che duetta con Jennifer Crook in una bella Baltimore accreditata ad entrambi.

Molto bella anche Cowboys questa volta in duetto con Darrell Scott, in prestito dai Band Of Joy, con la sua voce e chitarra. E che dire della unica cover presente, One Little Song firmata da Gillian Welch? Delicata e deliziosa! Con la seconda voce della già citata Eddi Reader. Lei si accompagna alla chitarra acustica e all’arpa, ma ci sono anche hammered dulcimer, contrabbasso, Mellotron, piano, il dobro e il mandolino di Scott e di tanto in tanto una “discreta” sezione ritmica. Molto brava, se amate le voci folk con quel guizzo in più di classe.

Megan Henwood ha esordito un mesetto fa su Dharma Records con questo Making Waves: altra bellissima voce, anche qui i ritmi e le improvvise aperture strumentali ricordano la già citata Rumer, (che è il nuovo “fenomeno” inglese e di cui a fine anno è atteso un disco di cover e di cui vi ho parlato in questo Blog quando in Italia non se la filava nessuno perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul.html). Per esempio nella coinvolgente Hope On The Horizon con il bassista dei Jamiroquai Nick Fyffe e Barriemore Barlow dei Jethro Tull come sezione ritmica.

Ma la Henwood viene più dal folk e non per nulla la BBC Radio 2 le ha assegnato lo Young Folk Award e lei ha già cantato al Festival di Cambridge e a Cropredy con i Fairport. Nel disco suonano anche Peter Knight il violinista degli Steeleye Span e la coppia padre-figlia Joe e Sam Brown all’ukulele e backing vocals e le atmosfere oscillano anche qui tra folk e cantautorato di qualità.Se volete verificare, potete ascoltare alcuni brani nel suo sito http://meganhenwood.com/.

Delle tre sicuramente la più vicina alla “tradizione” è Elle Osborne, al secondo disco (dopo una pausa di quasi dieci anni) questo So Slowly Slowly Got She Up ci presenta una voce “importante”, nel sentiero della musica folk britannica, tra June Tabor o Maddy Prior e le più “moderne” Unthans, il repertorio pesca tra brani traditionals piuttosto oscuri e sconosciuti. L’etichetta è sintomatica del genere, Folk Police Records, tra promessa e minaccia. Si accompagna al violino e tra i musicisti presenti il nome più “noto” è l’ottimo Alasdair Roberts che se amate il genere e non conoscete vi consiglio vivamente insieme a questo.

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Lei è del ramo americano della famiglia Wainwright, Lucy che fa Roche di secondo cognome come la mamma aveva eroicamente resistito alla musica che scorre in famiglia dedicandosi per molti anni all’insegnamento, poi circa tre anni fa ha iniziato a pubblicare un paio di EP che si chiamavano entrambi 8 Songs e ora la figlia di Loudon Wainwright III e Suzzy Roche approda al suo primo album. Inutile dire che entrambi i genitori sono presenti come pure le zie Roches, in una preziosa versione di America di Paul Simon che brilla per le fantastiche armonie vocali di famiglia ed è uno dei brani migliori dell’album. Anche il resto non è male: non ha una voce memorabile ma comunque molto piacevole, scrive belle canzoni e si fa accompagnare dalle Indigo Girls, da Steuart Smith, David Mansfield e Kelly Hogan, duetta con Ira Glass nella cover di Say Yes di Elliott Smith che è la bonus track dell’album, scrive gli altri dieci brani di questo Lucy (etichetta Strike Back Records) e si fa produrre dal concittadino newyorkese Stewart Lerman che ha lavorato con Roches e Wainwright ma anche Willie Nile, Antony and the Johnsons, Black 47, Darden Smith, David Byrne tanto per citarne alcuni e dona una patina di classe alle procedure. Nessun segno dei “fratelli” Martha e Rufus con cui peraltro si è esibita spesso dal vivo. Una gradevole aggiunta al menu familiare! Se vi mancava, l’ha fatta anche lei con Rufus, qualità video non eccelsa ma…

Questo è quanto. Più che di “carbonari” questa volta parlerei di “Carbonare” come categoria. Tutti i dischi sono già usciti e disponibili, basta cercarli. Se amate la voce femminili magari non molto conosciute ma di qualità. La ricerca continua, alla prossima!

Bruno Conti