Una Piacevolissima Passeggiata Lungo Le Coste Della California. Nick Waterhouse – Promenade Blue

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Nick Waterhouse – Promenade Blue – Innovative Leisure CD

Nick Waterhouse è un singer-songwriter californiano di Santa Ana attivo più o meno dal 2010, al quale però mi sono avvicinato solo nel 2019 grazie al suo quarto album, l’omonimo Nick Waterhouse, un piacevole e riuscito dischetto che mescolava sonorità vintage passando dal soul al rockabilly al pop al rhythm’n’blues con grande disinvoltura. Promenade Blue, il suo nuovissimo lavoro, è ancora meglio: Nick è uno di quei musicisti idealmente fermi ancora agli anni 60, e le sue canzoni riflettono in toto tale influenza. Cantante valido ed espressivo ed autore di vaglia, Waterhouse in Promenade Blue accentua ulteriormente il discorso intrapreso con il suo penultimo album, proponendo undici deliziose canzoni in bilico tra blue-eyed soul, errebi e pop con un pizzico di rock’n’roll ed una spruzzata di jazz e swing, un tipo di musica che a modo suo risulta californiana al 100%. Anzi, io mi immagino di ascoltare il disco su una terrazza che si affaccia sul mare della California del sud al tramonto, con in mano un bel cocktail variopinto (in mancanza di ciò, lavorate di fantasia come ho fatto io).

Registrato a Memphis e co-prodotto da Nick insieme a Paul Butler (dietro la consolle nei lavori di Michael Kiwanuka), Promenade Blue vede sfilare una lunga schiera di musicisti proprio come si usava fare nei sixties (tutti nomi peraltro abbastanza sconosciuti), con sezione ritmica, chitarre, piano, organo, marimba e la presenza sia di una sezione fiati che una di archi. Una sorta di muro del suono di ispirazione spectoriana, come nell’iniziale Place Names, incantevole pop song dove tutto profuma di anni 60, dalla melodia romantica alle backing vocalist femminili fino al sapiente uso degli archi. La saltellante The Spanish Look sembra, non scherzo, una outtake dei Coasters appena riscoperta, un piccolo gioiello tra errebi e doo-wop con un tocco jazzato che rimanda alla stagione d’oro dei vocal groups; Vincentine è puro soul, con Nick che mostra di avere una duttilità vocale non indifferente e la band lo segue che è una meraviglia, con i fiati a comandare il suono. Con Medicine siamo dalle parti di Ben E. King, un pezzo con il basso in primo piano, una chitarrina con riverbero d’ordinanza, cori maschili e sax come ciliegina: davvero, se non sapessi cosa sto ascoltando penserei di avere per le mani qualche vecchio padellone targato Motown o Atlantic.

Very Blue cambia registro, in quanto è una maestosa pop song alla Roy Orbison, con lo stesso tipo di pathos delle incisioni di “The Big O” anche se l’estensione vocale è ovviamente diversa, mentre con Silver Bracelet torniamo in territori black con un’altra perfetta soul song dalla melodia d’altri tempi che vede sassofono e piano sugli scudi. Proméne Bleu è l’unico strumentale del CD, un raffinatissimo pezzo lounge-jazz da nightclub con la chitarra elettrica protagonista ed il sax che arriva per chiudere la canzone; con Fugitive Lover e Minor Time si torna dalle parti dei gruppi vocali di colore con un brano coinvolgente dalla ritmica accesa nel primo caso ed una sorta di gospel cadenzato nel secondo, con la presenza quasi esclusiva di voci e percussione. Finale con la pimpante B. Santa Ana, 1986 (il pezzo più “moderno”, quasi un rock’n’roll con organo alla Doors) e con la gustosa To Tell, in cui il nostro manifesta di avere anche Dion & The Belmonts tra le sue influenze.

Marco Verdi

Bella Voce Country Old School! Mandy Barnett – A Nashville Songbook

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Mandy Barnett – A Nashville Songbook – Melody Place/BMG Rights Management

La nostra amica non è una novellina: infatti il primo disco di Mandy Barnett risale al 1994, poi ne ha pubblicati altri, spesso entrati nelle classifiche country, ma senza mai avere grande successo a livello nazionale. Tanto che ha diversificato la sua carriera, entrando anche nell’ambito dei musical e degli show dal vivo alla Grand Ole Opry, nonché puree una carriera come attrice, pur continuando a pubblicare album, l’ultimo nel 2018, a livello indipendente, mentre nei primi anni di carriera uscivano per le grandi majors. Questo nuovo A Nashville Songbook, e il titolo già dice tutto, è una via di mezzo, in quanto il disco esce a livello autogestito per la Melody Place, con distribuzione BMG del gruppo Warner: quindi una pubblicazione che, prendendo spunto dallo spettacolo con lo stesso nome, è incentrata su una serie di brani scelti nel repertorio del country classico, non quello bieco e commerciale, stretto parente del pop dozzinale, che ammorba molte delle attuali produzioni, ma che attinge da autori celebri, in qualche caso anche celeberrimi, della country music, e non solo.

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Quindi troviamo canzoni di Roy Orbison, Kris Kristofferson, Boudleaux Bryant, Chips Moman, Harlan Howard, Hank Williams, Eddie Rabbitt, c’è perfino una versione di It’s Now Or Never, la nostra classica O’ Sole Mio, che tutti conosciamo nella interpretazione di Elvis Presley. A tenere le fila del progetto c’è Fred Mollin, uno dei grandi produttori di Nashville sin dalla fine anni ‘60, primi ‘70, di recente dietro la console per il recente album di Rumer Nashville Tears https://discoclub.myblog.it/2020/08/24/cambia-il-genere-ma-non-la-voce-sempre-calda-e-vellutata-rumer-nashville-tears/ , e anche se la Barnett non ha una voce vellutata e deliziosa come la cantante anglo-pakistana, si difende comunque bene, con il suo timbro squillante. Il sound è classico, senza scadere nello scontato, e tra i molti musicisti impiegati si distinguono Bryan Sutton, alle chitarre acustiche e mandolino, Eddie Bayers alla batteria, Larry Paxton al basso, Scotty Sanders alla pedal steel, l’ottimo Stuart Duncan al violino, e lo stesso Mollin a synth e chitarre, mentre una sezione archi e fiati cerca di non appesantire più di tanto gli arrangiamenti, con un risultato che profuma di country old style di buona qualità.

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I Love A Rainy Night, la traccia di apertura a firma Eddie Rabbitt è uno dei brani recenti, un pezzo pimpante a cavallo tra country e gospel pop , tipo la prima Shania Twain quando non si era ancora lanciata nella “dance”  , mentre It’s Over è uno dei super classici di Roy Orbison, e qui bisogna ammettere che, per quanto gli arrangiamenti cerchino di aiutare, la Barnett non ha una voce, sia pure dalla buona estensione, che comunque possa competere con quella del “Big O”, anzi la canzone è sin troppo carica, molto meglio Help Me Make It Through The Night di Kristofferson, con un arrangiamento che, senza rinunciare agli archi, risulta più intimo e contenuto https://www.youtube.com/watch?v=RtncXk8sg9c . A Fool Such As I faceva parte delle classiche ballate country di Elvis, e tra pedal steel e violini sfarfallanti è molto godibile https://www.youtube.com/watch?v=frQTg2gATMg , come pure la celebre End Of The World di Skeeter Davis, dove la voce cristallina ed espressiva di Mandy è decisamente più a suo agio https://www.youtube.com/watch?v=zdNc4eyaFpo , mentre It’s Now Or Never mi lascia sempre quel retrogusto pacchiano e anche The Crying Game mi sembra più adatta al repertorio di Celine Dion. Nell’ambito delle canzoni più riuscite, inserirei una intensa Love Hurts, la briosa e scintillante Heartaches By The Number di Harlan Howard, uno degli standard assoluti del country, che hanno cantato decine di artisti, e la versione della Barnett, di nuovo con violino e pedal steel sugli scudi, è molto godibile  , come pure la rilettura solo voce e piano di I Cant’Help It (If I’m Still In Love With You di Hank Williams https://www.youtube.com/watch?v=y3tF_HTVjeI , a chiudere un album onesto e di buona fattura, per amanti del country vecchia scuola.

Bruno Conti

Per Il Momento, Il Cofanetto Dell’Anno! Johnny Cash – The Complete Mercury Recordings 1986-1991

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Johnny Cash – The Complete Mercury Recordings 1986-1991 – Mercury/Universal 7CD – 7LP Box Set

Nel 1986 Johnny Cash era senza un contratto discografico, in quanto era stato lasciato a piedi dalla Columbia dopo quasi trent’anni di onorato servizio, trattato come un ferrovecchio solo perché le sue vendite non erano più congrue con gli standard dell’etichetta (nonostante il livello sempre medio-alto dei dischi pubblicati dal nostro anche nella decade in questione, specialmente Rockabilly Blues e Johnny 99, ma anche The Adventures Of Johnny Cash non era affatto male). A nulla era servito l’inatteso successo del debut album degli Highwaymen, supergruppo formato con colleghi che in quel periodo non se la passavano certo meglio come vendite: Cash fu gentilmente accompagnato alla porta come un qualsiasi “has been”. In soccorso del nostro venne però la Mercury, che fu giudicata da Johnny come l’etichetta giusta per ripartire e rilanciarsi, anche se purtroppo l’impresa fallì miseramente, con cinque dischi tanto belli quanto ignorati dal pubblico, al punto che per molto tempo i cinque anni passati presso la label di Chicago sono stati considerati il punto più basso della carriera dell’Uomo In Nero.

johnny cash easy rider

Eppure quei cinque album erano tutti di qualità eccellente, e meritevoli di essere messi al pari dei suoi migliori lavori delle ultime due decadi: a posteriori l’errore di Cash fu forse quello di non voler rischiare più di tanto e di imbastire una sorta di “operazione nostalgia” invece di puntare su un produttore carismatico che lo avrebbe fatto uscire dall’anonimato (cioè quello che in sostanza farà negli anni novanta con Rick Rubin, tornando inaspettatamente in auge), ma anche la Mercury ci mise del suo promuovendo pochissimo l’artista ed in definitiva perdendo presto la fiducia in lui. Oggi quei cinque album (che da tempo erano fuori catalogo) vengono rimessi sul mercato opportunamente rimasterizzati in un piccolo box formato “clamshell” intitolato appunto The Complete Mercury Recordings 1986-1991, una ristampa curata con tutti i crismi dall’esperto Bill Levenson e che aggiunge ai cinque CD già conosciuti due altri dischetti (oltre a qualche bonus track sparsa qua e là): uno è un piacevole “intruso”, mentre il secondo è completamente inedito, anche se non troppo diverso da uno dei cinque originali. Un cofanettino che non esito quindi a definire imperdibile, un po’ per il prezzo contenuto (meno di quaranta euro, mentre la versione in LP è decisamente più costosa) ma soprattutto per la qualità della musica presente, che tende dal buono all’ottimo e rende finalmente giustizia ad un periodo bistrattato della vita artistica del grande countryman (*NDM: esiste anche una versione su singolo CD o doppio LP intitolata Easy Rider con il meglio dai sette album, ma per una volta visto il costo abbordabile mi sento di consigliare senza remore il box). Di seguito dunque una disamina disco per disco.

Class of ’55: Memphis Rock & Roll Homecoming (1986). Ecco l’intruso di cui parlavo prima, un album collettivo in cui Cash divide la scena con Carl Perkins, Jerry Lee Lewis e Roy Orbison, una rimpatriata di artisti che ad inizio carriera incidevano tutti per la mitica Sun Records e sorta di riedizione del Million Dollar Quartet, con Orbison al posto di Elvis Presley (ma nel 1981 c’era stato anche The Survivors, un live album accreditato a Cash, Lewis e Perkins). Class Of ’55 non è un capolavoro, ma un dischetto divertente da parte di quattro leggende in buona forma, suonato in maniera diretta da un manipolo di ottimi sessionmen di varie età, come Gene Chrisman, Bobby Emmons, Marty Stuart, Reggie Young e Jack Clement. Cash è presente come solista in due brani, un pimpante rifacimento di I Will Rock And Roll With You (da lui pubblicata in origine nel 1978) ed un omaggio ad Elvis con We Remember The King, scritta da Paul Kennerley. La sua voce si sente anche nella coinvolgente rilettura collettiva di Waymore’s Blues di Waylon Jennings e nella swingata Rock And Roll (Fais Do-Do), mentre i suoi compagni si difendono egregiamente: Perkins ci mette tutta la grinta possibile nel trascinante rock’n’roll con fiati Birth Of Rock And Roll e poi fa il balladeer nella gospel-oriented Class Of ’55, Orbison fa sé stesso nella ballatona Coming Home e Jerry Lee ondeggia tra country e rock nel classico Sixteen Candles ed in Keep My Motor Running di Randy Bachman. Finale strepitoso con una versione corale di otto minuti di Big Train (From Memphis), scritta l’anno prima da John Fogerty in omaggio ad Elvis ed eseguita con un coro che comprende lo stesso Fogerty, Dave Edmunds, Rick Nelson, June Carter Cash, le Judds ed il leggendario produttore Sun Sam Phillips.

Johnny Cash Is Coming To Town (1987). Il “vero” esordio di Cash per la Mercury, prodotto da Cowboy Jack Clement, è un tipico album anni ottanta del nostro, sulla falsariga di quelli pubblicati per la Columbia: ottimo dal punto di vista musicale ma poco remunerativo per quanto riguarda le vendite. Il brano più noto è indubbiamente la splendida The Night Hank Williams Came To Town, una trascinante country song elettrica caratterizzata dall’immancabile ritmo “boom-chicka-boom” ed uno spettacolare intervento vocale di Waylon Jennings. Tra le altre segnalo grintose riprese di canzoni di Elvis Costello (The Big Light), Merle Travis (la classica Sixteen Tons, proposta “alla Cash”), un doppio Guy Clark (Let Him Roll e Heavy Metal, entrambe ottime) e perfino James Talley con la rockeggiante W. Lee O’Daniel (And The Light Crust Dough Boys), mentre il Cash autore è presente in due occasioni, un luccicante rifacimento di The Ballad Of Barbara e la tipica ma deliziosa I’d Rather Have You.

Water From The Wells Of Home (1988). Visto l’insuccesso del disco precedente Johnny tenta la carta dell’album di duetti, ma le cose non andranno molto meglio. Water From The Wells Of Home è però un lavoro eccellente, con perle come l’iniziale Ballad Of A Teenage Queen, strepitoso rifacimento di un pezzo antico scritto da Clement (che produce ancora l’album) con la partecipazione della figlia di Cash Rosanne e degli Everly Brothers, e That Old Wheel, irresistibile country-rock proposto insieme a Hank Williams Jr., con i due vocioni che si integrano alla grande. Oltre a Rosanne, la famiglia Cash è presente nelle figure del figlio John Carter Cash, che duetta col padre in una coinvolgente rilettura di Call Me The Breeze di J.J. Cale e nella toccante ballata pianistica che intitola l’album, e della moglie June (con Carter Family al seguito) in Where Did We Go Right. Altre gemme sono la bella western song As Long As I Live, con la voce cristallina di Emmylou Harris (nonché i backing vocals di Waylon e signora, cioè Jessi Colter, e la partecipazione dell’autore del brano Roy Acuff), la rockeggiante The Last Of The Drifters, di e con Tom T. Hall, la suggestiva ballata dal sapore irlandese A Croft In Clachan con Glen Campbell, e soprattutto l’inattesa comparsata di Paul McCartney che scrive e canta con Johnny la deliziosa country ballad New Moon Over Jamaica, portandosi dietro la sua band dell’epoca (cioè quella di Flowers In The Dirt e successivo tour).

Come bonus per questo box abbiamo due missaggi alternati di Ballad Of A Teenage Queen e That Old Wheel, praticamente identici agli originali.

Classic Cash – Hall Of Fame Series (1988). Appena quattro mesi dopo l’album precedente Cash pubblica il disco più nostalgico del periodo Mercury: Classic Cash è infatti un lavoro tipico da vecchia gloria, in cui il nostro reincide con un gruppo attuale (ma anche due ex membri della sua antica backing band The Tennessee Three, Bob Wooton e W.S. Holland) venti classici del periodo Sun e Columbia. Un disco elettrico e bellissimo, suonato e cantato in maniera formidabile e forse con l’unico difetto di una produzione un po’ piatta (ad opera dello stesso Cash), che però la rimasterizzazione odierna ha migliorato notevolmente. In pieno 1988 questo non era certo l’album adatto a rilanciare la carriera del nostro, ma di fronte a titoli come Get Rhythm, Tennessee Flat Top Box, A Thing Called Love, I Still Miss Someone, I Walk The Line, Ring Of Fire, Folsom Prison Blues, Cry Cry Cry, Five Feet High And Rising, Sunday Morning Coming Down, Don’t Take Your Guns To Town, Guess Things Happen That Way e I Got Stripes bisogna solo stare zitti ed ascoltare.

Classic Cash – Early Mixes (2020). Questo è il disco “inedito”, nel senso che sono le stesse venti canzoni pubblicate su Classic Cash (ma in ordine diverso), presenti con il missaggio iniziale e non rifinito. I brani sono sempre ovviamente una goduria, e forse ancora più diretti in queste versioni, ma vi consiglio di non ascoltare i due Classic Cash uno di fila all’altro in modo da evitare una certa ripetitività.

Boom Chicka Boom (1990). Album all’epoca poco considerato in quanto privo dei numerosi ospiti di Water From The Wells Of Home (a parte The Jordanaires, gruppo vocale noto per i suoi trascorsi con Elvis), ma tra i migliori del periodo Mercury. Prodotto da Bob Moore, Boom Chicka Boom è un lavoro che fin dal titolo rivela la volontà di Johnny di tornare il più possibile al suo suono originale, ed il risultato finale è davvero ottimo. Puro Cash sound (e totale assenza di ballate), con energiche e convincenti versioni di Cat’s In The Cradle di Harry Chapin (*NDB Di recente rispolverata per la pubblictà di una nota birra) , Hidden Shame ancora di Costello, Family Bible di Willie Nelson, Harley di Michael Martin Murphey ed una strepitosa Veteran’s Day di Tom Russell (all’epoca uscita solo come b-side e presente qui come traccia aggiunta). Ma gli originali di Cash non sono da meno, come l’ironica e trascinante A Backstage Pass e le coinvolgenti Farmer’s Almanac e Don’t Go Near The Water, quest’ultima già incisa dal nostro negli anni settanta. E poi Johnny canta alla grande. Questo è anche il dischetto con più bonus tracks: oltre alla già citata Veteran’s Day abbiamo infatti un’altra b-side (I Shall Be Free), quattro prime versioni di A Backstage Pass, Harley, That’s One You Owe Me e Veteran’s Day, per finire con la scintillante I Draw The Line, un inedito assoluto che poteva benissimo essere incluso nel disco originale.

The Mystery Of Life (1991). Johnny chiude in bellezza il periodo Mercury (ma sempre con vendite deludenti) con quello che forse è il disco migliore dei cinque a parte Classic Cash che però come abbiamo visto si rivolgeva a brani del passato. Ancora con Clement in regia, The Mystery Of Life ci presenta un Cash tirato a lucido che ci delizia con dieci canzoni di notevole portata. L’album inizia con uno strepitoso rifacimento (l’aveva già pubblicata a fine anni settanta) di The Greatest Cowboy Of Them All, magnifica gospel song dotata di un maestoso arrangiamento in stile western. Ci sono altri due brani del passato, due toniche riletture di Hey Porter (appartenente al periodo Sun) e della collaborazione con Bob Dylan di Wanted Man; i nuovi pezzi scritti dal nostro sono I’m An Easy Rider, Beans For Breakfast e Angel And The Badman, uno meglio dell’altro, mentre tra le cover spiccano I’ll Go Somewhere And Sing My Songs Again di Tom T. Hall e The Hobo Song di John Prine, entrambe con la partecipazione dei rispettivi autori. Ed anche la ballata che dà il titolo al disco, scritta da tale Joe Nixon, è decisamente bella. Come bonus abbiamo The Wanderer, ovvero la famosa collaborazione di Johnny con gli U2, forse un po’ fuori contesto qui ma sempre affascinante da ascoltare.

Credo di essermi dilungato un po’, ma era d’uopo riservare il giusto tributo ad uno dei periodi più complicati della carriera di uno dei più grandi musicisti di sempre: The Complete Mercury Recordings 1986-1991 è un cofanetto che non deve mancare in nessuna collezione che si rispetti.

Marco Verdi

Tra New York, Chicago E Memphis Un Altro Grande Cantante Bianco Con L’Anima Nera. Tad Robinson – Real Street

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Tad Robinson – Real Street – Severn Records

Tad Robinson 63 anni, nativo di New York City, operante da anni tra Chicago e Memphis, è uno di quei cantanti bianchi, ma con l’anima nera (per avere una idea pensate a Marc Broussard, JJ Grey, Anderson East,  Eli “Paperboy” Reed, in ambito femminile sua controparte potrebbe essere la grande Janiva Magness, o con uno spirito più rock Jimmy Barnes, ma sono solo i primi nomi che mi sono venuti in mente), una discografia solista non molto copiosa, anche perché spesso ha cantato con e per altri, tipo Dave Specter, o di recente nella Rockwell Avenue Blues Band, insieme a Steve Freund e Ken Saydak per l’ottimo Back To Chicago uscito nel 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/06/20/un-piccolo-supergruppo-di-stampo-blues-rockwell-avenue-blues-band-back-to-chicago/ .

Per questo Real Street (uscito lo scorso settembre negli States, ma disponibile da pochi giorni in Europa) è stato fatto un ulteriore step verso la soul music più genuina: il disco è stato inciso in quel di Memphis, agli  Electraphonic Recording Studios, quelli che hanno raccolto l’eredità di Fame e Muscle Shoals, gestiti da Scott Bornar (dei Bo-Keys) e con l’impiego della Hi Rhythm Section, dove militano i leggendari Charles Hodges all’organo e Leroy Hodges al basso, oltre al batterista Howard Grimes. Ma nel disco suonano anche il chitarrista Joe Restivo e l’attuale pianista dei Fabulous Thunderbirds Kevin Anker, impegnato al Wurlitzer, nonché la sezione fiati composta da Marc Franklin alla tromba e Kirk Smothers al sax tenore, i cui nomi ricorrono spesso nei dischi di Gregg Allman, Dana Fuchs, Robert Cray, lo stesso Paperboy Reed. Insomma gli ingredienti ci sono tutti e la musica che ne risulta è rigogliosa, goduriosa e di gran classe: sia nell’iniziale shuffle tra blues, R&b e Stax soul Changes, dove la voce vissuta e temprata da mille palchi di Robinson si muove tra fiati, chitarrine e tastiere che profumano di profondo Sud, come pure nel mid-tempo mellifluo di Full Grown Woman, dove emergono anche elementi gospel forniti dal background vocalist Devin B. Thompson: a colorare ulteriormente la tavolozza dei suoni. Search Your Heart è una solenne ballata del “divino” soul balladeer George Jackson, con una prestazione vocale da sballo di Tad, e l’organo di Hodges che scivola maestoso a suggellarne l’interpretazione, come l’assolo in punta di dita di Restivo.

Love In The Neighborhood è più mossa, solare e radiofonica, in un ideale mondo alternativo dove le radio trasmettono buona musica, e Robinson ci mostra la sua perizia pure all’armonica, mentre fiati e voci di supporto sono sempre in azione, come pure la chitarra di Restivo. Wishing Well Blues tiene fede al proprio titolo ed è un tuffo nel le12 battute più classiche, con fiati sempre in evidenza, mentre You Got It è una sontuosa cover del brano di Roy Orbison, che, rallentata ad arte, si trasforma quasi in una ballata deep soul  alla Sam Cooke, o Al Green, visti i musicisti impiegati, con la voce melismatica di Tad Robinson che si distingue ancora per il suo timbro favoloso. You Are My Dream è un altro intenso errebì dallo spirito danzante e giocoso, con l’armonica di Robinson quasi alla Stevie Wonder prima maniera. che lascia poi spazio ad una sorprendente cover di Make It With You, un grandissimo successo del pop raffinato anni ’70 dei Bread di David Gates, qui trasformato in un’altra ricercata love song avvolgente, degna dei migliori cantanti neri di quell’epoca gloriosa, elegante senza essere troppo turgida.

Real Street, di nuovo con la sinuosa armonica di Tad in evidenza, è un altro ottimo esempio di quel soul targato Hi Records che non tramonta mai, soprattutto se viene suonato da chi conosce a menadito la materia, sentire il groove del basso danzante di Leroy Hodges,  e comunque non guasta se hai un cantante in grado di maneggiare la materia sonora, che poi chiude l’album con il leggero funky caratterizzato dall’ interplay quasi telepatico organo-piano elettrico di Long Way Home, con retrogusti targati Marvin Gaye o Curtis Mayfield, senza dimenticare Al Green, il re dello smooth soul https://www.youtube.com/watch?v=OzRh7OGBlrA . Chi ama il genere non ha bisogno di ulteriori incoraggiamenti, sarà pure retrò, ma è una vera delizia.

Bruno Conti

Un Futuro Fuorilegge Alle Prime Armi. Waylon Jennings – White Lightnin’

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Waylon Jennings – White Lightnin’ – Goldenlane/Cleopatra CD

Non sono un fan delle produzioni discografiche targate Cleopatra, etichetta indipendente californiana che si occupa di materiale d’archivio più o meno inedito: qualche buon prodotto negli anni lo ha pubblicato, ma anche ricicli di cose già uscite e spacciate per nuove o vere e proprie ciofeche, come il recente Joint Effort degli Humble Pie, compilato con materiale di scarto degli anni settanta non esattamente di prima qualità. Questo album intestato al grande countryman texano Waylon Jennings ed intitolato White Lightnin’ non è da considerarsi una fregatura, ma l’assenza di note nella confezione interna lascia (volutamente?) in sospeso l’ascoltatore occasionale sulla provenienza delle canzoni contenute. Alla fine White Lightnin’ è il classico segreto di Pulcinella, in quanto altro non è che la ristampa del primo album in assoluto del nostro, Waylon At JD’s del 1964 (che nonostante il titolo non è un disco dal vivo), al quale sono state aggiunte due canzoni che facevano parte di un raro singolo del 1959: diciamo quindi che questa volta la Cleopatra si è salvata dal giudizio del severo critico, in quanto comunque stiamo parlando di incisioni da tempo fuori catalogo e quindi difficilmente reperibili (ma la “cleopatrata” non manca neanche qui, in quanto sulla confezione vengono riportati dodici titoli invece dei quattordici che ci sono in realtà).

Il disco è dunque piacevole ed offre un interessante ritratto di gioventù di un musicista che negli anni settanta sarebbe diventato un grande del country ed uno degli esponenti di punta del movimento Outlaw. Qui Waylon non ha ancora uno stile ben preciso, alterna brani di classico country ad altri più rock’n’roll, ed in più si affida unicamente a materiale già noto in versioni altrui: il risultato finale è comunque piacevole ed interessante, ed in tutta onestà non mi sento di sconsigliarne l’acquisto, specie per quanto riguarda i fan del nostro. L’album inizia proprio con i due pezzi del singolo del ‘59, il primo in assoluto per Waylon, entrambi con la chitarra e la produzione del mitico Buddy Holly (non dimentichiamo che Jennings all’epoca era uno stretto collaboratore di Buddy, e per puro caso non salì su quel maledetto aereo la sera di quel tragico 3 Febbraio 1959): When Sin Stops è un incrocio tra pop e doo-wop tipico per l’epoca, molto diversa dallo stile futuro del nostro anche se il vocione è già quello, mentre Jole Blon è una versione lenta del noto standard, con il sax strumento solista. Le altre dodici canzoni fanno parte come ho già scritto di Waylon At JD’s, e vedono il nostro a capo di un quartetto che comprende lui stesso alla chitarra solista (Waylon è sempre stato un ottimo chitarrista), Gerald W. Gropp alla ritmica, Paul Foster al basso e Richard Albright alla batteria.

Come già detto si tratta di un disco di cover, con ben due omaggi a Roy Orbison, Crying e Dream Baby, più essenziali nel suono e senza gli arrangiamenti orchestrali tipici di The Big O, con Waylon che pur non avendo l’estensione vocale dell’occhialuto cantante suo conterraneo se la cava egregiamente. Deliziosa invece Don’t Think Twice, It’s Alright, il classico di Bob Dylan ripreso in una spedita rilettura country alla Johnny Cash, e decisamente piacevole anche White Lightnin’, divertente rilettura del noto successo di George Jones (scritta da J.P. Richardson, ovvero il Big Bopper che morì insieme a Holly e Ritchie Valens nel tragico incidente), con un arrangiamento elettrico tra country e rockabilly. Ci sono poi brani che in altre mani erano già delle hit country, come la squisita Sally Was A Good Old Girl (lanciata da Hank Cochran due anni prima), molto rock’n’roll in questa versione, un’ottima Love’s Gonna Live Here di Buck Owens ripresa in puro Bakersfield style, l’honky-tonk Burning Memories di Mel Tillis e la trascinante Big Mamou di Link Davis, dal ritmo molto sostenuto. Detto di un breve omaggio al vecchio amico Buddy con una It’s So Easy riveduta ma non corretta, il CD si chiude con il puro country di Abilene (di George Hamilton IV), una roccata Money (That’s What I Want) di Barrett Strong, ma più nota per la versione dei Beatles e la dolce ballata Lorena: tre brani che hanno in comune il fatto di non essere cantati da Waylon ma bensì da Gropp e Foster.

Temevo l’imbroglio, invece mi sono trovato tra le mani un dischetto piacevole ed interessante, anche se non certo imperdibile.

Marco Verdi

Un Esordio Fulminante: Garantisce La “Regia” Di Dwight Yoakam! King Leg – Meet King Leg

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King Leg – Meet King Leg – Sire/Warner CD

Devo essere sincero: mi sono avvicinato a questo disco solo quando ho visto che il produttore era Dwight Yoakam, cosa resa ancora più interessante dal fatto che colui che io considero il miglior countryman degli ultimi trent’anni solitamente non presta i suoi servizi su album altrui (perfino i suoi ha iniziato a produrli da poco, cioè da quando ha interrotto la sua lunga collaborazione con Pete Anderson). King Leg è una band proveniente da Los Angeles, ma può benissimo essere considerato anche il nome d’arte del suo leader Bryan Joyce, un rocker originario del Nebraska che del gruppo è cantante solista, autore dei brani e chitarrista ritmico (gli altri membri rispondono ai nomi di Stefano Capobianco – dalle chiare origini – alla chitarra solista, Kelly King alla batteria, Daniel Rhine al basso e tastiere e Dylan Durboraw al calliope, una sorta di strano organetto vintage che fa molto Tom Waits). Dopo aver mosso i primi passi a Nashville, Joyce/King Leg si è spostato a L.A., dove è stato notato dal leggendario Lenny Waronker, uno che nella sua carriera credo abbia imparato a riconoscere il talento, che lo ha voluto nei Capitol Studios ad incidere il suo debut album per la Sire, altra etichetta dal glorioso passato.

Ed il disco, Meet King Leg (uscito lo scorso Ottobre) è una piccola bomba, un concentrato davvero stimolante di rock’n’roll, pop, atmosfere vintage ed un vago approccio punk in alcuni brani: la presenza di Yoakam ha garantito il fatto di avere un suono perfetto (ed infatti è davvero scintillante), molto basato sulle chitarre, anche se lo stile di Bryan non è per niente country (tranne che in un pezzo), ma piuttosto una fusione di puro rock californiano alla Tom Petty con atmosfere alla Byrds, qualcosa dei Ramones ed un grande amore per Roy Orbison (anche dal punto di vista vocale ci sono dei riferimenti, ed anche una certa somiglianza con Morrissey, ed infatti a Nashville il nostro per un periodo ha guidato una cover band degli Smiths). Capisco che letti così questi nomi potrebbero fare anche a pugni, ma credetemi se vi dico che, come inserirete il CD nel lettore, tutto si amalgamerà subito alla perfezione: per certi versi questo disco mi fa venire in mente l’esordio degli Shelters (lì il produttore era Petty), la stessa bravura, lo stesso tipo di canzoni dirette (anche se in quel caso erano più rock), la stessa freschezza nella proposta musicale. E Dwight, che non è uno sprovveduto, ha addirittura voluto che Joyce e compagni aprissero i suoi concerti. Apre il CD Great Outdoors (che è anche il primo singolo), un brano tra rock’n’roll e power pop, con un gran ritmo, chitarre jingle-jangle ed un motivo molto diretto, condito dalla caratteristica voce tenorile di Bryan.

Cloud City è una rock ballad decisamente particolare: dopo un inizio acustico ed attendista il suono si elettrifica di brutto, con la sezione ritmica che pesta alla grande ed il nostro che gorgheggia da par suo. La deliziosa Walking Again è un honky-tonk elettrico, unico pezzo vicino al sound di Yoakam, guizzante e chitarristico, mentre Another Man è una ballata gentile e squisita, puro folk cantautorale, che ci fa capire che i nostri hanno parecchie frecce al loro arco. Your Picture è un coinvolgente pop’n’roll ancora con il suono ruspante delle chitarre ben in evidenza (ed un bellissimo ancorché breve assolo di slide), Comfy Chair è uno slow profondo, fluido e toccante, ma con la sua bella dose di rock che entra sottopelle, con una chitarrina molto anni sessanta (in pratica una grande canzone), ed è unita in medley alla tersa A Dream That Never Ends, uno splendido brano in puro stile vintage, alla Orbison, cantato molto bene e col solito bellissimo tappeto di chitarre, una delle migliori e più evocative del CD. Wanted è ritmata, limpida ed orecchiabile ancora tra The Big O e Tom Petty, con una melodia deliziosamente fruibile, Loneliness è un’ottima e solare pop song, anch’essa potenzialmente un singolo di grande presa: più va avanti e più mi sento di metterla tra le meglio riuscite. Il disco si chiude con la cristallina Seeing You Tonight, decisamente pettyiana e con il consueto splendido suono di chitarra, la strepitosa Moaning Lisa Screaming, con il suo bel chitarrone alla Duane Eddy, una rock song strumentale nella quale però Bryan si produce in suggestivi vocalizzi, e con la cover di Running Scared, proprio il classico di Orbison: materia pericolosa, ma Joyce e compagnia se la cavano alla grande, e senza fare il verso al leggendario rocker texano, senza sfigurare neppure nel famoso crescendo finale.

Ci sarà stato anche l’aiutino dalla regia (Dwight Yoakam), ma i King Leg si dimostrano un gruppo coi controfiocchi e Bryan Joyce un frontman con carattere, personalità e talento: alla faccia di chi pensa che il rock’n’roll sia morto o morente.

Marco Verdi

Disco Piccolo Ma Sincero, Grande Band! NRBQ – Happy Talk

nrbq happy talk

NRBQ  – Happy Talk – Omnivore Records/Warner

La nascita della band viene fatta risalire al 1966, e come spesso capita gli NRBQ hanno quindi già festeggiato il loro 50° Anniversario con il bellissimo cofanetto High Noon – A 50-Year Retrospective, pubblicato lo scorso anno dalla Omnivore Recordings https://www.youtube.com/watch?v=9E_cltUB7Ow . Ma come si calcolano questi eventi andando a cercare proprio i primi passi dei gruppi in oggetto, così si è fatto per gli Stones che il loro quinto decennio di carriera lo hanno commemorato nel 2012, a 50 anni dalla prima apparizione sul palco del Marquee (ma il primo singolo è del 1963 e l’album del ’64), e così spesso si fa per altri artisti, in qualche caso posticipando le date, come è successo recentemente per Jeff Beck, che il concerto alla Hollywood Bowl lo ha registrato nel 2016 (e pubblicato) nel 2017, ma sui palchi, prima con i Tridents e poi con gli Yardbirds, ci saliva dal ’64-’65.

nrbq high noon

https://www.youtube.com/watch?v=XnBYByM_PAU

Quindi come si suole dire le date sono degli optionals per le case discografiche che le utilizzano a piacere: comunque nel 1966 Terry Adams, il cantante e pianista originale della formazione c’era già, alla nascita del New Rhythm and Blues Quintet (poi Quartet), come era presente nel primo disco della band, l’omonimo NRBQ del 1969 https://www.youtube.com/watch?v=0kz6qtnlOmw , e lo è tuttora, per l’uscita di questo mini album Happy Talk, dove dei vecchi pards ormai non c’è più nessuno, alcuni morti, altri se ne sono andati, con Adams troviamo Scott Ligon alla chitarra, Casey McDonough al basso, e John Perrin, alla batteria, l’ultimo arrivato nel 2015, ma in tre brani c’è Conrad Choucroun. Lo stile non pare cambiato di una virgola nel corso degli anni, ha avuto molti alti e bassi a livello qualitativo, ma anche sulla scia della pubblicazione del box, sembrano avere ritrovato la vecchia verve, quel saper fondere rock, pop, R&B, un pizzico di jazz, folk e country, oltre ad una abbondante dose di umorismo ed allegria, e il vigore delle bar bands più classiche, in uno stile appunto che pare avere influenzato band inglesi come Brinsley Schwarz, Rockpile, e i loro leaders Nick Lowe e Dave Edmunds, NRBQ  a loro volta influenzati agli inizi dal R&R e dal jazz (nel primo disco c’era una cover di un brano di Sun Ra), ma anche splendide canzoni melodiche, come questa tratta da un finto live allo Yankee Stadium https://www.youtube.com/watch?v=Jm5nIoDviD8

NRBQ photo

https://www.youtube.com/watch?v=R2_GsuNwPRA

Questo vizio delle cover non lo hanno mai perso, infatti nel nuovo album troviamo Only The Lonely di Roy Orbison, in una brillante versione che avrebbe fatto felice l’autore, ma anche i Beatles, o i Lowe e Costello ricordati, pop music di prima classe, semplice ma accattivante e struggente il giusto, ma anche una ripresa di Happy Talk, la title track che viene dal songbook di Rodgers & Hammerstein, e che era nel musical South Pacific, qui trasformata in una deliziosa e malinconica canzone che ricorda i suoni dei Beach Boys dell’epoca d’oro. Anche Blues Blues Blues è una cover, di tale John Locke (non quello degli Spirit), che non si da dove spunti, ma fonde le 12 battute rivisitate, il rock and roll e il rock classico con souplesse sopraffina e la giusta dose di grinta e raffinatezza, sparsa senza remore anche attraverso la 6 corde pungente di Ligon. Non manca neppure una delle loro classiche novelty song, già il titolo è un programma Yes, I Have A Banana, scritta da Ligon, McDonough e Adams, brano che esplora anche il loro lato country (grazie al pianino honky-tonk del buon Terry che è peraltro strumentista di grande valore, sentitevi l’album del 2015, Talk Thelonius, dove riproduceva a modo suo la musica di Monk https://www.youtube.com/watch?v=wjr9ufLE2_c ), divertente e dai doppi sensi inevitabili, ma suonata in modo impeccabile, come pure l’eccellente Head On A Post che sembra qualche brano perduto dei Rockpile, o degli Nrbq stessi, che in fondo questo “stile” lo hanno inventato https://www.youtube.com/watch?v=e98qWKLRpRU e sembra sappiano sempre praticarlo con la dovuta carica, non smorzata dal passare del tempo. Un album intero sarebbe stato gradito, ma ci accontentiamo.

Bruno Conti

Una Festa Natalizia “On Stage” Di Gran Classe – Chris Isaak – Christmas Live At Soundstage

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Chris Isaak – Christmas Live At Soundstage – BMG CD/DVD

Quest’anno il mio disco di Natale è questo live di Chris Isaak, registrato per la nota trasmissione Soundstage: un lavoro pienamente meritevole anche se devo dire che il panorama discografico mondiale non ha offerto molte valide alternative in questo 2017 (mentre lo scorso anno era stato più generoso, con almeno tre ottime uscite: Jimmy Buffett, Neil Diamond e Loretta Lynn). Tra l’altro questo concerto non è neppure nuovo, in quanto era stato registrato nel 2004 per promuovere l’album natalizio del rocker californiano (Christmas, appunto) ed era pure già uscito all’epoca in versione video, anche se ormai da tempo fuori catalogo: ora la BMG lo ripropone con una veste rinnovata, aggiungendo il supporto audio a quello video, aumentando così la platea di potenziali acquirenti.

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https://www.youtube.com/watch?v=NtPBfiTZNGE

Ed il concerto è godibilissimo: Christmas (l’album di studio) mescolava abilmente classici stagionali e nuove composizioni di Chris, e questa riproposizione on stage è l’ideale prolungamento di quel disco, che viene ripreso quasi totalmente (manca solo Auld Lang Syne, che è più un canto da Capodanno) ed aggiunge due canzoni in più, Santa Bring My Baby Back e I’ll Be Home For Christmas, che però erano presenti come bonus tracks nell’edizione australiana dell’album originale. Il tipico stile vintage di Isaak, tra Elvis Presley e Roy Orbison, melodico ma anche rock’n’roll quando serve, si adatta alla perfezione alle atmosfere natalizie, e ciò emerge ancora di più ascoltando questo bellissimo concerto con il nostro in forma smagliante ed aiutato da una band solida (Kenny Dale Johnson, Rowland Salley, Hershel Yatovitz, Scott Plunkett e Rafael Padilla), più alcuni ospiti speciali che vedremo. Che la serata sia di quelle giuste si capisce subito dall’iniziale Blue Christmas, dal delizioso sapore sixties e con uno stile leggermente country, subito seguita dal classico hawaiano Mele Kalikimaka, gioiosa e solare come è giusto che sia. Chris ha classe, voce e presenza fisica, sia che faccia il romanticone (Washington Square, la famosa Pretty Paper di Willie Nelson, cantata splendidamente, l’ottima Brightest Star, la migliore tra le quattro scritte da Isaak), sia che faccia uscire la sua anima rock’n’roll (la cadenzata e divertente Hey Santa!, con tanto di fiati mariachi, l’irresistibile gospel-rock Last Month Of The Year), sia infine che lasci spazio al country (l’honky-tonk scintillante di Christmas On TV).

Chris Isaak Christmas with Stevie Nicks f

https://www.youtube.com/watch?v=vJPWBFkI7g4

Non sarebbe poi Natale se non ci fossero dei duetti: il primo ospite è l’amico Michael Bublé, che allora non era ancora diventato il pupazzo che è adesso, e fa benissimo la sua parte sia nella raffinatissima The Christmas Song che nella swingata Let It Snow (anche se Sinatra è di un’altra categoria); poi abbiamo il pianista e vocalist Brian McKnight, con il quale Chris rilascia una squisita e jazzata Have Yourself A Merry Little Christmas di gran classe, ed infine Stevie Nicks che presta la sua ugola ad una festosa Santa Claus Is Coming To Town. Finale con la languida I’ll Be Home For Christmas e poi tutti quanto sul palco per una travolgente e scatenata Rudolph The Red-Nosed Reindeer. Tra romanticismo, tradizione ed un pizzico di rock’n’roll, un disco perfetto per la notte di Natale.

Marco Verdi

Dalla Botte “Infinita” Australiana, Sempre Ottimo Vino ! Paul Kelly – Life Is Fine

paul kelly life is fine

Paul Kelly – Life Is Fine – Cooking Vinyl Records

Succede che quando mi tocca parlare di Paul Kelly, mi devo sempre ricordare che mi trovo davanti ad una gloria nazionale dell’Australia, attivo fin dal lontano 1974, un singer-songwriter fantasioso ed eclettico (compone anche musiche per il cinema e il teatro, talvolta si propone anche come attore), e risulta vincitore di numerosi premi musicali in carriera. Detto questo, devo anche precisare che il buon Paul superati i sessanta anni si è scoperto autore molto prolifico, a partire da Spring And Fall (12), poi dalla riscoperta del soul con il bellissimo The Merri Soul Sessions (14), l’omaggio a Shakespeare con  l’intrigante Seven Sonnets And A Song (16), e, sempre uscito lo scorso anno, registrare una raccolta di “canzoni da funerale” con Charlie Owen Death’s Dateless Night (tutti puntualmente recensiti su questo blog dal sottoscritto), fino ad arrivare a questo ultimo lavoro Life Is Fine, che è un ritorno alle sonorità classiche “roots-rock” degli imperdibili primi album con la sua band Coloured Girls, in seguito rinominata Messengers.

Per fare tutto ciò Kelly richiama musicisti e amici di vecchia data (in pratica la stellare “line-up” di The Merri Soul Sessions), che vede oltre a Paul alla chitarra acustica e elettrica, piano e voce, la presenza di Cameron Bruce alle tastiere, organo e piano, Peter Luscombe alla batteria e percussioni, Bill McDonald al basso, Ashley Naylor alla slide.guitar, Lucky Oceans alla pedal steel, coinvolge la famiglia con il figlio (sempre più bravo) Dan Kelly alle chitarre, e non potevano certo mancare le fidate e superlative coriste Linda e Vika Bull, il tutto per una dozzina di canzoni di buon livello (in alcuni casi ottimo), che confermano che Paul Kelly è uno di quelli che difficilmente sbaglia un colpo. Il “vecchio ma anche nuovo “corso di Kelly si apre con Rising Moon molto vicina al mondo musicale del primo Graham Parker, seguita dalle chitarristiche Finally Something Good e Firewood And Candles, la prima con un finale valorizzato dalle sorelle Bull, la seconda dominata dalle tastiere di Cameron Bruce, lasciando poi spazio alla bravura della sola Vika Bull, che interpreta al meglio un lento blues fumoso quale My Man’s Got A Cold, perfetto da suonare a notte fonda in qualsiasi piano bar che si rispetti.

Si prosegue con la “radioheadiana” Rock Out On The Sea, che fa da preludio all’intrigante Leah: The Sequel, dichiaratamente sviluppata sul ritornello di un brano del grande Roy Orbison (la trovate anche nel famoso Black And White Night), per poi ritornare alla ballata confidenziale di Letter In The Rain (marchio di fabbrica del nostro amico), e ad una piacevole ritmata “rock-song” come Josephine, dove brilla la pacata tonalità di Paul. Con la bella Don’t Explain arriva il turno al canto di Linda Bull, canzone impreziosita anche da una chitarrina suonata à la My Sweet Lord di George Harrison, a cui fanno seguito ancora la bellissima I Seall Trouble, le note pianistiche di una ballata avvolgente come Petrichor, e a chiudere, la filastrocca chitarra e voce di Life Is Fine, per un disco in cui Paul Kelly, ancora una volta con le sue canzoni, sembra volerci ricordare che “la vita è bella”.

Come sempre in Life Is Fine tutto funziona a puntino, e ogni brano rivela la consueta personalità dell’autore (pur con le molteplici influenze della migliore musica americana): anche se rimangono poche le speranze che questo nuovo lavoro renda giustizia al merito del personaggio (che da ben 45 anni frequenta il mondo discografico), un artista in possesso di una maturità compositiva invidiabile, ricco di talento e inventiva, uno (tanto per dire) a cui se il sottoscritto potesse regalare, se non la fama almeno la gloria, con la famosa “Lampada di Aladino”, sarebbe certamente Paul Maurice Kelly da Adelaide, Australia!

Tino Montanari

Da Evitare: Un’Altra “Mezza” Fregatura! Del Shannon – The Dublin Sessions

del shannon the dublin sessions

Del Shannon – The Dublin Sessions – S’More Entertainment/Rockbeat Records   

Che dire? Io inizierei, come si usa in questi casi, con un bel “Mah”! Ormai le etichette specializzate in ristampe sono alla spasmodica ricerca di materiale raro od inedito, o comunque di cui si vocifera tra i fans degli artisti in questione, di solito nomi importanti che magari hanno fatto la storia del rock. E di sicuro Del Shannon rientra in questa categoria. Però il cantante del Michigan è ormai scomparso suicida da quasi 30 anni e i suoi ultimi album, a parte un paio dove erano coinvolti Tom Petty e gli Heartbreakers, e nell’ultimo Rock On, uscito postumo nel 1991, anche Jeff Lynne, non brillavano certo per qualità https://www.youtube.com/watch?v=0vrnwu_yl4k . Proprio negli anni ’70 Shannon aveva raggiunto il nadir della sua carriera: affetto da alcolismo Del non sempre sapeva scegliere i suoi collaboratori e anche le scelte discografiche, tipo questa di registrare un disco in Irlanda, durante un tour del Regno Unito del 1977, con molte date fissate anche a Dublino, si era poi rivelata sbagliata, visto che il disco inciso, dopo essere stato proposto e rifiutato da varie case discografiche, alla fine non era mai stato pubblicato. E forse un motivo c’era: registrato insieme alla sua touring band dell’epoca, tali SMACKEE da Coventry, (di cui vi risparmio i nomi perché sono assolutamente sconosciuti), l’album contiene undici brani, tra cui quattro cover, poco più di 37 minuti di musica, che a parere di chi scrive avrebbero dovuto restare nei cassetti dove erano rimasti per tutti questi anni. So che i fans più accaniti dissentiranno, ma queste operazioni lasciano il tempo che trovano (e non solo nel caso di Del Shannon), spesso, anzi quasi sempre, sono molto più interessanti quei vituperati, da alcuni, broadcast radiofonici (semi) ufficiali che impazzano negli ultimi anni, operazioni dubbie, in prevalenza dedicate ad artisti scomparsi, che quindi non si possono “difendere”, ma spesso valide.

Dopo questa lunga concione, scusate, ma quando ci vuole ci vuole, non c’è molto da dire sul disco: se volete una sintesi potrei dirvi che sembra un disco “bruttino” di Roy Orbison degli anni ’70, prodotto da un Jeff Lynne  (o un Dave Edmunds, entrambi hanno avuto a che fare con Shannon) che nei giorni delle registrazioni era affetto però da una forte otite che gli impediva di sentire bene. Se volete elaboro: non c’è un ingegnere del suono, produce lo stesso Del, anche il suono è piuttosto bolso, a tratti sembra quasi in mono, spesso la voce è semi nascosta dagli strumenti e il sound si rifà, a momenti, alla dance music che stava per esplodere in quegli anni. E le canzoni? Un altro bel mah è d’uopo: Best Days Of My Life non è neppure malaccio, sembra un pezzo dei Rockpile, anche se i coretti e il suono dell’organo sono improponibili, Love Letters di Ketty Lester, l’aveva inciso anche Elvis, sembra appunto quasi un brano di Roy Orbison, la voce non è neppure disprezzabile ma l’arrangiamento è pessimo, e pure le melodrammatiche Till I Found You e Raylene, in questo senso non scherzano, la voce è ancora stentorea e orbisoniana (si può dire?), ma l’arrangiamento, con uso massiccio di archi e di coretti fa accapponare la pelle.

One Track Mind è un buon pezzo rock, sempre con la voce sepolta dagli strumenti, ma Black Is Black dei Los Bravos in versione disco-dance con organetto vintage è da denuncia penale, meglio Oh Pretty Woman, il classico di Roy Orbison con cui Del Shannon aveva più di una affinità, anche se ne ho sentito versioni migliori. Le morbide e “cariche” Another Lonely Night e Amanda temo che non resteranno negli annali della musica, come pure una loffia e danzereccia Love It Don’t Come Easy; paradossalmente il brano migliore è la cover di Today, I Started Loving You Again, un pezzo country che uno non vedrebbe legato alle corde vocali di Del Shannon, ma nel disastro totale si salva. Magari, anzi sicuramente, ci sono della passione e della competenza coinvolte (non dimentichiamo che i tipi della Rockbeat erano tra i fondatori della prima Rhino Records), e di tanto in tanto queste operazioni permettono la (ri)scoperta di piccoli gioiellini sepolti dalle sabbie del tempo, ma spesso, non sempre per meri motivi commerciali, semplicemente per entusiasmo, queste operazioni nascondono delle vere fregature per gli appassionati. Per me questo è uno di quei casi, forse sbaglio, ma se potete statene alla larga, oppure maneggiate con cura, e comunque non fidatevi dei fans sui social o su YouTube (sotto il video di Raylene c’è un testuale ” A Del Shannon Masterpiece”), peccato!

Esistono anche delle Nashville Sessions registrate tra il 1982 e il 1984, che sembrano quasi anche peggio, o comunque è una bella lotta, sentite qui sopra, speriamo non vengano mai pubblicate, ma temo il peggio.

Bruno Conti