“Nuovi” Dischi Live Dal Passato 3. Heart – Live In Atlantic City

heart live in atlantic city

Heart – Live In Atlantic City – EarMusic/Edel CD/BluRay

Le Heart, noto duo formato da Ann e Nancy Wilson, non si sono mai tirate indietro quando si è trattato di immettere sul mercato degli album dal vivo. Solo negli ultimi cinque anni ci sono state ben quattro uscite registrate on stage (Fanatic Live, il natalizio Home For The Holidays, Live At The Royal Albert Hall con l’orchestra https://discoclub.myblog.it/2016/12/24/un-po-di-sano-classic-rock-al-femminile-heart-live-at-the-royal-albert-hall/  ed il Live At Soundstage), ed ora la label tedesca Edel va ad infittire il gruppo con questo Live In Atlantic City, pubblicato nel doppio formato CD/BluRay e registrato nel marzo del 2006 nell’ambito della trasmissione a sfondo rock Decades Live (la stessa da cui è stato tratto il disco dallo stesso titolo dei Lynyrd Skynyrd uscito lo scorso anno). Mercato inflazionato o no, le Wilson Sisters dal vivo sono sempre un bel sentire, dato che stiamo parlando forse del miglior gruppo rock al femminile in circolazione (in realtà un duo, la backing band è sempre stata molto variabile): Nancy è una valida chitarrista ritmica e ha sempre avuto un’eccellente presenza scenica, mentre Ann, a discapito di un fisico non esattamente da pin-up, ha mantenuto negli anni una potenza vocale formidabile, una sorta di versione femminile di Robert Plant, non a caso il cantante che l’ha influenzata di più.

Live In Atlantic City riassume in quattordici canzoni una performance molto solida del gruppo (completato dal chitarrista Craig Bartok, dalla tastierista Debbie Shair e dalla sezione ritmica formata da Mike Inez e Ben Smith), con l’aggiunta di diversi ospiti la cui presenza, va detto, è sempre in secondo piano rispetto a quella delle due sorelle Wilson, che restano indubbiamente le mattatrici della serata. I primi tre pezzi vedono salire sul palco Dave Navarro, chitarrista di Jane’s Addiction e Red Hot Chili Peppers: l’inizio è appannaggio di Bébé Le Strange, versione potente e decisamente zeppeliniana, con sezione ritmica granitica, chitarre in gran spolvero ed Ann che “addenta” da subito la canzone con la sua solita grinta. Straight On è un bell’esempio di funky-rock godibile dalla prima all’ultima nota, con un refrain diretto e vincente ed Ann che tira fuori una voce della Madonna, mentre Crazy On You è una delle signature songs del duo, un pezzo rock tirato ed elettrico, grande riff d’apertura e ritornello epico. All’epoca di questo show l’ultimo album delle due sorelle era Jupiters Darling, dal quale viene tratta Lost Angel, elettroacustica e folkeggiante (ma sempre alla maniera dei Led Zeppelin); a proposito di Zeppelin, nel CD troviamo due notevoli cover dello storico gruppo di Page e Plant, e cioè una devastante Rock’n’Roll in cui Ann e Nancy sono raggiunte da Gretchen Wilson e, ancora con Navarro, una altrettanto roboante interpretazione di Misty Mountain Hop, che non sfigura di fronte all’originale.

Gretchen (che porta dunque a tre il numero di Wilson sul palco) è presente anche nella rilettura di Even It Up, possente rock’n’roll con ritmo e chitarre come si non ci fosse domani, mentre Dog And Butterfly, una bellissima ballata acustica, viene cantata a due voci insieme a Rufus Wainwright. Non ho mai amato gli Alice In Chains, e sinceramente non capisco la loro “intrusione” (insieme all’ex Guns’n’Roses Duff McKagan) dato che non interagiscono con le Heart ma si limitano ad eseguire due brani del proprio repertorio (Would? e Rooster); per fortuna subito dopo abbiamo una strepitosa versione lenta ed acustica di Alone, forse la ballata più bella di sempre delle Heart, nella quale Ann duetta con Carrie Underwood regalandoci una prestazione vocale da pelle d’oca. Finale senza ospiti con tre classici assoluti del songbook delle due Wilson: la mossa Magic Man, ancora influenzata dal Dirigibile, una fluida e scintillante Dreamboat Annie, molto folk e con assolo di flauto da parte di Ann, e chiusura con la potentissima e sanguigna Barracuda. Non sono contrario di principio al proliferare di album dal vivo delle Heart: finché la qualità è quella di Live In Atlantic City possono pubblicarne anche uno ogni tre mesi, io non mi stanco di sicuro.

Marco Verdi

In Memoria Di William Shakespeare, Succedeva 400 Anni Fa! Paul Kelly – Seven Sonnets & A Song

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Paul Kelly – Seven Sonnets & A Song – Cooking Vinyl Records

Dopo una trentina d’anni di carriera, avere registrato una ventina di album in studio, due album live, e diverse colonne sonore da film (i più noti Lantana e Jindabyne) Paul Kelly cantautore australiano, per chi scrive, non ha raccolto fuori dalla sua isola natia nemmeno la metà di quello che ha seminato; in compenso nel tempo ha raggiunto una maturità che gli permette di narrare eventi. anche antichi (come in questo caso) e moderni, con una forte personalità e senza scendere a compromessi. Questo mini-cd Seven Sonnets & A Song è uscito volutamente, prima in Australia, poi, in questi giorni (il 23 Aprile 2016 per la precisione), per celebrare il 400° anniversario della morte di uno dei più grandi (se non il più grande) drammaturgo e poeta di tutti i tempi, William Shakespeare, di cui il buon Paul è un grande estimatore.

rufus wainwright take all my loves

 

*NDT.: La stessa operazione per dovere di cronaca è stata fatta anche da Rufus Wainwright con Take All My Loves: 9 Shakespeare Sonnets, ma con un risultato, è un parere personale, a tratti, sinceramente imbarazzante (*NDB. Non mi sembra così orribile, ma rispetto il parere).

I sette sonetti sono stati registrati negli ultimi diciotto mesi in vari studi di registrazione, dove Paul Kelly, come al solito, si è avvalso dei membri della sua band, Peter Luscombe, Bill McDonald, Ash Nylor, Cameron Bruce, e le sue “storiche” coriste le sorelle Vika e Linda Bull, e come ospiti Lucky Oceans e Alice Keath.

Data la particolarità del lavoro, mi sembra giusto sviluppare i brani “track by track”:

Sonnet 138 – La prima traccia sorprendentemente è un interpretazione “jazzy”, con una batteria spazzolata, cantata da Paul come se si trovasse a tarda notte in un Piano Bar.

Sonnet 73 –  Contrariamente al brano precedente, qui si respira un suono “anni sessanta” che sembra uscire dai primi vinili di Donovan, impreziosito da una slide guitar.

Sonnet 18 –  Chiaramente la traccia migliore del mini CD, un pezzo affascinante che parte come un madrigale, per poi trasformarsi in un motivo dei monti Appalachi, e un cantato da “crooner”.

My True Love Hath My Heart – L’unico pezzo non “shakesperiano” scritto dal suo contemporaneo Sir Philip Sidney, con una “performance”delicata e commovente della signora Vika Bull.

Sonnet 44 and 45 – Ballata pianistica dove la bravura di Kelly come vocalist viene messa in risalto, con un’armonica finale che strappa lacrime.

Sonnet 60 – Inizio acustico, poi la canzone si apre e una melodia avvolgente disegna una “murder ballad” alla Nick Cave, valorizzata ai cori dalle sorelle Bull.

O Mistress Mine (Clown’s Song From Twelfth Night – E’ la canzone che chiude questa splendida breve raccolta, la “Canzone Del Clown” tratta dalla commedia La Dodicesima Notte, una filastrocca tenue suonata in punta di dita, cantata con cuore e sentimento da un grande artista.

Di questo signore ho già parlato più volte su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/tag/paul-kelly/ , anche se ci vorrebbe molto più spazio per raccontare la storia di questo cantautore, un vero mito down under (per esempio come è Bruce Cockburn per il Canada), che riesce di nuovo a sorprenderci con questo breve ma intenso Seven Sonnets & A Song, dove dimostra ancora una volta di essere un grande “tessitore” di canzoni, che aggiunte a tutte le altre tratte dal suo immenso “songbook”, sono la colonna sonora di una intera Nazione.!

Tino Montanari

Sprazzi Di Gran Classe! Linda Thompson – Won’t Be Long Now

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Linda Thompson – Won’t Be Long Now – Pettifer Sounds/Topic

Linda Thompson non è mai stata una artista prolifica, quattro album in trenta anni di carriera solista (più due raccolte di materiale inedito, sublimi) lo stanno a testimoniare. Ma la qualità della sua produzione è sempre stata elevatissima, in grado di rivaleggiare con quella realizzata in coppia con l’ex marito Richard, alcuni dischi veramente superbi, tra i migliori della storia del rock (e del folk) d’autore, il primo e l’ultimo in particolare, I Want To See The Brights Lights Tonight e Shoot Out The Lights, dove cala il sipario sulla loro vita sentimentale ed artistica, il divorce album per eccellenza: ma tutta la discografia è, direi indispensabile, con qualche alto e basso, ma s’ha da avere, anche i Live postumi usciti nelle decadi successive.

Nata Linda Pettifer (da qui il nome dell’etichetta del nuovo disco), poi con il nome d’arte Linda Peters ha iniziato a collaborare con il giro folk-rock inglese dei primi anni ’70, in particolare nell’album Rock On attribuito a The Bunch, dove duetta con Sandy Denny in una bellissima cover di When I Will be Loved? degli Everly Brothers (e proprio di Sandy Denny, Linda Thompson dovrebbe essere considerata la sodale ed anche erede, per quanto discontinua). Nello stesso anno, 1972, partecipa come corista al primo album solista di Richard Thompson, Henry The Human Fly, e da lì in avanti inizia il loro sodalizio artistico ed umano, che durerà una decina di anni, la scoperta della filosofia Sufi e poi la fine brusca nel 1982, con l’appendice di un tour americano completato per problemi contrattuali, quando i due già erano praticamente divisi.

Se aggiungiamo che nel corso degli anni Linda è sempre stata perseguitata dalla “disfonia isterica”, un disturbo psicologico che spesso la lasciava senza voce per lunghi periodi, non certo l’ideale per una cantante, che, unita alla sua indole riservata, ha fatto sì che la sua carriera non sia stata quella che avrebbe potuto essere, ma accontentiamoci, meglio pochi ma buoni, Kate Bush, Peter Gabriel e lo Springsteen dell’epoca d’oro le facevano un baffo (se l’avesse avuto) quanto a prolificità. Ma questa è un’altra storia.

Veniamo a questo Won’t Be Long Now, il primo album di materiale inedito dopo Versatile Heart del 2007 (siamo nella media temporale della sua produzione) e il primo disco dall’approccio decisamente folk, inteso come British Folk, quello della grande tradizione inglese degli anni ’70, che ancora oggi è in grado di soprassalti di gran classe. E questo è uno dei casi. Disco ricchissimo di ospiti, che vedremo brano per brano e con gran parte della famiglia Thompson impegnata, figli, nipoti, cognati, ex mariti, oltre agli “amici” di una vita.

Si parte con una stupenda collaborazione con l’ex Richard, evidentemente il tempo guarisce tutte le ferite ( i due erano già apparsi insieme nel recente tributo a Kate McGarrigle): si tratta di una canzone, Love’s For Babies And Fools, scritta proprio per il figlio scavezzacollo, e preferito, di Kate McGarrigle, quel Rufus Wainwright che è uno dei grandi talenti, non totalmente espressi, della scena musicale attuale. Un brano, che proprio Kate poco prima di morire l’aveva incoraggiata a completare, un ritratto poco complimentoso, anche sferzante, ma ricco di affetto, con una splendida melodia sottolineata dalle sempre geniali fioriture dell’acustica di Richard Thompson e con Linda che si doppia anche alle armonie vocali e ci permette di gustare la sua straordinaria voce, ancora ricca e corposa a dispetto dell’età che avanza. Grande inizio. Never Put To Sea Boys è un’altra folk song, anzi una di quelle che si chiamano sea shanties, scritta con l’ex Solas John Doyle, che suona l’acustica, si avvale anche di un “programming umano”, se esiste una cotale guisa, che ricrea il sound del migliore folk tradizionale d’aria celtica in maniera egregia.

Secondo molti If I Were A Bluebird è uno dei momenti topici dell’album: scritta da Linda Thompson in coppia con Ron Sexsmith (che la nostra amica invidia proprio per quella prolificità che a lei è sempre mancata, in una iperbole dice che “scrive un milione di canzoni alla settimana” e tutte belle). L’esecuzione poi è straordinaria, David Mansfield alla Weissenborn guitar, l’ottimo cantautore Sam Amidon all’acustica e al banjo e le struggenti armonie vocali di Amy Helm. Dura quasi 7 minuti, ma potrebbe durare anche mezz’ora tanto è bella. E non scherza un c….neppure As Fast As My Feet una canzone dal repertorio delle McGarrigles, scritta in questo caso da Anna con l’aiuto di Chain Tannenbaum. E’ uno dei brani “elettrici” del disco, vicino allo stile caratteristico della vecchia produzione di Linda, ma è anche una canzone di “famiglia”, ci sono quasi tutti i Thompson: i figli, Kami, che è la voce solista (e ci fa ben sperare per la prosecuzione della tradizione familiare, bella voce, calda e vivida), Muna, alle armonie vocali, con la mamma, Teddy, chitarra acustica e armonie, Jack Thompson, il figlio di Richard al basso, il nipote Zac Hobbs alla chitarra solista e al mandolino, dal passato dei Fairport torna Gerry Conway alla batteria e Glenn Patscha degli Ollabelle alle tastiere. E il risultato è una delizia folk-rock di stampo angloamericano.

Decisamente folk tradizionale la sontuosa Father Son Ballad scritta da Teddy Thompson, con John Doyle ancora alla acustica, Glenn Patscha alle tastiere, compreso un pump organ dei tempi che furono e il grande Dave Swarbrick, che ancora una volta presta il suo magico violino alle operazioni. Nursery Rhyme Of Innocence & Experience è uno standard della canzone popolare inglese, eseguito con l’accompagnamento della chitarra acustica di Martin Carthy (ci sono proprio tutti!) e del cello di Garo Yellin (non conosco, ammetto, però il nome l’ho visto in parecchi dischi). Mr. Tams è un’altra bellissima canzone di stampo folk, scritta con il figlio Teddy, e con l’accompagnamento strumentale della coppia Swarbrick-Carthy, le voci, assieme a Linda, sono quelle di Eliza Carthy, che suona anche il melodeon, Susan McKeown e di nuovo la figlia Kami. Paddy’s Lamentation era nella colonna sonora di Gangs Of New York. Linda Thompson ricorda nelle note che quando Scorsese seppe che nella colonna sonora c’era una sua canzone disse “Ma è ancora viva?”. Un onore, perché il regista appassionato di musica, sapeva chi fosse, ma rispondiamo con un “Ma certo”, toccandoci. Il brano, solo Linda, supportata dalla chitarra acustica e dalla seconda voce del figlio Teddy, che l’ha scritta con lei, ha un piglio tradizionale classico.

Never The Bride, ancora scritta dall’accoppiata mamma/figlio, è una stupenda ballata elettrica, di quelle che sapevano fare solo lei e Sandy Denny. Ironica nel testo (perché la nostra amica dice di essere praticamente sempre stata sposata, nel corso della sua esistenza, con diversi mariti ovviamente): ad aggingersi alla famiglia, in questo brano, alla chitarra elettrica solista slide, c’è James Walbourne, che ha suonato, tra gli altri, con Pernice Brothers e Son Volt e si è sposato la figlia della Thompson, Kami (quindi è il cognato, ci mancava). Ma protagonista della canzone, oltre alla voce, malinconica ed evocativa di Linda, è la fisarmonica (o button accordion come direbbero quelli che sanno) di John Kirkpatrick, un altro dei grandi “vecchi” del movimento folk britannico, magnifico brano con un ritornello da accendini (o telefonini, ora) accesi. Blue Bleezin’ Blind Drunk è un piccolo intermezzo vocale, un traditional cantato accapella, registrato dal vivo al Bottom Line di New York in uno dei rarissimi tour della cantante inglese.

Si conclude con la title-track, It Won’t Be Long Now, scritta ancora da Teddy Thompson (che è un ottimo cantautore, ma si deve misurare con due mostri sacri come Richard & Linda Thompson): è il brano più americano dell’album, una canzone country-bluegrass deliziosa, registrata con un paio dei migliori musicisti nel genere, Tony Trischka al banjo e David Mansfield al mandolino, oltre alle armonie vocali, ancora una volta, di Kami Thompson ed Amy Helm.

Uno dei migliori dischi dell’anno nel genere folk, ma che se la batte anche in assoluto tra i migliori dischi del 2013, per esempio con Electric dell’ex consorte Richard, piccoli, grandi dischi, sconosciuti alle masse, ma da non lasciarsi sfuggire.

P.S. E’ venuta lunga? Meglio, c’è di più da leggere!

Bruno Conti    

Figli(a) D’Arte. Cassie Taylor – Out Of My Mind

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Cassie Taylor – Out Of My Mind – Yellow Dog Records

Questa volta parliamo di “Figli D’Arte”, una categoria non numerosa ma di difficile collocazione. Che genere fanno? Chi sono? Sono bravi? Alla prima domanda non saprei rispondere, alla seconda sarebbe troppo lunga la risposta, alla terza potrei citarne alcuni: Jeff Buckley, Rosanne Cash e altri fratelli e sorelle, Rufus Wainwright e sorelle varie, Hank Williams Jr e figli e nipoti, Norah Jones e Jakob Dylan sicuramente lo sono, qualcuno mette nella lista anche Dhani Harrison, ma francamente…Cassie Taylor, 26 anni, figlia di Otis, cantante, autrice, produttrice, arrangiatrice, finanziatrice del suo disco (ha fatto vendere la macchina al marito per pubblicare questo album) e infine anche bassista, in questo Out Of My Mind. E pensate che al termine del primo brano Ol’ Mama Dean (Part 1) volevo togliere il dischetto dal lettore e scaraventarlo nel cestino, non perché fosse particolarmente brutto ma abbastanza inutile (al di là dell’ottimo lavoro del chitarrista Steve Mignano), quelle canzoni che non iniziano mai e quando iniziano sembrano opera del Lenny Kravitz meno ispirato.

Forse ho esagerato, ma era per capirci meglio, poi ho preso il Manuale del Perfetto Recensore, quello dove dice che un disco bisogna sentirlo più volte e non fermarsi mai alla prima impressione. Fatto. Il pezzo continua a non piacermi un granché, ma non mi sembra più così orribile: sarà per questo che il secondo, dove la situazione migliora un tantino, sia Mama Dean (Part 2)? Può essere: intanto comincia a definirsi il genere del CD, sapete, quello del file under. Direi tra blues e soul, più il primo, nel brano in questione, non ci sono i lati folk e etnici del babbo, ma il rock è presente e si fa apprezzare, senza grandi voli pindarici ma lentamente, anche grazie alla slide di Mignano e all’organo della stessa Taylor, con la successiva Spare Some Love, dalle atmosfere sospese e più chiaramente blues dove anche la voce di Cassie si fa più intensa e partecipe, mentre in Out Of My Mind si vira decisamente verso un soul molto piacevole e coinvolgente, quasi da “girl group”, la Taylor si sdoppia in una sorta di Diana Ross & the Supremes fai da te, prendendo sia il ruolo di voce solista che di controcanto, chitarra, organo e basso lavorato con l’archetto sono ben arrangiati (sempre lei lo fa). Lay My Head On Your Pillow, è una ballata lenta, sempre piacevole, anche in versione quasi acoustic soul, evidentemente il lavoro con il padre, nei dischi del quale appare molto spesso, ha dato i suoi frutti. New Orleans, con un tromba aggiunta al classico trio, chitarra, basso e batteria, ha un’aria più sexy e sbarazzina ancorché il sound della Crescent City non venga centrato perfettamente: perché, se mi posso permettere, sempre in accordo a quel Manuale seguito alla lettera, non è che la nostra amica abbia una voce così formidabile o particolare, come l’augusto genitore, adeguata ma non molto di più.

E il materiale, come detto tutta a sua firma, non sempre brilla, No Ring Blues, lo è nel nome, blues, ma non di fatto, altra canzone di quelle che non decollano mai, con il basso della ragazza sempre molto in evidenza ma a scapito della sostanza, il solito Mignano si difende e eleva il livello. No No è un rock più tirato ma ha sempre quel sound un po’ turgido che non entusiasma. Decisamente meglio Forgiveness, con il fascino degli arrangiamenti più ricchi del padre, elementi folk e uso di tromba e basso tuba lo rendono più efficace . Solita apertura con il basso (quasi tutti i brani iniziano così, va bene che è il suo strumento, però) anche per Gone And Dead, ma ritorna questa “indecisione” nella costruzione del brano, siamo sempre allo stesso punto, è un impressione personale, ovviamente, anche se tuba e organo cercano di dare passione, non sempre ci riescono. That’s My Man è dedicata a quel sant’uomo che ha venduto la macchina per permetterle di realizzare questo CD e spero che lo stesso venda abbastanza per ripagarlo, ed è nuovamente un rock più deciso anche se non brillantissimo (la qualità che latita in questo prodotto). Alla fine quello che è forse il brano migliore, Again, una bella ballata pianistica di impianto quasi gospel-soul, cantata con passione e con l’aggiunta di un contrabbasso suonato con l’archetto che aggiunge classe alla canzone. Se devo essere sincero, non dovendo recensirlo, non so se lo avrei comprato, ma brani come l’ultimo e qualcun altro in percorso d’opera si meritano una striminzita sufficienza, se i soldi bastano cercare con urgenza un produttore!

Bruno Conti

Una Cosa Tira L’Altra. Leonard Cohen E Dintorni News

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I fans più accorti e sfegatati di Leonard Cohen sapranno già tutto ma per chi non ha letto la notizia come potremmo definirla “Lui, lei e l’altro”?

Oggi avrei dovuto parlare di altro nel Blog ma si è fatto tardi e visto che l’argomento dell’ultima telefonata verteva su questo argomento trasformiamolo in un Post, che spesso nascono così all’impronta.

I due baldi giovani sono i “babbi” Rufus Wainwright e Jorn Weisbrodt (detto anche Deputy Dad, come vogliamo dire in italiano, Vice babbo o Papà surrogato?), lei è la mamma (ma anche la figlia di Leonard), ovvero Lorca Cohen e a questo punto Leonard Cohen diventa il nonno di Viva Katherine Wainwright Cohen nata il 2 febbraio 2011 a Los Angeles, California (nella terza foto quella che vedete insieme a Rufus e Lorca è l’amica Gwyneth Paltrow). Speriamo che la scelgano come madrina a discapito di una eventuale ulteriore apparizione di Lady Gaga che già deve fare la madrina al figlio di Elton John (pora stella come si dice a Milano).

Lorca Cohen è la 36enne figlia di Leonard (e quindi sorella anche di Adam, a proposito che fine ha fatto?), spesso fotografa ed autrice di video per il babbo ma che ha svolto anche la professione di chef e attualmente gestisce un negozio di antiquariato in quel di Los Angeles.

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Ma come siamo arrivati a tutto ciò? No, cosa avete capito, non alla faccenda del figlio, quello posso immaginarlo ma all’argomento in questione!

E veniamo alla musica. In questi giorni negli Stati Uniti esce il nuovo album di NEeMA (è il secondo, il primo si chiamava, Masi). Lei è una cantante canadese di origini libanesi ed egiziane evidentemente amica di Lorca che è la fotografa del disco che è prodotto dalla stessa NEeMa, ma pure da Leonard Cohen e Pierre Marchand che è il produttore abituale di Sarah McLachlan e Ron Sexsmith. Per la serie, appunto, una cosa tira l’altra, nel disco appaiono un paio di Arcade Fire e musicisti della band di Rufus & Martha Wainwright. Canadesi come piovesse e infatti l’album era già stato pubblicato in Canada dalla Sony nel luglio 2010. Ora, sulla scia di una apparizione al SXSW di Austin il CD esce sul mercato americano.

Lei è brava come potete verificare da questa versione Live di Escape in quel di Montreal il 1° aprile scorso oppure dal videoclip dello stesso brano che vedete qui cx100XXqDlU.

Nell’album c’è anche una bella cover di Romeo and Juliet dei Dire Straits ma niente brani (mi sembra) del signor Leonard Cohen.

Ho dimenticato qualcosa? L’album si chiama Watching You Think e questo è il sito se volete approfondire http://www.neema.ca/

La ricerca prosegue…

Bruno Conti

Che Storia! Audra Mae – The Happiest Lamb

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Audra Mae – The Happiest Lamb – Side One Dummy Records – 18-05-2010

Il titolo non fa riferimento ad eventuali problemi di tossicodipendenza di questa giovane donzella, semplicemente mi sembrava simpatico.

Già, la storia: Audra Mae nasce ventincinque anni fa in quel di Oklahoma City, figlia maggiore di una famiglia numerosa e fin da piccola rivela velleità artistiche. D’altronde per la bisnipote (se ho fatto i conti bene, è la figlia della sorella di Frances Ethel Gumm, mentre la sorella Virginia era la mamma di sua nonna, che casino!) di Judy Garland, nome d’arte di Frances, quindi Liza Minnelli sarebbe la prozia.

Ma bando alle genealogie: verso i diciassette anni, avendo imparato da autodidatta a suonare piano e chitarra, comincia a comporre le prime canzoni e inizia il solito percorso dei veri musicisti, quindi concerti, concerti, concerti, nastri, nastri, nastri, tutta la trafila di chi non vuole passare per i cosiddetti talent show o reality che dir si voglia (anche se… ma lo vediamo fra poco). A questo punto va a studiare alla Middle Tennessee State University, ma ci rimane poco visto che invece di studiare le sue priorità erano scrivere canzoni e fare festa (un bel programmino). Molla tutto e, secondo la sua biografia, arriva in California l’8 gennaio 2004, il giorno del compleanno di Elvis con venti dollari in tasca e questi sono i racconti che alzano l’audience. Da lì inizia il classico peregrinare tra le varie etichette discografiche, ma secondo le sue parole, tutti volevano cambiare il suo modo di cantare e fare musica.

Nel frattempo firma un contratto per la Warner Chappell come autrice e, tramite questo contatto, viene chiamata dagli autori di una serie televisiva americana “Sons of Anarchy” per cantare una cover di Forever Young di Dylan watch?v=VDzJbmZe2rw e con la voce che si ritrova (ne parliamo subito) viene notata da molti. In particolare dai boss di una etichetta indipendente americana, la Side One Dummy (la stessa di Gaslight Anthem, Flogging Molly, Gogol Bordello e altri), che le propongono un contratto. Per farla breve, la nostra amica ha pubblicato nel 2009, due Ep digitali, in particolare uno intitolato Haunt è uscito anche in CD; tramite la casa discografica e la Warner Chappell è stata contattata da un team di autori musicali svedesi, Play Productions per comporre un brano da proporre ad una cantante esordiente. Fin qua niente di strano, se non che la cantante esordiente è tale Susan Boyle (da qui l’aggancio con i talent), il brano Who I Was Born To Be, l’unica composizione originale in un disco di cover viene accettato e inciso e ora, Audra Mae, dopo nove milioni di dischi venduti (e non è finita), potrebbe fare una vita da “ricca” e vivere di rendita. Invece ha deciso di capitalizzare il successo e pubblicare questo The Happiest Lamb il 18 maggio.

Un’ultima curiosità carina raccontata da lei stessa in una intervista. Qualche tempo fa Rufus Wainwright ha fatto un tour e poi inciso un disco dove reinterpreta Judy At Carnegie Hall. La nostra amica Audra, che è una fan di Rufus, è andata ad una manifestazione dove il giovine Wainwright firmava autografi e, porgendogli il suo notebook, gli ha detto “Un giorno farò da spalla ai tuoi concerti”, beccandosi un “really” tra l’ironico il rassegnato. Due particolari, il notebook in questione, oltre a contenere i testi delle sue canzoni era tutto dedicato a Harry Potter di cui la Mae si definisce una scatenata fan 25enne e quindi ha fatto un po’ la figura della cretina e, secondo, non gli detto di essere la pronipote di Judy Garland, di sicuro avrebbe vinto molti punti!

Ma due parole sul disco non le vogliamo dire? Certo che sì. Una Meraviglia! Sono due parole.

Prodotto da Ted Hutt (come già detto per Jesse Malin, il produttore di Gaslight Anthem, Lucero, Flogging Molly e molti altri) il disco ci presenta una deliziosa cantante dalla voce forte e sicura, molto “old Wave” se vogliamo ma meglio direi “senza tempo”, quei talenti naturali che ogni tanto appaiono dal nulla e ci regalano dei bellissimi dischi e poi non sempre si ripetono. Dico questo perché la Audra Mae, tra le altre voci è stata paragonata anche a Mary Margaret O’Hara autrice di quell’unico stupendo disco e poi scomparsa, purtroppo, nel nulla (più o meno).

Qui il sound è volutamente minimale: chitarre acustiche e qualche raro sprazzo elettrico, piano, mandolino, qualche tocco fatato di fisarmonica, una sezione ritmica discreta ma anche swingante, nel senso di leggermente jazzata (ma giusto un tocco). Ma soprattutto tante belle canzoni: dall’iniziale The Happiest Lamb che potrebbe ricordare una Duffy infinitamente più sofisticata ma sempre molto sixties e piacevole passando per la riverberata The Millionaire dove la voce sexy e leggermente rauca della Mae, aiutata da un tappeto di voci di supporto ci regala un piccolo classico di pop music senza tempo. The River è il singolo dell’album, una ritmica vagamente sincopata, una voce pura e vagamente ammiccante e voilà, una Norah Jones meno ingessata nel suo stile. The Snake Bite addirittura ci riporta agli anni ’50, sempre in bilico tra jazz, folk e canzone d’autore e sempre delicatamente fuori moda ma allo stesso tempo attuale. My Lonely Worry è una stupenda ballatona che avrebbe fatto la gioia della K.d. Lang di Ingenue ( e dei suoi ascoltatori); The Fable, con una fisarmonica malandrina, ci porta in quei territori raffinati e rarefatti tanto cari alla O’Hara ma anche alla stessa k.d. Lang, la nostra amica canta con un trasporto fantastico, raggiungendo momenti strepitosi nel ritornello dove la voce si libra verso vette vocali da brivido e goduria estreme, che meraviglia!

Ma è tutto un tripudio di belle canzoni: Lightning in A Bottle, ancora arricchita dalla fisarmonica e da questa voce incredibile, ma anche Sulliivan’s Letter e Smoke sono brani decisamente superiori a quello che si ascolta in giro. Come il folk quasi puro di Bandida con mandolino e atmosfere celtiche e la voce che trova nuove sfumature. La conclusione è affidata a Little Sparrow, solo voce e piano, il brano più “difficile” del disco e altra occasione per ascoltare questa voce in piena libertà.

Segnatevi il nome e ricordate dove lo avete letto una delle prime volte, almeno in Italia. Ormai nella ricerca di “nomi strani” mi mancherebbe un bel disco di musica dei Boscimani del Kalahari ma ho deciso di risparmiarvi.

Bruno Conti

…E Figli! Rufus Wainwright – All Days Are Nights: Songs For Lulu

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Rufus Wainwright – All Days Are Nights: Songs For Lulu – Decca/Polydor/Universal

In Canada è uscito in questi giorni, in Europa ed America esce tra il 5 ed il 20 aprile (in Italia il 20).

Dopo il disco del babbo solo voce e chitarra acustica, ecco il disco del figlio solo voce e pianoforte: i brani che utilizzano dei Sonetti di William Shakespeare sono in effetti solo tre e farebbero parte di un progetto più ampio al quale ha collaborato Rufus Wainwright del direttore e compositore di classica contemporanea Robert Wilson, il progetto si chiama Sonette consta di 24 brani ed è stato eseguito a Berlino per la prima volta nell’aprile 2009.

Colui che Elton John (a proposito, il buon Elton sta registrando un nuovo album con Leon Russell, prodotto da T-Bone Burnett, suona molto promettente) ha definito “il più grande cantautore sulla terra al momento” questa volta non ha usato mezze misure, un disco solo voce e pianoforte non è uno scherzetto: eppure questo progetto che riporta Rufus alle sue origini per quanto possa risultare faticoso all’ascolto ha un suo fascino che risiede nella voce unica e particolare dell’artista, capace di convogliare emozioni profonde in chi ascolta, nonchè nella sua abilità come pianista. Grande appassionato di classica e lirica, ma anche di Judy Garland e Edith Piaf così come di Elton John appunto, questo disco nasce anche dalla necessità di fare di difficoltà virtù; non potendosi più permettere di fare tournée con un gruppo alle spalle ha colto l’occasione di realizzare questo disco in solitaria e poi portarlo nei teatri di tutto il mondo (Teatro Comunale di Firenze il 13 maggio, Conservatorio di Milano il 15 maggio).

L’album si apre con lo straordinario florilegio pianistico di Who Are You New York?, brano dedicato alla città statunitense che cita Grand Central Station, Madison Square Garden e Empire State Building nel testo (tiè Jay-Z!), il brano doveva far parte di una colonna sonora ma è stato rifiutato, peccato perché è uno dei migliori e più fruibili del disco. Sad With What I Have contiene riferimenti a Barbablù il personaggio delle favole di Perrault ed è un brano triste e melanconico.

Martha dedicato alla sorella, anche lei cantante (partecipa al progetto di David Byrne e Fatboy Slim Here Lies Love, in un prossimo Post, promesso! Magari domani.) è una bella canzone presentata come un dialogo tra fratelli, affascinante. Give Me What I Want And I Give It To Me Now è uno dei brani più movimentati del disco, definirlo rock sarebbe troppo visto che è dedicato ai detrattori dell’opera lirica, bel lavoro al piano comunque. True Loves è uno dei brani più romantici del disco, sempre sostenuto da un gran lavoro pianistico e dalla voce appassionata e partecipe di Rufus Wainwright, contiene una delle più belle frasi del disco Un cuore di pietra non va da nessuna parte!

Poi ci sono i tre Sonetti di Shakespeare, Numero 43, Numero 20 e Numero 10: il primo è il più pretenzioso del trio, difficile da digerire, complesso. Il numero 20 paradossalmente è uno dei momenti più orecchiabili del disco, il più vicino ad una struttura-canzone, una bella ballata, con un arrangiamento all’uopo potrebbe entrare anche in classifica. Il sonetto Numero 20, ironicamente, è quello nel quale Shakespeare incoraggia i giovani uomini a sposarsi e procreare, sarà dura vero Rufus? Bella esecuzione pianistica, però. The Dream è forse il brano che gode della più sentita interpretazione vocale del nostro amico, veramente bello e complesso, non lontano dal primo Elton John. What I Would Ever Do With A Rose?, come avrebbe detto un famoso allenatore a Mai Dire Gol, è un po’ ostico e anche agnostico, pesantuccio insomma. Non manca il brano in francese per illustrare il suo talento poliglotta Les Feux D’artifice T’appellent, ma è anche il brano conclusivo della sua prima opera Prima Donna (ha avuto anche il tempo per fare quello, ai primi di maggio uscirà un DVD Prima Donna The Story Of AN Opera, titolo quanto mai esplicativo), nonchè l’occasione per sciorinare ancora una volta la sua abilità al piano, con tanto di virtuosismi su coperchio e corde del piano stesso. Conclude Zebulon un brano triste e maestoso che contiene riferimenti alla mamma Kate McGarrigle, recentemente scomparsa (comprendo perché ci sono passato anch’io recentemente) e alla speranza di un sollievo dalla pena e dal dolore, era la preferita dall’album del figlio. Non facile ma molto bello.

Bruno Conti