Toh Guarda Chi Si Rivede, Doppia Uscita A Settembre! Arlen Roth – Slide Guitar Summit E Ristampa Toolin’ Around Woodstock Feat. Levon Helm

arlen roth slide guitar summit   arlen roth toolin' around woodstock

Dopo qualche anno di silenzio (ma aveva continuato a produrre dischi in proprio nel corso degli anni) ritorna Arlen Roth, quello che giustamente viene considerato uno dei migliori chitarristi “sconosciuti” americani, vincitore del premio dei critici di Montreux con il suo album di esordio nel lontano 1978, quel Guitarist, che insieme a Hot Pickups dell’anno successivo e al primo volume di Toolin’ Around, viene considerato il suo disco migliore.

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Andiamo per copertine, ma è per rinfrescare la memoria di chi ricorda questi album (i primi due non disponibili in CD), quello del 1996 ancora in commercio, e stimolare gli amanti dei chitarristi, in possesso sia di una grande tecnica come di un notevole feeling, e con le giuste amicizie coltivate tra i colleghi nel corso degli anni.

Qui sopra, e a seguire, trovate un po’ di esempi della sua tecnica ineccepibile, che lo ha portato a pubblicare anche diversi CD e DVD didattici (e sia il nuovo album che la ristampa di quello con Levon Helm ospite dovrebbero contenere un DVD bonus, per quanto, temo, zona 1).

Ecco un estratto video della collaborazione con Sonny Landreth, tratta dal CD dove appaiono anche Helm e Bill Kirchen dei Commander Cody https://www.youtube.com/watch?v=MwVJV-0-0K0

Nonché presentazione video di Slide Guitar Summit e due anticipazioni audio dal nuovo album in uscita a settembre

Provare, o meglio, sentire per credere, questo signore è veramente un maestro della chitarra, purtroppo poco conosciuto se non dagli “iniziati”! Peccato che il tutto non sarà di facile reperibilità visto che esce, il 18 settembre, su etichetta Aquinnah (?!?). Ora comunque non avete più scuse, buona ricerca.

Bruno Conti

L’Arte Della Slide Guitar! Ron Hacker – Live In San Francisco

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Ron Hacker – Live In San Francisco – Ronhacker.com

Quando, circa un anno e mezzo, parlavo del precedente disco di Ron Hacker, (bravi-ma-sconosciuti-ron-hacker-and-the-hacksaws-filthy-anim.html), in termini più che lusinghieri, tra le cose dette, una, scontata, ma non per questo meno vera, era che sarebbe stato bello se il nostro amico avesse registrato un bel album dal vivo (si dice sempre, sarà scontato, ma per certi tipi di performers, è la pura verità), magari al Saloon, che era il locale dove Hacker era solito esibirsi, Non è passato neppure un anno, e tac, registrato il 30 novembre del 2011, ma pubblicato oggi, esce questo Live In San Francisco, non al Saloon ma al Biscuits And Blues, che a giudicare dal rumore di ambiente e da quello del pubblico, che si percepisce dal CD, a occhio (e a orecchio), deve essere una venue dove possono entrare poche decine di persone, ma non è il numero che fa la qualità.

Non posso che confermare quanto di buono detto su Ron Hacker, che è sicuramente uno dei migliori nell’arte della slide e che dal suo strumento estrae ogni stilla possibile di blues, potente e ad alta densità, degno dei migliori Johnny Winter, John Campbell, o Ry Cooder annate con Taj Mahal , già citati in passato e qui ribaditi, con il più lo spirito dei grandi bluesmen, da John Lee Hooker e Elmore James passando per Willie Dixon, Sleepy John Estes (pard del suo “maestro” Yank Rachell), Son House e in generale di tutti i grandi che vengono rivisitati nel vorticoso stile di Hacker.

Quello che si ascolta in questo album è del Blues di grande energia, nulla di nuovo ma eseguito con una forza, una grinta e una maestria che dividono il grande disco dal compitino eseguito con poca voglia. Siamo quindi di fronte ad un album di blues elettrico, molto “carico”, ma sempre all’interno dei parametri delle classiche 12 battute e che sfiora il rock-blues senza mai varcarne completamente i confini labili. E comunque è un bel sentire. Dai primi secondi di Ax Sweet Mama, un brano appunto di Estes, che apre il concerto con un bottleneck solitario e la voce di Ron Hacker, capisci subito di trovarti di fronte a qualcuno che conosce a fondo la materia, la vive fin nelle pieghe più recondite e la riversa sul pubblico in un torrente di note (il brano, se la memoria non mi difetta è conosciuto anche come Sloppy Drunk). Il basso pulsante di Steve Ehrmann e la batteria di Ronnie Smith innestano i ritmi classici che stimolano la creatività di Hacker, che prende subito di petto una versione cattiva di Meet Me In The Bottom, un brano di Willie Dixon per Howlin’ Wolf, che però come in molte storie del blues, potrebbe essere anche Down In The Bottom, che facevano anche gli Stones, che a sua volta era una bastardizzazione di Lawdy Mama, con testo e musica riveduti e corretti, ma nel blues funziona così e nessuno si offende (per la verità il buon Willie un poco si era incazzato con Page e Plant, ai tempi), per non sbagliare Ron ci dà dentro alla grande. Poi si accelera a tempo di boogie, per uno sfolgorante medley tra Baby Please Don’t Go e Statesboro Blues, suonati come Dio comanda e che si innestano uno dentro all’altro come un coltello nel burro. Welfare Store è un vecchio classico di Sonny Boy Williamson, lento e cadenzato con chitarra e voce che scandiscono le note come se ne andasse della vita dell’interprete, che aggiorna il testo del brano al presidente Obama (che è perfetto perché fa rima con mama) e ai giorni nostri.

My Bad Boy è un brano originale scritto dallo stesso Hacker e dedicato al figlio quando questi aveva 18 anni (ora ne ha 40 e Ron ne compirà 68 quest’anno), e il risultato non sfigura con i classici fin qui sfornati, ma Death Letter di Son House è sempre un gran brano e questa versione è veramente gagliarda, con la slide che viaggia rapida e tagliente. Uno dei maestri dello stile, forse l’inventore, è stato il grandissimo Elmore James, di cui viene riproposta It Hurts Me Too, una delle più belle canzoni mai scritte (e suonate) nell’ambito Blues. Two Timin’ Woman, strepitosa, a livello di boogie, potrebbe dare dei punti a Winter, Thorogood e forse anche a Hound Dog Taylor e anche il match con Johnny Winter nella “sua” Leavin’ Blues, potrebbe finire in un bel pareggio. Per concludere la serata (e il disco) in bellezza, un bel brano di John Lee Hooker come House Rent Blues ci sta proprio a pennello. Tra l’altro Hacker racconta che in una serata con Roy Rogers gli capitò di suonare il brano proprio di fronte al suo autore, ottenendo da quel vocione inconfondibile un responso positivo, che è come avere la laurea honoris causa e anche noi gliene conferiamo con piacere una, in Blues, che non rimanga un segreto!

Bruno Conti

Piccolo Ma Tosto! Lil’ Ed And The Blues Imperials – Jump Start

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Lil’ Ed and The Blues Imperials – Jump Start – Alligator

Lil’ Ed And The Blues Imperials sono una delle migliori formazioni “miste” (bianchi e neri) della scena blues attuale. E se è per questo lo sono da una trentina di anni: formata dai “fratellastri” Ed Williams e James “Pookie” Young, che sono uno la custodia dell’altro, come dimensioni, con Williams ovviamente il piccoletto, come ricorda il suo soprannome. Nativi di Chicago e con un imprinting nel DNA Blues, essendo i nipoti di J.B. Hutto, Lil’ Ed, con immancabili cappellini al seguito, e la sua band, sono uno dei punti di forza della Alligator, dal 1986, anno dell’esordio con il vorticoso Roughhousin’ .Da allora non hanno registrato moltissimo (ma neppure poco), questo è l’ottavo album, esclusi un paio di album solisti per Williams, nella seconda metà degli anni ’90, quando aveva sciolto momentaneamente il gruppo.

Lo stile però è rimasto sempre quello: ritmi tirati ma che variano tra jump, blues classico, qualche virata swing, un pizzico di soul, boogie e R&R, il tutto condito dalla slide di Ed Williams che è uno dei migliori virtuosi dello strumento attualmente in circolazione. Il secondo chitarrista, il bianco Michael Garrett, si occupa della ritmica e raramente sale al proscenio per l’occasionale parte solista, in questo Jump Start un paio di volte: nel boogie swingato Jump Right In dopo l’immancabile intervento della slide si ritaglia lo spazio per il secondo breve assolo e in Weatherman, un vorticoso brano che ricorda i ritmi di Hound Dog Taylor, Elmore James e J.B. Hutto, duetta con Williams in quello che è uno dei brani migliori del CD.

Per il resto Lil’ Ed si occupa di tutto, produzione (con Bruce Iglauer), composizione, 13 dei 14 brani, voce solista, sicura e potente e soprattutto una slide micidiale che lo pone come “ultimo” anello di quella catena di nomi citati poc’anzi come uno dei virtuosi imprescindibili dell’attrezzo: dopo i ritmi serrati tra R&R e boogie dell’iniziale If You Were Mine i tempi si fanno addirittura frenetici nella successiva Musical Mechanical Electrical Man con gli angoli sonori del sound che non sono mai smussati, ma ruvidi e aspri con la slide che impazza ovunque. Ma Lil’ Ed ed i suoi soci sono capaci anche di tuffarsi nel più classico Chicago Blues (non perché il resto non lo sia, ma più classico) come nella poderosa Kick Me To The Curb dove la voce assume toni quasi alla Joe Louis Walker o Buddy Guy ma la slide non si allontana mai troppo dall’orizzonte sonoro. Concetto ribadito nell’eccellente slow blues di You Burnt Me dove fa capolino anche l’organo di Marty Sammon e, per una volta, il piccolo Ed si cimenta alla solista senza bottleneck, peraltro sempre con ottimi risultati, e che voce!

Anche House of Cards e Born Loser confermano le qualità d’insieme di questo album che mi sembra sia uno dei loro migliori dai tempi di Get Wild (1999). Detto di Jump Right In, c’è un altro “lentone” tirato e intenso come Life Is A Journey dove la slide di Williams ha più spazio per le sue evoluzioni nella parte centrale. Molto buone anche World Of Love e l’unica cover presente, If You Change Your Mind, l’omaggio a J.B. Hutto, che dopo quello a Hound Dog Taylor nel precedente Full Tilt e in quello prima ancora a Elmore James, conferma qual è la Santa Trinità nel Pantheon Slide di Ed Williams. Per l’occasione Marty Sammon sfoggia anche un pianino insinuante quasi d’obbligo per questo tipo di brano. No Fast Food, l’ulteriore slow My Chains Are Gone e Moratorium On Hate completano l’album che conferma il filotto di uscite di qualità della Alligator.

Bruno Conti    

Due Slide Son Meglio Di Una? Delta Moon – Black Cat Oil

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Delta Moon – Black Cat Oil – Red Parlor

Black Cat Oil è il settimo album dei Delta Moon, una delle migliori band operanti in quell’ambito che gravita intorno al Blues, per intenderci potremmo accostarli a JJ Grey & Mofro o i North Mississippi Allstars o andando a ritroso nel tempo anche i Little Feat. Quel genere che incorpora oltre al citato blues, elementi southern, swampy della Lousiana (anche il titolo in questo caso, che ha connotazioni voodoo), naturalmente rock ma non si può definire con il solito blues-rock. O sì?

Il principale elemento che connota questo gruppo, come molti sanno (ma non tutti), è il fatto di avere di due chitarre slide nel gruppo: il leader, cantante e compositore, Tom Gray, la suona in versione lap steel, ovvero appoggiata in grembo o al limite in posizione orizzontale, mentre il suo pard (e co-autore di molti brani) Mark Johnson la usa nel più canonico stile bottleneck. C’è da dire che nella prima parte della carriera i Delta Moon hanno avuto in formazione anche delle voci femminili, prima Gina Leigh e poi Kristin Markiton, due cantanti notevoli, soprattutto la prima, che appariva in Goin’ Down South il disco del 2004 che molti considerano il migliore (live a parte). Volendo, come recensito sul Busca di un paio di anni fa, ci sarebbe un CD del 2009 della Blues Boulevard/Music Avenue, Howlin’ At The Southern Moon che raccoglie il meglio dei dischi pubblicati tra il 2002 ed il 2007 prima della svolta maschilista, compreso un Live eccellente del 2004. Perché in effetti questo gruppo andrebbe sentito o visto, soprattutto dal vivo (lo si dice sempre ma è vero) e a questo proposito ci sono molti filmati strepitosi su YouTube tra cui uno registrato in Austria nel 2011 che è divertente anche a livello visivo, perché i due chitarristi vanno a suonare in mezzo al pubblico, si siedono al tavolo, si fanno portare due birrette e poi con gli strumenti appoggiati sul tavolo dimostrano come si suona la slide.

Detto questo del passato, il CD di cui parliamo comunque non è male: Tom Gray non è un cantante fantastico ma più che adeguato, una sorta di Ry Cooder meno rigoroso ( e i due, messi insieme, fanno una specie di Ry): ma il drive dei brani, spesso è più “sporco”, come nell’iniziale Down and Dirty con le due slide che iniziano a macinare “soli”, rispondendosi dai canali dello stereo, la ritmica prende un bel groove da treno boogie in movimento e il piedino comincia a muoversi. Blues In A Bottle con le chitarre “riverberate”, ha ritmi più lenti e scanditi ma sempre con l’inconfondibile suono delle slide che lo percorre ( e questa è una caratteristica di tutto il disco). Walk Out In The River ha le coordinate di una ballata elettroacustica mid-tempo con qualche tocco di coloritura di quello che sembra un dulcimer (così riportano le note del dischetto) e sonorità “desertiche”. Forse non l’ho detto ma loro vengono da Atlanta, Georgia e la funky title-track con i suoi suoni “paludosi” profuma pure di Louisiana e di Sud in generale. Le chitarre viaggiano sempre anche se i brani non si dilungano mai più di tanto (forse per gustarle appieno il live sarebbe d’uopo).

Wishbone (“l’ossicino dei desideri”) è buona ma manca di quella vivacità che altri brani hanno. Anche Black Coffee, molto simile nei tempi, ha quel sapore di “già sentito” di altri loro brani, mentre Neon Jesus avrebbe la piena approvazione di quel Ry Cooder citato prima, un brano avvolgente di stampo roots con le voci e le chitarre che pigramente si “appoggiano” voluttuosamente sulla sezione ritmica. Jukin’ è un bel boogie blues dai chiari sapori sudisti e Sunshine con le due slide che viaggiano all’unisono ha richiami ad un sound più anni ‘50 con il contrabbasso che detta i tempi. Applejack si appropria di un suono più carnale con le slide più cattive poi ribadito, con ancora maggiore vigore, nella conclusiva cover di Write Me A few Of Your Lines, un brano di Fred McDowell che potrebbe chiamarsi Can’t Be Satsified o Rollin’and Tumblin’, tanto il riff e il sound sono quelli, il vecchio Muddy avrebbe approvato, in fondo i grandi Bluesman si “rubavano” le canzoni tra loro, ma era solo del sano Blues, com’è il caso di questa traccia, ancora, come si conviene, con le slide in evidenza.

Bruno Conti

Dalla Svizzera Con Furore – Joe Colombo Deltachrome

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La Svizzera, il Canton Ticino in particolare, non è il primo luogo a cui pensiamo come il luogo in cui agisce un cosiddetto musicista di culto, rock, dirò di più rock-blues, mi sbilancio, un virtuoso della chitarra resonator con ampio uso di slide. Perbacco, qui non si scherza.

Aldilà di facili ironie sulla landa natia di “Michelle Stuzzicher”, come la chiama Oriano Ferrari, quanto detto sopra è tutto vero: Joe Colombo viene da Locarno, è un virtuoso della slide guitar, ha già pubblicato alcuni album, rigorosamente con distribuzione indipendente (figuratevi che questo ChromeDreams, nell’era dei computer, non ha manco il barcode, ma il sito sì, http://joecolombomusic.com/site/): il primo Bottleneck & Snakehead esce nel 2002 in una tiratura di 1000 copie, poi ristampato con l’aggiunta di 3 bonus dalla Horizon/Comet come Natural Born Slider (e rigorosamente fuori catalogo), si tratta di un album quasi completamente strumentale che già illustra le sue ottime capacità di slideman. Un paio di partecipazioni ai tributi a Hendrix Voodoo Crossing e Gypsy Blood (in compagnia di Robben Ford, Larry Coryell, Pat Travers, il connazionale Vic Vergeat, esatto quello dei Toad, Steve Lukhater, ecc., ecc.), lo fanno conoscere nel resto del mondo e inizia una trasferta americana che lo porta a collaborare con Terry Evans, uno che di chitarristi slide se ne intende. Dopo varie vicissutidini ( si dice così, fa più figo) approda nel 2008 a Joe Valeriano & Joe Colombo un disco acustico basato su cover di brani celebri e celeberrimi, rivisitati con gusto dal duo italo-svizzero (Valeriano è di Milano).

Fine 2009, esce questo Chromedreams, il nostro amico ha formato una band stabile, con cantante, Franco Campanella, che appare in sei brani, cinque sono strumentali, una sezione ritmica solida, influenze che spaziano dall’amato Hendrix a Stevie Ray Vaughan, dal rock-blues britannico con venature hard dei primi anni ’70 al southern rock, senza dimenticare, naturalmente il fondamentale blues del Delta.

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Il risultato, tutti brani originali, è più che soddisfacente: se siete degli amanti della chitarra slide magari suonata su una resonator (tipo Joe Sardinas, Rainer Ptacek, John Campbell, avete presente?, magari anche i Delta Moon che di slide ne hanno due), qui la trovate in tutte le salse, dalla versione grintosa, hendrixiana dell’iniziale Deltachrome con un wah-wah dirompente, passando per la classica By My Side dall’impianto southern allmaniano, per non dire del boogie-rock-blues di Be My baby con l’ottimo Campanella in evidenza. Justify è un classico brano di uno che vive a pane e slide, mentre Big river blues mi ha ricordato certe “oscure” trame dei primi Black Sabbath che il blues lo masticavano. C’è spazio anche per Southern Lullaby una lunga traccia strumentale che illustra il lato più gentile e lirico di Joe Colombo, con le sua alternanza di  chitarre acustiche ed elettriche, sempre rigorosamente slide. Upside down è un roccioso omaggio al power trio, chitarra-basso-batteria e pedalare. ci mettiamo anche un cantante, ma sì vai!

Se siete di Milano, lo potete vedere, in tour con Terry Evans, al Nidaba.

Visto che il rock-blues sul blog è stato un argomento poco trattato, mentre chi mi legge anche sul Buscadero può pensare che solo di quello mi occupi o quasi, domani ci torno con notizie dalle lande americane.

Bruno Conti