Ripassi Estivi 2: Un Viaggio “Diverso” Nella Tradizione, Intenso E Originale. Kronos Quartet – Folk Songs

kronos quartet folk songs

Kronos Quartet – Folk Songs – Nonesuch Records

Di questo gruppo “classico” forse colpevolmente non abbiamo mai parlato, e così dopo circa 40 anni di carriera e una sessantina di dischi pubblicati, lo facciamo ora, in occasione dell’uscita di questo ultimo lavoro, dal magari non innovativo titolo Folk Songs. I Kronos Quartet sono, come dice il nome, un quartetto d’archi creato da un giovane violinista di Seattle David Harrington nel lontano ’73, con un gruppo di amici composto allora  da un altro violinista John Sherba, da Hank Dutt alla viola,e da Joan Jeanrenaud al violoncello (sostituita dopo un decennio da Jennifer Culp), e che ha lasciato a sua volta il posto all’attuale titolare Sunny Yang: formazione tipica con una strumentazione “cameristica”, che però si cimentava sia nel repertorio avanguardista, sia in un più vasto raggio d’azione che comprendeva e comprende i suoni di Africa, Giamaica, Oriente, passando anche attraverso brani di Philip Glass, Thelonius Monk, Jimi Hendrix, Bill Evans, Astor Piazzolla, diventando nel tempo, con merito, un fenomeno quasi “divistico”.

Nella loro corposa e spesso eccelsa discografia mi sembra opportuno segnalare almeno lavori “tematici” come Monk Suite (85), Music Of Bill Evans (86), The Complete String Quartets (88), Dracula (99), e i più recenti Kronos Quartet Plays Sigur Ròs (07) e Terry Riley: The Cups Of Magic (08). L’idea di questo ultimo lavoro Folk Songs è nata nel 2014, quando la Nonesuch Records ha celebrato il suo 50° anniversario con due grandi concerti al Barbican Center di Londra e all’Accademia di Musica di Brooklyn di New York, facendo salire sul palco con i Kronos Quartet  altri musicisti a “libro paga” dell’etichetta, gente del calibro di Sam Amidon, Olivia Chaney (eccellente cantante e pianista britannica, di recente all’opera con gli Offa Rex http://discoclub.myblog.it/2017/07/22/strano-nome-a-parte-in-pratica-sono-i-decemberists-piu-olivia-chaney-che-reinventano-il-folk-rock-britannico-offa-rex-the-queen-of-hearts/ ), Rhiannon Giddens (membro fondatore della Carolina Chocolate Drops), e la bravissima Natalie Merchant (ex solista dei 10.000 Maniacs), il tutto poi è stato anche trasportato in sala di registrazione negli Avatar Studios di New York, con la produzione di Doug Petty, con il brillante risultato di nove canzoni “tradizionali”, ma con una chiave di lettura che spazia tra folk e rock.

Le “opere d’arte” si aprono con onde di suono “appalachiano”, con una struggente Oh Where dove il cantato di Sam Amidon è intercalato dai violini di Harrington e Sherba, a cui fa seguito la dolce rilettura in stile “folk inglese” di Rambling Boys Of Pleasure, che non poteva che essere declamata dalla brava Olivia Chaney, per poi passare alla meravigliosa voce della Merchant,  in una superba e emozionante “romanza” come The Butcher’s Boy. Con Factory Girl i Kronos Quartet spaziano di nuovo in un intrigante “appalachian-blues” ispirato al blues tradizionale e affidato alla voce della Giddens, mentre Last Kind Words è un puro esercizio strumentale, dove si evidenzia ancora una volta la bravura del quartetto. Mentre con la spettrale I See The Sign ritorna il folksinger Sam Amidon (un brano che aveva già inserito nella raccolta omonima nel 2010). La parte finale vede gli archi dei Kronos Quartet salire ancora alla ribalta, prima con l’aria “francofona” di una dolcissima Montagne Que Tu Es Haute cantata al meglio nuovamente dalla Chaney, poi lasciarsi ammaliare ancora dalla superba voce di Natalie Marchant, nella rilettura di un famoso canto risalente alla Guerra d’Indipendenza, come Johnny Has Gone For A Soldier, e chiudere un disco affascinante con la filastrocca folk Lullaby, cantata da Rhiannon Giddensm con la mente rivolta alle piantagioni di cotone dell’Alabama.

Nel corso degli anni i Kronos Quartet hanno eseguito di tutto, da brani di musica religiosa ad altri di chiara matrice storica, passando da Purple Haze del grande Hendrix, a Spoonful di Willie Dixon, da brani di Kurt Weill a composizioni, come detto in precedenza, create appositamente per loro dagli artisti e personaggi più disparati, ricordo John Zorn, Philip Glass, John Lurie e Astor Piazzolla fra i tanti. Con questo ennesimo esperimento di Folk Songs, i Kronos Quartet dimostrano di essere sempre al centro del progetto, rileggendo pagine pescate da libri tradizionali di canzoni francesi, britanniche e nordamericani, assistiti in questa occasione da “guest-vocalist” di grande spessore come Rhiannon Giddens, Sam Amidon, la scoperta Olivia Chaney, e l’immancabile conferma Natalie Marchant, per un viaggio nella tradizione intenso, ricco e emotivo, decisamente originale e di grande fascino.

Tino Montanari

Sprazzi Di Gran Classe! Linda Thompson – Won’t Be Long Now

linda thompson won't be long now.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Linda Thompson – Won’t Be Long Now – Pettifer Sounds/Topic

Linda Thompson non è mai stata una artista prolifica, quattro album in trenta anni di carriera solista (più due raccolte di materiale inedito, sublimi) lo stanno a testimoniare. Ma la qualità della sua produzione è sempre stata elevatissima, in grado di rivaleggiare con quella realizzata in coppia con l’ex marito Richard, alcuni dischi veramente superbi, tra i migliori della storia del rock (e del folk) d’autore, il primo e l’ultimo in particolare, I Want To See The Brights Lights Tonight e Shoot Out The Lights, dove cala il sipario sulla loro vita sentimentale ed artistica, il divorce album per eccellenza: ma tutta la discografia è, direi indispensabile, con qualche alto e basso, ma s’ha da avere, anche i Live postumi usciti nelle decadi successive.

Nata Linda Pettifer (da qui il nome dell’etichetta del nuovo disco), poi con il nome d’arte Linda Peters ha iniziato a collaborare con il giro folk-rock inglese dei primi anni ’70, in particolare nell’album Rock On attribuito a The Bunch, dove duetta con Sandy Denny in una bellissima cover di When I Will be Loved? degli Everly Brothers (e proprio di Sandy Denny, Linda Thompson dovrebbe essere considerata la sodale ed anche erede, per quanto discontinua). Nello stesso anno, 1972, partecipa come corista al primo album solista di Richard Thompson, Henry The Human Fly, e da lì in avanti inizia il loro sodalizio artistico ed umano, che durerà una decina di anni, la scoperta della filosofia Sufi e poi la fine brusca nel 1982, con l’appendice di un tour americano completato per problemi contrattuali, quando i due già erano praticamente divisi.

Se aggiungiamo che nel corso degli anni Linda è sempre stata perseguitata dalla “disfonia isterica”, un disturbo psicologico che spesso la lasciava senza voce per lunghi periodi, non certo l’ideale per una cantante, che, unita alla sua indole riservata, ha fatto sì che la sua carriera non sia stata quella che avrebbe potuto essere, ma accontentiamoci, meglio pochi ma buoni, Kate Bush, Peter Gabriel e lo Springsteen dell’epoca d’oro le facevano un baffo (se l’avesse avuto) quanto a prolificità. Ma questa è un’altra storia.

Veniamo a questo Won’t Be Long Now, il primo album di materiale inedito dopo Versatile Heart del 2007 (siamo nella media temporale della sua produzione) e il primo disco dall’approccio decisamente folk, inteso come British Folk, quello della grande tradizione inglese degli anni ’70, che ancora oggi è in grado di soprassalti di gran classe. E questo è uno dei casi. Disco ricchissimo di ospiti, che vedremo brano per brano e con gran parte della famiglia Thompson impegnata, figli, nipoti, cognati, ex mariti, oltre agli “amici” di una vita.

Si parte con una stupenda collaborazione con l’ex Richard, evidentemente il tempo guarisce tutte le ferite ( i due erano già apparsi insieme nel recente tributo a Kate McGarrigle): si tratta di una canzone, Love’s For Babies And Fools, scritta proprio per il figlio scavezzacollo, e preferito, di Kate McGarrigle, quel Rufus Wainwright che è uno dei grandi talenti, non totalmente espressi, della scena musicale attuale. Un brano, che proprio Kate poco prima di morire l’aveva incoraggiata a completare, un ritratto poco complimentoso, anche sferzante, ma ricco di affetto, con una splendida melodia sottolineata dalle sempre geniali fioriture dell’acustica di Richard Thompson e con Linda che si doppia anche alle armonie vocali e ci permette di gustare la sua straordinaria voce, ancora ricca e corposa a dispetto dell’età che avanza. Grande inizio. Never Put To Sea Boys è un’altra folk song, anzi una di quelle che si chiamano sea shanties, scritta con l’ex Solas John Doyle, che suona l’acustica, si avvale anche di un “programming umano”, se esiste una cotale guisa, che ricrea il sound del migliore folk tradizionale d’aria celtica in maniera egregia.

Secondo molti If I Were A Bluebird è uno dei momenti topici dell’album: scritta da Linda Thompson in coppia con Ron Sexsmith (che la nostra amica invidia proprio per quella prolificità che a lei è sempre mancata, in una iperbole dice che “scrive un milione di canzoni alla settimana” e tutte belle). L’esecuzione poi è straordinaria, David Mansfield alla Weissenborn guitar, l’ottimo cantautore Sam Amidon all’acustica e al banjo e le struggenti armonie vocali di Amy Helm. Dura quasi 7 minuti, ma potrebbe durare anche mezz’ora tanto è bella. E non scherza un c….neppure As Fast As My Feet una canzone dal repertorio delle McGarrigles, scritta in questo caso da Anna con l’aiuto di Chain Tannenbaum. E’ uno dei brani “elettrici” del disco, vicino allo stile caratteristico della vecchia produzione di Linda, ma è anche una canzone di “famiglia”, ci sono quasi tutti i Thompson: i figli, Kami, che è la voce solista (e ci fa ben sperare per la prosecuzione della tradizione familiare, bella voce, calda e vivida), Muna, alle armonie vocali, con la mamma, Teddy, chitarra acustica e armonie, Jack Thompson, il figlio di Richard al basso, il nipote Zac Hobbs alla chitarra solista e al mandolino, dal passato dei Fairport torna Gerry Conway alla batteria e Glenn Patscha degli Ollabelle alle tastiere. E il risultato è una delizia folk-rock di stampo angloamericano.

Decisamente folk tradizionale la sontuosa Father Son Ballad scritta da Teddy Thompson, con John Doyle ancora alla acustica, Glenn Patscha alle tastiere, compreso un pump organ dei tempi che furono e il grande Dave Swarbrick, che ancora una volta presta il suo magico violino alle operazioni. Nursery Rhyme Of Innocence & Experience è uno standard della canzone popolare inglese, eseguito con l’accompagnamento della chitarra acustica di Martin Carthy (ci sono proprio tutti!) e del cello di Garo Yellin (non conosco, ammetto, però il nome l’ho visto in parecchi dischi). Mr. Tams è un’altra bellissima canzone di stampo folk, scritta con il figlio Teddy, e con l’accompagnamento strumentale della coppia Swarbrick-Carthy, le voci, assieme a Linda, sono quelle di Eliza Carthy, che suona anche il melodeon, Susan McKeown e di nuovo la figlia Kami. Paddy’s Lamentation era nella colonna sonora di Gangs Of New York. Linda Thompson ricorda nelle note che quando Scorsese seppe che nella colonna sonora c’era una sua canzone disse “Ma è ancora viva?”. Un onore, perché il regista appassionato di musica, sapeva chi fosse, ma rispondiamo con un “Ma certo”, toccandoci. Il brano, solo Linda, supportata dalla chitarra acustica e dalla seconda voce del figlio Teddy, che l’ha scritta con lei, ha un piglio tradizionale classico.

Never The Bride, ancora scritta dall’accoppiata mamma/figlio, è una stupenda ballata elettrica, di quelle che sapevano fare solo lei e Sandy Denny. Ironica nel testo (perché la nostra amica dice di essere praticamente sempre stata sposata, nel corso della sua esistenza, con diversi mariti ovviamente): ad aggingersi alla famiglia, in questo brano, alla chitarra elettrica solista slide, c’è James Walbourne, che ha suonato, tra gli altri, con Pernice Brothers e Son Volt e si è sposato la figlia della Thompson, Kami (quindi è il cognato, ci mancava). Ma protagonista della canzone, oltre alla voce, malinconica ed evocativa di Linda, è la fisarmonica (o button accordion come direbbero quelli che sanno) di John Kirkpatrick, un altro dei grandi “vecchi” del movimento folk britannico, magnifico brano con un ritornello da accendini (o telefonini, ora) accesi. Blue Bleezin’ Blind Drunk è un piccolo intermezzo vocale, un traditional cantato accapella, registrato dal vivo al Bottom Line di New York in uno dei rarissimi tour della cantante inglese.

Si conclude con la title-track, It Won’t Be Long Now, scritta ancora da Teddy Thompson (che è un ottimo cantautore, ma si deve misurare con due mostri sacri come Richard & Linda Thompson): è il brano più americano dell’album, una canzone country-bluegrass deliziosa, registrata con un paio dei migliori musicisti nel genere, Tony Trischka al banjo e David Mansfield al mandolino, oltre alle armonie vocali, ancora una volta, di Kami Thompson ed Amy Helm.

Uno dei migliori dischi dell’anno nel genere folk, ma che se la batte anche in assoluto tra i migliori dischi del 2013, per esempio con Electric dell’ex consorte Richard, piccoli, grandi dischi, sconosciuti alle masse, ma da non lasciarsi sfuggire.

P.S. E’ venuta lunga? Meglio, c’è di più da leggere!

Bruno Conti    

Mojo Presents Harvest Revisited

mojo.Jpeg

 

 

 

 

 

 

 

Mojo Present Neil Young Harvest Revisited

Di solito non recensisco, sia pure in breve, i CD allegati alle riviste (e Mojo e Uncut ne hanno fatti alcuni veramente belli nel passato) ma questa volta faccio un’eccezione!

Attenzione! Non si tratta di una compilation come New Harvest che era allegata a Mojo di Agosto 2009 ma proprio dell’intero album, brano per brano, rivisitato da dieci eccellenti artisti che rifanno nell’esatta sequenza il celebre disco di Neil Young Harvest, uscito nel 1972 ma, e qui forse è il punto debole dell’operazione, iniziato a concepire nel gennaio del 1971. E’ proprio vero che se le inventano tutte per “creare” un anniversario anche quando non esiste. Però devo dire che poi l’esecuzione è stata stupenda.

Innanzitutto cè un bello speciale di 25 pagine dove illustri colleghi di Young scelgono e commentano le 50 più belle canzoni del canadese. C’è anche una bella intervista e una serie di articoli che tracciano la genesi e la storia di questo grande album e chicca finale questo CD che contiene i 10 brani originali. Com’è? Vale la pena di sborsare i 9.50 euro che ti chiedono in Italia per rivista + CD. Assolutamente.

Si parte con una eccellente versione di Out On The Weekend cantata dalla rivelazione canadese Doug Paisley autore di Constant Companion uno dei dischi più belli di questo 2010 appena finito. Kelley Stoltz rivede la title-track di Harvest in modo minimale e rarefatto, una piccola perla acustica. La cover di A Man Needs A Maid (come sapete in questo disco non c’è un brano brutto, se non l’avete già è anche l’occasione per acquistarlo, sperando che l’anno prossimo non ne esca qualche versione Deluxe), con la voce di Danny Wilson il leader di Danny and The Champions Of The World che molto ricorda quella di Young, è molto bella, un piano, un banjo, delle tastiere sparse e la bellezza del brano emerge in tutto il suo splendore.

Jane Weaver è l’unica donna presente. La versione che la cantante di Liverpool fa del superclassico Heart Of Gold ovviamente non può competere con l’originale ma cionondimeno risulta affascinante nella sua sognante qualità, con delle sonorità sospese sulla vocalità della Weaver sostenuta da una seconda voce femminile (o è sempre lei con l’aiuto del multitracking?). Matthew Houck (Phosphorescent) presenta una cover di Are You Ready For The Country che cerca di ricreare il dualismo elettrico/acustico di questo brano e direi che ci riesce anche lui (un altro dei talenti emergenti nel 2010).

I Villagers (ovvero Conor O’Brien) un’altra delle sorprese più positive dell’anno trascorso sono alle prese con quello che Neil Young considera il brano più importante e duraturo del disco (lo dice nell’intervista). Il nostro amico ci mette molto di suo, pur mantenendo la melodia originale della canzone, e il risultato è affascinante, molto vicino alle sonorità ricercate e complesse di quel bellissimo disco che si chiama Becoming A Jackal anche-lui-di-nome-fa-conor-the-villagers-becoming-a-jackal.html.

Di Neville Skelly, un altro musicista di Liverpool di cui ignoravo l’esistenza e che nato come appassionato di big band swing si è trasformato in un epigono di Scott Walker, Tim Hardin, Dion o quantomeno ha cercato ispirazione in questi territori sonori. E a giudicare dal risultato ottenuto in questa versione di There’s A World direi che l’ha trovata! In effetti prima ho mentito, o meglio ho detto una mezza verità, anche le Smoke Fairies sono un duo “femminile” e la loro ripresa a più voci della bellissima Alabama non fa rimpiangere le armonie vocali di CSN&Y. Una delle sorprese piacevoli di questo CD. Avevo sentito il loro album Through Low Light And Trees e mi era piaciuto (anzi ve lo consiglio) ma in questa versione del brano di Young mi hanno, ripeto, sorpreso piacevolmente. The Needle and The Damage Done è un brano quintessenzialmente younghiano ed è difficile riproporla; Sam Amidon ci prova, armato solo della sua chitarra acustica, e in parte riesce nella difficile impresa anche se non raggiunge i vertici toccati nel suo disco I See The Sign.

Last but non least Chip Taylor, il veterano di Nashville realizza il capolavoro di questo album, una versione straordinaria di Words (Between The lines Of Age) sospesa tra la voce vissuta ed espressiva di questo grandissimo musicista e un arrangiamento chitarristico che rivaleggia con quelli di Young, forse superando addirittura l’originale, memorabile!

Bruno Conti