Bella Voce Country Old School! Mandy Barnett – A Nashville Songbook

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Mandy Barnett – A Nashville Songbook – Melody Place/BMG Rights Management

La nostra amica non è una novellina: infatti il primo disco di Mandy Barnett risale al 1994, poi ne ha pubblicati altri, spesso entrati nelle classifiche country, ma senza mai avere grande successo a livello nazionale. Tanto che ha diversificato la sua carriera, entrando anche nell’ambito dei musical e degli show dal vivo alla Grand Ole Opry, nonché puree una carriera come attrice, pur continuando a pubblicare album, l’ultimo nel 2018, a livello indipendente, mentre nei primi anni di carriera uscivano per le grandi majors. Questo nuovo A Nashville Songbook, e il titolo già dice tutto, è una via di mezzo, in quanto il disco esce a livello autogestito per la Melody Place, con distribuzione BMG del gruppo Warner: quindi una pubblicazione che, prendendo spunto dallo spettacolo con lo stesso nome, è incentrata su una serie di brani scelti nel repertorio del country classico, non quello bieco e commerciale, stretto parente del pop dozzinale, che ammorba molte delle attuali produzioni, ma che attinge da autori celebri, in qualche caso anche celeberrimi, della country music, e non solo.

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Quindi troviamo canzoni di Roy Orbison, Kris Kristofferson, Boudleaux Bryant, Chips Moman, Harlan Howard, Hank Williams, Eddie Rabbitt, c’è perfino una versione di It’s Now Or Never, la nostra classica O’ Sole Mio, che tutti conosciamo nella interpretazione di Elvis Presley. A tenere le fila del progetto c’è Fred Mollin, uno dei grandi produttori di Nashville sin dalla fine anni ‘60, primi ‘70, di recente dietro la console per il recente album di Rumer Nashville Tears https://discoclub.myblog.it/2020/08/24/cambia-il-genere-ma-non-la-voce-sempre-calda-e-vellutata-rumer-nashville-tears/ , e anche se la Barnett non ha una voce vellutata e deliziosa come la cantante anglo-pakistana, si difende comunque bene, con il suo timbro squillante. Il sound è classico, senza scadere nello scontato, e tra i molti musicisti impiegati si distinguono Bryan Sutton, alle chitarre acustiche e mandolino, Eddie Bayers alla batteria, Larry Paxton al basso, Scotty Sanders alla pedal steel, l’ottimo Stuart Duncan al violino, e lo stesso Mollin a synth e chitarre, mentre una sezione archi e fiati cerca di non appesantire più di tanto gli arrangiamenti, con un risultato che profuma di country old style di buona qualità.

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I Love A Rainy Night, la traccia di apertura a firma Eddie Rabbitt è uno dei brani recenti, un pezzo pimpante a cavallo tra country e gospel pop , tipo la prima Shania Twain quando non si era ancora lanciata nella “dance”  , mentre It’s Over è uno dei super classici di Roy Orbison, e qui bisogna ammettere che, per quanto gli arrangiamenti cerchino di aiutare, la Barnett non ha una voce, sia pure dalla buona estensione, che comunque possa competere con quella del “Big O”, anzi la canzone è sin troppo carica, molto meglio Help Me Make It Through The Night di Kristofferson, con un arrangiamento che, senza rinunciare agli archi, risulta più intimo e contenuto https://www.youtube.com/watch?v=RtncXk8sg9c . A Fool Such As I faceva parte delle classiche ballate country di Elvis, e tra pedal steel e violini sfarfallanti è molto godibile https://www.youtube.com/watch?v=frQTg2gATMg , come pure la celebre End Of The World di Skeeter Davis, dove la voce cristallina ed espressiva di Mandy è decisamente più a suo agio https://www.youtube.com/watch?v=zdNc4eyaFpo , mentre It’s Now Or Never mi lascia sempre quel retrogusto pacchiano e anche The Crying Game mi sembra più adatta al repertorio di Celine Dion. Nell’ambito delle canzoni più riuscite, inserirei una intensa Love Hurts, la briosa e scintillante Heartaches By The Number di Harlan Howard, uno degli standard assoluti del country, che hanno cantato decine di artisti, e la versione della Barnett, di nuovo con violino e pedal steel sugli scudi, è molto godibile  , come pure la rilettura solo voce e piano di I Cant’Help It (If I’m Still In Love With You di Hank Williams https://www.youtube.com/watch?v=y3tF_HTVjeI , a chiudere un album onesto e di buona fattura, per amanti del country vecchia scuola.

Bruno Conti

Cambia Il Genere, Ma Non La Voce, Sempre Calda E Vellutata. Rumer – Nashville Tears

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Rumer – Nashville Tears – Cooking Vinyl

Doveva uscire il 1° maggio, poi come altri molti dischi in questi tempi di coronavirus, è stato posticipato ad agosto. Si tratta del primo album dopo una lunga pausa per la cantante anglo-pachistana, e come lascia intuire il titolo un disco di country, tutto composto di canzoni scritte da Hugh Prestwood, un autore non notissimo al grande pubblico, ma assai apprezzato da colleghi e colleghe che spesso e volentieri hanno interpretato i suoi brani, molte volte entrati nelle classifiche di categoria e qualche volta anche successi nelle charts nazionali USA, come per esempio Hard Times For Lovers, una hit per Judy Collins nel 1979. Per il resto Rumer e il marito Rob Shirakbari (a lungo arrangiatore e collaboratore di Burt Bacharach) hanno privilegiato canzoni meno note del suo songbook, comunque sempre con interpreti di prestigio: Alison Krauss, Randy Travis, Barbara Madrell, Shenandoah, Trisha Yearwood.

Sarah Joyce, con il suo nome d’arte di Rumer, come certo saprete se leggete il blog regolarmente, è molto amata sia dal sottoscritto https://discoclub.myblog.it/2010/11/13/perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul/ , quanto dall’amico Marco Verdi https://discoclub.myblog.it/2012/06/27/confermo-e-proprio-brava-rumer-boys-don-t-cry/ , grazie alla sua voce calda e vellutata, dal timbro e dalla emissione che sfiora la perfezione, epigona di quella schiatta di interpreti che discende da Karen Carpenter e Dusty Springfield, passando anche da cantautrici come Carole King e Laura Nyro, e con la benedizione del suo mentore Burt Bacharach, uno che ha sempre avuto una passione per le grandi voci femminili, e al quale proprio Rumer aveva dedicato il suo ultimo album, uscito nel 2016, This Girl’s In Love (A Bacharach & David Songbook), il primo ad essere pubblicato dopo essersi trasferita per vivere con il marito negli States tra Arkansas e Georgia, dove ha anche avuto un aborto e diradato la sua attività musicale, per problemi di salute legati a disturbi bipolari a seguito dello stress legato alla sua carriera.

Per il rientro Sarah ha deciso, dovo vari tentennamenti, di pubblicare un album di country, folgorata dal repertorio di Hugh Prestwood, proposto da Fred Mollin, produttore e musicista canadese, ma vecchia volpe della scena locale di Nashville, uno che ha lavorato a lungo con Jimmy Webb, America, Kris Kristofferson, quindi non il primo pirla che passa per la strada, che ha prodotto questo Nashville Tears. A ben guardare rimane molto del pop orchestrale e raffinato che da sempre caratterizza la proposta di Rumer, con continui florilegi orchestrali che spesso fanno da prologo alle canzoni, che però poi si svolgono con un deciso piglio country, tra acustiche, pedal steel, dobro e violini che sono gli elementi principali del sound. Mollin ha radunato una eccellente pattuglia di musicisti locali, tra cui spiccano Pat Buchanan alla chitarra elettrica, Bryan Sutton a basso, banjo e mandolino, Stuart Duncan al violino, l’ottimo Mike Johnson alla pedal steel, e Kerry Marx e Scotty Sanders, che si alternano a dobro e pedal steel, strumento molto impiegato nel disco. La voce della nostra amica, come si diceva, è rimasta splendida, magari aggiungendo una patina di maturità, visto che da poco ha compiuto 41 anni.

Si parte con la gentile The Fate Of Fireflies, con i florilegi della sezione archi, poi entra subito la calda ed avvolgente vocalità di Rumer, ben supportata dal classico suono country seventies preparato da Mollin, con la steel subito in evidenza, ma anche il piano, seguita da un altra ballata come June It’s Gonna Happen, altro tipico esempio dello stile compositivo di Prestwood, che utilizza molte metafore relative alla natura, mentre pedal steel e dobro, oltre al piano di Gordon Mote, sono sempre in evidenza. Deliziosa anche Oklahoma Stray che sembra un brano del primo James Taylor, con una bella melodia e un arrangiamento intimo, Bristlecone Pine è leggermente più mossa, giusto un poco, potrebbe ricordare gli America, vecchi clienti di Mollin, sempre con la voce cristallina di Rumer a galleggiare sulla musica, come conferma la sua versione di Hard Times For Lovers, il brano di Judy Collins, dove rivaleggia con la grande cantante di Seattle, quanto a purezza di emissione vocale, con il dobro che sottolinea lo spirito più brioso di questa canzone. Eccellenti anche la malinconica Ghost In This House, un successo per i Shenandoah e la solenne The Song Remembers When, grande successo per Trisha Yearwood nel 1993.

E’ ovvio che stiamo parlando di un country old style, molto lavorato, lontano dall’alt-country e dall’Americana, tutto basato sulla voce superba di Rumer che porge queste canzoni con grande garbo e classe, in omaggio a quella “vecchia” Nashville citata nel titolo dell’abum, ma cionondimeno molto godibile, come conferma That’s That, altro brano estremamente raffinato di Prestwood che illustra i paesaggi e i panorami della natura americana “There’s a weeping willow on the outskirts of town/Where I took a pocket knife and carved out our names/In the morning I am gonna cut that tree down/Gonna build a fire and watch us go up in flames.”, mentre Buchanan rilascia uno splendido assolo di chitarra elettrica che incornicia il brano. Solenne e malinconica anche la pianistica Here You Are, mentre la squisita Learning How To Love si libra ancora una volta sulle corde vocali vellutate di questa cantante che rimane consigliata soprattutto a chi ama anche le interpreti lontane dal rock e comunque portatrici sane di un pop, magari demodé, affinato e senza tempo.

Bruno Conti

A Proposito Di Belle Voci! Jo Harman – People We Become

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Jo Harman  – People We Become – Totale Creative Feed

Ogni tanto dal Regno Unito sbuca qualche nuova voce femminile interessante, con un repertorio musicale che può essere interessante per i nostri lettori: penso a Joss Stone, potenzialmente una delle migliori voci rock & soul moderne, ma che spesso paga le scelte non felici di produttori e compagni di viaggio, che quest’anno compie 30 anni e dovrà scegliere cosa vuole fare da grande http://discoclub.myblog.it/2012/07/23/ma-che-voce-ha-il-ritorno-di-joss-stone-the-soul-sessions-vo/ , ma anche la bravissima Rumer, in possesso di una voce deliziosa, dal phrasing perfetto e con uno smisurato amore (ricambiato) per Burt Bacharach, che a chi scrive piace moltissimo http://discoclub.myblog.it/2010/11/13/perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul/ , tra i nomi del passato forse si potrebbe paragonare, anche se non vocalmente, a Dusty Springfield. In mezzo a questi nomi ora arriva Jo Harman, giovane cantautrice del Southwest britannico, nata a Luton e cresciuta nel Devon, poi trasferitasi a Londra per dedicarsi alla musica. Nella sua musica si trova una passione per i classici della canzone inglese, Beatles, Cat Stevens, Moody Blues, oltre alla grande soul music americana, nella persona di Aretha Franklin (passione in comune con Rumer), nomi e musiche carpiti dalla discoteca dei genitori e poi usati nei primi passi nel mondo musicale.

Di lei si parla molto bene in questi giorni per l’uscita del presente People We Become, ma in passato ha già pubblicato un album autoprodotto nel 2013, e due dischi dal vivo, tra cui un Live At The Royal Albert Hall, pubblicato dalla BBC. Inserita nel filone soul e blues (dove ha ricevuto vari premi di categoria) mi sembra che Jo Harman si possa inserire a grandi linee  in quel ramo, dove fioriscono anche voci come Beth Hart, Dana Fuchs o Colleen Rennison dei No Sinner, oltre a cantautrici, più, come le potremmo definire, “confessionali”, quelle che si ispirano a Joni Mitchell o Laura Nyro, per volare alti, o, soprattutto Carly Simon, quella del primo periodo, con cui mi pare condividere il timbro vocale. Ovviamente i nomi citati sono semplici suggestioni, anche personali, che servono comunque ad inquadrare il personaggio: questo nuovo album è stato registrato in quel di Nashville, mi verrebbe da dire a cavallo tra la Music City più commerciale e il lato più rootsy e ricercato dell’altro lato di Nashville, Il produttore scelto per l’avventura americana è Fred Mollin, un canadese trapiantato nel Tennessee,  uno che ha lavorato con Jimmy Webb, Kris Kristofferson (il di recente ristampato Austin Sessions), ma anche in moltissime colonne sonore per la Disney: e anche i musicisti utilizzati, grandi professionisti, da Greg Morrow alla batteria, Tom Bukovac alla chitarra e il bravissimo tastierista Gordon Mote, hanno lavorato, da professionisti, con Blake Shelton, Faith Hill, Amy Grant e simili, ma pure con Bob Seger e i Doobie Brothers.

Scusate questo voler esser fin troppo didascalici, ma questo dualismo nel disco, a tratti, si sente: ci sono molti brani dove si percepisce a fondo il talento di questa giovane cantante e alcuni dove è coperto da esigenze di mercato; e così si alternano brani come l’iniziale No One Left To Blame, un brano rock tirato, con chitarre, tastiere e sezione ritmica in evidenza, che sembrano essere in competizione con la voce della Harman, e non sempre, anche se l’ugola è potente, vince lei, ma pur risentendo del suono fin troppo pompato,  la classe si percepisce e non siamo lontani dagli episodi più duri di Beth Hart o dei No Sinner. Ma poi quando si passa a una canzone come Silhouettes Of You veniamo proiettati in un sound molto seventies, alla Carly Simon, con piano ed una bella slide in evidenza, oltre alla voce calda e matura di Jo. Molto bella anche la lunga, oltre i sette minuti, Lend Me Your Love, una ballata che parte solo voce e piano, e poi si sviluppa in un notevole crescendo, con l’organo, le chitarre e il resto degli altri strumenti, fiati compresi. che entrano man mano, qualcuno ha riscontrato addirittura delle similitudini in fase di costruzione sonora con i Pink Floyd, il tutto cantato con grande autorità.

Eccellente anche Unchanged and Alone, partenza acustica per un’altra splendida ballata dal crescendo irresistibile, mentre The Reformation introduce elementi blues e rock, più duri e tirati, che evidenziano la voce grintosa. Changing Of The Guard, sempre con una bella slide, è più leggera e godibile, sempre vicina alla Carly Simon citata, con Person Of Interest, intima e raccolta, che esplora il sound più acustico che veniva utilizzato nel primo album, per poi esplodere nel riff di When We Were Young https://www.youtube.com/watch?v=LyWw7ixwKjs , che sembra un pezzo dei Doobie Brothers, e quando entra la voce di Michael McDonald alle armonie vocali ne hai la conferma, il singolo dell’album, che prosegue con The Final Page, altra traccia elettroacustica sulle ali di una malinconica lap steel, ancora con la bella voce di Jo Harman da gustare, e pazienza se nell’arrangiamento c’è qualche zucchero di troppo. Infine la conclusiva Lonely Like Me, altra ballata pianistica dai saliscendi sonori e con elementi gospel conferma il valore di questo nuovo talento prodotto dalla scena britannica.

Bruno Conti

Attrici Che Cantano, Uhm…E Invece E’ Brava! Katey Sagal – Covered

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 Katey Sagal – Covered – Entertainment One

Un bel giorno, tra il lusco e il brusco, mi trovo tra le mani questo CD, Covered, molto bello, ma il nome della cantante, Katey Sagal, mi dice poco o nulla, anche se, come avrebbe detto Totò, quella faccia non mi è nuova (solo la faccia, nella battuta di Totò si alludeva ad altro)! Ai nostri tempi è diventato facile, digiti il nome su Google (o Yahoo o quello che preferite) e ti si apre un mondo: alla faccia si affianca una persona. Attrice, doppiatrice cantante, aveva fatto già due dischi, Well nel 1994 e Room nel 2004, quindi secondo la regola, più o meno, dei dieci anni, era tempo di farne uno nuovo. Ma torniamo, per un attimo, all’attrice: soprattutto serie televisive, una decina di stagioni di Sposata…con figli, anche di più, dal 1999, come una delle voci originali della serie a cartoni animati Futurama,e poi 8 Semplici Regole, The Shield, Lost, Boston Legal, dal 2008 Sons Of Anarchy, oltre a molte partecipazioni a film e telefilm.

Negli anni ’70 e ‘80, e questo ci interessa di più, ha fatto la corista, tra gli altri, per Bob Dylan e Bette Midler e di conseguenza deve avere stretto dei rapporti con il mondo della musica americana che si rivelano fondamentali per questo album. Intanto liberiamoci dai pregiudizi sugli attori che non sanno cantare, ce ne sono molti bravi, l’ultima che mi viene in mente è Minnie Driver, andando a ritroso, Billy Bob Thornton, Bruce Willis, eccetera, eccetera. Ma Katey Segal canta veramente bene, un bel contralto, una voce calda ed espressiva, per certi versi, appena un filo inferiore, mi ha ricordato la giovane Rumer, che tanto mi aveva impressionato negli ultimi anni, anche con il disco delle cover, Boys Don’t Cry, dello scorso anno. Come dice il titolo di questo album, Covered, siamo su quei territori, 9 canzoni, note, anzi notissime e un originale firmato da Bob Thiele Jr, che è anche produttore del disco e polistrumentista, e da Tonio K, vedo delle manine che si alzano, bravi, ricordate? Ma a differenza di altri casi, dove per perversi motivi, vengono scelte canzoni perlopiù oscure dai repertori degli artisti da interpretare, questa volta la Siegal, ha scelto tra il meglio che c’era in circolazione.

Free Fallin, di Thomas Earl Petty e Jeff Lynne (anche questo vezzo di scrivere i nomi completi degli autori è segno di rispetto), For A Dancer di Jackson Browne, Follow The Driver è l’unico brano originale, Goodbye di Stephen F. Earle, I Love You But I Don’t Know What To Say di Ryan Adams, Gonna Take A Miracle di Randazzo,Weinstock, Stallman, ma resa immortale da Laura Nyro, Orphan Girl di Gillian Welch, For Free di Joni Mitchell, Secret Heart di Ron Sexsmith, Roses And Cigarettes di Ray LaMontagne! Ma neanche nelle mix tapes dei vostri sogni c’è un repertorio così. E le fa un gran bene: con l’aiuto di gente come Matt Chamberlain alla batteria, Greg Leisz alle chitarre, Davey Faragher al basso, Freddy Koella al violino, Bobby Mintzer al clarinetto, Lyle Workman alla chitarra, tanto per citare alcuni dei musicisti impiegati nell’album. Ah, un certo Jackson Browne, come seconda voce, in una sontuosa versione di Goodbye di Steve Earle, con un’aria tipicamente messicana provvista dal laud e dalla banduria di Javier Mas e dal violino di Alkexandru Bublitchi (ha un qualcosa di Romance in Durango di Dylan).

Ma lei canta con voce vellutata tutti i brani, forse quello leggermente meno riuscito è l’iniziale Free Fallin’ troppo legato allo stile inconfondibile di Tom Petty, ma non è comunque una brutta versione. Bellissima Gonna Take A Miracle, soul raffinatissimo, soffusa For A Dancer, solo chitarra, pedal steel e organo, deliziosa la versione di Secret Heart di Ron Sexsmith, che ricordo in una interpretazione fantastica dell’autore in una puntata della trasmissione Spectacle di Costello. E poi il brano nuovo scritto appositamente per l’album che è una sorta di soul ballad alla People get ready, rivisata in chiave rock orchestrale. E il valzerone country rock del brano di Ryan Adams, con la pedal steel insinuante di Leisz, è poco bello? Anche il country-folk paesano del brano di Gillian Welch e la ripresa del capolavoro di Joni Mitchell, con lo splendido clarinetto di Mintzer in evidenza, confermano una sintonia completa con il lavoro di queste grandissime cantautrici. Roses And Cigarettes di Ray LaMontagne sancisce definitivamente che là fuori ci sono tante bellissime canzoni, basta saperle cercare, e cantare! Veramente una bella sorpresa, brava!

Bruno Conti

Confermo: E’ Proprio Brava! Rumer – Boys Don’t Cry

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Rumer – Boys Don’t Cry – Atlantic Deluxe Edition

Penso che se uscite e chiedete al classico “uomo della strada” di farvi il nome di una cantante inglese di successo, almeno otto su dieci vi faranno il nome di Adele, mentre i restanti due, avidi consumatori di reality e talent show, vi potranno citare Susan Boyle. Pochi vi faranno il nome di Rumer: eppure la cantante anglo-pakistana (avrebbe dovuta essere tutta anglo, ma forse dopo sei figli avuti dal marito la madre ha voluto provare qualcosa di diverso e si è rivolta al cuoco…ma per le note biografiche vi rimando a Wikipedia) ha superato con il suo debutto Seasons Of My Soul, uscito nel Novembre del 2010, la ragguardevole cifra delle 500.000 copie vendute, quantità di tutto rispetto in un momento di profonda crisi del mercato discografico.

Tutte copie meritate, dalla prima all’ultima (piuttosto forse è esagerato il successo della pur bravissima Adele, mentre della Boyle non parlo, talento non significa solo una voce formidabile): Bruno vi aveva detto meraviglie di Seasons Of My Soul (e io condivido),  perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul.html un disco di puro pop, ma suonato ed arrangiato alla grande, e con la voce calda e piena d’anima (soulful, letteralmente) di Rumer (nata Sarah Joyce, il nome è in onore della scrittrice Rumer Godden). Una voce che la stampa inglese aveva paragonato a quella della sfortunata Karen Carpenter (del famoso duo The Carpenters), ma molti, me compreso, vedevano tracce, anche nello stile oltre che nella voce, di Dusty Springfield, Laura Nyro, Carole King ed un pizzico del Van Morrison di dischi come Tupelo Honey.

Ora esce il tanto atteso secondo album, intitolato Boys Don’t Cry, che, a differenza del debutto che era composto da brani originali (tranne due), è formato interamente da cover di canzoni che hanno avuto una profonda influenza su di lei: uno potrebbe pensare ad una mossa astuta della casa discografica in mancanza di materiale nuovo, ma, una volta ascoltato il disco, l’operazione ha perfettamente senso. Rumer infatti affronta un repertorio che più eterogeneo non si può (si passa da Neil Young a Hall & Oates, da Townes Van Zandt a Isaac Hayes, e così via, ma niente Carpenters, Springfield, Nyro, ecc.), facendo suo ogni brano con la sua voce spettacolare, sostenuta come sempre da arrangiamenti misurati ma di gran classe (la parola classe la ripeterò spesso nel corso di questa recensione), con una serie di ottimi musicisti, sui quali spicca senz’altro lo straordinario David Hartley al pianoforte: il produttore (ma non di tutto il disco) è come nel primo disco Steve Brown, suo scopritore e mentore. Piccola nota prima di iniziare la disamina dei brani: anche questo album esce incomprensibilmente in due versioni, una con dodici canzoni ed una deluxe con sedici, ed io vorrei tanto conoscere un giorno chi compra la versione con meno brani per risparmiare quattro/cinque Euro…

L’album si apre con P.F. Sloan, brano scritto da Jimmy Webb e dedicato al noto autore di hits anni sessanta (in coppia con Steve Barri): inizio per chitarra acustica, voce subito “sul pezzo”, intervento di oboe (chi suona ancora l’oboe nei dischi?) e ritornello corale strepitoso. Sarah canta con la stessa facilità con la quale io mi infilo un paio di calze. (Bella tra l’altro l’idea di pubblicare nel libretto interno al CD l’elenco dei brani con il dettaglio di autore, anno, album di provenienza e copertina dell’album stesso). It Could Be The First Day (Richie Havens) è arrangiata come se fosse una ballata di Burt Bacharach (un altro folgorato dal talento della ragazza, tanto che ha voluto conoscerla di persona), con soave arrangiamento d’archi e la voce di Rumer che si estende eterea lungo tutto il brano. Forse un po’ “troppo” commerciale, ma che classe! Be Nice To Me (di Todd Rundgren) sembra provenire da un disco anni settanta di Carole King: la band segue Sarah (mi piace alternare il vero nome a quello d’arte) con leggiadria e…indovinate? Esatto: classe! C’è anche posto per il flugelhorn (vedi commento sull’oboe di prima), ci mancano solo il glockenspiel e l’harpsicord ed abbiamo riunito tutti gli strumenti vintage.

Travelin’ Boy (Paul Williams) è un lento da brividi (sentite come canta), con accompagnamento classico, piano e chitarra su tutti; Soulsville (Isaac Hayes) mantiene un po’ dello spirito originale, un errebi lento da applausi, arrangiato con gusto e misura e Rumer che modula le corde vocali da par suo. Same Old Tears On A New Background (Stephen Bishop), per voce, piano e poco altro (vibraphone, questo mancava!) è più sul versante Laura Nyro, mentre Sara Smile, di Hall & Oates, viene spogliata degli inutili orpelli tipici del duo di Philadelphia, per diventare una solida ballata dominata da piano e organo. Superba, e poi Rumer con quella voce può fare ciò che vuole. Passare da Hall & Oates a Townes Van Zandt è come pranzare da McDonald’s e cenare da Cracco: Flyin’ Shoes è una delle grandi canzoni del songbook americano, e questa versione dominata dal piano, con delicati interventi di armonica e steel guitar, è semplicemente inarrivabile. La migliore del disco (almeno fino ad ora), quasi commovente. Home Thoughts From Abroad (Clifford T. Ward) è pochissimo strumentata, costruita com’è attorno alla voce inimitabile di Sarah; con Just For A Moment (tratta da un album poco noto di Ronnie Lane in coppia con Ron Wood) siamo dalle parti della Springfield.

Brave Awakening (Terry Reid) è arrangiata in modo sofisticato ma per nulla stucchevole, con hammond e coro femminile che fanno tanto soul, mentre We Will, di Gilbert O’Sullivan, cantata come sempre alla grandissima (ma il brano in sé è forse quello che mi piace meno), chiude la versione “normale” del disco. Il primo bonus è Andre Johray di Tim Hardin, languida e raffinata, seguita da Soul Rebel di Bob Marley, dove fortunatamente (almeno per me) il reggae viene cancellato per farla diventare una perfetta ballata “alla Rumer”, con un tocco sixties che non guasta. L’album si chiude definitivamente con due grossi calibri: My Cricket di Leon Russell (deliziosamente country got soul) e soprattutto A Man Needs A Maid (and a wife needs a cook avrebbe aggiunto sua madre, scherzo signora, non mi fulmini da lassù!) di Neil Young, il brano più noto della raccolta, tratto da Harvest che è l’album più noto del canadese. Un brano che mi stupisce sentito cantare da una donna (leggete il testo e capirete), ma Rumer rilascia una versione manco a dirlo da pelle d’oca, anche Neil approverà di sicuro. Tra le cover dell’anno fin da adesso, assieme a quella di Townes.Che dire di più, penso di non dover aggiungere altro, grande musica e grandissima interprete: di solito a dischi di questo tipo (di cover intendo) viene fatto seguire a breve distanza un altro album con brani nuovi di pacca. Speriamo quindi di non aspettare un altro anno e mezzo.

Marco Verdi

Novità Di Maggio Parte IV. Rumer, Joan Armatrading, Regina Spektor, Melody Gardot, Julia Stone, Sigur Ros, Sun Kil Moon, Edward Sharpe & The Magnetic Zeros

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Oggi doppio Post. Come promesso anche la prima parte delle novità discografiche in uscita martedì 29 maggio.

Partiamo come un florilegio di voci femminili che paiono concentrare le loro pubblicazioni in questo scorcio dell’anno. Quindi oltre alle già citate Carlile, Chapin Carpenter, Colvin, Lisa Marie Presley e Patti Smith tutte in uscita le prossime settimane, cos’altro troviamo per la gioia degli appassionati?

Secondo album per la britannica Rumer, l’annunciato da mesi disco di cover per Sarah Joyce sarà una vera cornucopia di delizie per chi ama la buona musica visto che la nostra amica non si limita a re-interpretare brani scontati ma ha scelto tra il fior fiore degli autori di culto e non solo. Ovviamente, ormai pare una maledizione, non manca la Special Edition singola ma con 4 tracce extra anche per questo Boys Don’t Cry pubblicato dalla Atlantic, questa la lista dei brani, con gli autori a fianco:

P.F. Sloan- Jimmy Webb
Be Nice To Me- Todd Rundgren
It Could Be The First Day- Richie Havens
Travelin’ Boy- Paul Williams
A Man Needs A Maid- Neil Young
Soulsville-Issaac Hayes
The Same Old Tears On A New Background- Stephen Bishop
Soul Rebel- Bob Marley
Flyin’ Shoes- Townes Van Zandt
Home Thoughts From Abroad- Clifford T ward
We Will- Gilbert O Sullivan
My Cricket- Leon Russell

Boys Don’t Cry (Special Edition)

Sara Smile-Hall and Oates
Just For A Moment- Ronnie Lane
Andre Johray- Tim Hardin
Brave Awakening-Terry Reid

La voce è meravigliosa come di consueto, naturale e leggiadra come nel disco precedente che se non avete vi consiglio caldamente perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul.html , quelle belle voci, calde e goduriose, molto anni ’70, ma chissenefrega, anzi.

A proposito di anni ’70, Joan Armatrading in quegli anni era inarrivabile, seconda solo a Joni Mitchell per la qualità dei suoi dischi. In questo ultimo periodo sta vivendo una nuova giovinezza, magari non a quei livelli ma Starlight che esce per la Hypertension la conferma cantautrice di spessore. Dopo Into The Blues e This Charming Life e il bellissimo CD+DVD Live At The Royal Hall questa volta Joan si cimenta con un repertorio più jazzato, ma sempre il jazz visto a modo suo, con quella voce che ci riporta a quella di uno dei suoi idoli, Nina Simone, che ricorda moltissimo nell’inflessione vocale.

La russa-americana Regina Spektor arriva al sesto album con questo What We Saw From The Cheap Seat, al solito per la Warner Bros. C’è anche una nuova versione di Don’t Leave (Ne Me Quitte Pas) che aveva inciso nel 2002 per Songs. La versione Deluxe questa volta la trovate solo su iTunes dove ci sono tre brani in più di cui due cantati in russo. Lei è brava, ma rimango fedele ai dischi fisici, quando possibile.

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Come la due copertine differenti vi avranno fatto intuire anche il nuovo album di Melody Gardot, The Absence, esce pure in versione Deluxe, in questo caso CD con DVD contenente il Making Of di La Vie En Rose, lo stessi brano e altre tre tracce extra. Questa volta la bravissima cantante americana di origine polacca si rivolge anche al Brasile, come sonorità, con l’aiuto di Hector Pereira che produce e suona la chitarra acustica. La versione Deluxe, stranamente, non esce contemporaneamente a quella normale in tutti i paesi, ma in Italia sì, per cui che ce frega? C’è pure il vinile se volete.

Julia Stone lascia momentaneamente a casa in Australia il fratello Angus e produce il suo secondo album da solista, questo By The Horns che stranamente esce in contemporanea a Down Under. Prodotto da Thomas Bartlett (the National) e con altri National tra i musicisti, oltre alla cover di Bloodbuzz Ohio del gruppo americano, ma anche dal co-produttore Patrick Dillett che di solito si occupa, tra gli altri, di Mary J Blige, il disco miscela il pop-folk sussurrato dalla vocina sexy di Julia, come nei dischi con il fratello, con arrangiamenti più complessi musicalmente. I due dischi come coppia hanno avuto un notevole successo sia di pubblico che di critica. Per avere una idea dello stile ascoltate questa piacevole cover di You’re The One That I want (è proprio quella di Grease, al ralenti). A luglio naturalmente esce il disco solista di Angus. Dimentico qualcosa? Etichetta Picture Show Records/Nettwerk.

 

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Nuovo album di studio, a sei anni dal precedente, per i Sigur Ros, titolo facile da ricordare questa volta, Valtari, esce per la Parlophone/EMI. Per non smentirsi, il vinile è triplo e contiene 16 brani contro i 9 della versione in CD (ma chi aveva fatto il pre-order ha diritto a due brani in più) e sul sito del gruppo c’è anche un ulteriore brano gratuito. E usciranno anche una dozzina di video affidati a vari diversi autori.

La copertina è bruttissima, una delle più brutte mai viste, anche per il taglio sghembo voluto del disegno ma la musica del nuovo doppio album dei Sun Kil Moon Among The Leaves pubblicato come al solito dalla Caldo Verde è come di consueto all’altezza della fama di Mark Kozelek leader dei mai dimenticati Red House Painters. Il disco è perlopiù acustico con Kozelek che si accompagna ad una acustic nylon string guitar ma in alcuni brani appaiono anche altri musicisti a “movimentare” le cose. La versione doppia è limitata e contiene due versioni alternative e tre brani dal vivo. Se interessa questo è il contenuto della limited edition, il titolo del terzo brano è fantastico!

01 I Know It’s Pathetic but That Was the Greatest Night of My Life
02 Sunshine in Chicago
03 The Moderately Talented Yet Attractive Young Woman vs. The Exceptionally Talented Yet Not So Attractive Middle Aged Man
04 That Bird Has a Broken Wing
05 Elaine
06 The Winery
07 Young Love
08 Song For Richard Collopy
09 Among the Leaves
10 Red Poison
11 Track Number 8
12 Not Much Rhymes With Everything’s Awesome at All Times
13 King Fish
14 Lonely Mountain
15 UK Blues
16 UK Blues 2
17 Black Kite

Bonus disc:

01 Among the Leaves (Alt. Version)
02 The Moderately Talented Young Woman (Alt. Version)
03 That Bird Has a Broken Wing (Live)
04 UK Blues (Live)
05 Black Kite (Live)

All’inizio del mese di maggio Edward Sharpe & The Magnetic Zeros sono passati dal David Letterman Show per presentare il nuovo album Here, pubblicato in Europa dalla Rough Trade e in America dalla Community/vagrant. Siccome la trasmissione di Letterman ora si vede anche nelle nostre lande sui canali Rai gratuiti del digitale terrestre, molti sono rimasti colpiti da questa eterogenea e numerosa formazione già approdata al secondo album. Se non li avete mai visti o sentiti, sono molto bravi, ecco qua!

Domani, proseguiamo con le altre, numerose, uscite del 29 maggio. Più sotto nella pagina trovate anche la recensione del nuovo Alejandro Escovedo!

Bruno Conti

Quindi Ci Sono Ancora In Giro I Grandi Talenti? Michael Kiwanuka – Home Again

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 Michael Kiwanuka – Home Again – Polydor/Universal 13-03-2012

 Michael Kiwanuka viene presentato come una sorta di novello Bill Withers, il salvatore del nuovo soul, acustico e di gran classe, il vincitore del premio BBC Sound Of 2012 per i nuovi talenti, tra i suoi fan Ray Davies, i Black Keys e gran parte della stampa anglosassone. Il suo debutto Home Again è in uscita il 13 Marzo per la Polydor/Universal con tanto di Deluxe Edition doppia con 5 extra tracks tratte dalle sessions con Ethan Johns. Si sono fatti anche i nomi di Otis Redding, Sam Cooke e Pops Staples come termini di paragone. E volete sapere una cosa? Con le dovute precauzioni, ma è tutto vero! E Terry Callier dove lo vogliamo mettere?

Un viso giovane e fresco, una voce importante e una gran classe. Due EP e una iTunes Session già pubblicati bastano per capire che questo ragazzo è uno di quelli destinati a grandi cose (si spera)!

E comunque questi video autorizzano tutte le attese che si sono create. Sentire per credere.

Poi non vi so dire se in un mondo di Lane Del Rey e One Direction venderà anche, ma si può sempre sperare. Non dimentichiamo che un disco come Seasons of My Soul di Rumer ha venduto più di mezzo milione di copie solo sul mercato inglese (a proposito che fine ha fatto il disco di cover  Boys Don’t Cry che doveva uscire in questo periodo?). Pare a maggio (mi rispondo da solo).

Bruno Conti

I Migliori Dischi del 2010. Storie Collaterali.

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Una delle cose che mi affascina di queste classifiche di fine anno è il contorno dei giudizi di musicisti ed addetti ai lavori ai quali vengono chiesti quali sono i loro preferiti dell’anno (ma non solo): essendo un curioso per natura e sempre alla ricerca di nuova musica e nuovi nomi da scoprire (come se non bastassero gli arretrati negli ascolti di quella che c’è già e che sempre più si accumulano per motivi di mancanza di tempo, ma è una sorta di “sindrome” che ho sempre avuto, accetto suggerimenti ma poi mi piace valutare da solo). A questo proposito mi piace sfrucugliare nelle interviste alla ricerca di qualche “chicca” che mi è sfuggita. Ricordo ancora con piacere la “scoperta” dei Circulus, gruppo britannico tra folk, Gentle Giant e armonie vocali deliziose, per metterla in breve, avvenuta casualmente leggendo un’intervista in cui veniva chiesto a Stevie Winwood di citare un gruppo contemporaneo che gli ricordasse i suoi vecchi Traffic. Sono i piccoli piaceri della vita. A questo proposito ecco alcuni “consigli” estrapolati da alcune segnalazioni fatte da musicisti più o meno famosi e contenute nell’ultimo numero di Mojo (anche la scelta di questi nomi segue un criterio personale, in questo caso il mio).

“La mia amica” Rumer segnala tra i preferiti dell’anno, John Grant, She And Him Volume Two, l’album di debutto di Marina & The Diamonds, ma anche, dalle nebbie del passato, Terry Reid Seed Of Memory (conoscevo già molto bene, ma approvo), Richie Havens Mixed Bag, il Best Of di Jackie De Shannon (ottima scelta) ma anche The Greatest di Cat Power. Tra i dischi recenti anche l’ultimo Gil Scott-Heron I’m New Here. Confessa anche una curiosa abitudine di ascolto, che sarebbe la mia rovina, ovvero soffermarsi addirittura mesi su ogni singolo brano e quindi di non avere ancora completato l’ascolto di ogni canzone dei Carpenters e di Laura Nyro. In questo caso non posso seguirla, sarei ancora fermo agli anni ’60, forse ’70 appena iniziati!

Tra i nomi citati da Paul Weller una particolare preferenza va al disco di Erland And The Carnival (ma in questo Blog ne avrò parlato? Certo che sì previsioni-azzeccate-vediamo-cosa-hanno-detto-bo-ningen-john.html). Dei Tap Tap ammetto di ignorare tutto ma indagherò mentre Butterfly House dei Coral andrò a risentirlo più attentamente (ma quando?). Ci ricorda anche The Sea di Corinne Bailey Rae (che alterna brani eccellenti a altri più “normali”) e il disco di Laura Marling, molto bello, con la collaborazione di Mumford and Sons.

A proposito di questi ultimi anche Ray Davies li cita tra i suoi preferiti. Come pure Paloma Faith, Nonstoperotik di Black Francis e A Curious Thing di Amy MacDonald. Non sarà mica perché tutti collaborano nel suo disco See My Friends? Temo di sì e candidamente lo conferma.

Altri giudizi sparsi. L’ottimo Richard Hawley (che al momento fa coppia, artisticamente, con Lisa Marie Presley, con cui sta scrivendo e producendo il nuovo album) cita il delizioso Losing Sleep di Edwyn Collins che più volte sono stato sul punto di recensire ma per per un motivo o per l’altro è sempre rimasto nella pigna vicino al lettore CD, comunque è molto bello, piacevole pop inglese di gran qualità. Hawley cita anche Gift, il bellissimo album della coppia Eliza Carthy & Norma Waterson un-affare-di-famiglia-eliza-carthy-norma-waterson-gift.html, e in particolare fa riferimento al brano The Nightingale dedicato a Kate McGarrigle che non avevo ricordato nella mia recensione, faccio ammenda,

Mavis Staples che è una che di voci se ne intende (basta sentire il suo disco You Are Not Alone, citato da Sharon Jones) dice di avere scoperto recentemente Adele 19 ma di ritornare spesso a Nina Simone e Aretha Franklin (che pare stia meglio): come darle torto!

Brian Eno nomina una certa Anna Calvi che nonostante il cognome è inglese (anche se il babbo è ovviamente italiano), il suo album omonimo è uno di quelli di cui ho ascoltato frettolosamente alcuni brani su YouTube, anche perché il disco esce nel 2011. Eno ricorda anche Owen Pallett un canadese di talento (che spesso collabora con gli Arcade Fire) il cui ultimo disco si chiama Heartland e viaggia su territori di pop ricercato e sperimentale non lontano da certe cose di Sufjan Stevens tanto per fare un paragone. Il disco è stato registrato a Reykjavik in Islanda. Il buon Brian non poteva non ricordare anche un brano dei MGMT: anche perché si chiama Brian Eno.

Una curiosità è la citazione di Johnny Marr che dice di avere appena scoperto Se telefonando di Mina. Sarà contento Maurizio Costanzo che l’ha scritta insieme a Ennio Morricone!

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Per la serie “ma per favore!” Gene Simmons dei Kiss dice che il suo album preferito dell’anno è The Eraser di Thom Yorke (che è del 2006, ma non importa) poi ci consiglia The Envy da Toronto che, casualmente, incidono per la Simmons Records. E completa il capolavoro nominando Lady Gaga quinto membro onorario dei Kiss. E queste sono soddisfazioni!

Come vedete anche in questo Post qualche citazione e qualche consiglio ci scappano sempre. Soprattutto l’ultimo.

Bruno Conti

Perfect Pop? Rumer – Seasons Of My Soul

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Rumer – Seasons Of My Soul – Atlantic

Al sottoscritto questo disco piace moltissimo, non so se gli darei le 5 stellette assegnate dalla rivista Mojo ma alle 4 di Uncut potrei arrivarci. Ma mi rendo conto che si tratta di un disco di musica pop, perfetta o quasi, ma sempre di pop parliamo, sia pure di qualità sublime ma, come possiamo dire, di facile ascolto. Che per alcuni è come parlare di qualcuno di facili costumi, quando ho perorato la causa di questo disco mi sono sentito rispondere: ma ascolti anche questa musica? Certo, la buona musica mi piace tutta, posso entusiasmarmi per il nuovo Box di Springsteen, come per Richard Thompson, per Jimi Hendrix ma anche per Robbie Basho se parliamo di chitarristi o per i Bellowhead se parliamo di British Folk. Ho sparato un po’ di nomi a caso per capirci, l’ultimo è un disco su cui sto girando attorno da qualche tempo, così magari mi decido a parlarne.

Comunque tornando a bomba e al disco di Rumer era da alcuni giorni in heavy rotation sul mio lettore, anche perché oltre alla buona musica che si ascolta c’è una storia intrigante da raccontare. Oltre a tutto oggi sono andato a dare un’occhiata per curiosità e ho visto che il CD ha esordito direttamente al terzo posto delle classifiche inglesi, superata solo dalla tipa di X-Factor Cheryl Cole e dalla raccolta di Bon Jovi.

Non male per una che fino a pochi mesi fa faceva tutti i mestieri per mantenere il suo sogno di fare della musica senza passare dalle forche caudine dei reality; perché in effetti amici e parenti le avevano consigliato di iscriversi a X-Factor, “con la voce che ti ritrovi, avresti vinto di sicuro”, ma lei ha sempre preferito percorrere la strada della musica dal vivo, magari in piccoli locali, in attesa che qualche casa discografica si accorgesse della sua musica e, come in tutte le favole che si rispettino, ha trovato un pigmalione, nella persona di Steve Brown, un musicista e produttore inglese che l’ha vista casualmente mentre cantava dal vivo in uno di questi piccoli clubs e l’ha coccolata (musicalmente parlando) per permetterle di registrare questo disco.

Ma prima ha fatto di tutto, ha lavorato come cameriera in albergo, lavato piatti, fatto l’insegnante, l’impiegata, riparato Ipod nel negozio Apple di Londra, la parrucchiera, venduto popcorn negli atrii dei cinema, qualsiasi cosa per tenere vivo il suo sogno di diventare una cantante professionista. Agli inizi degli anni 2000 è stata la cantante di un gruppo indie-folk La Honda. Anche la vita privata è stata notevole.

Nata Sarah Joyce 31 anni fa in Pakistan da due genitori inglesi che erano in Asia per lavoro (l’ultima di sette figli), a undici anni ha scoperto che era la figlia di una relazione illegittima che la madre aveva avuto con il loro cuoco pakistano (molto più vecchio di lei), ma il vero padre (non quello biologico) non per questo si è allontanato da lei anche se i genitori, per questo motivo, si sono divisi e lei è rimasta a vivere con la mamma fino a quando la stessa non ha scoperto di avere un tumore e Sarah ha passato gli ultimi anni della vita di suo madre ad accudirla, fino alla morte avvenuta nel 2003. Tutte esperienze che evidentemente hanno arricchito il suo background culturale ed emotivo e, secondo me, nelle canzoni questo traspare.

Parliamo della voce che è un fattore decisivo nel “fascino” della sua musica, una voce calda, dalle tonalità perfette, con una emissione sonora calibratissima che è stata paragonata a quella di Karen Carpenter, una delle voci più belle della storia della musica pop, ma anche echi di Laura Nyro, Dusty Springfield, Carole King, Carly Simon tutti nomi che erano già ricorsi all’apparire di Diane Birch, ma mi sembra che Rumer abbia anche quel quid inespresso che divide il talento vocale puro dalla semplice bravura, una sorta di preternaturale capacità di cantare nella tonalità perfetta per istinto. Se ne è accorto anche Burt Bacharach che alla pubblicazione del suo primo singolo, la deliziosa Slow ha voluto conoscerla personalmente e l’ha invitata nella sua casa di Malibu per sentirla cantare di persona. E poi dite che le favole non si avverano!

Il disco, provato e poi inciso nell’arco di tre anni, negli studi di Steve Brown ha un suono volutamente semplice ma complesso e intricato allo stesso tempo, in puro stile Bacharach, con piano e organo, chitarre acustiche e armonica che si intrecciano con archi, fiati, tromba e flicorno, un tocco di glockenspiel qui, un vibrafono là, qualche percussione, delle voci armonizzanti di supporto, la voce spesso in multitracking, con l’uso dell’eco, tutte le diavolerie di studio e gli arrangiamenti più ricercati che vi possano venire in mente. Pensate alla musica di Sade ma con una voce nettamente superiore o alle grandi cantautrici degli anni ’70, alcune già citate ma anche Joni Mitchell si può scomodare per la bellissima Thankful, dove la voce di Rumer quasi galleggia sospesa su una base di piano acustico e contrabbasso di una bellezza disarmante. Quindi non è solo musica pop c’è anche sostanza, anche il testo che in ogni verso racconta di una diversa stagione è molto poetico. Anche Healer rimane in questi rarefatti territori sonori, con la voce raddoppiata, il piano e un violino che ricreano una magia unica.

I ritmi sono quasi sempre tranquilli, riflessivi ma anche accattivanti come nella bellissima Aretha, che racconta di una ragazza dal cuore spezzato che trova conforto nella sua musica, ascoltata in cuffia e soprattutto in quella di Aretha vero nume tutelare che veglia su di lei, “Non trovo nessuno con cui confidarmi, Aretha, nessuno , solo tu”. Il tutto accompagnato da una musica che Burt Bacharach potrebbe avere scritto per Dionne Warwick o Dusty Springfield, calda ed avvolgente, con qualche eco della Laura Nyro più espansiva dell’era Labelle e il Van Morrison swingante del periodo americano. Ci sono mille influenze ma nessuna è definita, potete pensare questo assomiglia a…già a cosa? A mille e nessuno, tutti quelli citati sono sicuramente presenti ma confluiscono in un calderone sonoro che è sicuramente derivativo ma attraente e di gran classe.

L’iniziale Am I Forgiven? potrebbe essere il lato B perduto di un vecchio singolo scritto da Bacharach e poi dimenticato in un angolo, magari Close To You per ricordare ancora i Carpenters? Sicuramente sì, poi quella trombettina ricorrente e le armonie vocali sono irresistibili. C’è anche una cover di Goodbye Girl dei Bread, qualcuno li ricorda?

Posso solo ribadire che a me piace moltissimo, a voi la scelta se investigare ulteriormente io mi limito a segnalarvela, si chiama Rumer (ed è bravissima anche dal vivo come potete constatare dai video inseriti nell’articolo).

Bruno Conti