Un Altro “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk” One-Man-Band? Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling

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Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling – Droog Records

Come saprà chi legge le mie recensioni, chi scrive è un seguace dell’assunto di San Tommaso, ossia per credere devo vedere, o meglio ascoltare, anzi, io mi aggancerei addirittura al detto “provare per credere” della scuola filosofica Aiazzone/Guido Angeli. Quindi quando mi capita di leggere, in qualità anche di appassionato non onnisciente, di qualche nuovo nome, presentato come la salvezza del rock (o del blues, o di qualsivoglia genere musicale), ove possibile mi piace comunque verificare se questi incredibili giudizi, spesso estrapolati da cartelle stampa mirabolanti, o dai giudizi di qualche musicista amico, spesso citando fuori contesto qualche sua asserzione, sono rispondenti, almeno in parte alla verità. E sempre ricordando che, per fare un’altra citazione colta, “de gustibus non disputandum est”, ovvero ognuno nella musica ci sente quello che vuole. Per cui quando ho sentito parlare delle mirabolanti proprietà di Lincoln Durham, presentato come un “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk One-Man-Band”, secondo le sue parole, oppure in quelle di Ray Wylie Hubbard (che ha peraltro co-prodotto il suo primo EP e il secondo album) che lo presenta come un incrocio tra Son House e Townes Van Zandt, mentre altri, probabilmente credo senza averlo mai sentito, tirano in ballo Tom Waits, John Lee Hooker, Sleepy John Estes, Ray LaMontagne e Paul Rodgers; a questo punto potrei aggiungere Maradona, Frank Sinatra e anche un Robert Plant, che non ci sta mai male. Se citiamo anche il canto gregoriano e quello delle mondine, abbiamo forti probabilità di azzeccare lo stile esatto.

Mister Durham viene dal Texas, tra Whitney e Itasca, secondo la leggenda suona il violino dall’età di quattro anni (ma checché ne dicano altri recensori, nel disco nuovo, non ne ho trovato traccia, come neppure di mandolini e armonica, che però suona dal vivo), oltre che un one man band è anche un “self made man”, almeno a livello musicale, prima come adepto della chitarra elettrica e di Hendrix e Stevie Ray Vaughan, poi scoprendo il blues e il folk, ma di quelli molto “alternativi”, misti a rasoiate punk, ritmiche primitive, citazioni di vecchi autori, il tutto suonato su chitarre sgaruppate, le cosiddette cigar box, spesso in stile slide, con questo risultato, tra il southern primitivo e qualcosa di gotico, che potrebbe avvicinarlo, se dovessi proprio fare un nome, a Scott H. Biram, altro folle che cerca di demitizzare il blues, con iniezioni di hard-rock, punk, voci spesso distorte e ruvide http://discoclub.myblog.it/2014/03/03/tocchi-genio-follia-sonora-scott-h-biram-nothin-but-blood/ , come fa anche Lincoln Durham. Nel disco, rigorosamente senza basso (a parte un brano, il più lungo, Rage, Fire And Brimstone, che è un poderoso boogie-southern-blues, di stampo quasi “normale”, quasi) è presente comunque un batterista in tutti i brani, di solito Conrad Choucroun, con il bravo Bukka Allen che saltuariamente inserisce qualche botta di Moog.

Per il resto 10 brani in tutto, mezzora scarsa di musica, dove Durham ci rivela tutte le perversioni della sua mente, ma anche della sua musica. attraverso una serie di canzoni che attraversano tutti i gradi di un blues deragliante e spesso selvaggio: dal reiterato canto primevo di una Suffer My Name che il blues lo soffre come un uomo posseduto, a Bleed Until You Die, dove la voce qualche parentela vaga con i citati Rodgers e Plant potrebbe anche avercela, e pure la musica, molto più alternativa e senza vincoli sonori o di genere, pur se con una certa “elettricità” nelle evoluzioni minimali della chitarra e della voce, sempre ai limiti. Creeper, con la sua slide guizzante, anche per il titolo, potrebbe ricordare un altro bianco che il blues lo viveva, come Steve Marriott, senza dimenticarsi il boogie di Johnny Winter o di Thorogood; Bones, quasi meditativa, illustra il lato meno selvaggio e più “tranquillo” del nostro Lincoln, con comunque improvvisi squarci di rabbia sonora. Ma Durham tiene anche famiglia e ogni tanto la moglie (?) Alissa aggiunge le sue armonie vocali come nel violento punk-blues di Prophet Incarnate, o nel canto gotico-sudista della conclusiva Bide My Time. Altrove Rusty Knife è un blues di quelli secchi e serrati, con il moog di Allen che cerca di dare profondità sonora alla primitiva Cigar Box Guitar di Lincoln, la cui voce ogni tanto parte per la tangente, mentre i Gods Of Wood And Stone dell’omonima canzone non sono per nulla rassicuranti, tra giri di banjo e ululati alla luna, ancorati dallo stomping thump della batteria di Choucroun. Noose, l’unico episodio dove appare una chitarra acustica, potrebbe essere quell’anello mancante tra Tom Waits e Townes Van Zandt citato, con le sue oscure trame. Mi piace? Boh! Ve lo dirò se trovo il tempo di sentirlo ancora una ventina di volte, di sicuro non è brutto, ma strano sì.

Bruno Conti

Fra Tocchi Di Genio E “Follia” Sonora: Scott H. Biram – Nothin’ But Blood

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Scott H. Biram – Nothin’ But Blood – Bloodshot records/IRD

Ogni volta che mi imbatto, anche per recensire un suo disco, in Scott H. Biram, sono sempre combattuto tra l’ammirazione e la voglia di prenderlo a calci nel culo (si può dire calci?). Il talento nel musicista texano indubbiamente c’è, si è “inventato” questo stile da one man band, o meglio da Dirty Old One Man Band, che però è il classico discendente del cosiddetto “fenomeno da baraccone” delle feste di paese, quelli che girano tuttora per gli Stati Uniti e l’Europa con il loro armamentario (mi ricordo di Otto e Barnelli, lanciati da Arbore, o l’Edoardo Bennato degli inizi, che armato di chitarra, armonica, kazoo e di una grancassa azionata dai piedi, ma non solo, proponevano la loro personale visione del blues).

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Ma c’è tutta una tradizione di musicisti di questo stampo, Biram ha espresso la sua ammirazione per Hasil Hadkins e Bob Logg III, ma come non citare Hammell On Trial e Mojo Nixon & Skid Roper, forse Scott ha aggiunto una componente caciarona, elettrica, che quasi sconfina, di tanto in tanto, nell’hard rock e quasi nel metal, che è quella che gli ha attirato l’attenzione di chi cerca il “diverso” a tutti i costi e che fa girare ogni tanto le balle al sottoscritto. Il nostro amico ha vinto anche parecchi premi ufficiali, che accetta senza problemi, esibendosi tanto al Lincoln Center di New York come al SXSW di Austin, gira l’Europa con regolarità, 16 tour in giro per il continente, ha un buon contratto con la Bloodshot che gli pubblica regolarmente i CD e un discreto riscontro di critica e pubblico.

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Questo Nothin’ But Blood è il sesto album per la Bloodshot e l’undicesimo della sua carriera: non male per uno che nel 2003 era stato praticamente fatto a fettine da uno dei grossi “truck” che girano per le strade degli Stati Uniti e aveva rischiato di morire http://www.youtube.com/watch?v=CAsOX4wSt4U . E l’attacco di questo disco con un brano come Slow And Easy, che fin dal titolo mi aveva fatto pensare che Biram avesse messo la testa a posto e deciso di dedicarsi ad un folk-blues che tiene conto sia degli autori contemporanei texani, quanto di vecchi bluesmen come Mance Lipscomb e Lightnin’ Hopkins http://www.youtube.com/watch?v=VJ6AZzj7JjE , o icone come Leadbelly e Doc Watson: la voce non filtrata, piana e diretta, una chitarra acustica in fingerpicking, una elettrica distorta sullo sfondo, ma sotto controllo, qualche altro strumento a corda sovrainciso ed una atmosfera da “quiete prima della tempesta”. Anche Gotta Get To Heaven mantiene uno spirito minimale, la voce arriva da lontano, distorta ma nei limiti, le chitarre elettriche e qualche percussione aggiungono uno spirito country-blues-gospel al brano, ma siamo sempre in un ambito quasi tradizionale.

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Ma è proprio in Alcohol Blues una cover di Mance Lipscomb che lo spirito da rocker di Scott si manifesta, un riff di chitarra da southern rock della più bell’acqua, un cantato che più che a Townes Van Zandt si rifà a Ronnie Van Zant e un breve assolo di elettrica da vero guitar hero, un uomo solo al comando, però funziona. Never Comin’ Home è un country blues bellissimo, qui vicino allo spirito di gente come Townes, con un testo molto evocativo sulla vita selvaggia e dura del solitario http://www.youtube.com/watch?v=CXkRmEUuPu4 . Ha resistito quattro pezzi ma non è nella sua natura, Only Whiskey sembra un pezzo degli Stooges o degli MC5, senza sezione ritmica, ma con lo spirito punk della chitarra e la voce distorta e incazzosa di Scott Biram http://www.youtube.com/watch?v=HRb2xhcDc2U . Jack Of Diamonds con una slide minacciosa che sembra uscire dalle paludi del Mississippi e dintorni è un altro esempio del buon blues che il texano è in grado di regalare http://www.youtube.com/watch?v=KyK8wWlt4gg . Nam Weed, racconta la sua visione del Vietnam, in un brano che ha l’immediatezza dei migliori Dylan o Prine, perfetto nella sua semplicità.

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Fin qui tutto bene, a parte un paio di inc…ture, ma l’uno-due della cattivissima Back Door Man, Howlin’ Wolf targato Dixon, filtrato attraverso Captain Beefheart, ma profondamente blues, e della riffatissima Church Point Girls, ancora MC5 misti ai primi Canned Heat, però tutto più incasinato, riportano al combat punk e in un attimo siamo di nuovo a I’m Troubled, voce, armonica e acustica che è puro Woody Guthrie o Doc Watson, che l’ha scritta. Ma, senza tregua, arriva il garage punk ai limiti feedback di una violentissima Around The Bend, che richiama addirittura la Summertime Blues dei Blue Cheer, quasi sei minuti cattivissimi che, per chi scrive, appartengono al Biram che vorrei prendere a calci nel culo, meno di altre volte in questo disco. Poi, come se nulla fosse, intona Amazing Grace, solo voce, armonica e gli effetti sonori di un temporale, non è normale uno così, ai limiti del genio, ma al contempo pazzo. Di nuovo country-blues-gospel per una When I Die molto godibile, forse influenzata dalle recenti collaborazioni con Shooter Jennings http://www.youtube.com/watch?v=0Y8s9FwE4ek  e il duetto finale con Jesse Vain per una John The Revelator che vira decisamente verso il blues.                                                                                 

Bruno Conti      

Finalmente Degno Di Tanto Padre! Shooter Jennings – The Other Life

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Shooter Jennings – The Other Life – Black Country Rock/Entertainment One/Blue Rose

Come disse un tempo Jannacci Enzo da Milano, ogni tanto, “l’importante è esagerare”, e in questo caso mi sentirei di dire, finalmente Shooter è degno di tanto padre (e pure la mamma, Jessi Colter, sarà orgogliosa),  anche se, ad essere sinceri, Shooter Jennings di dischi belli ne ha già fatti parecchi, con Black Ribbons aveva messo a dura prova la pazienza dei suoi fans, con un disco che era un incrocio tra i Nine Inch Nails, detto da lui (e fin lì nulla di male) e il country-southern-rock, due mondi che difficilmente coincidono, più che altro collidono. Ma già il precedente Family Man, per dirla con il titolo del suo primo disco, aveva Put The O Back In Country, ed ora questo The Other Life completa l’opera, rivelandosi forse il suo migliore in assoluto. Il nostro amico Shooter, vero nome Waylon Albright Jennings, in onore del babbo, il fisico dell’outlaw ce l’ha, e anche la classe del musicista e la voce non si discutono, probabilmente non sarà mai un n.1 come il padre Waylon, che già alla fine degli anni ’50 era nella band di Buddy Holly e schivò l’incidente aereo del “The Day The Music Died” (dove oltre a Holly persero la vita anche Ritchie “Bamba”Valens e Big Bopper) per un pelo, diventando poi uno fondatori del movimento outlaw che ha rivoluzionato la musica country fino alle sue fondamenta. Il figlio ha il DNA dell’augusto genitore nelle sue cellule e questo nuovo album lo testimonia.

Essendo un figlio degli anni ’70 (1979 per la precisione) e quindi cresciuto negli anni ’90, Jennings jr. è stato influenzato anche da altri tipi di musica e questo ogni tanto traspare nelle sue canzoni, finché si tratta di rock e ancora meglio di southern rock, nulla di male, ma quando si lancia nell’alternative o nel pseudo psichedelico lo si capisce meno. Prendete ad esempio una canzone come l’iniziale Flying Saucer Song,che era uno dei brani che appariva in Pussy Cats (come bonus), il disco di Harry Nilsson prodotto da John Lennon, ma qui, in apertura di CD, sembra una outtake da qualche disco di Mike Oldfield, tastiere ovunque, suonate dallo stesso Shooter e da Erik Deutsche, piano, organo, wurlitzer, synth vari, voci trattate, vuoi vedere che ci è ricascato? Anche se poi un certo fascino si percepisce comunque, molto meglio il rock deciso e chitarristico di A Hard Lesson To Learn dove la pedal steel di Jon Graboff, co-autore del brano, comincia a spargere buona musica nei solchi digitali del disco, le tastiere ci sono, rappresentate da un gagliardo organo Hammond.

Quando però si decide di entrare a piedi uniti nel country di famiglia le cose si fanno serie: il galletto e gli uccellini che ci accolgono all’inizio di The White Trash Song (scritta da Steve Young) fanno da preludio ad un tripudio di pedal steel, violini, piano e alla follia sonora del “fuori di testa” di Austin, Texas, Scott H. Biram, che mette la testa a posto per un travolgente duetto con Jennings che più outlaw non si può. Il duetto con Patty Griffin in Wild and Lonesome è una ballata country di quelle che ormai si ascoltano raramente, del tutto degna delle migliori collaborazioni tra Gram Parsons ed Emmylou dei tempi che furono, ma anche di Waylon & Jessi, una piccola perla. Outlaw You che già dal titolo, e poi nel testo, cita e ricorda personaggi come Johnny Cash e babbo Waylon, si regge su un violino insinuante (suonato nel disco, di volta in volta, da Eleanor Whitmore, Stephanie Coleman e dal veterano Kenny Kosek), sul banjo di Bailey Cook e sulle chitarre del già citato Graboff e dei due chitarristi solisti , Jeff Hill e Steve Elliot, Steve Earle non gli fa un baffo, grande brano! La title-track, The Other Life, è un’altra ballatona di quelle struggenti, sorretta nuovamente da piano, pedal steel e chitarre, presenta i “soliti ingredienti”, ma se sono usati bene la loro porca figura la fanno sempre, soprattutto se chi canta ci mette il giusto impegno.

The Low Road è nuovamente del sano outlaw country-rock, che mescola banjo e steel con il suono rock delle chitarre, l’andamento pigro ma deciso della ritmica e la grinta del cantato, che è lontana anni luce dalla melassa di Nashville. Mama, It’s Just My Medicine è un country & roll di quelli ruspanti, con un assolo di synth che, stranamente, si inserisce perfettamente nel tessuto più moderno del brano, forse destinato alle radio, commerciale, ma averne di brani così sulle onde radio. The Outsider è un altro perfetto esempio di country song pura e dura, con l’aggiunta dell’armonica di Mickey Raphael che potrebbe proporla al suo datore di lavore Willie Nelson. 15 Million Light-Years Away presenta una accoppiata inconsueta, Jim Dandy (il cantante dei Black Oak Arkansas) con il suo vocione inconfondibile si adatta “come un pisello nel suo baccello” al mood della canzone e questo mid-tempo elettrico è un altro highlight del CD, permettendo ai due chitarristi di dare libero sfogo al loro solismo, poi reiterato nella lunga e tiratissima ode di progressive southern rock, The Gunslinger, dove chitarre, tastiere e un sax inconsueto si fanno largo tra i “motherf**ers” che nel testo si sprecano, inizio misurato e crescendo micidiale. Ben fatto, Shooter Jennings!                                        

Bruno Conti