Una Figlia D’Arte Con Un Approccio Musicale Tutto Suo. Aubrie Sellers – Far From Home

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Aubrie Sellers – Far From Home – Aubrie Seller/Soundly Music CD

Aubrie Sellers, giovane cantautrice non ancora trentenne, non poteva che intraprendere la strada musicale. Già il fatto di nascere e crescere a Nashville predispone in tal senso, ma Aubrie è la figlia di Jason Sellers, autore di canzoni per conto terzi con un paio di dischi all’attivo negli anni novanta, e soprattutto di Lee Ann Womack, una delle più popolari country singer in America; in più, il patrigno di Aubrie (secondo marito di Lee Ann) è il noto produttore Frank Liddell, che è stato anche responsabile del primo album della ragazza New City Blues, uscito nel 2016. Uno potrebbe pensare che con questo lignaggio la Sellers si sia ritrovata la tavola apparecchiata, ma in realtà la ventinovenne cantante ha voluto mettersi in gioco, e con il suo secondo lavoro Far From Home ha fatto un disco di puro rock, nel quale il country è totalmente estraneo se non nella struttura melodica dei brani, che contrasta apertamente (e volutamente) con l’accompagnamento decisamente duro e roccato.

Non c’è l’ombra di violini, steel o mandolini in questo lavoro, ma il suono si regge totalmente sulle chitarre e su una sezione ritmica tosta, Glen Worf al basso e Fred Etchingham alla batteria : sono ben quattro infatti i chitarristi che si alternano (Ethan Ballinger, che è anche il fidanzato di Aubrie, Adam Wright, Park Chisholm e Chris Coleman), i quali forniscono un sound granitico ed abbastanza inatteso, creando un’interessante e stimolante contrapposizione con le linee melodiche cantate dalla Sellers, grazie anche alla produzione essenziale ed asciutta di Liddell. Il CD è aperto dalla title track, un brano dall’atmosfera rarefatta di grande fascino, con le chitarre elettriche dietro la voce di Aubrie e paesaggi sonori quasi alla Daniel Lanois (personalmente noto similitudini con la Emmylou Harris di Wrecking Ball, anche per la somiglianza del timbro vocale). My Love Will Not Change è l’unica cover (è stata scritta da Shawn Camp con Billy Burnette) e ha un suono duro e spigoloso, non lo stile che ti aspetteresti, ed il pezzo è impreziosito dall’intervento vocale di Steve Earle: un brano tosto, tra rock e blues, che non liscia il pelo all’ascoltatore ma gli spara in faccia un sound aggressivo e chitarristico.

Lucky Charm è di nuovo elettrica e potente, ma la melodia è orecchiabile e crea un contrasto volutamente spiazzante con il background decisamente rock: tre canzoni e di country non c’è traccia. Worried Mind inizia con una chitarra nel buio, poi entra la voce di Aubrie che intona un motivo che sarebbe perfetto per una country ballad, ma il sottofondo tagliente e quasi bluesato porta da tutt’altra parte; la tonica Drag You Down è immediata e dotata di gran ritmo, ed è il pezzo più accomodante finora anche se le chitarre a tempo di boogie non sono proprio tipiche di una pop song. Going Places è in bilico tra la ballata anni sessanta con tanto di chitarra twang ed un’aura moderna e quasi ipnotica https://www.youtube.com/watch?v=_EgqWZCRUwQ , Glad pesta di brutto e le chitarre sono anche distorte, e si viene a creare una contrapposizione netta con la voce gentile della Sellers. Haven’t Kissed Me Yet somiglia quasi ad una ballata canonica, uno slow intenso per voce e chitarra (elettrica), mentre con Troublemaker ci rituffiamo in atmosfere urbane e dissonanti, alla Dream Syndicate (altro che country).

La lenta Run, attendista e crepuscolare, precede Under The Sun, forse il brano più rilassato di tutto il disco e con un bel refrain, e la conclusiva One Town’s Trash, un veloce e coinvolgente power pop scritto insieme a Brendan Benson dei Raconteurs https://www.youtube.com/watch?v=hXtdoRRBcAM . Non so se mamma Lee Ann sia contenta delle scelte musicali della figlia Aubrie: quel che è certo che di dischi con questo suono da Nashville non ne escono molti.

Marco Verdi

Appendere La Chitarra Al Chiodo? Magari Tra Dieci Anni! Loretta Lynn – Wouldn’t It Be Great

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Loretta Lynn – Wouldn’t It Be Great – Legacy/Sony CD

Loretta Lynn, regina incontrastata della musica country, ha ripreso ad incidere con regolarità nel nuovo millennio, dopo che negli anni novanta aveva fatto sentire raramente la sua voce, e tutti pensavamo si stesse godendo una meritata pensione. La vera svolta è avvenuta con l’album Van Lear Rose del 2004, prodotto da Jack White, che aveva fornito un approccio più moderno allo stile della cantautrice del Kentucky, riportando il suo nome agli onori della cronaca. Da allora Loretta ha iniziato una collaborazione con John Carter Cash, figlio del grande Johnny, che le ha prodotto lo splendido Full Circle del 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/03/11/nuova-promettente-artista-talento-loretta-lynn-full-circle/  e l’ottimo album natalizio White Christmas Blue dello stesso anno. Ora la Lynn (nata Webb) torna di nuovo fra noi con questo Wouldn’t It Be Great, un disco avrebbe dovuto uscire lo scorso anno ma è stato rimandato a causa di una caduta della country singer con conseguente rottura dell’anca. E Wouldn’t It Be Great prosegue sulla stessa falsariga dei dischi precedenti, un lavoro davvero molto bello in cui Loretta non solo dimostra che, alla tenera età di 86 anni, ha ancora una gran voglia di fare musica, ma è tuttora in possesso di una voce straordinaria, pura e cristallina come se a cantare fosse una quarantenne.

E non solo: c’è anche il fatto non trascurabile che Loretta è ancora in grado di scrivere nuove canzoni, e non si affida unicamente a classici del passato: in questo nuovo lavoro su tredici brani totali, solo sei facevano già parte del suo repertorio, mentre i restanti sette sono stati composti ex novo insieme, a turno, alla figlia Patsy Lynn Russell (che produce anche il disco, insieme a Cash Jr.) ed al noto songwriter Shawn Camp. Un altro bellissimo disco dunque, country classico suonato alla grande da un manipolo di sessionmen di ottimo lignaggio (tra i quali troviamo Paul Franklin alla steel, lo stesso Camp alla chitarra acustica, Pat McLaughlin al mandolino e chitarra, Bryan Sutton al banjo, Dennis Crouch al basso, Tony Harrell al piano, Ronnie McCoury al mandolino), una produzione scintillante e, ripeto, una voce ancora formidabile. Non possiamo certo pensare che a quasi novant’anni Loretta possa cambiare stile (aveva già osato abbastanza nel disco con White), e d’altronde se è diventata la regina assoluta di questo genere un motivo ci sarà. La title track è una canzone tenue e struggente, con una chitarra arpeggiata, sezione ritmica discreta ed un bel dobro, ma soprattutto la grande voce di Loretta al centro, ancora forte ed espressiva. Ruby’s Stool è una vivace country song dal ritmo irresistibile ed ottimi interventi di piano, steel e violino, con la Lynn che mostra di divertirsi ancora, e noi con lei; I’m Dying For Someone To Live For è un valzer lento dalla squisita melodia, specie nel ritornello, ed il gruppo ricama con indubbia classe, mentre Another Bridge To Burn vede Loretta alle prese con il più classico degli honky-tonk: ne avrà cantati a centinaia di pezzi così, ma ogni volta è una goduria, anche perché un carisma come il suo lo hanno in poche.

Dopo un intro quasi a cappella parte Ain’t No Time To Go, un delizioso bluegrass dal sapore tradizionale con accompagnamento a base di chitarra, violino, banjo e contrabbasso, God Makes No Mistakes è splendida, una country ballad pura e distesa, con un cantato da pelle d’oca ed il solito accompagnamento sopraffino (bellissimo l’assolo di pianoforte, e spunta anche una chitarra elettrica), These Ole Blues è una sorta di cowboy (anzi, cowgirl) tune dal sapore anni cinquanta, ma con la pulizia dei suoni odierna. My Angel Mother vede solo la voce di Loretta e la chitarra di Sutton, ma i brividi non si contano, Don’t Come Home A-Drinkin’ è un pimpante brano di puro country, molto bello sia nella melodia che nella struttura musicale (uno dei più riusciti del disco), mentre The Big Man è un altro scintillante honky-tonk con tutti gli strumenti a posto, con steel e violino che la fanno da padroni. Il CD si chiude con un’intensa rilettura del traditional Lulie Vars, voce, due chitarre e basso, la mossa ed orecchiabile Darkest Day (sentite che voce) e la classica Coal Miner’s Daughter, il più noto tra i pezzi del passato, che oltre ad essere una bellissima canzone è anche uno dei soprannomi della cantante. Loretta Lynn è per il country al femminile l’equivalente di Willie Nelson per quello maschile: ha superato già da tempo gli ottanta ma è ancora la numero uno.

Marco Verdi

A Parte Il Cognome “Pericoloso”, Un Bel Dischetto. Angaleena Presley – Wrangled

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Angaleena Presley – Wrangled – Thirty Tigers/IRD CD

Angaleena Presley (nessuna parentela con Elvis, il padre è un ex minatore del Kentucky), è un po’ considerata la parte “debole” del popolare trio country delle Pistol Annies (che vanta tra i suoi fans un certo Neil Young): Miranda Lambert è indubbiamente di un altro livello, ed il vantaggio è aumentato con la pubblicazione dell’ultimo, bellissimo, The Weight Of These Wings, ma anche Ashley Monroe ha una carriera di tutto rispetto (il suo ultimo CD, The Blade, ha avuto ottime vendite nel 2015). La Presley sta però tentando di recuperare il terreno perduto, avendo esordito come solista tre anni orsono con American Middle Class, che ha ottenuto un moderato successo e critiche positive http://discoclub.myblog.it/2014/11/10/cognome-importante-pero-parenti-angaleena-presley-american-middle-class/ , ed ora bissando con Wrangled, un disco più riuscito del precedente e che sicuramente le darà un’esposizione maggiore, pur essendo costituito da musica per nulla commerciale. Angaleena infatti è un’artista particolare, che va per la sua strada e fa una musica mai prevedibile e con molte sfaccettature: se la base di partenza è il country tradizionale delle Loretta Lynn e Tammy Wynette, la nostra inserisce spesso nel suono chitarre elettriche e momenti decisamente più rock, quasi fosse una Wanda Jackson 2.0 (ed un brano di Wrangled, Good Girl Down, è scritto proprio insieme alla Queen Of Rockabilly), rendendo l’ascolto stimolante ed interessante, oltre che mai scontato.

Wrangled è prodotto da Angaleena insieme ad Oran Thornton e, oltre ad una serie di musicisti di cui purtroppo mi mancano i dettagli, vanta alcune collaborazioni di vaglia, tra le quali la più importante riguarda la bellissima Cheer Up Little Darling, scritta a quattro mani con Guy Clark, che è anche l’ultima canzone creata dal grande songwriter texano prima della scomparsa avvenuta lo scorso anno: il brano, che vede la partecipazione del partner musicale di Guy, Shawn Camp (il quale suona la chitarra usata da Clark per comporre il pezzo), è un tipico racconto nella vena del grande cantautore, con un refrain splendido, la voce gentile di Angaleena che canta non priva di una certa emozione, e come ciliegina una breve introduzione parlata con la voce profonda di Guy stesso, da pelle d’oca. Il resto del CD non è a questo livello (se no staremmo parlando di un mezzo capolavoro), ma ha diversi punti di interesse, a partire dall’iniziale Dreams Don’t Come True, una languida e profonda country ballad d’altri tempi, nella quale si riuniscono per l’occasione le Pistol Annies al completo, sia come songwriting sia come presenza fisica, e le tre voci interagiscono in maniera limpida. High School si apre con una chitarra twang con tanto di effetto tremolo, che fa molto Chris Isaak, ed anche il resto del brano ha un delizioso sapore sixties, dove il country non è nemmeno così protagonista; viceversa, Only Blood (scritta con Chris Stapleton, e con la di lui moglie Morgane ai cori) è un honky-tonk suonato in punta di dita, una boccata d’aria fresca con la voce di Angaleena perfettamente in parte.

Country, nonostante il titolo, non è un brano accomodante, bensì un rockabilly stralunato suonato con foga da punk band, un’iniezione di modernità che ci dice che la Presley non vuole essere prevedibile (anche se l’intermezzo rap da parte dell’artista hip hop Yelawolf ce lo poteva risparmiare), mentre Wrangled è una ballata classica, con reminiscenze anni settanta, piacevole e ben costruita; Bless My Heart è tutta incentrata sulla voce di Angaleena e su pochi strumenti, ma funziona, grazie anche ad una melodia diretta ed immediata, ed è seguita a ruota dalla gradevole Outlaw, ancora con un’atmosfera vintage ed un bel ritornello. Mama I Tried, una canzone di “risposta” al classico di Merle Haggard, è decisamente elettrica e rock, ma il pezzo in sé non è un granché,  di Cheer Up Little Darling ho già detto, un highlight assoluto, ed anche Groundswell è una bella canzone, una cristallina country ballad strumentata con gusto ed eseguita con bravura, intelligentemente posta subito dopo il brano migliore. Il disco si chiude con l’accattivante Good Girl Down, tra jazz, blues e old time music, e con il country’n’roll un po’ sghembo di Motel Bible. Escluse un paio di incertezze, con Wrangled Angaleena Presley si è definitivamente incanalata sui binari giusti. A parte la copertina, che è davvero brutta.

Marco Verdi

Il Miglior Modo Per Festeggiare Gli 80 Anni Di Un Grande! Kris Kristofferson – The Complete Monument & Columbia Album Collection – The Cedar Creek Sessions. Parte II

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Kris Kristofferson – The Complete Monument & Columbia Album Collection – Sony Legacy 16CD Box Set

Kris Kristofferson – The Cedar Creek Sessions – KK Records 2CD

Parte seconda…

E poi abbiamo i cinque dischetti di rarità, dei quali i primi tre dal vivo: Live At The Big Sur Folk Festival 1970 e Live At RCA Studios 1972 sono inediti, mentre Live At The Philarmonic, sempre inciso nel 1972, è uscito nel 1992 ma è introvabile da anni; inutile dire che, nonostante le canzoni si ripetano spesso e volentieri, siamo di fronte a tre live uno più bello dell’altro, con Kris padrone del campo ed in gran forma, accompagnato a seconda dei concerti dai soliti fedelissimi (Fritts, Blake, Bruton, Swan, Terry Paul e, nel terzo CD, da Sammy Creason alla batteria): ed è proprio al Philarmonic, il più lungo dei tre, che si trovano le chicche più ghiotte, come una splendida The Late John Garfield Blues di John Prine, il classico Okie From Muskogee di Merle Haggard (alla quale Kris cambia il testo a suo piacimento), oltre a quattro pezzi eseguiti da Willie Nelson in qualità di ospite speciale (Funny How Time Slips Away, Night Life, Me And Paul e Morning Dew), e Willie era già un grande. Poi c’è il CD intitolato Extras, che prende in esame le rarità ed i brani usciti su altri dischi, ed è uno dei più interessanti: inizia con due brani di un raro singolo del 1966 (Golden Idol e Killing Time), che già facevano intravedere che il nostro aveva dei numeri, per poi passare ad uno splendido duetto dal vivo con Joan Baez su Hello In There ancora di John Prine, tratto da una compilation di artisti vari.

A seguire ancora abbiamo le quattro bonus tracks della ristampa del 2001 di Kristofferson, tra cui l’ottima The Junkie And The Juicehead Minus Me, che negli anni settanta darà il titolo ad un LP di Johnny Cash; nove canzoni vengono da The Winning Hand, uno strano disco del 1982 che vedeva Kris dividere il campo con Willie Nelson, Brenda Lee e Dolly Parton: qui ci sono chiaramente solo i pezzi dove compariva Kristofferson, tra cui una trascinante The Bandits Of Beverly Hills https://www.youtube.com/watch?v=VBGrqZaJXi0 , una ripresa da pelle d’oca di The Bigger The Fool (The Harder The Fall) con la Lee (e che voce lei), la sempre magnifica Casey’s Last Ride (con Willie) https://www.youtube.com/watch?v=6ZgPRqBf2zs , ed anche una imbarazzante Ping Pong con la Parton. Chiudono il CD sei brani tratti da Songwriter, colonna sonora di un film del 1984 con Kris e Nelson come interpreti principali, e la versione un po’ etilica di I’ll Be Your Baby Tonight di Bob Dylan suonata nel 1992 alla BobFest del Madison Square Garden.

L’ultimo CD del box è forse il più interessante: intitolato Demos, prende in esame sedici incisioni mai sentite di canzoni rare di Kris (in molti casi con canzoni mai più riprese in seguito), non acustiche ma con la band, anche se non sono indicati né i musicisti né, fatto più grave, le date (anche se sembrerebbe un Kris di fine anni sessanta/primi settanta), un dischetto comunque che da solo quasi vale l’acquisto del box, con brani che non sembrano demos ma canzoni fatte e finite, molto country, e con alcune chicche assolute, come la strepitosa A Stich In The Hand, l’emozionante Fallen Woman o la splendida Nobody Owns My Soul, country song purissima sullo stile di Hank Williams.

E veniamo ai giorni nostri, con il bellissimo doppio The Cedar Creek Sessions, nel quale Kris rilegge per l’ennesima volta i suoi classici (lo aveva già fatto nel 1999 con The Austin Sessions), aggiungendo però qualche brano minore, ma sempre bellissimo, del suo repertorio: lo aiuta in questa missione un ristretto combo di musicisti, guidato dal chitarrista Shawn Camp (collaboratore fisso di Guy Clark), con Kevin Smith al basso, Michael Ramos al piano, Fred Remmert e Mike Meadows alla batteria e Lloyd Maines alla steel. E’ comunque sempre un piacere ascoltare queste canzoni, e qui Kris le propone con la sua voce odierna, un po’ impastata ma di grande fascino e se possibile ancora più calda ed emozionante. Mancano purtroppo The Pilgrim, Chapter 33 e Why Me, ma tutte le altre ci sono, e questa rilettura elettroacustica è perfetta. Tra le chicche, una Me And Bobby McGee con un arrangiamento alla Johnny Cash, una To Beat The Devil forse ancora più profonda dell’originale, e soprattutto una riproposizione della splendida The Loving Gift, un brano portato al successo proprio da Cash, con la brava Sheryl Crow nella parte di June Carter, un sentito omaggio all’Uomo In Nero che ebbe il merito per primo di credere in lui ed aprirgli le porte di Nashville.

E’ ora dunque di porgere il giusto tributo a Kris Kristofferson, e queste due pubblicazioni sono il modo migliore per farlo: imperdibili.

Marco Verdi

Una Nuova” Promettente” Artista Di Talento! Loretta Lynn – Full Circle

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Loretta Lynn – Full Circle – Sony Legacy CD

Il titolo del post è volutamente ironico, in quanto ci troviamo di fronte ad una vera e propria leggenda vivente della country music (e non solo): Loretta Lynn (nata Webb), 84 anni il mese prossimo, è sulla breccia da più di cinquant’anni, e la sua serie di successi e di premi meriterebbe un post a parte (basti sapere che è, dati alla mano, l’artista donna più di successo in ambito country di tutti i tempi). Sono già passati dodici anni da quel Van Lear Rose, che ci aveva mostrato un po’ a sorpresa un’artista ancora in grandissima forma, perfettamente a suo agio anche con una produzione non proprio tradizionale, come quella dell’eclettico Jack White: ma la strana coppia aveva funzionato, e l’album era stato uno dei migliori del 2004 in ambito country. Ora Loretta ci riprova, e con Full Circle centra nuovamente il bersaglio: ben bilanciato tra brani originali (alcuni rivisitati), cover e pezzi tratti dalla tradizione, il disco ci mostra una cantante che non ha la minima intenzione di appendere il microfono al chiodo, ed anzi è ancora in possesso di una voce formidabile, pura, limpida e cristallina, di certo non tipica di un’ottuagenaria.

La produzione è più canonica rispetto a Van Lear Rose, ed è nelle mani comunque esperte di John Carter Cash (figlio di Johnny e June), che ha cucito attorno all’ugola di Loretta un suono molto classico, con piano, steel, violini e chitarre acustiche sempre in primo piano: la lunga lista di musicisti presenti comprende alcuni veri e propri luminari come Sam Bush (mandolino), Shawn Camp (chitarra, di recente stretto collaboratore di Guy Clark), Paul Franklin (steel), Ronny McCoury (figlio di Del, al mandolino), Randy Scruggs (chitarra), oltre allo splendido pianoforte di Tony Harrell (già con Don Henley, Johnny Cash, Vince Gill, Sheryl Crow e nel bellissimo Django And Jimmie di Willie Nelson e Merle Haggard). Tredici canzoni, non una nota da buttare, con alcune vere e proprie perle ed un paio di sorprese finali che vedremo.

Con i primi due brani, due lentoni intitolati rispettivamente Whispering Sea e Secret Love, Loretta sembra quasi scaldare la sua ugola ed il gruppo i muscoli, ma già con la seconda delle due la nostra dimostra di essere nel suo elemento naturale, e la voce sembra di una con trent’anni di meno. Who’s Gonna Miss Me? ha una melodia diretta ed il gruppo offre una performance cristallina, grande classe e grande canzone, ma le cose vanno ancora meglio con la splendida Blackjack David, un famoso traditional attribuito alla Carter Family, rilasciato con un arrangiamento da pura mountain music, una versione imperdibile; e che dire di Everybody Wants To Go To Heaven, ritmo spedito, grande assolo di piano, chitarrina elettrica, melodia dalla struttura gospel e Loretta che canta con la grinta di una ventenne.

Always On My Mind è una delle grandi canzoni del songbook americano (ricordo le versioni più famose, ad opera di Elvis Presley e Willie Nelson) e l’arrangiamento pianistico è più vicino a quello di Willie che a quello un po’ pomposo del King: comunque sempre un grande brano, con la Lynn che canta con un’intensità da pelle d’oca. Anche Wine Into Water è una gradevolissima country ballad, suonata alla grande (ma tutto il disco è a questi livelli: è forse brutta la rilettura del traditional In The Pines?); Band Of Gold è un honky-tonk perfetto, che sembra provenire direttamente dalla golden age di questo tipo di musica, così come la mossa Fist City (un vecchio successo rifatto), fulgido esempio di come si possa fare del vero country tradizionale nel 2016.

I Never Will Marry (ancora Carter Family, qui John Carter deve aver detto la sua) precede Everything It Takes, uno scintillante honky-tonk che Loretta ha scritto con Todd Snider, suonato e cantato con la consueta classe, con la partecipazione straordinaria (e riconoscibilissima) di Elvis Costello alle armonie vocali. Chiude il CD la tenue Lay Me Down, un vero e proprio duetto vocale con Willie Nelson (poteva mancare?), due voci superbe, una chitarra, un mandolino, un violino e feeling a palate.

Full Circle è il titolo più appropriato per questo album, in quanto ci riporta una Loretta Lynn in forma Champions (per dirla in termini calcistici), e su territori che conosce a menadito e che ormai le appartengono di diritto.

Ed è ancora la numero uno.

Marco Verdi