“Spietati” O “Imperdonabili”? The Unforgiven, Il Gruppo E Il Disco!

the unforgiven

The Unforgiven – The Unforgiven – Real Gone Music

Ormai anche le etichette specializzate in ristampe stanno un po’ raschiando il fondo del barile. In alcuni casi questo favorisce la scoperta di alcuni album di culto, magari sconosciuti, che erano scomparsi nella notte dei tempi o non erano mai apparsi. In altri casi ancora vengono ripescati personaggi o dischi di cui francamente non si sentiva la mancanza, spacciati per imperdibili dalle case discografiche che, ovviamente, fanno il loro mestiere, cioè “cercano” di vendere. E poi ci sono casi particolari. Prendiamo la ristampa di questo disco omonimo, il primo e ultimo, degli Unforgiven, che ai tempi fu un caso discografico. Siamo, più o meno, a metà degli anni ’80, quelli degli eccessi dell’industria discografica: un gruppetto di musicisti, capitanato da Steve Jones, ribattezzatosi John Henry Jones, per non confondersi con il chitarrista dei Sex Pistols, decide di iniziare un progetto partendo da un’immagine. Ovvero si presentano tutti vestiti come se fossero degli interpreti di qualche scena di Il Buono, Il Brutto E Il Cattivo, o qualche altro spaghetti western di Sergio Leone (Unforgiven di Clint Eastwood non era ancora uscito, cappotti lunghi, giacche e cappelli ispirati dalla iconografia di quei film, dichiarano che anche la musica si ispira in parte alle musiche di Morricone, e sapete una cosa?

the unforgiven 1 the unforgiven 2

La rivista inglese NME li inserisce nella lista delle 5 o 10 grande promesse per il futuro, gli dedica un articolo di mezza pagina sulla rivista, senza avere sentito un secondo di musica, perché, come ricorda lo stesso Jones, il gruppo non aveva ancora inciso nulla. Ma quello che è più triste e che si scatena una lotta a suon di milioni di dollari tra le case discografiche dell’epoca, vinta dalla Elektra, che,  invece di buttare i soldi nel cesso, come usava negli anni dell’edonismo reaganiano, li mette sotto contratto per la pubblicazione di due album. Forse non ho detto che il tutto si svolge in California, e nel frattempo sono entrati in scena il manager dei Motley Crue, l’avvocato dei Metallica e altri personaggi dello show business locale. La formazione è inconsueta, visto che vede la presenza di ben quattro chitarristi, alcuni cresciuti a pane e punk, con puntate nello speed metal (Jones, per un breve periodo fu negli Overkill), ma nel gruppo ci sono pure un paio di talenti, nello specifico due chitarristi, uno John Hickman, anche secondo vocalist, tutt’ora un rispettato membro dei Cracker, mentre Todd Ross, fratello del chitarrista dei Rank and File, cult band del cow-punk californiano, che qualche punto di contatto con la musica degli Unforgiven ce l’aveva, era un solista notevole. Il disco, uscito nel 1986, prodotto da John Boylan, famoso per il suo lavoro nel disco di esordio dei Boston, vende “ben” 50.000 copie e il gruppo arriva fino al 185° posto delle classifiche di Billboard (caspita!). Riuscendo nel frattempo a farsi bandire dallo Stato del Colorado per gli eccessi nel corso del tour con gli ZZ Top e partecipando, sul lato positivo, a due edizioni del Farm Aid https://www.youtube.com/watch?v=_gaL-p9F2g4  e https://www.youtube.com/watch?v=PMAD2-GFZBw. Si, lo so, vi sto rompendo le balle con questi dettagli, la domanda che vi interessa è: ma è buono questo disco? Si e no. Tra echi di musica western morriconiana, classico rock californiano anni ’80, echi abbondanti dei Clash, punk e metal melodico, sonorità alla Big Country, soprattutto per l’uso quasi marziale della batteria, qualche tocco alla U2 o Pogues, ma anche influenze dei Def Leppard, il risultato è un guazzabuglio che avrebbe influenzato i Bon Jovi e i Guns’n’Roses che da lì a poco avrebbero dominato le classifiche.

Anche l’abitudine di cantare spesso tutti all’unisono, codificata nel “gang vocal” attribuito ai quattro musicisti non voci soliste, accentua quel suono antemico alla Pogues, Clash o U2, il problema è che, sovente, le canzoni non sono all’altezza. Il risultato finale comunque non è orrido: brani come l’iniziale All Is Quiet On The Western Front, con la sua batteria di quattro chitarre soliste, il ritmo incalzante dei Clash, periodo americano https://www.youtube.com/watch?v=GAxxR828uUg , Hang ‘em High, ispirata nel titolo a un altro famoso film di Clint Eastwood, a tratti morriconiana, a tratti quasi twangy, ma anche con una certa quota di tamarritudine https://www.youtube.com/watch?v=SoL7igUoVFo  e il singolo I Hear The Call, molto rock californiano, con coretti questa volta ben eseguiti, sono discrete costruzioni sonore. Roverpack, se non fosse per il solito gang vocal, è interessante nel suo incedere elettro-acustico, tra slide e influenze southern https://www.youtube.com/watch?v=kevtmJ2LWkg , mentre Cheyenne è addirittura una hard ballad mid-tempo, The Gauntlet sembra un brano dei primi Big Country e With My Boots On ha afflati country https://www.youtube.com/watch?v=_I4vx1iTBlE (qualcuno li ha classificati come una band country-rock!). C’è persino un brano, The Long Ride Out, inciso nella reunion del 2012, aggiunto come bonus nel CD. Senza strapparsi i capelli (se li avete) una ascoltata la merita. L’eventuale acquisto dipende dal vostro budget.

Bruno Conti

Il Canada Non Ci Tradisce Mai ! Elliott Brood – Work And Love

elliott brood work and love

Elliott Brood – Work And Love – Paper Bag Records – Deluxe Edition

Emersi qualche anno fa dal calderone dei gruppi “alternative-country”, gli Elliott Brood sono molto popolari in Canada (vincitori nel 2013 dello Juno-Awards nella sezione “roots ”), e ascoltando anche questo Work And Love si ha la sensazione che il paese delle “Giubbe Rosse” si sia improvvisamente trasformato nella nuova “terra promessa” per la musica di qualità. Vengono da Toronto, e il loro esordio arriva con un EP Tin Type (04), anticipazione dello splendido successivo Ambassador (05), un lavoro country-noir che richiama gli album dei Willard Grant Conspiracy. Dopo una breve pausa arriva Mountain Meadows (08), che segna una intrigante svolta rock, che però viene subito abbandonata per ritornare ad un suono più vicino agli esordi con il premiato Days Into Years (12) https://www.youtube.com/watch?v=CWPC3CW61zg , una sorta di concept-album “on the road”.

elliott brood 3 elliott brood 1

Il trio è sempre composto da Mark Sasso voce, chitarre, banjo e armonica, Casey Laforet al basso e tastiere, Stephen Pitkin alla batteria e percussioni, con l’apporto di ricercati turnisti come l’asso della pedal steel Aaron Goldstein, il bassista John Dinsmore,  il trombettista e cornista Michael Louis  Johnson, il tutto registrato in una casa colonica a Bath, Ontario, sotto la produzione esperta del musicista canadese Ian Blurton (è stato il primissimo batterista dei Cowboy Junkies).


Elliot-Brood 2 elliott-brood-jigsaw

A partire dalla traccia iniziale Little Ones (e vale per tutto il disco) resta difficile credere che tanta musica esca da un solo “trio” (ma con più di dieci strumenti!), un perfetto brano radiofonico con una tromba importante https://www.youtube.com/watch?v=La46U5YELHw , seguita dalle moderne country-song Nothing Left e Tired, mentre Taken è una superba ballata folk dove echeggiano atmosfere “younghiane” https://www.youtube.com/watch?v=yk8cMKNE7A8 . Un tintinnio di campane da chiesa introduce Mission Bell https://www.youtube.com/watch?v=vKZpKg0KYuA , con un suono da film western (sarebbe stata perfetta in un film di Sergio Leone), con la tromba “mariachi” di Johnson protagonista, passando per il delizioso uso del banjo e  della pedal steel nelle ritmate cadenze di Jigsaw Heart https://www.youtube.com/watch?v=gpXEi8ALR8Q  e Each Other’s Kids, la ruvida e graffiante Better Times (cantata da una voce rauca e nasale alla John Fogerty) https://www.youtube.com/watch?v=CuJeZK1HNO0  con qualche influenza negli accordi dei primi R.E.M., andando a chiudere con l’emblematica End Of The Day, una ballatona sospesa tra melodia e malinconia. Nel secondo CD della Deluxe Edition (solo per le prime copie), vengono riproposti in versione acustica Jigsaw Heart, Taken, Nothing Left e Little Ones, più una bonus track, la splendida Don’t Take It Away (da sola vale il prezzo del CD) https://www.youtube.com/watch?v=B-1BA4l9Gb0 , a dimostrazione che a questi ragazzi bastano pochi accordi di chitarra, qualche nota di banjo e un paio di note cantate con l’anima per fare di Work And Love uno dei lavori più affascinanti di “American Music” usciti negli ultimi anni. Da scoprire !

Tino Montanari

Lassù Sulle Montagne, Puro Texas Country! Casey Donahew Band – Standoff

casey donahew standoff.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Casey Donahew Band – Standoff – Almost Country 2013

Passare una vacanza in una ridente località delle Dolomiti (San Martino di Castrozza) è cosa abituale, uscire poi alla sera in cerca di un ritrovo tipico è altrettanto normale, entrare poi in un locale (Ranch Bar), dove tutto profuma di Texas (gestito dai titolari Loris e Giovanni), e sentire a rotazione per tutta la serata dell’ottima musica country, per chi scrive non è tanto abituale. In una di queste serate, sorseggiando del buon Bourbon del Kentucky (Woodford), sentivo scorrere i brani della Casey Donahew Band, una band che negli ultimi dieci anni ha scalato la scena della musica country, conquistandosi faticosamente una nicchia e una solida base di “fans”  che affollano i loro leggendari spettacoli dal vivo.

L’esordio risale al 2006 con l’omonmo Casey Donahew Band e Lost Days, due album autoprodotti come il seguente live Raw- Real In The Ville (2008) che li hanno portati ad avere una certa visibilità tra gli “addetti ai lavori”. Messi sotto contratto da una piccola etichetta come la Almost Country, incidono Moving On (2009) e sfondano finalmente con Double Wide Dream (2011) che entra nella Top Ten della classifica dei dischi country della “bibbia” del settore Billboard. La band è composta dal leader Casey Donahew (il Tex Willer della situazione), e i suoi fidati “pards” rispondono al nome di JJ Soto e AC Copeland alle chitarre, Dante “Taz” Gates alla batteria, Steve Stone al basso e Josh Moore al violino, che in questo ultimo lavoro, fanno del sano country-roots rock ruspante, marchio di fabbrica del Lone Star State.

I titoli iniziali (di questo film musicale Standoff) partono con l’elettrica Lovin Out Of  Control dal ritornello efficace, e proseguono con il singolo Whiskey Baby, mentre Pretending She’s You è una ballata con il pianoforte ed il violino in evidenza, che vede la bella e brava Kimberly Kelly ai cori.

Il tempo di far abbeverare i cavalli e la cavalcata riprende con Not Ready To Say Goodnight , Small Town Love e Sorry, perfetti brani di rockin’ country texano, dove la sezione ritmica picchia duro. Dopo una sosta al “saloon”, la marcia riprende con Homecoming Queen, una rock-song solida e vibrante (mi ricorda gente come Pat Green e Cory Morrow), mentre Missing You è una ballata acustica, introdotta e valorizzata dal violino di Josh e cantata in duetto con Kimberly, e a seguire la divertente Loser scritta a quattro mani con JB Patterson (JB and The Moonshine Band) e-i-risultati-si-vedono-ma-soprattutto-si-sentono-jb-and-the.html. Ci si avvia ai titoli di coda (come nei film del grande Sergio Leone) con un’altra “ballad” di spessore come Put The Bottle Down (una delle più belle scritte da Casey) con il dolce apporto vocale di Jaime Pierce, per poi correre a perdifiato verso il Grand Canyon con il country-boogie di Go To Hell. The End.

Come si intuisce dalla splendida copertina (in stile locandina da film western), Standoff  spara delle robuste pallottole di autentico “Texas sound”, per una band in impressionante crescita, che ormai è una sicurezza, ha trovato il filone giusto, con uno zoccolo duro di fans che la segue nelle date “live” in giro per gli States, e vogliono che le loro canzoni, trasudino di “sangue, dolore e polvere da sparo”.

NDT: Se passate da San Martino di Castrozza, entrate al Ranch Bar, è un oasi per tutti coloro che amano la cultura americana, che deve essere come le Dolomiti, patrimonio dell’umanità. (P&P – Pubblicità e Progresso)!

Tino Montanari

**P.s del titolare del Blog.

Non c’entra nulla con la recensione di cui sopra ma visto che ci sono dei problemi con la funzione “Commenti” del Blog e il buon Marco Verdi “scalpita” (per rimanere in tema con il disco di cui avete appena letto e del quale non casualmente, o forse sì, Marco aveva scritto la recensione per il Buscadero, così potete confrontare i pareri) per rispondere a Corrado che gli ha posto un quesito su Dylan, aggiungo la sua risposta qui di seguito:

Ciao Corrado, grazie per aver condiviso il mio pensiero. In aggiunta a quanto scritto vorrei aggiungere che mi sarebbe piaciuto avere nel BS10 un quinto CD “omaggio” (si fa per dire, con quello che costa) con il disco “Dylan” del 1973 (fatto proprio di scarti da Self Portrait) che la Columbia pubblicò come rappresaglia per il fatto che Bob fosse andato ad incidere per Geffen alla Asylum: un disco tra l’altro mai stampato in CD che aveva alcune cose ottime (Lily Of The West, Mr. Bojangles) ed altre buone(Can’t Help Falling In Love, Big Yellow Taxi).
Riguardo a Dave Alvin, ecco lo stralcio di un’intervista proprio di Dave che parla di queste incisioni:
Eventually, Dave was asked to a session in ’86 for Dylan. “I don’t think it was my greatest musical contribution to the world. I was in awe of just being in the same room with the guy. I’m still looking for a tape of that session too.” These songs were recorded for two Dylan albums called Knocked Out
Loaded and Down in the Groove. None of the songs Dave played on were released. “I saw him a few months after the recording session” Dave recalls, “Dylan was playing with Tom Petty at the L.A. Forum. I was with John Doe and Exene and my girlfriend. We were hanging out at this backstage bar, and Dylan’s road manager came and brought me backstage. We talked for awhile about Sonny Burgess and stuff like that. It was a wild scene in his dressing room. He’s more remote now.”
Quindi parrebbe una di quelle sessions “sparse” tipiche del Dylan anni ’80, che diedero vita ai due Self Portrait di quel periodo (Knocked Out Loaded e Down In The Groove), forse nulla di imperdibile tutto sommato…
Ciao,
Marco

C’Era Una Volta Nel West. The White Buffalo

white buffalo.jpgwhite buffalo prepare.jpg

 

 

 

 

 

 

The White Buffalo – Once Upon A Time In The West – Unison Music 2012

The White Buffalo – Prepare For Black & Blue – Ruff Shod Records EP 2010

Provengono dalla California, e il “leader” Jake Smith sembra uscito dai romanzi polverosi di Cormac McCarthy e sarebbe stato perfetto per i film western del compianto Sergio Leone. Gli altri componenti del gruppo sono Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, più una schiera di validi musicisti di “area” californiana tra i quali Bruce Witkin, Tim Walzer, Cooper McBean, Joey Malone, Benmont Tench, Kenny Lehman e Jordan Katz. Dopo l’esordio di Hogtide Revisited (2008) e alcuni EP, i White Buffalo sfornano questo nuovo lavoro che parla di storie di una vecchia America (che purtroppo non esiste più), con un “sound” country-rock che ripercorre il sentiero tracciato da vecchi e nuovi “fuorilegge” come Waylon Jennings, Steve Earle e Ryan Bingham, e su tutto la profonda voce da “rocker”, che affascina e seduce. di Jake Smith.

L’iniziale Ballad of a Dead Man, come da titolo, è una bellissima ballata crepuscolare cantata con voce calda e suadente, mentre How the West Was Won è un velocissimo country guidato dal banjo di McBean e dal dobro e la lap steel di Malone. Si prosegue con The Pilot già presente nell’EP Lost & Found e One Lone Night, struggente brano scritto in una notte solitaria. Con Sleepy Little Town siamo dalle parti della ninna nanna acustica, suonata con pochi arpeggi di chitarra, mentre BB Guns and Dirt Bikes è un brano rurale che ricorda tristi ricordi d’infanzia. Il ritmo si alza con The Bowery, in forma honky tonky, per poi tornare con Wish it Was True alla ballata sofferta e melodica, quasi recitativa. Con Hold The Line e Good Ol’ Day To Die si torna a picchiare duro, due brani “western” che più si avvicinano al Morricone sound. Shunt Driver è un blues urbano suonato in strade polverose, cui segue The Witch il brano più spiazzante del CD, una divertente filastrocca con tanto di fiati. Chiude alla grandissima I Am The Light, una splendida ballata suonata al meglio dal gruppo, e cantata come un grido di rivolta da Jake, una meraviglia. Per quanto riguarda Prepare For Black & Blue è un EP in forma “unplugged”, dove tutti i brani sono rigorosamente suonati in forma acustica e dove spicca ancora una volta la voce di questo “ragazzone”, elemento catalizzante della Band.

Once Upon A Time In The West è un viaggio attraverso una certa America, raccontata da Smith, uno “storytellers” d’altri tempi, un artista onesto e appassionato, la cui voce, unitamente alla qualità dei brani, ci riporta sulla giusta strada dei ricordi e dei sentimenti. Ottimo disco, da ascoltare magari vedendo un film western di Sergio Leone (senza audio), e sorseggiando del buon Bourbon.

Tino Montanari