Sempre Raffinato E Ricercato, Nuovo Album Per Il “Ry Cooder” Svizzero. Hank Shizzoe – Steady As We Go

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Hank Shizzoe – Steady As We Go – Blue Rose Records

Hank Shizzoe, come è forse noto ai più, è un chitarrista e cantante svizzero di 52 anni, con una discografia cospicua (15 o 16 album, a seconda delle fonti, lui o la casa discografica, comunque parecchi dall’esordio del 1994 Low Budget): spesso nelle sue recensioni si fa riferimento a JJ Cale e Ry Cooder come musicisti che, se forse non sono stati fonti di ispirazione, sicuramente condividono un certo tipo di fare musica, ispirata dal blues, e dalla grande tradizione della musica americana in generale, con uno stile laidback, molto raffinato e ricercato. Shizzoe è un virtuoso delle chitarre, soprattutto suonate in stile slide con il bottleneck, ma è proficiente anche a lap steel, pedal steel, chitarre con accordatura tradizionale, e se la cava, per così dire, anche a banjo e bouzouki. E pure la voce non è male, abbastanza piana e senza sussulti, però in grado di evocare sensazioni ora dolci ed avvolgenti, ora più briose e mosse, come la sua musica d’altronde: il nostro Hank è un tipo eclettico, nel suo repertorio ha cantato e suonato di tutto, da Celentano a Hank Williams, l’amato JJ Cale, ma anche i Creedence, Marylin Monroe (!), Traveling Wilburys e classici del blues assortiti.

Anche per l’occasione di Steady As We Go Shizzoe ha spaziato un po’ ovunque: dai blues di Mississippi John Hurt, Washboard Sam, Lonnie Johnson, a brani di Tammy Wynette e Bob Nolan, passando per cover di Randy Newman e Tom Petty, di cui interpreta con passione ed amore California, e per completare il tutto anche tre pezzi originali. Nelle sue parole il nostro amico definisce questo album il proprio disco migliore di sempre, quello che voleva fare da decenni (ma come ho scritto altre volte i musicisti lo dicono sempre, e sarebbe strano il contrario): da quello che ho ascoltato potrebbe averci preso. Il CD ha un suono molto caldo ed intimo, sia per il fatto di essere stato registrato in presa diretta con i quattro musicisti insieme in studio a Berna, e soprattutto per l’eccellente lavoro di mastering fatto in California da Stephen Marcussen, uno dei maestri in questo tipo di lavoro che ha lavorato in passato con Johnny Cash per American Recordings, Rolling Stones, Tom Petty per Wildflowers, Ry Cooder, Willie Nelson. Careless Love è uno standard che è stato inciso decine di volte anche da nomi molti celebri, ma la versione di Shizzoe è ritagliata sull’arrangiamento di Lonnie Johnson, un blues raffinato che ricorda il miglior Ry Cooder anni ‘70/’80 (ma anche dell’ultimissimo periodo), cantato con voce felpata, con la chitarra accarezzata e il clarinetto di Tinu Heineger ad impreziosirla https://www.youtube.com/watch?v=O6Vjae_aqZw ; anche I Been Treated Wrong di Washboard Sam viaggia sempre su traiettorie blues, con la slide decisamente più guizzante, la ritmica più pressante, ma comunque sempre in modalità fine e ricercata.

 

On Top Of Old Smokey, che era anche nel repertorio di Hank Williams, qui riceve un trattamento sobrio e delicato, alla Willie Nelson per intenderci, anche nel cantato quasi forbito, una ballata tra country e l’american songbook classico, con in evidenza il piano di Hendrix Ackle e  la pedal steel suadente di Shizzoe, mentre Make Me A Pallet On Your Floor di Mississippi John Hurt rimanda ancora al Cooder più errebì e vivace https://www.youtube.com/watch?v=c67yN0RgKsA , con Days Of Heaven che è un gioiellino poco noto di Randy Newman che si trovava nel box con inediti del 1998, suonata e cantata con gran classe da Hank. La title track Steady As We Go, uno dei brani firmati da Shizzoe, si inserisce in questo filone di raffinata eleganza sonora, con il trombone di Michael Flury ad impreziosire le evoluzioni dei vari strumenti a corda suonati dal nostro amico, che nella successiva Cool Water, il brano di impronta country scritto da Bob Nolan, lo adorna di qualche tocco etnico con l’uso di percussioni e del shakuhachi che comunque non distolgono dalla bellezza quasi austera di questa ballata. Stand By Your Man è proprio il pezzo di Tammy Wynette, sempre in un arrangiamento morbido e soave che stempera il country dell’originale per un approccio ancora una volta di grande eleganza. Splendido addirittura Havre De Grace, un altro pezzo di Shizzoe cantato con grande trasporto e con un arrangiamento che testimonia di una classe quasi inattesa (ma non del tutto) di questo signore. Che poi si supera addirittura in una versione elettroacustica  ed incantevole della classica California di Tom Petty. Semplicemente un disco molto bello ed inatteso, non saprei che altro dire.

Bruno Conti

Un Bellissimo Disco Di Uno Dei “Segreti” Meglio Custoditi Di New Orleans, Veramente Un Peccato Che Si Trovi Con Molta Difficoltà. Johnny Sansone – Hopeland

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Johnny Sansone – Hopeland – Short Stack Records

Johnny Sansone viene da New Orleans, e questo per il sottoscritto è già una nota di merito a prescindere, di solito la musica che arriva dalla capitale della Louisiana ha dei profumi e delle suggestioni che sono uniche. Poi scopriamo che il nostro amico non è un indigeno autoctono, è nato a West Orange nel New Jersey 61 anni fa, ma è comunque cittadino onorario in quanto è residente nella Crescent City dal lontano 1990 e lì ha proprio vissuto gran parte della sua vita e della sua carriera, a parte la fase iniziale quando facendo la  gavetta in giro per gli Stati Uniti, suonava da supporto a gente come Robert Lockwood, Jr., David “Honeyboy” Edwards e Jimmy Rogers. In seguito al suo trasferimento a Nola ha imparato anche a suonare la fisarmonica, ispirato da Clifton Chenier: tutte queste influenze sono quindi confluite nei suoi album, che anche se risultano poco conosciuti a causa della scarsa reperibilità, sono già la bellezza di 12, compresi un paio di Live Al Jazz Fest e questo nuovo Hopeland, uscito qualche mese or sono (quasi un anno per la verità), ma assolutamente meritevole di essere portato alla vostra attenzione in quanto è probabilmente il migliore della sua discografia.

Alcuni sono stati pubblicato come Jumpin’ Johnny Sansone e così lo conosceva chi scrive (e mi pare di avere recensito qualcosa sul Buscadero diversi anni fa), ma molti, quasi tutti quelli editi dalla Short Stack Records, portano semplicemente il suo nome. Quelli degli anni dal 2007 in avanti sono tutti molto interessanti perché, oltre ad alcune leggende locali come Stanton Moore, Ivan Neville, Monk Boudreaux e Henry Gray, vi appare quasi sempre un altro “oriundo” di New Orleans, il bravissimo Anders Osborne, che ha prodotto anche il nuovo disco, registrato agli studi Dauphin Street Sound di Mobile, Alabama, altra località storica, dove opera come ingegnere del suono la plurivincitrice di Grammy Trina Shoemaker, e dove lo aspettavano per registrare questo album anche Luther e Cody Dickinson dei North Mississippi Allstars, e in un brano anche Jon Cleary. Da tutti i nomi sciorinati (che contano sempre, non fatevi ingannare da chi dice il contrario) si evince che Hopeland è un signor album che, partendo dal blues canonico, tocca ovviamente anche le sonorità tipiche della Louisiana, con un suono sapido, pimpante, molto variegato: come dice lo stesso Johnny nel testo di Delta Coating “They call it the blues, they call it country, they call it rock ’n’ roll. It’s all just soul with a ‘Delta coating’”, che mi pare perfetto.

L’album, in tutto 8 brani, dura solo 35 minuti, ma non c’è un secondo di musica sprecato: dalla vorticosa Derelict Junction, dove la voce potente di Sansone e la sua armonica scintillante, unite al gruppo portentoso che lo accompagna, ci regala un blues elettrico dal suono classico e vibrante, con Dickinson e Osborne che iniziano a mulinare le chitarre, l’appena citata Delta Coating ci porta sulle ali di un train time raffinato in un viaggio dal country e soul di Memphis a quello di New Orleans, con la slide di Cody Dickinson che comincia a disegnare le sue traiettorie raffinate, poi portate alla perfezione nella splendida Hopeland, una ballata di grande intensità e spessore, che mi ha ricordato la celebre Across The Borderline di Ry Cooder (firmata, insieme a John Hiatt, anche dal babbo di Luther e Cody, Jim Dickinson, e quindi il cerchio si chiude), eccellente nuovamente il lavoro della slide di Cody e del piano di Cleary, oltre a Sansone che rilascia una prestazione vocale da brividi, siamo sui livelli del miglior Ry anni ’70-’80, come spesso succede in questo album. Plywood Floor, tra blues e R&R è un’altra iniezione di energia, con la band che tira alla grande a tutto riff, sempre con bottleneck in agguato e Osborne che risponde, come pure in Johnny Longshot, dal drive quasi stonesiano, di nuovo con Dickinson che sfodera il suo miglior timbro alla Mick Taylor o alla Cooder.

Con Can’t Get There From Here che aumenta ulteriormente il ritmo a tempo di boogie, prima di lanciarsi nel classico Chicago Sound alla Howlin’ Wolf della gagliarda One Star Joint, dove chitarre ed armonica si sfidano di nuovo a colpi di blues sanguigno e vibrante. La conclusione è affidata ad una classica ballata tipica del New Orleans sound, con uso di accordion, di cui Sansone è virtuoso come dell’armonica, e con una melodia che ricorda moltissimo quella di Save The Last Dance For Me, con l’ennesima prestazione eccellente di Dickinson alla slide, inutile dire che il risultato finale è affascinante, finezza e classe fuse insieme, come in tutto l’album.

Bruno Conti

Dopo Vent’Anni E’ Un Disco Ancora Attualissimo! Calexico – The Black Light 20th Anniversary Edition

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Calexico – The Black Light 20th Anniversary – City Slang/Quarterstick 2CD

Sono già passati due decenni dall’uscita di The Black Light, il disco più famoso (e con tutta probabilità anche il più bello) dei Calexico, band originaria di Tucson e nata nel 1995 da una costola dei Giant Sand. Infatti il gruppo, o forse è meglio dire il duo, ebbe origine quando la sezione ritmica del combo guidato da Howe Gelb, vale a dire Joey Burns (basso) e John Convertino (batteria), decise di intraprendere un discorso musicale distinto da quello della loro band principale, prima con il nome di Spoke e dal 1997 con il moniker definitivo di Calexico, come la città che sorge sul confine tra California e Messico (dalla parte americana, che si contrappone alla Mexicali che si trova subito aldilà della frontiera). The Black Light, uscito nel 1998, fu il primo disco dei due (in realtà ne avevano pubblicato già uno come Spoke tre anni prima), ed è ancora oggi considerato uno dei lavori più influenti ed innovativi degli anni novanta, un album che diede il via ad una vera e propria carriera per Burns e Convertino, al punto da costringerli ad abbandonare i Giant Sand di lì a qualche anno.

E The Black Light, una sorta di concept con canzoni ambientate nel deserto dell’Arizona, è ancora oggi un grandissimo disco, un lavoro innovativo e con un suono che non ha perso un grammo della sua attualità. La musica del duo (che suona la maggior parte degli strumenti, ed è aiutato da pochi ma validi amici, tra cui lo stesso Gelb al piano ed organo, Nick Luca alla chitarra flamenco, Bridget Keating al violino e Neil Harry alla steel) è una creativa e stimolante miscela di rock, tex-mex, surf, musica western alla Ennio Morricone, latin rock e jazz, un genere molto cinematografico e di difficile catalogazione, ma di grande fascino. Alcuni hanno definito le canzoni dei Calexico come “desert noir”, altri come colonna sonora del western che Quantin Tarantino non ha mai girato, fatto sta che The Black Light è un album che ancora oggi non ha grandi termini di paragone: in alcuni momenti sembra di sentire i Los Lobos, ma quelli meno immediati, in altri momenti ci sono sonorità alla Tom Russell, anche se il cowboy californiano è decisamente più country (e comunque nel 2009 il buon Tom vorrà proprio i Calexico come backing band per il suo Blood And Candle Smoke). Di certo la musica dei due ex Giant Sand è davvero adatta per una ipotetica soundtrack, dato che sui 17 brani dell’album originale solo sei sono cantati.

E sono proprio gli strumentali la parte più interessante del disco, a partire dalla splendida Gypsy’s Curse, che apre alla grande il lavoro con un tex-mex-rock dal chiaro feeling morriconiano, una chitarra twang a dominare, subito affiancata dalla fisarmonica e da un “guitarron”, il tutto al servizio di una melodia decisamente evocativa. Degne di nota sono anche la misteriosa Fake Fur, con un bel gioco di percussioni in primo piano ed una chitarra in lontananza (qui vedo i Los Lobos più sperimentali, o meglio la band “dopolavorista” di Hidaldo e Perez, i Latin Playboys), la sognante Where Water Flows, per chitarra acustica, marimba ed un suggestivo violoncello, la cadenzata e messicaneggiante Sideshow, molto godibile, e la complessa Chach, tra rock, jazz e sonorità hard boiled (ancora i Lupi, ma quelli di Kiko). Strepitosa poi Minas De Cobre, pura fiesta mexicana, splendida sotto ogni punto di vista, mentre l’intensa e toccante Over Your Shoulder è una slow ballad che sfiora il country; Old Man Waltz è un vero e proprio valzer dal sapore tradizionale, che si contrappone al bellissimo rock di confine Frontera, surf music degna degli Shadows di Hank Marvin.

E poi ci sono i sei brani cantati (da Burns): la deliziosa western ballad The Ride (Pt. II), con un sapore d’altri tempi, la sussurrata title track, cupa ma affascinante, la lunga e soffusa Missing, percorsa da una bella chitarra e da appropriati rintocchi di pianoforte (oltre che da una languida steel), la squisita Trigger, ballatona ancora dal mood western, la mossa Stray, tra rock e Messico, e la quasi sonnolenta Bloodflow. La nuova riedizione di The Black Light, oltre ad un libretto potenziato con nuove liner notes di Burns e Convertino, offre l’album originale opportunamente rimasterizzato sul primo CD ed un secondo dischetto con undici brani usciti all’epoca come b-sides o su EP (di cui solo uno cantato). Alcuni di questi pezzi aggiunti sono chiaramente dei riempitivi (Man Goes Where Water Flows, Rollbar, Drape), ma altri non avrebbero sfigurato sul disco originale, come El Morro, un brano guidato da una splendida slide acustica degna di Ry Cooder, l’intensa e quasi ipnotica Glowing Heart Of The World, che dopo due minuti attendisti si trasforma in un surf-rock strepitoso, la fluida rock ballad in stile western Lacquer e la breve e struggente Bag Of Death. Infine abbiamo tre missaggi differenti della splendida Minas De Cobre, che probabilmente è da considerarsi il capolavoro del disco uscito nel 1998. Un disco, ripeto, ancora talmente bello ed attuale da sembrare il risultato di una session (rigorosamente notturna) di pochi mesi fa.

Marco Verdi

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P.S: avendo nominato nel corso della recensione Tom Russell, volevo segnalare un interessante CD che il cantautore di Los Angeles ha pubblicato solo sul suo sito, cioè Old Songs Yet To Sing, in cui Tom rivisita in acustico (e con l’aiuto esclusivamente di Andrew Hardin alla seconda chitarra acustica) una serie di classici del suo songbook, con esiti eccellenti dato che stiamo parlando di brani che rispondono ai titoli di Gallo Del Cielo, Tonight We Ride, Veteran’s Day, The Sky Above, The Mud Below, Angel Of Lyon, Haley’s Comet, Rose Of The San Joaquin, Navajo Rug, Throwing Horseshoes At The Moon ed altre 11 splendide canzoni. Un gustoso antipasto in attesa del nuovo album “elettrico” di Russell, October In The Railroad Earth, in uscita a metà Marzo.

The Best Of 2018: Una Panoramica Da Siti E Riviste Musicali Internazionali, Parte I

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Come dicevo già lo scorso anno, ormai mi diventa sempre più difficile condividere le scelte di fine anno delle principali riviste e anche dei siti musicali internazionali più interessanti, anche Mojo Uncut, due riviste inglesi che un tempo leggevo con regolarità, ormai si sono  uniformati all’andazzo generale e salvo alcune firme che ancora cercano con competenza di trattare gruppi o cantautori che rientrano nei gusti musicali privilegiati sulle pagine virtuali di questo Blog (e dal sottoscritto e Marco Verdi pure sul Buscadero, a proposito se volete votare al Poll della rivista, questa è la pagina su cui si vota https://docs.google.com/forms/d/11_w_lkqKzGpF4oyTl7xWRWcxb-g3ZdSngR8hjatyYtQ/viewform?edit_requested=true ), sia con nuove uscite che con ristampe sfiziose. Quindi ormai impera, durante l’annata e anche nelle scelte di fine anno, un mondo dove dominano avant-garde metal, post punk, alternative rock e dance, electro e synthpop, art pop e art punk, noise rock, trap e rap, post rock, neo soul e neo psychedelia, in un fiorire di generi che quasi corrisponde ad ogni nuova singola uscita discografica, ma che maschera un appiattimento del livello qualitativo veramente preoccupante. Chi scrive non condivide questo “nuovo” mondo e cerca di parlare su questo Blog ancora di musica verace, magari classica, forse già sentita, ma sicuramente suonata e cantata da talenti che, salvo rare eccezioni, non si sono ancora venduti alla “musica di plastica” che purtroppo sembra prevalere al momento.

Chi legge il Blog con regolarità sa quali siano i generi musicali, per quanto ampi e diversificati, che trattiamo nei nostri post, per cui non mi dilungo ulteriormente nelle mie lamentazioni e passo a questa sorta di rassegna stampa globale, dove vado a pescare nominativi e dischi che ritengo interessanti, da segnalare per eventuali vostri ascolti, in quanto una delle funzioni, direi la principale, di queste liste è quella di scoprire album che magari possono essere condivisibili con i nostri gusti. Ma prima, per certificare comunque questo declino anche nelle due riviste effigiate ad inizio articolo, ecco almeno le prime 15 posizioni delle loro classifiche di gradimento di fine anno: con qualche video mirato e segnalando con un link quelli (pochi) di cui abbiamo parlato nel Blog

MOJO’s Top 15 Albums of 2018

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15. Tracey Thorn – Record

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14. Paul Weller – True Meanings

13. Kurt Vile – Bottle It In
12. Pusha-T – Daytona
11. Fatoumata Diawara – Fenfo (Something To Say)

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10. The Breeders – All Nerve

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9. Spiritualized – And Nothing Hurt

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8. Courtney Barnett – Tell Me How You Really Feel

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7. Ryley Walker – Deafman Glance

6. Idles – Joy as an Act of Resistance
5. Christine and the Queens – Chris
4. Janelle Monáe – Dirty Computer

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3. Rolling Blackouts Coastal Fever – Hope Downs

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2. Arctic Monkeys – Tranquility Base Hotel & Casino

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1. Kamasi Washington – Heaven and Earth

In questa lista finalmente qualche titolo in comune con le nostre scelte

UNCUT’S TOP 50 ALBUMS of 2018

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15. Elvis Costello & The Imposters – Look Now

https://discoclub.myblog.it/2018/10/26/laltro-elvis-un-ritorno-alla-forma-migliore-per-mr-mcmanus-il-disco-pop-dellanno-elvis-costello-the-imposters-look-now/

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14. Ry Cooder – The Prodigal Son

https://discoclub.myblog.it/2018/05/28/chitarristi-slide-e-non-solo-di-tutto-il-mondo-esultate-e-tornato-il-maestro-ry-cooder-prodigal-son/

13. Young Fathers – Cocoa Sugar

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12. Neko Case – Hell-On

https://discoclub.myblog.it/2018/06/14/alternativa-ma-non-troppo-anzi-sofisticata-ed-elegante-neko-case-hell-on/

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11. Richard Thompson – 13 Rivers

https://discoclub.myblog.it/2018/09/23/forse-sempre-uguale-ma-anche-unico-richard-thompson-13-rivers/
10. Sons of Kemet – Your Queen is a Reptile

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9. Christine and the Queens – Chris
8. Beak> – >>>

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7. Gruff Rhys – Babelsberg

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6. Janelle Monáe – Dirty Computer

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5. Yo La Tengo – There’s a Riot Going On

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4. Spiritualized – And Nothing Hurt

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3. Ty Segall – Freedom’s Goblin

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2. Rolling Blackouts Coastal Fever – Hope Downs

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1. Low – Double Negative

La copertina del disco dei Low a mio parere è veramente ma il disco è al solito intrigante nelle sue sonorità inconsuete e spiazzanti.

Al solito aggiungo la lista delle scelte del sito American Songwriter, uno dei pochi, se non l’unico, già dal nome, per affinità elettive, che guardo con regolarità e in cui spesso trovo segnalati artisti e dischi che poi mi viene voglia di approfondire, nella mia costante ricerca della buona musica. Anche in questo caso ci sono alcuni album di cui abbiamo parlato, o magari parleremo nei recuperi di fine/inizio anno, sul Blog.

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American Songwriter Top 15 Albums Of 2018

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Kacey Musgraves — Golden Hour

https://discoclub.myblog.it/2018/05/22/dal-country-al-pop-senza-passare-dal-via-kacey-musgraves-golden-hour/

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Pistol Annies — Interstate Gospel

Janelle Monáe — Dirty Computer

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Amanda Shires — To the Sunset

https://discoclub.myblog.it/2018/08/27/non-sara-brava-come-il-marito-ma-anche-lei-fa-comunque-della-buona-musica-amanda-shires-to-the-sunset/

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John Prine — The Tree of Forgiveness

https://discoclub.myblog.it/2018/04/23/diamo-il-bentornato-ad-uno-degli-ultimi-grandi-cantautori-john-prine-the-tree-of-forgiveness/

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Jeff Tweedy — WARM

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Eric Church — Desperate Man

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Charles Bradley — Black Velvet

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American Aquarium — Things Change

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Joshua Hedley — Mr. Jukebox

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Erin Rae — Putting on Airs

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The War and Treaty — Healing Tide

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Ruston Kelly — Dying Star

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Patrick Sweany — Ancient Noise

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Brothers Osborne — Port Saint Joe

I quindici titoli di questa lista sono tutti ottimi, con una menzione speciale per The War And Treaty. un disco prodotto da Buddy Miller.  che merita sicuramente un approfondimento e tutta la vostra attenzione, due voci formidabili e quindi due video per loro. Anche Ruston Kelly e i Brothers Osborne hanno fatto degli ottimi album,

Ma qui finiscono le buone notizie (ma di buona musica ce n’è ancora, anche parecchia, basta cercarla, e noi siamo qui per questo), e finisce anche il Post, nella seconda parte ho deciso di raccogliere una serie di titoli che appaiono qui e là nelle varie liste di fine anno di siti e riviste assortite, dove però il resto dei contenuti, come direbbero quelli che parlano bene, è da “far accapponare” i capelli.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Siamo Arrivati A Quel Periodo Dell’Anno! Il Meglio Del 2018 In Musica Secondo Disco Club, Parte III

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Ovviamente lui come pensatore non aveva (quasi) uguali, però almeno i baffi sono in comune tra di noi. Scherzi a parte ecco la mia (prima) lista, in qualità di titolare del Blog. Si tratta di quella che poi uscirà anche sul Buscadero del prossimo mese, e quindi abbastanza di dimensioni ridotte, che verrà integrata però un altro Post contenente alcuni titoli che non erano rientrati per motivi di spazio, e che ho definito “Rinunce dolorose!”, anche perché quando devo indicare dei titoli come le mie preferenze per l’anno in corso preferisco farlo all’impronta, salvo poi avere mille ripensamenti, e in linea di massima valgono solo per quel momento preciso, ma ce ne sarebbero molti che appunto dolorosamente rimangono fuori da queste classifiche di fine anno. Quindi ecco la mia lista: commenti non ne trovate, anche perché i link che seguono quasi tutte le scelte sono relativi alle mie recensioni, che volendo potete rileggervi integralmente.

Il Meglio Del 2018 di Bruno Conti

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Ry Cooder – Prodigal Son

https://discoclub.myblog.it/2018/05/28/chitarristi-slide-e-non-solo-di-tutto-il-mondo-esultate-e-tornato-il-maestro-ry-cooder-prodigal-son/

beth hart live at the royal albert hall dvd

Beth Hart – Live At The Royal Albert Hall

https://discoclub.myblog.it/2018/11/24/che-voce-e-che-concerto-spettacolare-uno-dei-migliori-del-2018-beth-hart-live-at-the-royal-albert-hall/

mary chapin carpenter sometimes just the sky

Mary Chapin Carpenter – Sometimes Just The Sky

janiva magness love is an army

Janiva Magness – Love Is An Army

https://discoclub.myblog.it/2018/04/11/voci-e-dischi-cosi-non-se-ne-fanno-quasi-piu-janiva-magness-love-is-an-army/

fairport convention what we did on our saturday

Fairport Convention – What We Did On Our Saturday

https://discoclub.myblog.it/2018/07/15/i-migliori-dischi-dellanno-2-fairport-convention-what-we-did-on-our-saturday/

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Amy Helm – This Too Shall Light

https://discoclub.myblog.it/2018/10/01/unaltra-rampolla-di-gran-classe-sempre-piu-degna-figlia-di-tanto-padre-amy-helm-this-too-shall-light/

richard thompson 13 rivers 14-9

Richard Thompson – 13 Rivers

https://discoclub.myblog.it/2018/09/23/forse-sempre-uguale-ma-anche-unico-richard-thompson-13-rivers/

magpie salute heavy water I

Magpie Salute – High Water 1

https://discoclub.myblog.it/2018/08/13/il-primo-disco-ufficiale-di-studio-ma-anche-il-precedente-non-era-per-niente-male-magpie-salute-heavy-water-i/

paul rodgers free spirit

Paul Rodgers – Free Spirit

https://discoclub.myblog.it/2018/07/13/i-migliori-dischi-dal-vivo-dellanno-1-paul-rodgers-free-spirit/

nathaniel rateliff tearing at the seams

Nathaniel Rateliff & The Night Sweats – Tearing At The Seams

Ristampe Dell’Anno:

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Beatles – White Album 50th Anniversary Edition

https://discoclub.myblog.it/2018/11/27/correva-lanno-1968-1-the-beatles-white-album-50th-anniversary-edition-parte-i/

https://discoclub.myblog.it/2018/11/28/correva-lanno-1968-1-the-beatles-white-album-50th-anniversary-edition-parte-ii/

jimi hendrix electric ladyland box front

Jimi Hendrix Experience – Electric Ladyland 50th Anniversary Deluxe Edition

In questo caso anche se poi trovate il link della recensione, un breve commento mi scappa: il disco rientra di dovere tra le ristampe più importanti dell’anno, per il valore dell’album, ma non per i contenuti del cofanetto,”interessanti”, ma si poteva fare molto di meglio

https://discoclub.myblog.it/2018/12/03/correva-lanno-1968-2-jimi-hendrix-experience-electric-ladyland-deluxe-edition-50th-anniversary-box/

bob dylan more blood more tracks

Bob Dylan – More Blood More Tracks Bootleg Series vol.14

Il link della recensione completa lo trovate poi nei Best di Marco Verdi.

Concerto:

van morrison in concert

DVD Van Morrison in Concert

Un Van Morrison nelle mie liste di fine anno ci sta sempre, questa volta ho scelto uno strepitoso video.

https://discoclub.myblog.it/2018/03/30/from-belfast-northern-ireland-il-van-morrison-pasquale-van-morrison-in-concert/

A questo punto mancano solo i migliori di Marco Verdi, che troverete domani, e poi nei giorni natalizi un Post con l’integrazione della mia classifica.

Bruno Conti

Siamo Arrivati A Quel Periodo Dell’Anno! Il Meglio Del 2018 In Musica Secondo Disco Club, Parte I

meglio del 2017 2meglio del 2017

Anche quest’anno (forse in ritardo di qualche giorno) siamo arrivati alle fatidiche liste con i migliori dischi usciti nel corso del 2018, sia novità che ristampe, secondo l’insindacabile giudizio dei collaboratori del Blog che, come vedete dai due pensatori ritratti qui sopra, sono sempre gli stessi. Ovviamente la scelta riflette i gusti di chi scrive sul Blog, e quindi se lo leggete abitualmente sapete più o meno cosa aspettarvi, ma queste liste, oltre ad essere un piccolo divertissement per chi le scrive, vogliono anche essere una sorta di riassunto dei dischi più interessanti di questa annata, per stimolarvi magari ad andare ad approfondire qualcuno degli album che forse vi era sfuggito nei mesi scorsi, ma che sicuramente meriterebbe di essere conosciuto. Le prime liste sono dei collaboratori “aggiunti” del Blog, Marco Frosi e Tino Montanari, che, come avranno notato i lettori più attenti, per motivi personali vari negli ultimi mesi hanno diradato i loro contributi, ma hanno voluto comunque essere presenti al riepilogo di fine anno. Per cui iniziamo con Marco Frosi, e a seguire domani quella di Tino Montanari, poi troverete le scelte del titolare, ovvero il sottoscritto, e di Marco Verdi, sempre molto ampie e possibilmente argomentate. Considerando che come è tradizione del Blog sono tutte lunghette anziché no, quest’anno ci sarà un Post per ciascuno, anche in virtù del fatto che parecchi nomi si ripetono nelle liste di ognuno, per cui le diluisco in quattro diverse parti per non annoiarvi.

Bruno Conti

BEST of 2018 secondo Marco Frosi

 ry cooder the prodigal son

Ry Cooder – The Prodigal Son  Un ritorno ai fasti del passato, per me è il disco dell’anno!

https://discoclub.myblog.it/2018/05/28/chitarristi-slide-e-non-solo-di-tutto-il-mondo-esultate-e-tornato-il-maestro-ry-cooder-prodigal-son/

mary gauthier rifles & rosary beads

Mary Gauthier – Rifles & Rosary Beds  Splendida e struggente elegia del dolore.(*NDB Questo disco, per motivi vari, pur essendo splendido, non è mai stato recensito sul Blog: della serie lo faccio io, lo fai tu, alla fine non lo ha fatto nessuno, ma anche in virtù della recente candidatura alla cinquina dei Grammy, nella categoria Miglior Album Folk, contiamo di inserirlo nei consueti recuperi di fine anno, inizio anno nuovo, nella’attesa delle nuove uscite 2019).

glen hansard between two shores

Glen Hansard – Between Two Shores  Soul ballads di qualità sopraffina

https://discoclub.myblog.it/2018/01/31/da-dublino-lultimo-romantico-glen-hansard-between-two-shores/

Ben Harper & Charlie Musselwhite – No Mercy In This Land  All’anima del blues!

ben harper and charlie mussselwhite no mercy in this land

https://discoclub.myblog.it/2018/05/09/la-strana-coppia-ci-riprovae-fa-centro-ben-harper-charlie-musselwhite-no-mercy-in-this-land/

jonathan wilson rare birds

Jonathan Wilson – Rare Birds  Dal vivo ha confermato il valore e la godibilità di queste canzoni

sheepdogs changing colours

The Sheepdogs – Changing Colours  Eccitante tuffo nel rock sound dei seventies

https://discoclub.myblog.it/2018/03/04/canadesi-dal-cuore-e-dal-suono-sudista-the-sheepdogs-changing-colours/

old crow medicine show volunteer

Old Crow Medicine Show – Volunteer  Tradizione, cuore ed energia: rigenerante!

https://discoclub.myblog.it/2018/05/14/straordinaricome-sempre-old-crow-medicine-show-volunteer/

record company all of this life

The Record Company – All Of This Life  Spumeggianti come la buona birra artigianale

https://discoclub.myblog.it/2018/07/06/un-moderno-power-trio-di-ottimo-livello-ma-non-solo-the-record-company-all-of-this-life/

john mellencamp plain spoken

John Mellencamp – Plain Spoken From Chicago Theatre  Dal vivo è sempre uno spettacolo!

https://discoclub.myblog.it/2018/05/24/il-primo-vero-live-ufficiale-del-puma-john-mellencamp-plain-spoken-from-the-chicago-theatre/

jimmy lafave peace town

Jimmy Lafave – Peace Town  Stupendo commiato di un grande interprete e songwriter

https://discoclub.myblog.it/2018/08/30/una-commovente-e-bellissima-testimonianza-postuma-di-un-grande-outsider-jimmy-lafave-peace-town/

levi parham it's all good

Levi Parham – It’s All Good  Rock sanguigno nella grande tradizione sudista

fairport convention what we did on our saturday

Fairport Convention What We Did On Our Saturday  Un live eccellente per una band immortale

little steven soulfire live 31-8

Little Steven & The Disciples Of Soul – Soulfire Live! Il concerto più godibile dell’anno!

willie nile children of paradise

Willie Nile – Children Of Paradise  Willie è una garanzia, rocker di razza purissima!

https://discoclub.myblog.it/2018/08/01/per-chi-avesse-voglia-di-un-po-di-sano-rocknroll-willie-nile-children-of-paradise/

jeffrey foucault

Jeffrey Foucault – Blood Brothers  Un cesellatore di suoni ad alto tasso emotivo

tom petty an american treasure box

Tom Petty – An American Treasure  Uno scrigno colmo di tesori per mitigare un vuoto inestimabile

marcus king band carolina confessions

The Marcus King Band – Carolina Confessions  A parer mio, il miglior talento emergente, dal vivo una forza della natura!

rosanne cash she remembers everything

Rosanne Cash – She Remembers Everything  Degna figlia di cotanto padre, migliora con gli anni, come il buon vino

beth hart live at the royal albert hall

Beth Hart – Live At The Royal Albert Hall  L’apice della carriera di una vocalist straordinaria

marianne faithfull negative capability

Marianne Faithfull – Negative Capability Un nuovo gioiello nella bacheca di questa intramontabile artista

bob dylan more blood more tracks 1 cd

Bob Dylan – More Blood, More Tracks  Semplicemente la ristampa dell’anno!

The Shape Of Water (La Forma Dell’Acqua) di Guillermo Del Toro

Il mio film dell’anno, una fiaba moderna di sublime poesia!

guerra guerra guerra

Guerra Guerra Guerra di Fausto Biloslavo e Gian Micalessin

Il mio libro dell’anno: i peggiori conflitti degli ultimi trent’anni raccontati da due straordinari reporter che li hanno vissuti, prima che fotografati e descritti, un vero pugno allo stomaco!

(*NDB 2. Oltre a Mary Gauthier, nella lista papabili di recupero di recensioni ci sono anche i dischi di Rosanne Cash, Jeffrey Foucault e della Marcus King Band, che speriamo di proporvi nelle prossime settimane, un paio erano già nelle intenzioni del sottoscritto: vediamo di trovare il tempo).

Marco Frosi

 

Ennesimo Album Raffinato E Di Gran Classe Da Parte Di Un Vero Gentiluomo Inglese. Mark Knopfler – Down The Road Wherever

mark knopler down the road wherever

Mark Knopfler – Down The Road Wherever – Virgin/Universal CD

Mark Knopfler è il classico musicista che non tradisce mai, e dal quale sai esattamente cosa aspettarti: in inglese quelli come lui li chiamano “acquired taste”, gusto acquisito, cioè artisti che, pur non ripetendo all’infinito lo stesso disco, hanno uno stile ed un approccio ben riconoscibile; tanto per fare un esempio con due songwriters che in passato hanno duettato con Knopfler, pensate a Van Morrison e James Taylor. Ed anche l’ex leader dei Dire Straits ha una maniera collaudata di costruire i suoi dischi, usando cioè sonorità molto classiche ed altamente raffinate, eseguendo i suoi brani con estrema pacatezza e mescolando in modo assolutamente naturale rock, folk, country ed un pizzico di blues ogni tanto. E poi non cambia quasi mai collaboratori, e questo alla fine si sente, in quanto non ha bisogno di così tante prove per trovare un suono compatto ed unitario: anche in questo ultimo Down The Road Wherever i compagni del nostro sono i soliti noti (Guy Fletcher, Richard Bennett, Jim Cox, Glenn Worf, Ian Thomas), e quindi l’ascolto si rivela foriero di sensazioni già provate, ma sempre piacevoli. Quello che al limite può cambiare da un disco all’altro è il livello delle canzoni, che dipende dall’ispirazione del momento: se per esempio i suoi due primi album solisti, Golden Heart e Sailing To Philadelphia, erano ottimi, i tre lavori centrali (The Ragpicker’s Dream, Shangri-La, Kill To Get Crimson) stavano a mio giudizio un gradino sotto, mentre con gli ultimi tre, Get Lucky, Privateering e Tracker, Mark era tornato ad alti livelli (ed eccellente, anzi uno dei suoi album migliori, era anche il disco insieme ad Emmylou Harris, All The Roadrunning).

Dopo un attento ascolto, anche Down The Road Wherever può rientrare a pieno diritto nella categoria dei lavori più riusciti di Knopfler, che non ha assolutamente perso il tocco per un certo tipo di musica d’alta classe, suonata come al solito alla grande (il timbro della sua chitarra si riconosce dopo due note) e cantato con voce sempre più calda e profonda. Il disco è abbastanza lungo, 71 minuti nella versione normale (14 canzoni) e quasi ottanta in quella deluxe di 16 brani, che è quella che vado ad esaminare. L’inizio è buonissimo, con la ritmata Trapper Man, un brano fluido, disteso e cantato con la pacatezza di sempre, magari la melodia non è niente di rivoluzionario ma il tutto si ascolta con piacere (e poi quando entra “quel” suono di chitarra la temperatura sale immediatamente). Back On The Dance Floor è un brano rock d’atmosfera che può anche ricordare gli esordi dei Dire Straits, un bel gioco di percussioni, piano elettrico, la solita inimitabile chitarra ed un ritornello diretto: una canzone di quelle che crescono a poco a poco, ma crescono. A tal punto che una volta finita la rimetto da capo. Nobody’s Child è una deliziosa ballata elettroacustica dal sapore folk, suonata al solito con classe sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=qL305ux-1VU , la cadenzata Just A Boy Away From Home è un rock-blues asciutto ed essenziale, tutto giocato sulla voce e sulla chitarra slide, suonata con la consueta maestria. Una languida tromba introduce la lenta When You Leave, elegante pezzo afterhours, Good On You Son è già conosciuta (gira in rotazione ormai da più di due mesi), ed è un brano rock dalla fruibilità immediata, guidato dalla chitarra di Mark e da una batteria che suona in maniera creativa.

La gradevole My Bacon Roll è una ballata midtempo ancora con reminiscenze Straits, ma stavolta quelli dell’ultimo periodo, con Mark che accarezza il suo strumento con estrema gentilezza; Nobody Does That è quasi funky, anzi togliete il quasi, dal ritmo acceso e con una sezione fiati a colorare il sound, ma secondo me non è un genere pienamente nelle corde del nostro, al contrario di Drovers’ Road che è una lenta ma vibrante canzone di puro stampo folk irlandese, decisamente emozionante e con la solita splendida chitarra: tra le più belle canzoni del CD https://www.youtube.com/watch?v=g8DN96BTcTA . Eccellente anche One Song At A Time, altro pezzo di gran classe, una rock song in giacca e cravatta dotata di una melodia di prim’ordine e, ma sono stufo di dirlo, un suono di chitarra godurioso; la tranquilla e pacata Floating Away è l’ennesimo brano con accompagnamento di estrema finezza: qualche rintocco di piano, batteria appena accennata ed ottimo assolo centrale. La pianistica Slow Learner è, come da titolo, uno slow jazzato e, indovinate? Esatto, raffinatissimo! Heavy Up è solare e quasi caraibica (con qualcosa anche di certi episodi “etnici” di Paul Simon), ed è una vera delizia per le orecchie, mentre la gradevole Every Heart In The Room riporta il disco su toni più cantautorali e “British” (ma la chitarra qui sembra suonata da Ry Cooder). Il CD si chiude con la guizzante Rear View Mirror, in cui vedo qualcosa del Van Morrison più “leggero”, e con la toccante Matchstick Man, solo voce e chitarra acustica.

Altro ottimo lavoro dunque per Mark Knopfler, un disco perfetto per riscaldare le nostre future serate autunnali (e invernali).

Marco Verdi

Uno Dei Dischi Rock (Blues) Più Belli Dell’Anno! Damon Fowler – The Whiskey Bayou Session

damon fowler the whiskey bayou session

Damon Fowler – The Whiskey Bayou Session – Whiskey Bayou Records

Sono passati 4 anni dall’uscita di Sounds Of Home, album che chiudeva il suo contratto di tre dischi con la Blind Pig Records https://discoclub.myblog.it/2014/01/20/suoni-casa-tab-tanta-slide-damon-fowler-sounds-of-home/ , eccellente lavoro che evidenziava, come i precedenti, le virtù di chitarrista, cantante e compositore, nell’ordine, di Damon Fowler, nativo di Brandon, Florida, ma da anni residente in quel di New Orleans, un uomo del Sud degli States, come testimonia anche il bellissimo disco dei Southern Hospitality, la band che condivide con JP Soars, Victor Wainwright, Chris Peet e Chuck Riley, il cui disco del 2013 Easy Livin’, come pure Sounds Of Home, era stato prodotto da una delle punte di diamante della musica blues e rock della Louisiana come Tab Benoit. Negli anni successivi Fowler ha fatto parte anche della touring band di Butch Trucks, fino alla sua tragica scomparsa, e poi è stato chiamato da un altro grande ex Allman Brothers come Dickey Betts, che però, come forse avrete letto ha avuto grossi problemi di salute e quindi ha dovuto interrompere la propria attività.

Comunque nel frattempo Damon si è ricongiunto con Benoit che gli ha proposto un contratto per la sua piccola etichetta, e il disco che nasce ha preso proprio il nome di The Whiskey Bayou Session, in omaggio all’etichetta e agli Houma Louisiana Studios dove è stato realizzato. Sono  con Fowler i bravissimi Todd Edmunds al basso e Justin Headley alla batteria, con l’aggiunta di Tab Benoit, che oltre a produrre il disco suona la chitarra in tre pezzi e firma con Fowler sei brani. Il disco è un ennesimo gioiellino della discografia del nostro amico, che in questo nuovo CD  non ha perso il suo magico tocco a Fender Telecaster, slide e lap steel, di cui è un vero virtuoso, in più ha anche un gran voce, vibrante ma con sottili tonalità soul, melodica e grintosa al tempo stesso. Il suo timbro di chitarra oscilla tra la grinta di Johnny Winter, la classe di Duane Allman, e in ambito slide Lowell George o Ry Cooder , quindi tra blues, rock e soul. Il suono creato da Benoit è splendido: nitido, con gli strumenti ben definiti e la chitarra di Fowler messa sempre in primo piano, sembrano quei vecchi dischi Stax o Capricorn, dove le chitarre di Duane Allman o Eddie Hinton si innestavano su groove ritmici paradisiaci alla Muscle Shoals, come nell’iniziale It Came Out Of Nowhere dove la voce nera e scurissima, poi lascia spazio alla solista limpidissima di Fowler, mentre la sezione ritmica va di carnoso errebì alla grande.

Fairweather Friend è un altro limpido esempio di rock-blues sudista con Damon che maramaldeggia nuovamente con la sua Telecaster letale che disegna traiettorie soliste di classe sopraffina e con un suono da leccarsi i baffi; Hold Me Tight è un brano scritto dal giamaicano Johnny Nash (ve lo ricordate, quello di I Can See Clearly Now?), che diventa un galoppante country got soul dalla melodia accattivante. Up The Line è un brano di Little Walter Jacobs, un incalzante rock-blues sporco e cattivo, basso rotondo e batteria agile, e poi la chitarra che entra come un coltello nel burro, fluida e pungente come solo i grandi solisti sanno fare.  Ain’t Gonna Rock With You No More della premiata ditta Fowler/Benoit è un bluesaccio con uso slide come se fossero tornati i vecchi Little Feat più assatanati di Lowell George, con il bottleneck che scivola senza freni, mentre per Just a Closer Walk with Thee Fowler imbraccia la sua lap steel sognante per un tuffo gospel nel sacred steel sound più mellifluo e sinuoso, cantato con fervore estatico https://www.youtube.com/watch?v=pitbNXOz80A .

Pour Me è un altro blues-rock trascinante con le due chitarre di Fowler e Benoit in pieno trip sudista, di nuovo in modalità slide quella di Damon, poi tocca a Holiday,  altro pezzo rock splendido, sembrano i Dire Straits di Sultans Of Swing, brano che va di rock swingato, ma anche con continui cambi di tempo, sarà old school, ma ragazzi se suonano https://www.youtube.com/watch?v=v_EPBx_-gnA  e lui come canta, con un assolo di chitarra da dichiarare illegale. E non è finita, Running Out Of Time ha un altro groove di pura matrice sudista, semplice e orecchiabile, ma il lavoro della solista è sempre sopraffino, Candy è un duetto country-blues tra le chitarre acustiche di Fowler e Benoit, con Damon che estrae dal cilindro un timbro suadente da storyteller , e per concludere in bellezza tocca ad un altro brano dove domina il suono dolcissimo della lap steel , tra western swing, tocchi hawaiani e sonorità impossibili, per una Florida Baby dall’impianto veramente laidback. Fatevi un favore, cercate questo disco.

Bruno Conti

Tornano I “Maghi” Della Slide. Delta Moon – Babylon Is Falling

delta moon babylon is falling

Delta Moon – Babylon Is Falling – Jumping Jack Records/Landslide Records

Decimo album di studio per I Delta Moon,  Il duo di Atlanta, Georgia, composto da Tom Gray, che è la voce solista e impegnato alla lap steel in modalità slide, e Mark Johnson, pure lui alla slide: in effetti vengono uno da Washington, DC e l’altro dall’Ohio, ma hanno eletto il Sud degli States come loro patria elettiva, e con l’aiuto del solido (in tutti i sensi) bassista haitiano Franher Joseph, che è con loro dal 2007, hanno costruito una eccellente reputazione come band che sa coniugare blues, rock, musica delle radici e un pizzico di swamp, in modo impeccabile. I batteristi, che spesso sono anche i produttori dei dischi, ruotano a ritmo continuo: in questo Babylon Is Falling ne troviamo tre diversi, Marlon Patton è quello principale, mentre in alcuni brani suonano pure Vic Stafford e Adam Goodhue. Il risultato è un album piacevolissimo, dove il materiale originale si alterna ad alcune cover scelte con estremo buon gusto ed eseguite con la classe e la finezza che li contraddistingue da sempre.

Per chi non li conoscesse, i Delta Moon hanno un suono meno dirompente di quanto ci si potrebbe attendere da un gruppo a doppia trazione slide, una rarità, ma anche uno dei loro punti di forza https://discoclub.myblog.it/2017/05/12/due-slide-sono-sempre-meglio-di-una-nuova-puntata-delta-moon-cabbagetown/ :Tom Gray non è un cantante formidabile, ma supportato spesso e voelntieri dalle armonie vocali di Johnson e di Fraher, nelle note basse, è in grado di rendere comunque il loro approccio alla materia blues e dintorni molto brillante e vario, come dimostra subito un brano uscito dalla propria penna come Long Way To Go. Un bottleneck minaccioso che si libra sul suono bluesato  e cadenzato dell’insieme, speziato dal suono della paludi della Louisiana, altra fonte di ispirazione del sound sudista della band, mentre anche l’altra slide di Johnson inizia ad interagire con quella di Gray, che benché il nome lap steel potrebbe far pensare venga suonata sul grembo, in effetti è tenuta a tracolla e “trattata” con una barretta d’acciaio.

Conclusi i tecnicismi torniamo ai contenuti del disco: la title track Babylon Is Falling è un brano tradizionale arrangiato come un galoppante soul-blues-gospel che sta a metà strada tra il Cooder elettrico e i gruppi soul neri, con il consueto sfavillante lavoro delle chitarre, mentre One More Heartache è un vecchio brano Motown firmato da Smokey Robinson  per un album del 1966 di Marvin Gaye, sempre rivisitato con quel sound che tanto rimanda ancora al miglior Ry Cooder. Might Take A Lifetime è il primo contributo come autore di Mark Johnson, ma la voce solista è sempre quella roca e vissuta di Gray, con il suono che qui vira decisamente al rock, pensate ai Little Feat o magari ai primi Dire Straits, tanto per avere una idea; Skinny Woman va a pescare nel repertorio di R.L. Burnside per un tuffo nel blues delle colline, vibrante ed elettrico come i nostri amici sanno essere, grazie a quelle chitarre che volano con leggiadria sul solido tappeto ritmico. Louisiana Rain è un sentito omaggio al Tom Petty più vicino al suono roots, una squisita southern ballad che la band interpreta in modo divino, con l’armonica di Gray che si aggiunge al suono quasi malinconico e delicato delle chitarre accarezzate con somma maestria dai due virtuosi.

Liitle Pink Pistol, nuovamente di Gray, è un rock-blues più grintoso, sempre con le chitarre che si rispondono con  superbo gusto dai canali dello stereo e una spruzzata di organo per rendere il suono più corposo. Nobody’s Fault But Mine è il famoso traditional attribuito a Blind Willie Johnson, altra canzone che brilla nella solida interpretazione del gruppo, con un piano elettrico aggiunto alle due slide tangenziali https://www.youtube.com/watch?v=Bbbvw_Ru5w8 , e sempre in ambito blues eccellente anche il trattamento riservato ad un Howlin’ Wolf d’annata nella inquietante Somebody In My Home, sempre in un intreccio di chitarre ed armonica. Per chiudere mancano una corale e divertente One Mountain At A Time, sempre incalzante e tagliente, e la bellissima e sognante Christmas Time In New Orleans, altro pezzo firmato da Johnson https://www.youtube.com/watch?v=5ZJgSaEjNYU , ennesimo fulgido esempio del loro saper coniugare blues e radici in modo sapido e personale.

Bruno Conti   

Per Essere Una “Reliquia” Del Mississippi Delta Blues Suona Vivo E Vibrante Come Pochi! Cedric Burnside – Benton County Relic

cedric burnside benton county relic

Cedric Burnside – Benton County Relic – Single Lock Records

Se fate una ricerca in rete nelle sue biografie, Cedric Burnside viene quasi sistematicamente indicato come batterista, e infatti il suo ultimo premio ai Blues Music Awards del 2014 lo ha vinto proprio nella categoria strumentisti per il suo lavoro alla batteria. A ben vedere la cosa ha un senso, visto che Cedric ha iniziato la sua carriera proprio dietro lo sgabello, nella band del nonno R.L. Burnside, subentrando al padre Calvin Johnson. Poi però il nostro amico, pur suonando ancora spesso la batteria, si è affermato come chitarrista e cantante, ed è tra le punte di diamante dell’Hill Country Blues, spesso in dischi dove la formula era quella classica chitarra/batteria, tipica dei juke joints dove aveva suonato il nonno, ma modernizzata con un approccio più moderno ed elettrico, suono sporco e potente, condiviso con gente come i North Mississippi Allstars, Lightnin’ Malcolm (con cui ha condiviso un album come 2 Men Wrecking Crew), altri componenti della famiglia, tra cui il fratello Cody, scomparso nel 2012, e lo zio Garry.

Nel 2015, ma arrivato alla fama (si fa per dire) nel 2016, grazie alla candidatura ai Grammy, ha pubblicato quello che forse è il suo miglior disco finora, una sferzata di blues elettrico condito da ampie venature rock, intitolato Descendants Of Hill Country https://discoclub.myblog.it/2016/12/10/figli-nipoti-del-blues-delle-colline-cedric-burnside-project-descendant-of-hill-country/ , quasi un manifesto della sua musica. Il nuovo album Benton County Relic è ironicamente dedicato al fatto di essere una sorta di reliquia (o un “relitto” se preferite) della Contea di Benton, sempre zona Mississippi Delta e dintorni, come la cittadina di Holly Springs da cui proviene il 39enne Cedric, che questa volta si accompagna con il batterista (e chitarrista slide, se non sanno suonare almeno due strumenti non li vogliono come compagni) Brian Jay, che però viene da Brooklyn, e nel cui studio casalingo sono stati registrati in due giorni ben 26 brani, tra cui scegliere le dodici canzoni che sono finite sul CD. Girando il suono intorno a due batteristi/chitarristi ovviamente il groove e l’uso dei riff sono gli elementi portanti delle tracce contenute nell’album: dall’iniziale We Made It, che racconta di una infanzia povera passata in una casa modesta dove non c’erano acqua corrente, radio e TV e dell’orgoglio di avercela fatta, il tutto fra potenti sventagliate di chitarra e batteria, su cui Burnside declama con la sua vibrante voce.

Get Your Groove On evidenzia fin dal titolo l’importanza del ritmo in questo tipo di musica, scandito e in crescendo, con forti elementi rock ma anche le scansioni della soul music più cruda, grazie ad un basso rotondo e pulsante; Please Tell Me Baby è il presunto singolo del disco, un bel boogie che sarebbe piaciuto agli Stones di Exile o all’Hendrix più nero, ma anche agli attuali North Mississippi Allstars. Typical Day è un altro rock-blues di quelli tosti e vibranti, mentre Give It To You è un potente slow blues, sempre elettrico ed intenso, ma non mancano anche un paio di brani più intimi e raccolti, la bellissima Hard To Stay Cool che ruota intorno ad una slide risonante che ricorda il miglior Ry Cooder, e il delicato country blues acustico del traditional There Is So Much, che con la sua andatura ondeggiante rimanda anche al gospel. L’omaggio al repertorio del nonno avviene con la potente Death Bell Blues, un pezzo che era anche nel repertorio di Muddy Waters, un tipico lento di quelli palpitanti, dove la voce declama e la chitarra scandisce grintosamente il meglio delle 12 battute più classiche https://www.youtube.com/watch?v=5qQJ-IuqdJQ ; Don’t Leave Me Girl è un altro fremente rock con elementi hendrixiani ben evidenti e la chitarra viaggia che è un piacere. Call On Me è un atmosferico lento che ricorda certe cose del Peter Green meno tradizionale, con la chitarra in vena di finezze e la voce porta con gentilezza e trasporto https://www.youtube.com/watch?v=Aug2e-i8osY ; I’m Hurtin’ è un poderoso boogie tra Hound Dog Taylor e le cavalcate elettriche dell’ultimo R.L. Burnside, notevole, e a chiudere un ottimo album che conferma la statura di outsider di lusso di Cedric Burnside, troviamo un’altra scarica rock ad alto contenuto adrenalinico come Ain’t Gonna Take No Mess, con slide e batteria che impazzano veramente alla grande.

Bruno Conti