Si Sa Che Le Piante Grasse Hanno Vita Lunga! Cactus – Tightrope

cactus tightrope

Cactus – Tightrope – Purple Pyramid/Cleopatra CD

Non so in quanti si ricordino dei Cactus, gruppo di Long Island formato nel 1969 dall’ex sezione ritmica dei Vanilla Fudge, ovvero il bassista Tim Bogert ed il batterista Carmine Appice (*NDB Io si! https://discoclub.myblog.it/2016/10/28/ci-riprovano-lennesima-volta-cactus-black-dawn/ ) . Fautrice di un hard rock con copiose iniezioni di blues (che li aveva fatti definire da qualche critico troppo entusiasta “i Led Zeppelin americani”), la band ebbe il suo momento di gloria dal 1969 al 1972, con la pubblicazione di quattro album che diedero loro una discreta popolarità; poi Bogert e Appice si unirono al grande Jeff Beck per registrare il seminale Beck, Bogert & Appice ed il gruppo si dissolse. Una prima reunion si ebbe nel 1976 per mano del cantante originale Rusty Day, ma la nuova formazione non consegnò alcunché ai posteri: per avere un nuovo album dei nostri bisognerà attendere il 2006 quando i redivivi Bogert e Appice (insieme anche al chitarrista originale Jim McCarthy, ex Detroit Wheels) pubblicheranno Cactus V, un lavoro peraltro abbastanza ignorato, cosa che peraltro capiterà anche a Black Dawn, uscito nel 2016.

Ora a sorpresa la band dello stato di New York ritorna con Tightrope, il loro settimo lavoro in studio: Appice è ormai rimasto l’ultimo tra i membri originali (Bogert ci ha lasciato nel gennaio di quest’anno, ma non faceva più parte del gruppo già da anni) e si è circondato di onesti mestieranti come il chitarrista Paul Warren (per anni con Rod Stewart), il bassista Jimmy Caputo, l’armonicista Randy Pratt ed il cantante Jimmy Kunes, con McCarthy che si limita ad una comparsata in un paio di canzoni. Devo dire in tutta sincerità che non mi aspettavo nulla di buono da questo nuovo lavoro della band, sia perché Appice è uno che per soldi suonerebbe anche nella sigla di Peppa Pig, sia per il fatto che il gruppo in sé è formato da comprimari, ed anche perché la Cleopatra (etichetta di Los Angeles che distribuisce il CD) spesso non è garanzia di qualità. Invece in parte mi devo ricredere: Tightrope non è certamente un capolavoro, ma neppure una ciofeca, ed in poco più di un’ora (forse anche venti minuti in meno sarebbero bastati) riesce ad intrattenere con una bella dose di rock-blues di matrice hard, un suono decisamente robusto che negli anni 70 andava per la maggiore.

Appice sarà quello che sarà, ma quando si siede ai tamburi picchia ancora come un fabbro, Kunes è un cantante sufficientemente potente ed espressivo e le parti chitarristiche non sono disprezzabili, anche se qua e là i suoni sono un po’ tagliati con l’accetta. Si parte in maniera potente con la title track, rock-blues roccioso con reminiscenze zeppeliniane sia nel sound che nel cantato: forse il songwriting non è proprio di prima scelta ma lo scopo viene comunque raggiunto grazie ad una buona tecnica ed una discreta dose di feeling. Papa Was A Rolling Stone è proprio la vecchia hit dei Temptations, anche se qui il pezzo viene completamente stravolto diventando una rock song sanguigna alla quale l’armonica dona un sapore blues; All Shook Up invece non è quella di Elvis ma una canzone nuova, un rock’n’roll con chitarre al vento e steroidi a mille, mentre Poison In Paradise è una riuscita ballatona elettrica dai forti umori blues, notturna, cadenzata e sinuosa.

Con Third Time Gone si torna a pestare duro, ma il suono di fondo ha forti connessioni southern, a differenza delle solide Shake That Thing e Primitive Touch che rimandano ancora all’ex gruppo di Page & Plant, pur non raggiungendo gli stessi livelli di eccellenza (e ci mancherebbe). Preaching Woman Man Blues è appunto un buon blues saltellante, adatto per la voce arrochita di Kunes ed abbastanza coinvolgente grazie anche all’ottima prestazione di tutta la band; Elevation, puro hard rock ancora dalle tinte blues, porta al pezzo centrale del CD, ovvero la lunga Suite 1 And 2: Everlong, All The Madmen, rock ballad soffusa e quasi psichedelica che rimanda decisamente al sound di fine sixties, con la chitarra di Warren che nel finale si erge a protagonista assoluta. La vivace Headed For A Fall, puro blues dal ritmo acceso, ed il rock anni 70 di Wear It Out chiudono un disco che, pur non essendo affatto imprescindibile, è molto meglio di quanto avessi previsto.

Marco Verdi

Una Sorprendente Dinamo Rock-Blues Nera. Skykar Rogers – Firebreather

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Skylar Rogers – Firebreather – Self-released CD/Download

Viene da Chicago, ma opera con la sua band, i Blue Diamonds, nell’area di St. Louis, dove è stato registrato questo Firebreather, che è il suo esordio, a parte un EP uscito nel 2019 Insecurities: stiamo parlando di Skylar Rogers, cantante nera che mescola orgogliosamente blues, soul, funky e molto rock, non per nulla tra le sue influenze cita Tina Turner, Etta James, Billy Joel, e Koko Taylor, tutte abbastanza comprensibili, a parte forse Billy Joel. Il disco consta di 10 tracce originali, niente cover, la band che la accompagna, un quintetto con due chitarre, basso, batteria e un tastierista, nomi poco conosciuti, ma comunque validi e tosti, anche se tutto ovviamente ruota intorno alla voce gagliarda e duttile della Rogers. Si parte subito forte con il rock-blues tirato di Hard Headed Woman, chitarra incisiva e ricorrente, organo scivolante, il resto della band ci dà dentro di gusto, il timbro vocale una via di mezzo tra Janis Joplin (o se preferite le sue epigone Beth Hart e Dana Fuchs, anche se non siamo per ora a quei livelli), Koko Taylor e la Tina Turner più rockeggiante https://www.youtube.com/watch?v=YtW5bE_Rmig , come ribadisce la robusta Back To Memphis, ancora potente e con la chitarra di Steven Hill sempre in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=qPGItqPBkuc  .

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Work è più funky, anche se i ritmi rock sono sempre prevalenti, con l’organo che cerca di farsi largo, Like Father Like Daughter il singolo estratto dall’album è sempre molto riffata, addirittura con elementi southern nella struttura del brano e la solista che imperversa sempre https://www.youtube.com/watch?v=m7kj_qZ7cnU , ma la “ragazza” ha classe e quando i tempi rallentano come nella bellissima soul ballad Failure, le influenze di James e Taylor hanno modo di essere evidenziate e la vocalità si arricchisce di pathos, con l’organo che si spinge dalle parti di Memphis https://www.youtube.com/watch?v=bQeUxLGSsCc . Però il genere che si predilige nell’album è sempre abbastanza duretto, come ribadisce la tirata title track, sempre in odore di blues-rock, con chitarra quasi hard e organo ad inseguirsi, mentre basso e batteria pompano energicamente e Skykar canta con grande forza https://www.youtube.com/watch?v=NKMOc4glugs , con Movin’ On che viceversa ha retrogusti gospel su un tempo scandito, coretti e battiti di mano accattivanti per un call and response godurioso, mentre la melodia è affidata all’organo https://www.youtube.com/watch?v=encBYeZcv28 .

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Thankful è una blues ballad pianistica, sempre con le linee fluide e sinuose della solista a fare da contrappunto alla energica interpretazione della Rogers che poi lascia il proscenio a un drammatico e vibrante assolo della chitarra, atmosfera che si ripete nello slow blues Drowning, altro brano che ruota attorno al dualismo tra la voce accorata di Skylar e la parte strumentale con chitarra e organo sempre sugli scudi https://www.youtube.com/watch?v=m7kj_qZ7cnU . E per concludere non manca anche un tuffo nel rock and soul di marca Motown di Insecuties, molto piacevole e disimpegnato, che comunque conferma il talento di questa nuova promessa che potrebbe diventare un ancora maggior concentrato di potenza in futuro, magari affidata ad un produttore di pregio in grado di orientarla più verso le sonorità più raffinate espresse in Failure. Per ora da tenere d’occhio, anche se, manco a dirlo, la versione in CD dell’album è costosa e di difficile reperibilità.

Bruno Conti

Non Solo Blues Per La Talentuosa Ed Eclettica Cantante Canadese. Layla Zoe – Nowhere Left To Go

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Layla Zoe – Nowhere Left To Go – Layla Zoe Music

Verso la metà della scorsa decade, tra il 2016 e il 2017, Layla Zoe ha goduto di una improvvisa ed inaspettata popolarità, almeno tra gli appassionati, venendo nominata Best Vocalist Of The Year agli European Blues Award, pur essendo canadese e, aggiungo io, non proprio più una giovane promessa (all’epoca aveva superato già i 35 anni e facendo due calcoli, essendo nata a Victoria B.C, Canada sul finire degli anni ‘70, non è dato sapere la data esatta, ha superato oggi i 40): si diceva della fama in quegli anni, generata da due ottimi album usciti per la Ruf, uno in studio e un Live, oltre al collettivo Blues Caravan 2016, insieme a Tasha Taylor e a Ina Forsman, che considero la migliore del trio, ma anche Layla ha parecchie frecce al suo arco https://discoclub.myblog.it/2017/03/05/ancora-una-volta-lunione-fa-la-forza-ina-forsman-tasha-taylor-layla-zoe-blues-caravan-2016-blue-sisters-in-concert/ , sviluppate in una carriera di oltre 25 anni e 15 album pubblicati, incluso questo nuovo Nowhere Left To Go, che la vede tornare alla distribuzione in proprio, come nei primi anni, e quindi con reperibilità abbastanza scarsa.

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La Zoe è in possesso di una voce potente ed espressiva, diciamo dalle parti di Beth Hart e Dana Fuchs, due ragazze cresciute a pane e Janis Joplin, e anche Zoe si ispira parzialmente a quell’approccio, ma inserisce anche tematiche più hard, i Led Zeppelin e ovviamente Robert Plant sono due modelli, ma non manca l’amore per soul e R&B, qualche tocco gospel e tanto blues. Come autori e musicisti Layla si fa aiutare da alcuni altri talenti emergenti come Jackie Venson, una cantante e chitarrista texana di quelle toste, Alastair Greene, altro chitarrista e cantante californiano, il conterraneo Dimitri Lebel, tutti presenti nell’album, insieme ad altri musicisti canadesi e olandesi che hanno dato il loro contributo da remoto, causa pandemia, visto che il disco è stato realizzato durante il 2020 ed esce ad inizio 2021, uno dei primi, ma il risultato è comunque organico e caldo, come si evince dalla intensa Pray, scritta con la Venson, e dalle chiare influenze gospel, una vivida canzone pianistica dove si gusta la voce poderosa della Zoe, irrobustita da cori di supporto e un organo hammond old school https://www.youtube.com/watch?v=ErgsFlJysnY , mentre la title track, firmata sempre con la Venson vira verso il blues (rock) per un mid-tempo robusto e roccioso, con le chitarre che “riffano” di gusto e Layla che inizia a dare libero sfogo alle sue emozioni, prima di lasciare spazio ad un assolo grintoso  https://www.youtube.com/watch?v=s74hqwj3CqQ .

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Sometimes We Fight è una deep soul ballad, di nuovo con uso organo e un bel assolo di armonica https://www.youtube.com/watch?v=y0G2em_beIM , Don’t Wanna Help Anyone, scritta con Greene, che si dà da fare alla solista, illustra il lato più duro, tra Hendrix e Zeppelin, con chitarre a manetta https://www.youtube.com/watch?v=VB7WpWvBp_E , This Love Will Last con Lebel, rivela di nuovo influenze di musica nera, un R&B sempre intinto da elementi rock nella voce, che si fa più tenera ma assertiva nel barrelhouse blues pianistico di Susan, più jopliniano e di nuovo rock a manetta nella funky Little Boy, dove Layla lascia andare di nuovo la voce, che ritorna di nuoo più tenera e naturale, meno esagerata, nella deliziosa Might Need To Fly, che comunque si anima in un bel crescendo che culmina in un ruvido assolo di chitarra https://www.youtube.com/watch?v=CeKJO0IiDdM . Lies, dove la Zoe è accompagnata solo dal suono di un contrabbasso, si avventura in atmosfere più jazzy e raffinate https://www.youtube.com/watch?v=ddz9cP48yC8 , per chiudere con Dear Mom, una incantevole canzone dove chitarra acustica, mandolino e violino illustrano questo lato più roots della nostra amica, a suo agio anche in un ambito più raccolto https://www.youtube.com/watch?v=OONF5zIxPzw . Non solo blues quindi, per una cantante talentuosa ed eclettica.

Bruno Conti

Era Già Malandato Da Tempo, E Alla Fine Ci Ha Lasciato Anche Leslie West, Aveva 75 Anni.

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In seguito ad un attacco di cuore nella giornata del 20 dicembre, Leslie West era stato ricoverato in un ospedale di Palm Coast, vicino a Dayona in Florida, dove viveva il musicista: ma non si è più ripreso ed è morto il 22, anche se la notizia è stata confermata solo tra ieri e oggi.

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Leslie Weinstein era nato a New York nell’ottobre del 1945 e poi era cresciuto tra Forest Hills e il New Jersey, prima di iniziare già nel 1965 una carriera con i Vagrants, tra i precursori di quello stile tra garage e psych-rock che poi sarebbe stato tramandato da Lenny Kaye nella sua famosa compilation Nuggets, nella quale il gruppo appariva con la cover di Respect, il grande brano soul di Otis Redding, trasformato in un robusto brano garage, dove già si apprezzava la chitarra di Leslie West https://www.youtube.com/watch?v=qr8b5ksAyL4 . Per i casi del destino il primo produttore della band fu proprio Felix Pappalardi, che poi avrebbe iniziato una fruttuosa collaborazione con Leslie nei Mountain, gruppo che aveva preso il nome dal primo album solista di West Mountain, mutuato anche dalle gigantesche fattezze del nostro, che brandiva le chitarre come fossero degli stuzzicadenti, ma le sapeva suonare come pochi: uno dei più fedeli seguaci del power trio style che proprio Pappalardi aveva contribuito a creare.

Bethel, New York: August 1969. Woodstock Music Festival. Leslie West and Mountain performing. ©Tom Miner / The Image Works NOTE: The copyright notice must include "The Image Works" DO NOT SHORTEN THE NAME OF THE COMPANY

Bethel, New York: August 1969. Woodstock Music Festival. Leslie West and Mountain performing. ©Tom Miner / The Image Works NOTE: The copyright notice must include “The Image Works” DO NOT SHORTEN THE NAME OF THE COMPANY

Senza stare a fare una lunga disamina, ma comunque approfondita, dell’operato della band,  sicuramente i Mountain sono stati, per alcuni anni, tra i migliori portatori sani di quel blues-rock robusto e roccioso, ma non privo di finezze, che era uno dei generi di riferimento dell’epoca. Nel primo album solista del luglio del1969 ricordato poc’anzi Pappalardi non era ancora entrato in pianta stabile nella formazione, ma agiva come produttore e bassista, in una band che Rolling Stone aveva identificato come “louder than Cream”; comunque era un bel sentire, nel repertorio c’erano già brani come Blood Of The Sun, Long Red e una cover di This Wheel’s On Fire di Dylan. A metà di agosto erano già a Woodtsock, dove presentarono in anteprima quello che sarebbe diventato uno dei loro cavalli di battaglia, la splendida Theme From An Imaginary Western, un brano scritto da Pete Brown e Jack Bruce, uscito su Songs For A Taylor dell’ex Cream, una power ballad dalla meravigliosa melodia, che nella versione dei Mountain è diventato uno dei grandi pezzi rock degli anni ‘70 https://www.youtube.com/watch?v=GNOzw8ufhxE , e sempre al Festival presentarono una versione colossale di Dreams Of Milk And Honey di oltre 16 minuti, presente nel primo album, dove si apprezzava lo stile chitarristico “grasso” (scusate) e dirompente che avrebbe sempre caratterizzato la sua futura carriera  . L’anno dopo esce nel 1970 esce Climbing! Che contiene la potentissima Mississippi Queen, una esplosione di pura potenza sonora, dove se West e Pappalardi non raggiungono i vertici di Clapton e Bruce, anche perché Corky Laing non era un batterista all’altezza di Ginger Baker, furono un buon surrogato e dei discepoli del leggendario trio inglese https://www.youtube.com/watch?v=VbP4qf8PjfI .

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Pappalardi, con la moglie Gail Collins, e spesso lo stesso Leslie scrivevano anche delle ottime canzoni, tipo la raffinata For Yasgur’s Farm sempre da Climbing! https://www.youtube.com/watch?v=pZwv8wH-C0Q , ma la loro forza era nel sound da colosso, da montagna, della band al completo, e anche se già il disco del 1970 entrò nella Top 20, fu con Nantucket Sleighride del 1971 che raggiunsero il massimo successo, grazie a brani come la title track, e l’anno dopo con Flower Of Evil, metà in studio e metà dal vivo, con il lungo tour de force di 25 minuti della Dream Sequence https://www.youtube.com/watch?v=p8iGat21cJE  e di Mississippi Queen, e nella parte in studio con un bellissimo brano della coppia Pappalardi/Collins One Last Cold Kiss https://www.youtube.com/watch?v=uQwldCpm91U , poi ripreso anche dal grande Christy Moore. Nel 1972 esce ancora l’ottimo Live: The Road Goes Ever On, con una fantastica e lunghissima Stormy Monday che illustrava l’amore per il blues di Leslie West, non un mero casinaro, ma un chitarrista della tecnica notevole con grande controllo di toni, livelli e vibrati, tanto che Martin Lancelot Barre, Ritchie Blackmore e altri hanno detto che qualche ideuzza l’hanno rubata al nostro amico e Pete Townshend era un fan e un amico.

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Dopo la pausa dei tre dischi come West Bruce Laing, due in studio ed uno Live, tra il 1972 e il 1974, buoni ma non eccelsi, comunque sempre dell’ottimo rock-blues https://www.youtube.com/watch?v=sRwFVkMymsI , West e Pappalardi, appianate le loro divergenze, provano un secondo disco con Avalanche e il doppio live Twin Peak. Leslie periodicamente ha provato a riattivare la vecchia ragione sociale, ma senza grandi risultati, mentre la carriera solista è proseguita tra alti (non molti) e bassi (parecchie di più, senza mai scadere nella parodia di sé stesso). Nel 2011, a causa dei suoi problemi con il diabete, ha subito l’amputazione della parte bassa della gamba destra, ma ha ripreso con orgoglio a fare musica, realizzando un paio di dischi di buona fattura, Still Climbing nel 2013 e Soundcheck nel 2015, ricco di ospiti https://discoclub.myblog.it/2015/11/21/manca-gamba-la-grinta-leslie-west-soundcheck/ . E di questi giorni è la notizia che purtroppo “la Montagna è crollata”, possa Riposare In Pace.

Bruno Conti

Il Solito Album, Bravo Chitarrista Ma Non Basta. Tyler Bryant & The Shakedown – Pressure

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Tyler Bryant & The Shakedown – Pressure – Snakefarm/Spinefarm Records/Universal

Avendo recensito in pratica tutti i precedenti album di Tyler Bryant con i suoi Shakedown https://discoclub.myblog.it/2019/08/29/per-gli-amanti-del-rock-robusto-magari-non-raffinatissimo-tyler-bryant-and-the-shakedown-truth-and-lies/ , proseguo con il filotto anche con questo quarto Pressure, e non posso che ripetermi: le potenzialità ci sarebbero, la band texana, ma di stanza a Nashville, ha tutte le carte in regola per fare del buon rock, un chitarrista, lo stesso Tyler, non ancora trentenne, considerato tra i migliori axeman in circolazione, sponsorizzato agli inizi da Jeff Beck, con un sound che però rimane sempre pericolosamente in bilico tra blues-rock e hard-rock, pendendo però verso il secondo, grazie anche alle frequentazioni verso il circuito live di questo genere (anche se ora si sono dovute fermare le tournéè ovunque) e Bryant e soci, durante la quarantena hanno deciso di registrare questo nuovo album, proprio a casa di Tyler: nuovo bassista Ryan Fitgerald, mentre il batterista Caleb Crosby e il secondo chitarrista Graham Whitford (figlio di Brad degli Aerosmith) rimangono al loro posto. Nel nuovo album ci sono anche un paio di ospiti: Rebecca Lovell delle Larkin Poe (anche loro un duo secondo me irrisolto), che è la moglie di Bryant, e Charlie Starr dei Blackberry Smoke.

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L’iniziale Pressure a tutto riff e a tutto volume, dimostra che poco è cambiato, suono sempre tiratissimo e assolo di Tyler “esagerato”, che potrebbe indicare una sua candidatura al trono lasciato vacante da Eddie Van Halen, se amate il genere https://www.youtube.com/watch?v=UtuVZr1gzFA . Meglio la successiva Hitchhiker con il nostro amico che innesta il bottleneck per un brano dove il blues-rock prende il sopravvento, anche se la voce rimane sempre volutamente sguaiata https://www.youtube.com/watch?v=mZQ8xJEyjDk ; in Crazy Days arriva l’aiuto della Lovell alle armonie vocali, per un brano di rock classico che non è malaccio, una buona melodia e la solita tecnica alla slide del nostro amico. A seguire Backbone è un bluesazzo di quelli tosti e cattivi, con chitarra lavorata e soliti “omaggi” all’amato sound del maestro Jeff Beck (ma ce ne vuole), Holdin’ My Breath, pur con le evoluzioni della solista, rimane sempre dalle parti della metallurgia, anche con l’aiuto di Charlie Starr alla seconda voce e chitarra, benché alla fine non mi dispiaccia, la grinta non manca e anche una certa perizia, molto meglio di tanti carneadi che popolano queste latitudini sonore solo per fare casino, senza arte né parte https://www.youtube.com/watch?v=xhlX_Xp7o1I . E poi, ohibò, spunta addirittura una chitarra acustica per Like The Old Me, una sobria e malinconica ballata che illustra il lato più romantico del nostro amico.

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Da qui in avanti, forse per risparmiare sulle parole, tutti i titoli delle canzoni sono composti da una sola parola: una “riffatissima” Automatic che mi ha ricordato il vecchio classic rock anni ‘70 di Ted Nugent (ma non a quei livelli), Wildside, meno rocciosa e più vicina a un AOR di discreta fattura, sempre retto dal lavoro delle chitarre, Mysery è uno slow blues rock elettroacustico, sempre con uso slide, genere che gli vorremmo vedere frequentare con più impegno, esagero, qualche traccia dei vecchi Aerosmith https://www.youtube.com/watch?v=5xYKswewScc . Ma è un attimo, in Fuel ricominciano a picchiare riff a volontà, prima di placarsi di nuovo in Loner, che poi ha comunque un crescendo radiofonico nella seconda parte grazie a un bel lavoro della solista di Bryant. Fever ha di nuovo una partenza alla Beck, ma è il Jeff dell’ultimo periodo, quello che spesso si perde alla ricerca di inutili “modernismi” sonori e pure Tyler lo segue, per poi concederci una sobria Coastin’, con voce e slide alla ricerca del blues perduto. Insomma, bravo chitarrista, ma non basta.

Bruno Conti

Saluti Da Londra, Abbey Road. Joe Bonamassa – Royal Tea

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Joe Bonamassa – Royal Tea – Mascot/JR Adventures/Provogue

E’ passato pochissimo dall’uscita di A New Day Now, la riproposizione riveduta e corretta del suo album del 200https://discoclub.myblog.it/2020/08/29/una-edizione-riveduta-e-corretta-del-suo-primo-album-joe-bonamassa-a-new-day-now-20th-anniversary-edition/ , ma, come ormai tutti sanno, Joe Bonamassa una ne pensa e cento ne fa: bisogna trovare sempre qualche idea nuova, un “progetto” come dicono quelli che parlano bene. L’ultima pensata è stata quella di realizzare un disco ideato e concepito in Gran Bretagna, a Londra in particolare, l’estate scorsa, dedicato ai British Guitar Heroes (qualcuno dirà, ma non era già uscito British Blues Explosionhttps://discoclub.myblog.it/2018/05/13/uno-strepitoso-omaggio-ai-tre-re-inglesi-della-chitarra-joe-bonamassa-british-blues-explosion-live/ ).

Vero, ma ci sono neppure tanto  sottili differenze: quello era un disco dal vivo dedicato a cover di brani del repertorio di Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, questa volta Joe si è recato a Londra per respirarne l’aria e soprattutto collaborare con alcuni “luminari” come Bernie Marsden dei Whitesnake (ma prima anche negli UFO), il paroliere dei Cream Pete Brown, e il pianista Jools Holland (Squeeze, ma anche una leggenda della TV e radio inglese), per scrivere una serie di canzoni ispirate da quel mondo, e Bonamassa cita alcuni dei suoi idoli dell’epoca, i Bluesbreakers di Mayall con Eric Clapton, il primo Jeff Beck Group e i Cream. Ovviamente trovandosi a Londra si è pensato bene con il suo produttore Kevin Shirley di incidere l’album a Abbey Road, nel famoso Studio Uno, da dove partì la Mondovisione di All You Need Is Love dei Beatles, il tutto è stato completato a gennaio 2020, prima della partenza della pandemia, dieci canzoni nuove, registrate soprattutto con il nucleo della sua band, Anton Fig batteria, Michael Rhodes basso e Reese Wynans tastiere, visto che Bonamassa ha detto che per l’occasione si è privilegiato principalmente un sound più duro a tutto volume, con la musica che ha invaso anche gli altri studios di Abbey Road, pure quelli più austeri, dedicati alla musica classica.

Al solito ho recensito il disco molto prima dell’uscita prevista per il 23 ottobre, non avendo ancora tutte le notizie, ma le più importanti sì, e quindi sono andato anche a orecchio, come si dovrebbe. When One Door Opens è il primo pezzo dell’album, ma il secondo video uscito, già in circolazione da alcuni mesi: apertura con orchestra sinfonica, perché non approfittare delle facilities della location, poi una epica blues ballad lenta e scandita, maestosa, con l’orchestra che rimane, una voce femminile di supporto, presumo la solita Mahalia Barnes, con Joe che intona una bella melodia “classicamente” britannica, quasi da tema per un film di 007, in leggero crescendo, la chitarra che prima sottolinea il tema e poi rende omaggio ai musicisti che ascoltava nei vecchi dischi della collezione del padre, con un assolo che parte su un crescendo “boleriano” direttamente ispirato dal vecchio brano di Jeff Beck e poi vola in overdrive verso i lidi del rock più classico con un wah-wah di una potenza inusitata e ulteriore citazione zeppeliniana nel finale.

La title track Royal Tea è un rock-blues, sempre con voci femminili di supporto, l’organo di Wynans in evidenza e una atmosfera sonora tipica dei primi anni ‘70, con l’immancabile esuberante assolo di Bonamassa, mentre Why Does It Take So Long To Say Goodbye, il terzo singolo/video, è un altro bel lento, duro e scandito, con un lavoro raffinato della band, in supporto del cantato di Joe, sempre più sicuro ed appassionato, anche in questo caso con accelerazione finale e vigoroso finale chitarristico con la seconda solista di Marsden di supporto. Lookoout Man introdotta da un giro di basso fuzz, è decisamente più dura e vibrante, hard rock di buona fattura, con le coriste ed una armonica aggiunte per variare il repertorio, in attesa delle folate della solista. High Class Girl ci sarebbe stata benissimo in un disco di Mayall o dei Cream, un hard shuffle tipico del British Blues, con passate dell’organo di Wynans, un tocco di errebì nei coretti femminili e assolo di ordinanza.

A Conversation With Alice era stato il primo singolo ad uscire ad aprile, un travolgente rock and roll con uso di slide dall’eccellente impatto sonoro, seguita dall’orgia wah-wah di una veemente I Din’t Think She Would Do It, ritmo scandito ed impiego di differenti chitarre per dargli un tessuto sonoro avvolgente e accattivante. L’inquietante Beyond The Silence, introdotta dagli arpeggi di chitarre acustiche ed elettriche, poi si sviluppa in una canzone più gentile e ricercata, si può dire folk-prog? Seguita dalla fiatistica e swingante Lonely Boy, atmosfere tra jazz e R&B, divertente e scanzonata, anche grazie al piano di Wynans., e a chiudere la countryeggiante e deliziosa Savannah, con mandolino e slide accarezzata e una chiara variazione sulle tematiche principali del disco, preludio a Bonamassa Goes Country?

Si vedrà: per ora un ennesimo buon album dell’uomo di New York, An American In London!

Bruno Conti

Un Ennesimo Disco Di Rock Tosto Dello Smilzo! Too Slim And The Taildraggers – The Remedy

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Too Slim And The Taildraggers – The Remedy – Vizztone Label Group

Negli ultimi tempo, più o meno regolarmente ogni due anni, Tim Langford e soci ci regalano una nuova prova a nome Too Slim And The Taildraggers: il menu è sempre a base di blues rock robusto con elementi roots, proposto nella classica formula triangolare. Il leader, voce e chitarra, nonché autore dei brani, il bassista Zach Kasik, nel cui studio Wild Feather Recording di Nashville è stato registrato l’album, e il batterista Jeff “Shakey” Fowlkes, con la produzione del CD gestita collettivamente, sono i protagonisti. Stessa formazione del precedente High Desert Heat e anche stessa formula e stile https://discoclub.myblog.it/2018/06/30/il-calore-del-deserto-non-smorza-il-poderoso-rock-blues-chitarristico-di-langford-e-soci-too-slim-the-taildraggers-high-desert-heat/ : Last Last Chance è un boogie and roll, tra Chuck Berry e ZZ Top, con la voce roca e vissuta di Langford a guidare la band in un brano che ricorda anche gli Stones primi anni 70, rock tirato ma eseguito con classe e senza esagerazioni.

In She’s Got The Remedy il suono si indurisce, la voce viene filtrata ed il risultato forse non soddisfa del tutto, troppo carico, anche se l’assolo di wah-wah del buon Tim è veramente gagliardo, Devil’s Hostage è un bel rock-blues della scuola Billy Gibbons, anche a livello vocale, tempo cadenzato e chitarra tagliente, per un ottimo esempio di southern rock vecchia scuola, e l’assolo è veramente notevole, fluido e ruggente. Reckless, robusto groove alla Bo Diddley (più Mona che Who Do You Love), una armonica (Jason Ricci?) a doppiare la chitarra, in un drive che ricorda stranamente anche i primi Jethro Tull, Kasik alla voce, vira decisamente verso il blues, sempre con un eccellente lavoro di Langford che rilascia un altro assolo di quelli tosti https://www.youtube.com/watch?v=XlbQziHCUco ; Keep The Party Talkin’ cambia armonicista, qui Sheldon Ziro, e il riff, siamo dalle parti dei Canned Heat di On The Road Again, ma non la grinta e il tiro della band, che nella parte centrale accelera e lancia il nostro verso un altro assolo poderoso https://www.youtube.com/watch?v=KYRODR3bO0M .

Too Slim non scherza neppure quando si arma di bottleneck come nella cover di Sunnyland Train di Elmore James, dove va di slide alla grande, mentre in Sure Shot, con banjo d’ordinanza e atmosfere sospese ed inquietanti, si vira verso un sound decisamente più rootsy, con finale chitarristico di grande appeal https://www.youtube.com/watch?v=P4oLOMBwODE . Platinum Junkie, di nuovo cantata da Kasik, ha un ritmo decisamente funky, ancora con l’armonica in bella evidenza a duettare con la solista di Langford, sempre in agguato, mentre in Snake Eyes ancora con il banjo aggiunto alle operazioni, si torna al rock desertico del precedente album, con la solista che questa volta lavora di fino in continui rimandi, Think About That, con armonica sempre presente, è nuovamente orientata verso un blues elettrico dove la chitarra di Slim regna sovrana, e la conclusiva Half A World Away è l’unica concessione verso una ballata, diciamo più un mid-tempo consistente, che conferma la varietà di temi impiegati nell’albumda Too Slim And The Taildraggers, al momento una delle migliori band in ambito rock-blues. Gli amanti del genere sono avvisati.

Bruno Conti

Classico Rock-Blues Di Stampo Sudista. Mark May Band – Deep Dark Demon

mark may band deep dark demon

Mark May Band – Deep Dark Demon – Gulf Coast Records

Nativo dell’Ohio, ma trasferitosi quasi subito in Texas per svolgere la sua attività musicale, Mark May, un tipico esponente della scena locale di Houston, si è poco alla volta creato una notevole reputazione per essere uno dei migliori tra le nuove leve del southern rock, tanto che gli Allman Brothers, anche grazie al suo disco di debutto del 1995 Call Of The Blues, dove Mark già evidenziava le influenze di alcuni suoi preferiti come Albert Collins e Jimi Hendrix, lo vollero come gruppo di spalla nel loro tour del 1997/98, dove si conquistò il rispetto di Dicket Betts che poi lo prese come secondo chitarrista dei Great Southern in una successiva edizione della sua band, dove May ha perfezionato il suo stile con twin lead guitars, anche armonizzanti tra loro, mutuato dallo stile degli Allman. Con questo Deep Dark Demon, il settimo della serie, la Mark May Band approda alla Gulf Coast Records, l’etichetta di Mike Zito, che ultimamente grazie al suo occhio lungo per musicisti suoi spiriti affini in un blues-rock sanguigno e corposo, lo ha messo sotto contratto insieme, tra i tanti, a Albert Castiglia, autore di un eccellente Live https://discoclub.myblog.it/2020/05/09/un-album-dal-vivo-veramente-selvaggio-albert-castiglia-wild-and-free/ , e al quintetto poderoso dei Proven Ones https://discoclub.myblog.it/2020/06/16/una-nuova-band-strepitosa-tra-le-migliori-attualmente-in-circolazione-the-proven-ones-you-aint-done/ , ai link trovate le mie recensioni sul blog.

Sono con Mark May, voce e chitarra solista, rude e vissuta la prima, composita ed eclettica nelle proprie derive la seconda, il bassista Darrell Lacy, Brandon Jackson e Geronimo Calderon alla batteria, e il secondo chitarrista Billy Wells, altro manico notevole, perfetto contrappunto alle divagazioni soliste del nostro (senza dimenticare Zito che se serve dà una mano). Betts indica tra le influenze che intravede nel suo protetto, oltre a quelle citate poc’anzi, anche Stevie Ray Vaughan, Carlos Santana e sé stesso, tutte cose vere e verificabili all’ascolto del CD, dove contribuisce alla riuscita dell’album anche l’uso costante delle tastiere, organo in prevalenza, suonate dall’ottimo Shawn Allen. Undici brani in tutto, spesso tra i sei e i sette minuti di durata, in modo da consentire alla band consistenti divagazioni strumentali senza comunque entrare nel superfluo o nel virtuosismo fine a sé stesso, quindi sempre a a favore di un sound che tiene avvinto l’ascoltatore.

Si parte con una gagliarda e potente Harvey Dirty’s Side, allmaniana e superba nel suo dipanarsi, con costanti citazioni anche a Jimi Hendrix grazie all’uso prolungato del wah-wah, in una canzone che racconta le vicende legate all’uragano Harvey (e non a Weinstein come si poteva supporre), che devastò Houston nel 2017, e che le atmosfere ricche di pathos ben individuano, con un riff di apertura che è puro southern rock vecchia maniera con una slide malandrina, poi declamato in un rock-blues robusto, che immette anche elementi alla Led Zeppelin o soprattutto Gov’t Mule, con l’organo che inziga le chitarre di Mark May e del suo socio Billy Wells, in un call and response corposo, prima che venga innestato il pedale wah-wah a manetta e, come nelle buone tradizioni del genere, non si fanno prigionieri.

Non tutto l’album è ai livelli di questa apertura incendiaria, ma BBQ And Blues è un ondeggiante shuflle tra boogie-rock e 12 battute classiche, più leggero e scanzonato, comunque sempre di buona fattura, le armonizzazioni delle due soliste sono più contenute ma godibili, poi in Back si scatena una festa latina, senza Carlos, ma con lo spirito di Santana evocato dalle fluide linee soliste, spesso all’unisono, delle chitarre, e percussioni (Al Pagliuso) e tastiere a ricordare il sound del baffuto californiano; la title track è un tipico slow blues di quelli duri, puri e tosti, tra SRV e vecchio British Blues, sempre con soliste molto impegnate, mentre l’incalzante Sweet Music rimanda di nuovo ai duelli Allman/Betts o Haynes/Trucks con May che sfodera anche una interpretazione vocale degna di Gregg, altro brano di qualità sopraffina. Qualità che non scema neppure nella sinuosa Rolling Me Down, di nuovo con le chitarre “gemelle”, slide e tradizionale, in bella evidenza, sostenute da un pianino malandrino, prima di ribadire ulteriormente il migliore spirito southern della vecchia ABB nella lunga e superba My Last Ride, ritmo incalzante, grandi giri armonici e raffinato lavoro delle soliste, altro pezzo sopra la media.

Four Your Love inserisce anche elementi R&B, in una ballata che evidenzia l’eclettismo imperante in questo album, con un sax insinuante, suonato da Erik Demmer, e tocchi più morbidi, forse fuori contesto, benché non disprezzabili, comunque la MMB si riprende subito con le volute blues-rock gagliarde della nuovamente allmaniana Walking Out The Door, dove le chitarre urlano e strepitano ancora alla grande, sempre con raffinate improvvisazioni armoniche di pregiata eleganza e potenza al contempo, con May che poi nel finale parte per la tangente. Something Good è un’altra bella ballata sudista, questa volta di stampo più consistente, organo di ordinanza, voce che emoziona mentre intona la bella melodia, uso lirico e carezzevole della slide, e per non farsi mancare nulla nella conclusiva super funky Invisible Man Mark May cosa ti va a “inventare”, l’uso di un talk box che non sentivo dai tempi di Frampton e Joe Walsh, che unito al groove coinvolgente del brano fa venire voglia di muovere mani e piedi per seguire il ritmo. Come si suol dire, niente di nuovo, ma fatto molto bene, prendere nota.

Bruno Conti

Più Rock Che Blues Nonostante Il Titolo, Comunque Sempre Una Garanzia, Anche In Quarantena. Mike Zito – Quarantine Blues

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Mike Zito – Quarantine Blues – Gulf Coast Records

Quando qualche mese fa, durante il viaggio aereo di ritorno dal tour europeo annullato per le note vicende del virus, Mike Zito si è trovato a pensare cosa fare durante il lungo periodo di pausa, ha deciso all’impronta di registrare un nuovo album da “regalare” ai suoi fans, con l’avvertenza che chi voleva poteva fare anche una donazione per aiutare a livello economico sia i membri della band, come lo stesso Mike, e anche i loro familiari. La campagna come ho visto sul sito è andata bene, ha raggiunto gli obiettivi prefissati e ha permesso anche di finanziare i costi della registrazione dell’album. Per quanto Zito abbia uno studio di registrazione casalingo ed anche una etichetta personale, la Gulf Coast Records, per la quale di recente ha rilasciato l’eccellente CD dal vivo di Albert Castiglia https://discoclub.myblog.it/2020/05/09/un-album-dal-vivo-veramente-selvaggio-albert-castiglia-wild-and-free/ . Per la serie una ne pensa e cento ne fa (come Joe Bonamassa), il nostro amico ha prodotto anche il nuovo album di Tyler Morris https://discoclub.myblog.it/2020/05/03/un-irruento-fulmine-di-guerra-della-chitarra-anche-troppo-tyler-morris-living-in-the-shadows/ , senza dimenticare quello dei Proven Ones https://discoclub.myblog.it/2020/06/16/una-nuova-band-strepitosa-tra-le-migliori-attualmente-in-circolazione-the-proven-ones-you-aint-done/ , e con i nuovi della Mark May Band e dei Lousiana’s Le Roux annunciati in uscita a breve.

Anche se Zito, come si evince da quanto detto finora, è uno che di solito comunque pianifica con precisione il suo lavoro, per Quarantine Blues ha fatto una eccezione, della serie del disco “cotto e mangiato”, o meglio registrato e pubblicato immediatamente. Ne parliamo sia perché merita, ma anche perché alla fine è stato deciso di pubblicare anche il CD fisico (a pagamento questa volta) e quindi chi non lo aveva scaricato gratuitamente, e non so se lo si trova ancora in questa modalità, e per chi è comunque un fan dei prodotti “fisici”, pur con le difficoltà di reperibilità e i costi di spedizione non a buon mercato per chi non abita negli States, può andarne alla ricerca.

Nonostante il titolo lasci presagire un disco blues, Mike Zito e i membri della sua band abituale, Matt Johnson, Doug Byrkit e il tastierista Lewis Stephens, hanno deciso di optare per un sound più rock, diciamo decisamente ruspante, al limite del “tamarro” a tratti: in effetti è stato coinvolto anche Tracii Guns, degli L.A. Guns , una band che diciamo non ha mai brillato per raffinatezza, e Don’t Touch Me, il duetto con lui, ricorda molto l’hair metal anni ‘80, con chitarre a manetta e ritmi granitici. Per fortuna il resto del disco è decisamente meglio, l’iniziale Don’t Let The World Get You Down, oltre ad essere una dichiarazione di intenti, è un gagliardo pezzo rock, dove si gusta la voce sempre inconfondibile e vissuta di Mike, mentre Stephens va di organo con grande libidine e i riff e gli assoli di chitarra si sprecano in un pezzo dal sapore rootsy.

Looking Out This Window, anche con uso di chitarre acustiche, al di là di un ritmo marziale rimanda alle solite influenze del nostro, gli amati John Fogerty e Bob Seger, mentre comunque almeno nella title track non può mancare ovviamente un turbolento blues dove Zito va di slide con grande impeto e anche Walking The Street è un ulteriore ottimo esempio del rock sudista del musicista di Saint Louis, che in questo ambito è sempre uno dei migliori in circolazione, con chitarre ruggenti e grande grinta https://www.youtube.com/watch?v=ssuqep-YXUw . Grinta e sonorità poderose che non mancano neppure in Dark Raven dove le influenze del suono dei Led Zeppelin sono evidenti, dalla scansione ritmica che fa molto John Bonham, alle folate di chitarra che si ispirano molto a quelle di Dazed And Confused, con un assolo, anche con chitarre raddoppiate, veramente vibrante; pure Dust Up ha un riff immediato e una struttura sonora che profuma di rock and roll d’altri tempi, con continui rilanci della solista https://www.youtube.com/watch?v=xvuSQ0WyhWM .

E se rock deve essere anche Call Of The Wild non prende prigionieri, con Zito e soci che ci danno dentro di brutto, e pure After The Storm ricorda il miglior hard rock targato anni ‘70, quello di Free e Bad Company per intenderci, potenza ma anche classe e “raffinatezza” nel lavoro della chitarra. Hurts My Heart non molla la presa, se amavate il Bob Seger rocker dei suoi anni d’oro qui c’è trippa per gatti, lasciando alla conclusiva What It Used To Be il compito di illustrare il lato più intimista del nostro texano adottivo preferito, una bellissima ballata acustica, solo voce e chitarra, con rimandi al folk, al country, persino al flamenco https://www.youtube.com/watch?v=3xApY4MLtLA . Mike Zito insomma è sempre una garanzia, anche in quarantena.

Bruno Conti

Per La Gioia Degli Appassionati Della Chitarra, Se Riescono A Trovarlo. David Grissom – Trio Live 2020

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David Grissom – Trio Live 2020 – Wide Lode Signed CD/Download

Credo che il termine di “gregario di lusso” sia perfetto per David Grissom: nato a Louisville, Kentucky, ma dagli anni ‘80 texano di adozione, dove a Austin ha tuttora la sua base, il nostro amico è un chitarrista superbo che ha costruito la sua reputazione soprattutto per il fatto di avere militato nelle band di Joe Ely prima e da fine ‘80, inizio anni ‘90 con John Mellencamp, con il quale ha registrato i dischi da Big Daddy a Human Wheels, nel quale la sua prestazione è stata fantastica. Ma nel corso degli anni, in centinaia di collaborazioni, ha suonato con chiunque: James McMurtry, Lou Ann Barton (prima di Ely), Darden Smith, John Mayall, Robben Ford, Allman Brothers Band, Buddy Guy, le Dixie Chicks, potremmo andare avanti per ore e troveremmo molti dei nostri musicisti preferiti ai quali Grissom ha prestato la sua chitarra.

Negli anni ‘90 ha anche tentato la strada del suo gruppo personale, gli Storyville, insieme al cantante Malford Milligan e la sezione ritmica di SRV, Shannon e Layton. autori di due album che sulla carta promettevano moltissimo, ma si sono rivelati “solo” buoni; ne ha fatti anche quattro come solista negli anni 2000, forse nessuno all’altezza della sua fama, pubblicati dalla etichetta personale Wide Lode, con un misto di materiale in studio e dal vivo, e spesso con forte presenza di brani strumentali, visto che tra i suoi pregi pare non ci sia anche quello di essere un buon cantante. Anche questo Trio Live 2020, registrato in tre serate del martedì al Saxon Pub di Austin, prima della partenza della pandemia, è un disco strumentale (con l’eccezione di due pezzi), registrato con i collaboratori abituali Bryan Austin alla batteria, e Chris Maresh e Glenn Fukunaga che si alternano al basso.

Come forse molti sanno David gira anche il mondo come dimostratore del modello personale DGT delle chitarre PRS (Paul Reed Smith), che ci permettono di ascoltare uno dei virtuosi assoluti dello strumento anche a livello di timbri e tonalità: nel CD, che però è venduto solo direttamente solo sul suo sito, in versione autografata, non costa poco ed è comunque di difficile reperibilità, visto che non viene spedito fuori dagli States https://davidgrissom.com/ , oppure lo trovate in download, Grissom ci regala otto brani, quasi tutti abbastanza lunghi con la presenza di tre cover. Si parte con il timbro cristallino e “lavorato” di Lucy G dove David ricorda il sound di Robben Ford, un blues-rock cadenzato, raffinato e complesso da power trio, dove le evoluzioni della solista sono veramente mirabili e l’interscambio tra i tre musicisti è perfetto; Crosscut Saw, un brano di PD blues ma legato al repertorio di Albert King, contiene quasi 10 minuti di pura libidine, è una delle due tracce cantate, ma è giusto un intramuscolo adeguato, prima di partire per una improvvisazione spaziale dove i timbri e le soluzioni sonore virano anche verso il jazz con un assolo in crescendo di difficoltà abissale. Way José, più serrato e compatto, ha qualche rimando ad uno SRV (in fondo siamo in Texas) più cerebrale e sofisticato e qualche tocco hendrixiano.

Don’t Lose Your Cool, di Albert Collins, il primo dei brani con Fukunaga, è uno shuffle quasi classico, veloce e veemente, sempre con la chitarra dappertutto (diremmo all over the place) e assoli in cui rischi di dover recuperare la mascella che, mentre sei impegnato ad ammirare il lavoro del nostro, se ne è caduta sul pavimento. Never Came Easy To Me, è una sorta di blues ballad, dove la parte cantata è sempre un optional prima di un’altra jam, frutto di grande tecnica e gusto, In The Open è un breve e grintoso brano rock che trascina il pubblico, quasi “normale” nel suo dipanarsi felino, quasi, mentre Sqwawk, di nuovo con Fukunaga (ma non so chi è più bravo tra lui e Maresh) ha un incipit boogie quasi alla ZZ Top, e poi Grissom lavora ancora di tremolo con sequenze complesse, prima di partire di nuovo per l’iperspazio della chitarra. A chiudere l’ultima cover, Boots Likes To Boogie, un brano di Freddie King, un altro che se la cavava discretamente con la 6 corde, il pezzo più trascinante di questo breve set dove il “Maestro” David Grissom ancora una volta fa la gioia degli appassionati della chitarra, ai quali è comunque soprattutto consigliato questo Trio Live 2020.

Bruno Conti