Un Grande Artista E Un Grande Concerto! George Thorogood & The Destroyers – Live At Rockpalast Dortmund 1980

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George Thorogood & The Destroyers – Live At Rockpalast – Dortmund 1980 – MIG Made In Germany 2CD+DVD

George Thorogood ha pubblicato il suo ultimo album di studio, l’ottimo 2120 South Michigan Avenue, nel 2011, ma in questo ultimo lustro le pubblicazioni discografiche a suo nome non sono comunque mancate: nel 2013 è uscito, in vari formati, uno scintillante Live At Montreux, http://discoclub.myblog.it/2013/12/13/forse-il-miglior-album-dal-vivo-sempre-george-thorogood-live-at-montreux/ (forse, perché non era ancora uscito questo) mentre nel 2015 è uscita una splendida edizione, riveduta e corretta, del suo primo album, ribattezzato per l’occasione George Thorogood And The Delaware Destroyers. Ora, per completare questa operazione di rivisitazione degli archivi, la tedesca Made In Germany pubblica un concerto del 1980 tratto dalla quasi inesauribile serie del Rockpalast: per l’occasione siamo a Dortmund, quindi in “trasferta” rispetto alla più famosa location della Grugahalle di Essen, ma comunque anch’essa teatro di memorabili serate dal vivo, preservate per i posteri dalla emittente radiotelevisiva WDR. Per la precisione è il 26 novembre del 1980, il nostro amico aveva appena pubblicato quello che sarebbe stato il suo terzo e ultimo album per la Rounder, More George Thorogood And The Destroyers, il primo con l’ingresso in pianta stabile nella formazione del gruppo del sassofonista Hank “Hurricane” Carter, che affianca la rocciosa sezione ritmica di Jeff Simon alla batteria e Billy Blough  al basso, tutt’oggi, inossidabili allo scorrere del tempo, a fianco di George Thorogood, che giungeva in Europa preceduto dalla sua fama di “The Satan Of Slide”, pronto ad infiammare le platee del Vecchio Continente.

La prima cosa che colpisce l’occhio è la scelta del repertorio: su 15 brani (sia nella versione DVD, immagini un po’ buie, ma efficaci, come nel doppio CD), uno solo porta la firma di Thorogood, il resto è una scorribanda nelle pieghe del miglior blues e R&R d’annata, suonata a velocità supersonica, ma quando e dove serve, capace anche di momenti di finezza e abbandono (non molti, ma ci sono)! Chuck Berry, John Lee Hooker e Elmore James sono i più “saccheggiati”, ma tutto il Gotha della grande musica viene omaggiato: e non è che George volesse fare il modesto, perché fino a quel momento solo un brano aveva scritto, Kids From Philly, che è il secondo ad apparire nel concerto, oltre a tutto firmato con lo pseudonimo Jorge Thoroscum. Anzi, per la verità, a volere essere onesti fino in fondo, aveva firmato anche la strepitosa Delaware Slide, che purtroppo non viene eseguita nella serata. Lo show si apre con una devastante House Of  Blue Lights, quasi cinque minuti di pura goduria sonora, la quintessenza del blues e del R&R, un pezzo suonato da tanti grandi, ma la versione di Thorogood rimane una delle migliori in assoluto, con sax e chitarra che si inseguono in modo inesorabile. Ancora ritmi veloci per la citata Kids From Philly, un piacevole strumentale a tutto sax e pure per la successiva I’m Wanted (All Over The World), un pezzo di Willie Dixon, di nuovo a tempo di R&R, dove Thorogood comincia a scaldare l’attrezzo, prima di invitare le ragazze a salire sul palco per danzare nella successiva canzone, ma ne arrivano poche, almeno all’inizio, come si vede nel video, comunque il buon George non si offende e attacca una frenetica Cocaine Blues.

Secondo momento topico del concerto la “solita” versione micidiale del medley House Rent Blues/One Scotch, One Bourbon, One Beer, John Lee Hooker d’annata, ma anche Thorogood all’ennesima potenza, che inizia ad innestare il bootleneck, poi è subito di nuovo tempo di R&R con il Chuck Berry di It Wasn’t Me, sparato a tutta velocità, seguito dalla prima incursione nel songbook di Elmore James con il festival slide di una fantastica Madison Blues, fine del primo CD. Si riattacca dove ci si era interrotti, uno dei rari slow blues, ma ancora di James, Goodbye Baby (Can’t Say Goodbye), splendida, che precede una micidiale New Hawaiian Boogie, uno strumentale che conferma la sua fama di “Satan Of Slide”, e per concludere la tetralogia dedicata a Elmore James una eccellente Can’t Stop Lovin’. Quindi tocca ad un classico del Rock (and roll) e di Thorogood, l’inconfondibile drive della travolgente Who Do You Love di Ellas McDaniel, per tutti Bo Diddley, seguita ancora dall’omaggio ad un altro Maestro, Muddy Waters, ripreso con la “poco nota” Bottom Of The Sea. Un altro super classico di George Thorogood è la sua versione di Night Time, presa oltre la velocità della luce, con la chitarra e il sax entrambi in overdrive, e pure il finale a tutto Chuck Berry, e quindi R&R, non scherza, prima No Particular Place To Go, una specie di anticipazione della futura Bad To The Bone, e poi si accelera ulteriormente fino al “delirio” di Reelin’ And Rockin’. I live di George Thorogood non mancano certo, ma datecene ancora finché sono così belli, e questo è uno dei migliori in assoluto!

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Era Solo Una Questione Di Tempo! Elvis Presley – The Album Collection

elvis presley complete rca albums 60 cd

Elvis Presley – The Album Collection – RCA 60CD Box Set

Negli ultimi anni è diventata un’abitudine per la Sony pubblicare l’opera omnia dei più grandi artisti della nostra musica, basti pensare ai mastodontici box dedicati a Miles Davis (periodo Columbia), Johnny Cash (idem) e Bob Dylan, ma potrei fare molti altri esempi: sembrava strano che nel marasma di ristampe e riedizioni dedicate ad Elvis Presley non avessero pensato ad un trattamento analogo…ed in effetti ci hanno pensato! E’ uscito infatti da poco questo sontuoso box di sessanta CD, The Album Collection, che contiene tutti i dischi in studio e dal vivo incisi in vita dal King per la RCA (tranne fortunatamente i due dischi di spoken word), comprese le antologie pubblicate all’epoca che riunivano i singoli del periodo, e tre CD di rarità esclusivi per questo box (uno per decade): a parte gli esordi con la Sun Records, c’è quindi tutta la vita artistica di Elvis, uno dei rari casi di fedeltà ad una sola etichetta, la RCA appunto, che nel corso della sua carriera lo ha ricoperto di dollari, influenzando però anche pesantemente il suo indirizzo musicale e allontanandolo via via sempre di più dal rock’n’roll degli inizi, con veri e propri passaggi a vuoto specie negli anni sessanta, come vedremo.

Elvis è sempre stato considerato più un artista da singoli che da LP, e la cosa è vera solo in parte: se è indiscutibile che, soprattutto negli anni cinquanta, il nostro ha pubblicato una serie impressionante di 45 giri diventati leggenda, è anche vero che nello stesso periodo anche i suoi full-lenght contenevano in maggior parte grandi canzoni.

elvis presley elviselvis presley 2nd album

E’ questo il caso di Elvis Presley, suo esordio per la RCA ed ancora oggi considerato una pietra miliare del rock’n’roll (e dall’iconica ed imitatissima copertina, basti pensare a London Calling dei Clash ed a Raindogs di Tom Waits), ma anche del suo seguito Elvis ed anche i due successivi, usciti nel periodo in cui il nostro prestava servizio militare e composti da materiale inciso in quelle prolifiche sessions del 1956.

elvis is back

Gli anni sessanta iniziarono benissimo con lo splendido Elvis Is Back!, che anche dal titolo fa capire che si trattava del primo materiale inciso ex novo dopo la naia, un album che contiene classici come Fever, Reconsider Baby e Such A Night, ma poi, dopo i meno riusciti Something For Everybody e Pot Luck la RCA (con la complicità del famigerato manager di Elvis, il “Colonnello” Tom Parker) cercò di fare del King una star del cinema, con una serie di filmucoli di basso livello che servivano come pretesto per le performances canterine del nostro, e le cui colonne sonore, a tratti imbarazzanti, occuparono quasi tutta la discografia di Presley in questa decade: chiaramente qua ci sono tutte, e se qualcuna si salva (Blue Hawaii, Girls! Girls! Girls!) le canzoni degne di essere tramandate ai posteri non sono molte (ma Can’t Help Falling In Love, tratta proprio da Blue Hawaii, è una delle più grandi ballate di sempre in assoluto) https://www.youtube.com/watch?v=5V430M59Yn8

elvis comeback special

E veniamo alla fase finale della carriera di Elvis, cioè la parte che inizia con l’album Elvis, colonna sonora del famoso comeback special del 1968 in cui il nostro (tirato a lucido ed in forma smagliante) si esibì dal vivo in TV per uno show divenuto leggendario.

Da qui e per tutti gli anni settanta (fino alla prematura morte avvenuta nel 1977), il nostro pubblicherà diversi altri dischi dal vivo, tutti di grande valore (nella fase finale, a parte i costumi e certe pacchianerie molto Las Vegas, era diventato un performer straordinario e dalla potenza vocale impressionante, in grado di interpretare qualsiasi brano e fornirne la versione definitiva), tra cui vorrei citare il famosissimo Aloha From Hawaii Via Satellite (1973), un grandissimo successo di vendite, e l’altrettanto riuscito concerto al Madison Square Garden pubblicato l’anno prima.

elvis country

Anche in studio però Elvis, a parte qualche arrangiamento in tantino sopra le righe, seppe dare il meglio di sé stesso nella sua ultima decade, con un vero e proprio capolavoro come Elvis Country (I’m 10.000 Years Old) (1971, il miglior disco del Re?), a cui fece seguire a ruota il meno riuscito (ma sempre più che buono) Love Letters, inciso nelle stesse sessions; anche Promised Land e soprattutto Today (entrambi del 1975) sono degli ottimi esempi di pop-rock di gran classe, come pure Moody Blue, uscito circa un mese prima della sua scomparsa (so che gli anni settanta di Elvis sono sempre stati oggetto di critiche, ma a mio parere certe critiche sono influenzate in parte dagli eventi di contorno ed extra-musicali).

Inoltre, nella discografia di The Pelvis una parte fondamentale sono sempre stati i gospel albums (era molto religioso), pubblicati lungo tutta la carriera con intervalli più o meno regolari: se i primi due (His Hand In Mine, 1960, e How Great Thou Art, 1967) sono assolutamente imperdibili, anche He Touched Me del 1972 non era niente male; e poi, dulcis in fundo, i due dischi di Natale (Elvis’ Christmas Album, 1957, e Elvis Sings The Wondeful World Of Christmas, 1971), ancora oggi tra i più richiesti durante le festività.

Disc: 58
1. My Happiness
2. That’s When Your Heartaches Begin
3. I’ll Never Stand In Your Way
4. It Wouldn’t Be the Same Without You
5. Blue Moon of Kentucky
6. Tomorrow Night
7. Fool, Fool, Fool
8. I’m Left, You’re Right, She’s Gone
9. Tweedlee Dee
10. Maybellene
11. When It Rains, It Really Pours
12. One Night (Of Sin)
13. Loving You
14. Treat Me Nice
15. King Creole
16. Ain’t That Loving You Baby
17. I Asked the Lord
18. Earth Angel
19. I’m Beginning to Forget You
20. Mona Lisa

Disc: 59
1. Stuck On You
2. Fame and Fortune
3. Witchcraft / Love Me Tender
4. Lonely Man
5. Today, Tomorrow and Forever
6. I’m A Roustabout – Elvis Presley & The Jordanaires
7. If I Loved You
8. Tennessee Waltz
9. What Now My Love
10. Show Me Thy Ways, O Lord
11. Oh How I Love Jesus
12. Hide Thou Me
13. Write to Me from Naples
14. My Heart Cries for You
15. Dark Moon
16. Beyond the Reef
17. Suppose
18. It Hurts Me
19. Let Yourself Go
20. This Time / I Can’t Stop Loving You (Informal Recording)
21. Are You Lonesome Tonight?

Disc: 60
1. A Hundred Years from Now
2. Faded Love
3. Ghost Riders In the Sky
4. Alla en el Rancho Grande
5. Froggy Went a Courtin’
6. Little Sister / Get Back
7. Something
8. Lady Madonna
9. I Shall Be Released
10. My Way
11. I’ll Be Home On Christmas Day
12. Tiger Man
13. She Thinks I Still Care
14. I’m So Lonesome I Could Cry
15. The Twelfth of Never
16. You’re the Reason I’m Living
17. Softly As I Leave You
18. America the Beautiful

I tre CD finali del box (di cui cui sopra leggete la lista completa dei brani, se volete fare il classico “celo – manca”) contengono rarità varie (nel primo alcune appartengono al periodo Sun), prese dai vari cofanetti e riedizioni uscite dopo la morte di Presley: non ci sono inediti assoluti, ma è un’ottima opportunità di ascoltare brani altrimenti sparsi in decine di altri album; tutti i 57 CD originali sono presentati in versione mini-LP (senza bonus tracks) e con uno splendido libretto a copertina dura che completa il tutto.

Un box quindi che ci permette di risentire (quasi) tutto ciò che una delle più grandi voci di tutti i tempi ha pubblicato, con qualche indubbia caduta di stile ma nella maggior parte dei casi siamo di fronte a grandissima musica, e non dimentichiamo che Elvis ha sempre curato molto gli arrangiamenti e si è sempre circondato di musicisti formidabili (tra i quali come non citare Scotty Moore, D.J. Fontana, Floyd Cramer, The Jordanaires, James Burton, Chet Atkins, Charlie McCoy, Pete Drake, David Briggs, Reggie Young, Eddie Hinton, Norbert Putnam, Ronnie Tutt, Chip Young, Jerry Scheff e molti altri che meriterebbero di essere nominati ma non voglio fare un post a parte).

Certo, non costa due euro (e neppure quattro), ma averlo in casa è quasi un atto di rispetto nei confronti di una delle figure più importanti del secolo scorso, e non solo in campo musicale.

Marco Verdi

P.S: ecco comunque la lista completa degli album contenuti nel cofanetto:

1. Elvis Presley (1956)
2. Elvis (1956)
3. Loving You (1957)
4. Elvis Christmas Album (1957)
5. Elvis’ Golden Records (1958)
6. King Creole (1958)
7. For LP Fans Only (1959)
8. A Date With Elvis (1959)
9. Elvis’ Gold Records Volume 2- 50,000,000 Elvis Fans Can’t Be Wrong (1959)
10. Elvis Is Back! (1960)
11. G.I. Blues (1960)
12. His Hand In Mine (1960)
13. Something For Everybody (1961)
14. Blue Hawaii (1961)
15. Pot Luck (1962)
16. Girls! Girls! Girls! (1962)
17. It Happened At The World’s Fair (1963)
18. Elvis’ Golden Records Volume 3 (1963)
19. Fun In Acapulco (1963)
20. Kissin’ Cousins (1964)
21. Roustabout (1964)
22. Girl Happy (1965)
23. Elvis For Everyone (1965)
24. Harum Scarum (1965)
25. Frankie And Johnny (1966)
26. Paradise, Hawaiian Style (1966)
27. Spinout (1966)
28. How Great Thou Art (1967)
29. Double Trouble (1967)
30. Clambake (1967)
31. Elvis’ Gold Records Volume 4 (1968)
32. Speedway (1968)
33. Elvis Sings Flaming Star (1968)
34. Elvis (NBC-TV Special) (1968)
35. From Elvis In Memphis (1969)
36. From Memphis To Vegas/From Vegas To Memphis (2 discs, 1969)
37. Let’s Be Friends (1970)
38. On Stage (1970)
39. Almost In Love (1970)
40. That’s The Way It Is (1970)
41. Elvis Country (I’m 10,000 Years Old) (1971)
42. Love Letters From Elvis (1971)
43. C’mon Everybody (1971)
44. I Got Lucky (1971)
45. Elvis Sings The Wonderful World Of Christmas (1971)
46. Elvis Now (1972)
47. He Touched Me (1972)
48. Elvis: As Recorded At Madison Square Garden (1972)
49. Aloha From Hawaii Via Satellite (2 discs, 1973)
50. Elvis (Fool) (1973)
51. Raised On Rock (1973)
52. Good Times (1974)
53. Elvis: As Recorded Live On Stage In Memphis (1974)
54. Promised Land (1975)
55. Elvis Today (1975)
56. From Elvis Presley Boulevard, Memphis, Tennessee (1976)
57. Moody Blue (1977)
58. ’50s Rarities (new collection)
59. ’60s Rarities (new collection)
60. ’70s Rarities (new collection)

Poi Sarebbe Scomparso Nel Nulla Anche Lui! Jeremy Spencer (With Fleetwood Mac)

jeremy spencer jeremy spencer

Jeremy Spencer – Jeremy Spencer – Real Gone Music/Ird

Jeremy Spencer era uno dei due chitarristi della formazione originale dei Fleetwood Mac, i primi, quelli di Peter Green e del boom del british blues, noto soprattutto ai tempi per la sua passione sfrenata per lo stile bottleneck di Elmore James, di cui era un eccellente praticante nei primi due album della band, fino a che l’arrivo di Danny Kirwan nel 1968, lo mise un po’ in un angolo, anche se rimase nel gruppo fino al 1971, prima di “sparire nel nulla” per moltissimi anni con gli evangelici Children Of God (con i quali condivide tuttora il proprio credo religioso, e a causa del quale Spencer sostiene di essere stato accusato di abusi sui minori e pedopornografia). Ma la sua grande passione erano anche il R&R e la musica oscura melodica degli anni ’50 e ‘60 in generale, di cui, spesso sotto lo pseudonimo di Earl Vince & The Valiants, offriva accurate ricostruzioni di quel sound, in uno stile che era per metà omaggio e per metà affettuosa presa in giro. Proprio nel 1969, mentre la band stava registrando quello che sarebbe stato il loro album più rock fino a quel momento (lo splendido Then Play On, come sapete sono un patito di Peter Green, che considero uno dei dieci più grandi chitarristi della storia del rock) in contemporanea, anche su sollecitazione di Mike Vernon, il loro produttore,  pure lui appassionato di sonorità vintage come Spencer, venne deciso di registrare, sempre con i Fleetwood Mac come backing band, un EP di materiale costruito intorno alla passione di Jeremy per quel tipo di musica, dischetto che avrebbe dovuto essere allegato all’album come bonus.

Poi non ne se fece nulla e le registrazioni non vennero utilizzate, ma il germe dell’idea era stato gettato e i cinque ( con Green solo in un brano), tutti comunque più o meno appassionati di quello stile (Kirwan più orientato verso Beatles e Cream), decisero di registrare un intero album con questo tipo di musica, che comunque suonavano spesso all’interno del loro repertorio, quando Jeremy Spencer assumeva la guida della band nelle sezioni di dischi e concerti in cui Green si faceva da parte per concedere spazio al suo pard. Il disco quindi venne registrato, con l’aiuto di Steve Gregory (sassofonista che aveva suonato con l’Alan Price Set e in Honky Tonk Women degli Stones) e Dick Heckstall-Smith dei Colosseum, aggiunti ai fiati in un paio di brani, e con la presenza di quasi tutto materiale originale firmato dallo stesso Spencer, oltre a tre oscure cover pescate nel repertorio amato dal nostro, il tutto però rigorosamente legato a quel tipo di suono, anche se non mancano alcune derive decisamente più blues dove il nostro amico può dare fondo alla sua passione per Elmore James. Diciamo subito che l’album non è imprescindibile, discreto  ma non eccelso, con Jeremy, che oltre che buon chitarrista slide, ribadisce anche le sue doti già conosciute di pianista e si conferma cantante sempre in bilico tra il divertito e il divertente, con la giusta dose di british humor, mescolata al suono tipicamente americano.

Così possiamo ascoltare il R&R alla Buddy Holly dell’iniziale Linda (che ha qualche parentela con Peggy Sue), The Shape I’m In, una delle cover, anche se era stata scritta da Otis Blackwell, quello di Great Balls Of Fire e mille altri successi, era stata cantata da tale Johnny Restivo, ma sembra un pezzo di Elvis, e pure di quelli belli, anche grazie all’assolo di sax nella parte centrale, mentre Mean Blues, è appunto uno dei rari blues duri e puri, con i Fleetwood Mac in gran spolvero, soprattutto Kirwan alla solista, e presentazione dove si prendono in giro da soli, ma poi suonano come loro sapevano fare  https://www.youtube.com/watch?v=4N2pUu8dpuQ. String-a-long, la seconda oscura cover, è un delizoso doo-wop alla Sha Na Na con Peter Green al banjo (?!?) https://www.youtube.com/watch?v=yDZ1UYdz57o , mentre Here Comes Charlie (With His Dancing Shoes On), è nuovamente un grintoso R&R alla Rave On e Teenage Love Affair, sempre una delle canzoncine dei primi teen idols. Jenny Lee, leggera leggera e cantata con quella aria da presa per il culo, sembra uno dei romantici brani dei primi Dion o Ricky Nelson, con Don’t Go Please Stay, che viceversa pare un brano di B.B. King, se fosse stato un praticante della arte della slide come Jeremy Spencer https://www.youtube.com/watch?v=8So2t8Kd9j8 . You Made A Hit, la terza cover, è un pezzo di Charlie Rich, di quando faceva R&R con la Sun, ed è nuovamente deliziosamente retrò. Dopo un paio di rutti (giuro), parte una Take A Look Around Mrs. Brown, che potrebbe essere Give Peace A Chance come l’avrebbe cantata la Bonzo Dog Doo-Dah Band, con tanto di finto sitar da Summer Of Love. Surfin’ Girl, non è il brano dei Beach Boys, ma il genere è quello, e If I Could Swim The Mountain, è una ballata strappalacrime alla Presley, sempre ai limiti, e anche oltre, della parodia https://www.youtube.com/watch?v=o2UtqJnSQmY . Cè pure, come bonus track, Teenage Girl, che era il singolo dell’epoca, uscito nel 1970, come d’altronde il resto dell’album. Se volete passare poco più di 35 minuti di puro divertimento, in tutti i sensi.

jeremy spencer coventry blue

Ma poi è riapparso, a livello musicale https://www.youtube.com/watch?v=UQRTxZTYGhc !

Bruno Conti

Serata Ad Alta Gradazione, In Tutti I Sensi! Johnny Winter – My Father’s Place, Old Roslyn, NY, September 8th 1978

johnny winter my father's place

Johnny Winter – My Father’s Place, Old Roslyn, NY, September 8th 1978 – 3 CD Air Cuts

Alcune veloci considerazioni. Johnny Winter ha avuto per alcuni anni una propria Bootleg Series, che sembra essersi interrotta dopo la morte avvenuta lo scorso anno. La serie, curata da Paul Nelson, non ha mai brillato né per l’accuratezza delle note e neppure, spesso, per la qualità sonora dei dischi http://discoclub.myblog.it/2014/10/05/anche-la-morte-prosegue-serie-infinita-johnny-winter-live-bootleg-series-vol-11/ . E in ogni caso, negli anni, sono stati (ri)pubblicati vari dischi dal vivo ufficiali fenomenali, penso al Woodstock completo, al concerto del Fillmore East del 1970 http://discoclub.myblog.it/tag/johnny-winter-and/  e al Rockpalast del 1979 http://discoclub.myblog.it/2011/04/12/non-c-il-due-senza-il-tre/ . I rappresentanti della categoria “bootleggers roll your tapes”, come li chiamava il nostro vecchio caro Boss, si sono interessati pure alla produzione dell’albino texano, con risultati altalenanti, ma questo concerto del 1978 al My Father’s di New York è veramente interessante. Intanto siamo di fronte ad un concerto completo in 3 CD, e non ci sono fregature. Quando ho visto l’involucro esterno con la scritta tre CD, poi ho letto la lista dei brani, tredici, compresi i credits finali, mi sono detto, andiamo bene, altro “finto” cofanetto! E invece la durata media dei brani è sui 20 minuti a brano, con un paio “solo” sui 15 e un medley che supera la mezz’ora. Tra l’altro il concerto, registrato per l’emittente radiofonica WLIR-FM di New York, è inciso decisamente bene, qualche problema tecnico qui e là, ma qualità sonora notevole, migliore di molti dischi ufficiali.

Ma dove sta l’inghippo allora, perché è impossibile non ci sia? Come dicono gli americani, con termine elegante, il buon Johnny Winter è “inebriated”, e anche noi italiani abbiamo il termine adatto, “ubriaco perso”, però niente paura perché il musicista texano suona lo stesso alla grandissima, l’unico problema è che tra un brano e l’altro, e ogni tanto anche all’interno dei brani, infila lunghi discorsi sconnessi di parecchi minuti che fanno scendere la tensione del concerto, senza pregiudicarne il valore storico che rimane notevole. I tipi della Air Cuts annunciano orgogliosamente nel retrocopertina che all’interno del CD ci sono cospicue note e rare foto: ora se vogliamo considerare come note un articolo del NME, peraltro del dicembre 1977, e le due foto sono quelle fronte e retro, il tutto corrisponde alla verità. Comunque alla fine, come diceva Totò, sono “quisquilie e pinzillacchere”, perché il concerto è veramente notevole: intanto sappiamo (e nelle bootleg series non era mai riportat)o che in questo concerto abbiamo Jon Paris, a basso, armonica e voce, e Bobby Torello alla batteria, la serata è per promuovere il recentissimo album White, Hot & Blue, appena pubblicato ad agosto del 1978. Ed il repertorio è di prima scelta: prima una lunghissima versione, fantastica, di Hideaway, lo strumentale di Freddie King, con Winter che esplora in lungo e in largo la sua chitarra con classe ed inventiva, poi un altro brano sempre di King, Sen-sha-sun, riportato sulla copertina come Sensation, ma quello è, sempre con Johnny ai vertici assoluti del blues e del rock, poi, a seguire, dopo una presentazione sconnessa, un’altra lunghissima perla come Last Night, brano dal repertorio di Howlin’ Wolf che era sull’album appena uscito, blues allo stato puro con Jon Paris all’armonica che aggiunge autenticità e pathos a questa lunga versione che sfiora i venti minuti, discorsi a vuoto compresi e con un’improvvisa scomparsa della musica verso gli undici minuti del brano, che sfuma e poi riappare.

Sempre nel primo CD c’è una versione formidabile di Bony Maronie, presentata come la più lunga mai registrata, ma anche una delle più selvagge e variegate, anche qui sfumata e poi ripresa al volo (nessuno è perfetto). Secondo CD aperto da una chilometrica Susie Q, con Winter che nonostante le quantità ingerite di alcol tiene benissimo il palco e suona come solo lui sa fare, poi nel finale sbarella leggermente (per usare un eufemismo) ma si riprende per Come On My Kitchen di Robert Johnson, dove è tempo di slide, e qui si apprezza tutta la maestria del maestro del bottleneck. Sempre da White, Hot And Blue una Walking By Myself, di nuovo con Paris all’armonica, che è un altro classico del blues. L’ultimo CD si apre con Wipe Out dei Surfaris, divisa in due parti, con assolo di batteria di Torello annesso, prima di passare il microfono a Paris per un altro classico del R&R come Rave On, solo quattro minuti. A seguire una scintillante Everyday I Have The Blues, dove a un certo punto Winter si perde nella nube alcolica (e questo è il guaio della serata), ma si riprende per concludere il tutto con un Country Blues Medley che totalizza oltre 31 minuti e comprende Mississippi Blues, Kind Hearted Woman e Me And The Devil, che viene portato a termine, nonostante varie divagazioni, con buoni risultati. “Esagerato”, ma assai interessante, nel complesso.

Visto che non ci sono in rete video o audio del 1978 ho inserito un paio di concerti di potenziale interesse che se non sono già usciti vedo bene come candidati per future pubblicazioni semiufficiali (entrambi con Torello e Paris); bello anche il Muddy Waters a Chicago del 1981, con ospite Johnny Winter.

Bruno Conti

La Via Italiana Al Blues 3: Indipendente E “Alternativo”! Snake Oil Ltd – Back From Tijuana

snake oil ltd back from tijuana

Snake Oil Ltd – Back From Tijuana – Killer Bats/Riserva Sonora 

Sono un po’ in ritardo perché il CD è “uscito” da qualche mese ma sono qui a parlarvi di una nuova, allegra, rumorosa, divertente e preparata, brigata di musicisti che si dedicano alla divagazione del Blues Made In Italy. Nuovi, almeno per chi scrive e, presumo, per i lettori del Blog, esclusi i liguri, genovesi nello specifico. I quattro, classica formazione a tre più cantante, i cui nomi probabilmente non diranno molto ai più, ma che per rispetto di chi fa musica con passione ricordiamo: Andrea Caraffini e Zeno Lavagnino (che nel frattempo ha lasciato il gruppo) sono la sezione ritmica, mentre Stefano Espinoza è il chitarrista e last but not least Dario Gaggero, il cantante, nonché autore delle divertenti notizie che punteggiano il loro sito  http://snakeoillimited.altervista.org/, e, nelle proprie parole, “fondatore e Leader Massimo degli Snake Oil Ltd., laureato col massimo dei voti all’ Università della Terza Mano di Fatima, sommo conoscitore di filtri d’amore, rappresentante esclusivo per l’Europa dell’Olio di Serpente più efficace e miracoloso del Globo Terracqueo”. Ma i giovani (almeno all’apparenza delle foto, meno forse Gaggero che vanta pure una collaborazione più “seria” con i Big Fata Mama), sono anche preparati e quasi enciclopedici nella scelta del loro repertorio che, partendo dal blues, sconfina nel rockabilly, nel R&R, nel voodoo rock delle paludi della Louisiana, meno marcato di quello di Dr. John, forse più deferente verso Fats Domino, nume tutelare della band, insieme a Bo Diddley, Hound Dog Taylor, Howlin’ Wolf, con qualche reminiscenza di Tav Falco, a chi scrive (se no cosa sto qui a fare) ricordano anche il sound dei primi dischi di Robert Gordon con Link Wray, o dei primissimi Dr. Feelgood, quelli più deraglianti di Wilko Johnson.

Ma poi la scelta del repertorio cade anche su brani “oscurissimi” tratti da vecchi 45 giri anni ’50 o da compilation di etichette poco conosciute, pure se la grinta e la velocità con cui vengono porti sta a significare la passione, che rasenta la devozione, di questi allegri signori che probabilmente fanno musica per divertirsi e, ovviamente, finiscono per divertire i loro ascoltatori. Anche l’idea di esordire con un disco dal vivo non è peregrina: Back From Tijuana/Live From The Sea è stato registrato ai Bagni Liggia di Genova Sturla, che sono più rassicuranti, presumo, delle stradine di New Orleans e anche temo delle paludi della Louisiana, ma l’aria di festa collettiva che si respira nei solchi digitali di questo album è assolutamente contagiosa anche per chi non era presente all’evento. Loro orgogliosamente annunciano che la prima tiratura del CD è andata esaurita e ne stanno preparando uno nuovo in studio.

Se nel frattempo  vi volete sparare, ad alto volume, una carrellata nelle origini del rock, qui trovate un po’ di tutto: dal blues del Delta di Son House, con l’iniziale Grinnin’ On Your Face ad una Give Back My Wig che dai solchi dei dischi Alligator di Hound Dog Taylor plana sulle tavole di un locale genovese, con la grinta del pub-rock tinto punk dei Feelgood, mista a sonorità Gordon-Wray e persino Blues Brothers, The Greatest Lover In The World è un Bo Diddley “minore” fatto alla Elvis primo periodo, quindi bene, Ask Me No Questions faceva la sua porca figura in In Session, il disco postumo di Albert King con Stevie Ray Vaughan e la solista di Espinoza qui viaggia che è un piacere.This Just Can’t Be Puppy Love, Leopard Man, Going Down To Tijuana, Bow Wow, non nell’ordine in cui appaiono nel disco, appartengono alla categoria “da dove cacchio sono uscite?”, ma ci piacciono. Too Many Cooks apparterebbe alla categoria, ma visto che l’ha recuperata anche Mick Jagger per il suo Very Best, da una inedita session con Lennon, lo mettiamo nella sezione chicche. Dove si aggiunge ad  uno-due tra la trascinante Whole Lotta Loving del vate Fats Domino e la cattivissima Evil (is going on) di mastro Howlin’ Wolf. Aggiungete il divertente R&R di Wynonie Harris Bloodshot eyes, The Drag, un brano degli Isley Brothers che ha la stamina dei più famosi Shout e Twist & Shout, senza dimenticare la conclusiva Let The Four Wind Blows, altro classico di Domino, oltre otto minuti, uno di quei brani che non ne vogliono sapere di finire. Se lo riuscite a trovare (magari sul loro sito citato prima, vista la distribuzione difficoltosa) sono soldi spesi bene, veramente bravi, anche qui siamo nella categoria morfologica “italiani per caso”!

Bruno Conti

Cinque Simpatici Canadesi, Ma Quello “Abbronzato” Viene Dalla Georgia! Fathead – Fatter Than Ever

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Fathead – Fatter Than Ever – Eletro-Fi

Una delle band storiche della scena musicale blues canadese i Fathead, in attività dal 1992 (quindi comunque non tra le più longeve), vincitrice di un paio di Juno Awards, tra i discendenti di quella scuola che parte dalla fine degli anni 50, quando Ronnie Hawkins chiamò accanto a sé gli Hawks (e Levon Helm disse di di loro “una delle migliori band che abbia ascoltato da lungo tempo”), quelli che in futuro sarebbero diventati la Band, passando per un altro gruppo, questo sì longevo, come la Downchild Blues Band, che i 40 anni di attività li ha già festeggiati. Chi vogliamo ricordare ancora tra i canadesi che si sono distinti in questo tipo di musica: potremmo ricordare i Powder Blues, il compianto Jeff Healey, Rita Chiarelli, Colin James, allargando leggermente lo spettro sonoro anche Colin Linden, risalendo nel passato David Clayton-Thomas, post B S &T,  Amos Garrett, persino Long John Baldry, inglese di nascita, ma  si è trasferito in Canada dai primi anni ’70.

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Proprio dalla band di Baldry proviene Papa John King, l’attuale chitarrista dei Fathead, il più”giovane” del gruppo, anche se come si può arguire dalla foto di copertina non è che i giovani virgulti si spechino https://www.youtube.com/watch?v=Lj6Pa7-nZs4 . Costruiti intorno al nucleo dell’armonicista, sassofonista, chitarrista e cantante Al Lerman e del bassista Bob “Omar” Tunnoch, che sono i due principali autori, i Fathead si avvalgono di una eccellente voce solista nella persona di John Mays, cantante di colore, dalle voce duttile e potente, che è il principale veicolo delle composizioni del gruppo,con Omar Tunnoch  prodigioso bassista, dal suono “grasso” e poderoso, tra i tanti mi ricorda il vorticoso sound che fuoriusciva dallo strumento del leggendario Larry Taylor ai tempi dei Canned Heat (sentitevi un brano come Evil Eye, dove le note che escono dallo strumento sembrano voler sfondare le casse dell’impianto). In effetti il boogie, una certa quota di swing, qualche accenno di soul e R&B (più di uno), il R&R, si amalgamano con il blues più classico, per creare questo ibrido divertente e trascinante che è la musica della band, una sorta di Blues Brothers più professionali e meno volatili https://www.youtube.com/watch?v=6P3-QBW72T4 .

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Hanno pubblicato fino ad oggi una decina di dischi, compreso una antologia, Twenty Years Deep e un live, Livelier Than Eve; tra i dischi del passato ricordo con piacere Where’s Your Head At, quello con lo struzzo con la testa nella sabbia, uno dei loro migliori. Riprendiamo i contatti con questo Fatter Than Ever, dove li ritrovo validi e pimpanti come non mai, una delle band più ruspanti in questo ambito musicale, tutto meno che noiosi e paludati. Dalla scatenata Don’t Leave The Party, un boogie-shuffle dove si gusta anche il pianino dell’ospite Lance Anderson, ma è l’armonica che guida le danze, prima di lasciare spazio all’ancora più incalzante Johnny Says, dove l’autore Omar Tunnoch comincia a pompare il suo basso, ben coadiuvato dalla batteria di Bucky Berger, il tutto sempre a ritmi forsennati di R&R con Papa John King che comincia a fare sentire la sua presenza https://www.youtube.com/watch?v=ZLYKw0xXo2c . Take A Little Time For Yourself si salda anche con le musica delle radici, qualche tocco di New Orleans bayou lì, un pizzico di country blues qua, e il divertimento è assicurato. Evil Eye ricorda nel riff di chitarra addirittura qualcosa dei primi Stones,  quelli più intrippati con il blues, mentre nella deliziosa soul ballad Twenty Second Chances, John Mays si ricorda della sua giovinezza trascorsa in Georgia e dei passaggi nella band di James Brown, Al Lerman estrae il suo sax, Lance Anderson passa all’organo e siamo dalle parti di Memphis, musicalmente parlando.

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When Did You Ever, è un rock a rotta di collo, ancora con un prodigioso Tunnoch al basso, ogni nota un colpo di cannone, e tutta la band che azzecca un groove che profuma di Creedence o dei migliori Blasters, una vera goduria, a tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=ispRcLkM_7g . Slippery Slope è un altro R&R/blues di quelli da godere a tutto volume, prima di lanciarsi in un brano che ricorda i migliori Amazing Rhythm Aces, Life Goes on, country-soul di sopraffina fattura. My Brother è un altro poderoso blues-rock di quelli travolgenti, alla Los Lobos, con chitarra e armonica che si rispondono dai canali dello stereo, Better Off Taking Chances sembra un brano del Dr. John più osservante delle regole della musica di New Orleans e Shoot That Rooster e di nuovo un veloce e ritmato jump-blues. Pinching Pennies si situa a cavallo tra funky e R&B, molto coinvolgente, Preacher Man è un gospel di quelli inconsueti, a tempo di rock e blues. Throw Me A Bone, ricorda i trascorsi di Mays con il Godfather of soul, un funky di quelli cattivi, come pure la successiva Cost To Boogie, divertente e godibile, come tutto questo disco. Ottimo gruppo!

Bruno Conti

E’ Gia Partita La Grande Jam In Cielo? E’ Scomparso Johnny Winter, Aveva 70 Anni

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Se ne è andato ieri a Zurigo John Dawson Winter III, Johnny Winter per tutti, nella sua camera di albergo o in una clinica, non è chiaro, come non sono certe le circostanze della sua morte. A darne notizia sarebbe stata Jenna Derringer, la moglie del suo collaboratore di lunga militanza Rick. Non è stato ancora emesso un comunicato ufficiale per chiarire le cause del decesso. Quello che è certo è che Johnny Winter, da moltissimo tempo, dall’inizio degli anni ’90, non godeva più di buona salute: dopo essersi liberato da una lunghissima dipendenza dalle droghe, ex eroinomane e tossicodipendente, con il vizio dell’alcol e degli antidepressivi, Winter le aveva proprio tutte, ma testardamente, per virtù o per necessità, negli ultimi dieci anni della sua vita sotto la guida di Paul Nelson, chitarrista e manager, continuava la sua carriera di performer e musicista. Il suo ultimo concerto dovrebbe essere avvenuto il 14 luglio al Cahors Blues Festival in Francia, era stato anche in Italia, a maggio, per tre date, ed erano già previste altre date per un tour nordamericano, come pure la pubblicazione del nuovo disco Step Back, la cui uscita era annunciata per il prossimo 2 settembre e dovrebbe rimanere l’unica cosa certa, purtroppo, per il futuro.

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Step Back Track Listing

1. Unchain My Heart – Johnny Winter
2. Can’t Hold Out (Talk To Me Baby) – Johnny Winter with Ben Harper
3. Don’t Want No Woman – Johnny Winter with Eric Clapton
4. Killing Floor – Johnny Winter with Paul Nelson
5. Who Do You Love – Johnny Winter
6. Okie Dokie Stomp – Johnny Winter with Brian Setzer
7. Where Can You Be – Johnny Winter with Billy Gibbons
8. Sweet Sixteen – Johnny Winter with Joe Bonamassa
9. Death Letter -Johnny Winter
10. My Babe – Johnny Winter with Jason Ricci
11. Long Tall Sally – Johnny Winter with Leslie West
12. Mojo Hand – Johnny Winter with Joe Perry
13. Blue Monday – Johnny Winter with Dr. John

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Nel frattempo, come memento per ricordare quello che è stato uno dei più grandi chitarristi che la storia del blues e del rock ricordino, (ri) pubblico la recensione che gli avevo dedicato in occasione dell’uscita del bellissimo cofanetto commemorativo (in tutti i sensi) True To The Blues: The Johnny Winter Story, pubblicato lo scorso febbraio, in occasione del suo 70° compleanno.

Forse è già partita una lunghissima jam lassù nel cielo dei grandi musicisti, con i due musicisti effigiati in apertura del Post e con tanti altri che hanno condiviso con lui i palchi dei concerti, in giro per tutto il mondo!

R.I.P. John Dawson Winter (Beaumont, Texas 23 Febbraio 1944 – Zurigo, Svizzera 16 Luglio 2014).

Ieri, Oggi E Sempre! True To The Blues: The Johnny Winter Story

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Johnny Winter – True To The Blues: The Johnny Winter Story – 4 CD Sony Music/Legacy 25-02-2014

John Dawson Winter III, come recitava il titolo di un suo disco degli anni ’70, ma Johnny Winter per tutti, è uno dei più grandi chitarristi della storia del Blues (e non solo), bianchi o neri non fa differenza, punto! E per lui, che è più bianco del bianco, albino si dice, essere considerato alla stessa stregua di quelli che erano stati gli eroi della sua gioventù, da Robert Johnson a T-Bone Walker, passando per Elmore James, Hubert Sumlin e nel R&R Chuck Berry, per non parlare di Muddy Waters, credo che sia stato un onore non trascurabile. Si diceva albino, texano, un mare di tatuaggi, non necessariamente nell’ordine, “scoperto” da Michael Bloomfield (di cui in questi giorni esce un altrettanto bel cofanetto) nel dicembre del 1968, quando lo introdusse al grande pubblico del Fillmore East di New York, in una delle date del Super Session Tour con Al Kooper, lo stesso che aveva fatto conoscere anche Carlos Santana http://www.youtube.com/watch?v=5zECNsIeH9g .

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Ma già una piccola leggenda a livello locale, per i concerti e per il fatto di avere inciso il suo primo album, che fin dal titolo metteva le cose bene in chiaro, The Progressive Blues Experiment (anche se poi era una accozzaglia di materiale inciso per vari singoli) poi pubblicato a livello nazionale dalla Liberty nel 1969, lo stesso anno in cui usciva il suo primo omonimo album per la Columbia, in conseguenza di un contratto per cui Winter aveva ricevuto un assegno in anticipo di sei cifre (600.000 dollari), che per quegli anni era qualcosa di inimmaginabile http://www.youtube.com/watch?v=FrQeIJm41dk .

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Il 1969 è un anno magico per Johnny Winter, oltre a Johnny Winter esce Second Winter, uno strano disco inciso su tre facciate, che è ancora migliore del primo, e, soprattutto c’è la partecipazione al festival di Woodstock, dove però il nostro Johnny non è inserito né nel film, né nella colonna sonora tripla del film e neppure in Woodstock 2, il doppio postumo uscito nel 1971. E sì che Winter suonò la domenica notte, prima di CSN&Y, in uno dei momenti topici della manifestazione http://www.youtube.com/watch?v=M6kPQLLLYAc .

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Per sentire due brani della sua esibizione abbiamo dovuto aspettare l’edizione sestupla della colonna sonora, pubblicata per i 40 anni, oppure l’eccellente doppio Woodstock Experience, uscito sempre nel 2009 per la Sony Legacy, che riporta l’esibizione completa. Al tempo Winter girava con il suo trio, dove c’erano Tommy Shannon al basso (poi anche con Stevie Ray Vaughan, uno dei suoi “discepoli”) e Uncle John (Red) Turner, presenti pure nei due album di studio http://www.youtube.com/watch?v=ULB4QQ9vvko  e invece al 2° Atlanta International Pop Festival del 1970, che si tenne nel luglio di quell’anno, esordirono i Johnny Winter And con Rick Derringer alla seconda solista. Proprio da quella esibizione vengono le tre chicche di questo cofanetto: un brano, Mean Mistreater, che uscì nel triplo vinile, The First Great Rock Festivals Of The Seventies – Isle Of Wight/Atlanta Pop, mai pubblicato su CD e due completamente inediti, Eyesight ToThe Blind (popolarissima in quel periodo, perché appariva in Tommy degli Who, anche se era riportata, all’inizio, come The Hawker) e Prodigal Son, due, anzi tre, grandissimi brani dal vivo che però non so se giustificano completamente l’acquisto di questo cofanetto per chi ha già tutto di Winter. E’ per questo che in un giudizio sul cofanetto meriterebbe cinque stellette per il contenuto musicale e  quattro perché ci si sarebbe aspettato qualcosa di più a livello di materiale inedito, possibile che non ci fosse altro? Comunque il cofanetto è imperdibile in ogni caso.

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Fine della digressione, riprendiamo la disamina dei contenuti. Anzi, prima parliamo brevemente della qualità sonora, che mi sembra decisamente ottima e della scelta dei brani, pure questa molto oculata. I primi due CD sono ovviamente i migliori, si va, in ordine cronologico, dal blues acustico dell’iniziale Bad Luck And Trouble, dove Winter, è all’acustica con bottleneck, accompagnato da un mandolino e da una armonica, si passa alle prime sventagliate slide di R&R e boogie texano con una gagliarda Mean Town Blues, poi è subito tempo per una fantastica jam dal repertorio di BB King con una It’s My Own Fault, tratta dal concerto al Fillmore citato prima, uno slow blues di una intensità inusitata e con il texano già ai vertici della sua arte chitarristica, formidabile.

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Pubblicato su CD solo nel 2003 nei Lost Tapes di Bloomfield & Kooper. Dal debutto CBS troviamo I’m Yours and I’m Hers, Mean Mistreater con Willie Dixon e Walter “Shakey” Horton, un po’ grezza a livello tecnico, Dallas, un altro blues acustico e Be Careful With A Fool, altro lento di quelli torridi, degno della sua fama; Leland Mississippi Blues viene da Woodstock, forse non la scelta migliore da quella serata, ma evidentemente è per evitare di duplicare troppe volte gli stessi brani. Da Second Winter cominciano ad arrivare i primi capolavori: Memory Pain ricorda il suono dei Cream mentre Highway 61 Revisited viene considerata, a ragione (con All Along The Watchtower di Hendrix), tra le più belle cover mai fatte di un brano di Bob Dylan, con la sua incredibile slide galoppante contribuisce a creare la leggenda di questo grande musicista texano http://www.youtube.com/watch?v=hPnGXTIQHZw , Miss Ann, con i fiati, attinge da Little Richard, mentre Hustled Town In Texas è un rock-blues di quelli tosti. Dalla versione doppia edita dalla Legacy sono tratti due brani registrati dal vivo alla Royal Albert Hall di Londra nel 1970, entrambi fantastici, una Black Cat Bone che avrebbe fatto felice il maestro Elmore James e la prima di una serie interminabile di versioni di Johnny Be Goode, vero cavallo di battaglia di Johnny, che la fa come nessuno al mondo http://www.youtube.com/watch?v=lUGgXvhLKE4 .

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I primi tre brani del secondo CD nel Box sono quelli tratti dal concerto ad Atlanta del 1970, Eyesight To The Blind, a velocità supersonica, Prodigal Son e Mean Mistreater assai più tosta della versione in studio. Da Johnny Winter And vengono Rock and Roll Hoochie Koo, altro classico della band, Guess I’ll Go Away, quasi hendrixiana nella sua costruzione e On The Limb, cantata con Derringer, di cui non si sentiva particolarmente la mancanza. Da Johnny Winter And Live non si può fare a meno di nulla, qui ci sono 4 brani, ma il disco è uno dei più bei dischi della storia del rock e del blues, quindi è fondamentale averlo, comunque nel cofanetto si trovano It’s My Own Fault, Jumpin’ Jack Flash fatta quasi meglio degli Stones http://www.youtube.com/watch?v=wQPlU5q1CBI , Good Morning Little School Girl http://www.youtube.com/watch?v=10G7rV0xYvM  e una versione “diabolica” di Mean Town Blues, che è un festival della slide.

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Da Still Alive And Well, forse l’ultimo grande album di studio, vengono la title-track, Rock Me Baby, altra grande rilettura di un brano di BB King, fatta sempre a velocità di crociera winteriana http://www.youtube.com/watch?v=Q0NBnClUEDA  e Rock and Roll, omonima solo nel titolo di quella degli Zeppelin, ma altrettanto feroce. Proseguendo con il terzo CD troviamo tre brani da Saints And Sinners che introduce un sound più rock e commerciale, ma non è poi malvagio, come Rollin’ ‘Cross The Country, la fiatistica Hurtin’ So Bad e la funky Bad Luck Situation stanno a testimoniare. Tre anche da John Dawson Winter III, pubblicato l’anno prima nel 1974, Self Destructive Blues, che illustra forse anche la situazione di vita del nostro amico in quel periodo, Sweet Papa John, un classico blues elettrico e Rock and Roll People (scritta da John Lennon e apparsa postuma su Menlove Ave.), omaggio all’altro amore di Winter http://www.youtube.com/watch?v=GoaK6hEKh_A .

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Dal violentissimo Live con il fratello Edgar, Together, viene una Harlem Shuffle di buona qualità, mentre dall’altrettanto tirato (ed esagerato) Captured Live sono estratte Bonie Moronie http://www.youtube.com/watch?v=6Q1o5uuw6ag  e Roll With Me. Tired Of Trying e TV Mama vengono dal disco che segna il ritorno alle origini, Nothing But The Blues, preludio alle collaborazioni con Muddy Waters (e la sua band) qui riprese in”Walkin’ Thru’ The Park (con James Cotton all’armonica) e nella rara Done Got Over, registrata dal vivo http://www.youtube.com/watch?v=CmnT8gcljXo .

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Ci sono ancora tre pezzi per album (forse troppi) dagli ultimi due dischi per la Blue Sky/Cbs, White, Hot And Blue e Raisin’ Cain (tra cui una strana, per Winter, Bon Ton Roulet). Rimangono un brano a testa dai tre bellissimi album per la Alligator, più volte nominati per il Grammy, una Stranger Blues, tratta dalla “misteriosa” Live Bootleg Series, vol.3 (e però giunta al volume 10), di cui nemmeno i compilatori di questo cofanetto sono stati in grado di risalire alla provenienza, indicando un generico “registrato nei tardi anni ‘80”! Rimangono Illustrated Man (altro brano autobiografico) con Dr.John e tratto da Let Me In uscito per la Point Blank nel 1991. Hard Way (notevolissima) da Hey Where’s Your Brother dell’anno successivo e, dal concerto del 1993 al Madison Square in onore del “bardo”  Bob Dylan – The 30th Anniversary Concert Celebration, una fenomenale versione dal vivo di Highway 61 Revisited.

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Infine da Roots, l’ultimo grande disco di studio uscito per la Megaforce nel 2011, i duetti con Vince Gill in Maybellene e Derek Trucks in Dust My Broom http://www.youtube.com/watch?v=VIpmUroL2D4 , quasi a chiudere al cerchio. Lo danno per morto da anni, ma anche lui il 23 febbraio del 2014 festeggerà il suo 70° compleanno e due giorni dopo uscirà questo stupendo cofanetto. Poche parole per concludere, il resto l’ho detto prima: “mano ai portafogli”!

Bruno Conti

Dei Simpatici “Buontemponi” Del Rockabilly/Country In Versione Acustica, Bravi Però! Big Sandy And His Fly-Rites Boys – What A Dream It’s Been

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Big Sandy And His Fly-Rite Boys – What A Dream It’s Been – Cow Island Music

In vari anni di recensioni mi sembra di avere incrociato un paio di volte (vado a memoria) la musica di Big Sandy And His Fly-Rite Boys, revivalisti per eccellenza, prima soprattutto rockabilly, poi anche boogie, R&R, country e western swing, una musica sostenuta da energia ed elettricità da vendere, ma anche assai raffinata all’occorrenza. Per cui quando ho visto questo What A Dream It’s Been, con cui festeggiano 25 anni di carriera e dovrebbe essere il loro 14° album, 45, EP, 78 giri(!?!) e ristampe escluse, mi sono meravigliato. Ma come, un album acustico? Per un gruppo di questa fatta è una sorta di ossimoro musicale, una contraddizione in termini, o almeno così sembra sulla carta. E invece funziona: hanno preso dodici brani, pescando dal meglio della loro produzione, tutte canzoni scritte da Robert Williams ossia Big Sandy, e ne hanno completamente stravolto gli arrangiamenti per farne una sorta di unplugged ante (o post) litteram, visto il genere da cui pescano, anche se, ribadisco, il materiale, come composizione, è tutto originale, ma lo spirito è ovviamente quello degli anni ’50, al limite ’60, ma anche moolto prima.

Ci sono echi del primo Elvis, del Buddy Holly più riflessivo, soprattutto con questi arrangiamenti, naturalmente molto western swing, Bob Wills e Spade Cooley nei loro cuori. La loro traiettoria musicale, soprattutto nei primi anni, ha incrociato anche quella di un neo-tradizionalista per eccellenza della prima ora come Dave Alvin (peraltro musicista a tutto tondo) che nel 1994 ha prodotto il loro primo album ufficiale, in un periodo in cui giravano anche Dwight Yoakam ed altri innamorati dei suoni del passato, rivisti con un nuovo spirito. Per questo nuovo capitolo Big Sandy e soci hanno utilizzato un approccio acustico, ma c’è un po’ di tutto nei ritmi e negli stili, bluegrass, country, swing, il rock and roll dell’Elvis della Sun, tex-mex, anche reggae, brani romantici old fashioned e puntatine verso atmosfere più rigorose, ma divertenti sempre, con tocchi folk nella strumentazione molto “stringata”. Nella title-track conclusiva, What A Dream It’s Been, un bel duetto con la bravissima Grey De Lisle (sono anche riusciti a sbagliare il nome sulla copertina), attrice e cantante deliziosa, in grado di avventurarsi in mille generi, si respira quell’aria demodé e sexy dei tempi che furono, ma che in America ha sempre praticanti assai volonterosi e validi al tempo stesso, in grado di rinverdire stili musicali mai sopiti, tra una “spazzolata” e una rullata di batteria, una slappata di contrabbasso, un assolo di acustica o mandolino, tutto l’album scorre molto piacevolmente.

Bruno Conti

Vecchi Guitar Heroes, Per Un’Ultima Volta! Alvin Lee – The Last Show

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Alvin Lee – The Last Show – Rainman Records

Alvin Lee ci ha lasciati qualche mese fa, quando l’inverno si stava mutando in primavera, all’inizio del mese di marzo, a 68 anni, per le complicazioni di un intervento chirurgico di routine, e ora, giustamente, famiglia ed amici pubblicano questo album postumo dal vivo, che lo fotografa nel suo elemento preferito, su un palco, al Ribs & Blues Festival, in quel di Raaite, Olanda, il 28 maggio del 2012, per quello che è stato il suo ultimo concerto dal vivo. Anche se la sua ultima prova discografica rimane Still On The Road To Freedom, uscita a settembre dello scorso anno (e che come ha testimoniato chi scrive, lo aveva riportato a livelli più che buoni dopo anni di dischi non fantastici, per usare un eufemismo  quasi-forty-years-after-alvin-lee-still-on-the-road-to-freed.html), la dimensione Live era quella ideale per uno dei “guitar heroes” più carismatici della storia del rock, forse non tra i più bravi in assoluto, ma in grado di regalare emozioni agli amanti del rock e del blues elettrico, e anche del R&R.

Lee amava da sempre esibirsi soprattutto sui palchi dei Festival, anche per l’ambiente e la musica che si respirava intorno e quindi anche la sua ultima esibizione è avvenuta in questo tendone di fronte a 5.000 spettatori, ai quali ha regalato ancora una volta i classici del suo repertorio, insieme agli amati country e rock’n’roll. Con Richard Newman alla batteria e Pete Pritchard al basso e contrabbasso, Alvin rivisita, in trio per l’occasione, le pietre miliari del suo repertorio , in compagnia della sua amata e immancabile Gibson 335 e quindi scorrono i due super classici I Can’t Keep From Cryin’ Sometimes, il brano di Al Kooper, posto come di consueto nella prima parte del concerto, e che è l’occasione per rendere omaggio ai classici di Cream, Hendrix e altri grandi della chitarra, oltre a qualche new entry inserita nel corso degli anni e nel finale, Going Home, che ancora una volta rinverdisce il mito di Woodstock, con i suoi riffs velocissimi, le citazioni di brani r&r e rockabilly e la sua consumata abilità di showman.

In mezzo c’è spazio per uno dei vecchi riti del rock, l’assolo di batteria in I’m Writing You A Letter, la veloce citazione di Country Thing, l’immancabile Slow Blues In C , che ci riporta alle origini dei Ten Years After, qui resa con feeling e le immancabili nuances jazzate, sempre presenti nello stile del chitarrista inglese. Il R&R dal repertorio di Elvis (suo grande eroe) di My Baby Left Me e la tripletta di classici del rock dei TYA, Hear Me Calling, posta in apertura di concerto e le due perle rock-blues I Woke Up This Morning e Love Like A Man (ripresa in una nuova versione nell’ultimo album solista, allora non ancora pubblicato). Sentite mille volte, ma si ascoltano sempre con piacere, Alvin, ancora in ottima voce, in quel tardo pomeriggio dà ancora una volta, parafrasando il titolo di un brano dei Kinks “Give The People What They Want”, quello che la gente vuole, ascoltare del sano ed inossidabile rock, che purtroppo ha perso per la strada uno dei suoi interpreti più “leggendari”! Sicuramente non un capolavoro, ma un onesto lavoro, arricchito da qualche zampata della vecchia classe,  per concludere degnamente quasi 50 anni on the road! Sarà veramente l’ultimo? Non credo.

Bruno Conti

Reload & Replay Part II: Quello “Bravo” E’ Sempre In Mezzo Nella Foto, Ma Anche Gli Altri Non Sono Male! E Ora Potete Trovare Anche Il Loro CD E Pure Il Video, La Saga Continua! Psychic Twins – Crossings

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*NDB Bis George Lucas con la sua saga di Guerre Stellari “ci fa una pippa”, ormai questo Post ( e il suo titolo) stanno assumendo dimensioni pantagrueliche a furia di aggiornamenti (ma è il bello della rete e dei Blog, mai statici, sempre in rinnovamento, si è allargata pure la foto di copertina), ora è arrivato anche il momento del video ufficiale di Two Sides, forse (ma forse) la canzone più bella del disco. Il filmato è “lieve”, autoironico e veritiero, per quello che posso conoscere Max e Fab, M&F (non la rivista, per quanto…),ovvero i Psychic Twins. The world domination continues, il mese prossimo dovrebbe uscire (spero) anche una versione light di questa recensione sul Buscadero. Sono Evaristo scusate se insisto, ma il disco è molto piacevole, si potrebbe anche comprare. Vai con il video…

 *NDB. Quando il 23 febbraio pubblicavo questo Post l’album non aveva ancora un CD fisico disponibile, ora tramite la distribuzione IRD lo potrete trovare anche nei negozi (quelli che resistono ancora). Il mio giudizio ovviamente è rimasto lo stesso e lo potete (ri)leggere qui sotto, senza la parte sulla distribuzione discografica, ora superata! Ho anche aggiunto il nuovo video Unplugged registrato a Panorama.it e alcuni ulteriori video apparsi in rete nel frattempo con brani dell’album.

Bruno Conti

 

Psychic Twins – Crossings – Greywolf Records Inc. – Download iTunes – CD Distr. IRD

La tradizione di ritrarre l’artista sulla copertina del suo album, con dischi di altri in vista, risale alla notte dei tempi, un caso classico è Bringing It All Back Home di Dylan. Nel loro piccolo anche i due Psychic Twins (italianissimi, nonostante il nome e credo nulla a che vedere con le due gemelle americane che previdero l’attacco alle torri gemelle) hanno pensato bene di farsi ritrarre sulla copertina del loro disco d’esordio Crossings, mentre brandiscono (immagino con rispetto e devozione) la copertina interna del vinile di Born To Run di quel signore del New Jersey di cui al momento mi sfugge il nome, ma che qualche influenza sulla loro musica ce l’avrà pure se si trova lì!

Prima di iniziare mi scuso con loro per il ritardo con cui parlo del disco, che mi era stato recapitato già da alcune settimane (comunque “better late than never, come si dice), ma essendo sempre in ritardo perenne e con pigne di dischi da recensire sul tavolo e vicino all’impianto, oggi accantono gli ultimi di Eric Burdon e Boz Scaggs, due “giovani” promesse, e mi occupo di questo CD. Ovviamente la musica è quella giusta per il Blog, ma se le loro influenze fossero state Toto Cutugno, gli Abba o i Duran Duran, non so se ne avrai parlato con la giusta dose di entusiasmo, però visto che le coordinate musicali sono altre, direi chiaramente anglo-americane e giustamente “classiche”, niente nuove tendenze, quelle le lasciamo a Sanremo. La prima cosa, a colpo d’occhio, prima dell’ascolto, che colpisce il vecchio frequentatore di dischi (inteso in senso lato), scorrendo le note, è che nell’album ci sono due di tutto: due loro, Massimo Monti, il paroliere e Fabrizio “Fab” Friggione, il cantante, autore e chitarrista, non come Lennon/McCartney o Jagger/Richards, ma più come Elton John/Bernie Taupin o Jerry Garcia/Robert Hunter, per volare subito bassi (ma esageriamo, tanto non costa nulla sognare), nel senso che l’autore dei testi fa solo quello, non partecipa alla fase musicale. E poi due vocalist, due bassisti, due chitarristi, due batteristi, due tastieristi, mai utilizzati contemporaneamente, ma a testimoniare la professionalità del prodotto, ruotati a seconda del brano. 

Non vi parlo della storia dei musicisti coinvolti e della genesi dei brani perché non la conosco, ma visto che le orecchie per ascoltare ce le ho, e anche allenate da svariati anni di frequentazione della buona musica rock, vi dico subito che il disco mi piace: otto brani, quasi 35 minuti di musica, molto derivativa indubbiamente, machissenefrega, di buona qualità, prodotta con passione e la giusta dose di gusto, niente esperimenti futuribili ma solo del buon vecchio sano rock. L’aria che si respira nel brano di apertura, The Two Sides (on the wrong side of the railroad tracks) è quella delle spiagge e dei bar del New Jersey, ma anche, volendo, della pianura padana dove gli epigoni di Springsteen (e diciamolo!) sono numerosi ed agguerriti, a partire da Graziano Romani, ex leader dei Rocking Chairs, la cui voce roca e vissuta mi sembra abbia qualche punto in comune con quella di Friggione, e anche la profusione di chitarre e tastiere e sane atmosfere blue collar, sono un giusto auspicio per la partenza del disco.

Che poi si sposta su sonorità che possono ricordare il primo Joe Cocker, quello delle cavalcate in compagnia di Leon Russell o Chris Stainton, ben rappresentati dal piano dal bravo Enrico Ghezzi, nella sua unica presenza nella vigorosa Pain straight no ice con profumi errebì misti a rock. Più rock’n’roll selvaggio nella scatenata Lock me In che fonde il classico pianino R&R di Stefano Ivan Scarascia con la chitarra in overdrive di Friggione, corettini vagamente beatlesiani completano l’impressione, già sentito certo, anche mille volte, ma quando c’è passione è sempre un piacere. Un paio di chitarre acustiche e un organo hammond per un intermezzo acustico Drops Of Time, piacevole ma non memorabile, forse un po’ incompiuto.

Per l’accoppiata più bluesy di A Long Way From Myself e Cuda ’71 (una canzone scritta dal punto di vista di una automobile è quasi più “perversa” dei brani di Bruce dedicati a vecchi modelli anni ’70, qui starebbe per Plymouth Barracuda) scende in pista un altro cantante, Jack Jaselli (ma le coordinate vocali sono più o meno quelle), e nel primo dei due brani c’è anche un violino svolazzante affidato a Andrea Aloisi che rimescola un po’ le carte del suono del disco, anche se la slide tagliente del secondo brano e la citazione nel testo di Elvis e Bruce (ma chi saranno?) indicano sempre una corretta scelta musicale. More weight to the lid, con una forte urgenza ritmica e la voce leggermente e volutamente “trattata” di Friggione, ci ricorda che il cuore della musica batte sempre al giusto ritmo, quello del rock delle radici per poi stemperarsi nell’altra oasi acustica del disco, una Without You, solo voce e chitarra acustica, con una voce femminile di supporto, Chiara Vergati, un piccolo intramuscolo di dolcezza, forse da sviluppare più compiutamente in futuro, anche se l’intreccio delle due voci è interessante.

Un disco che forse non salverà il mondo e neppure l’industria discografica, ma una piacevole mezz’oretta di ascolto è garantita assolutamente.

Bruno Conti