George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte II

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(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES - JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES – JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

Seconda Parte.

Gli Anni Della Consacrazione Commerciale E La Conseguente Discesa 1985-1999

Dopo tre anni di concerti infiniti ( ne parliamo a fine articolo) si arriva al nuovo album di studio, nell’anno della partecipazione al Live Aid esce

George_Thorogood_Maverick

Maverick – 1985 Emi America – ***1/2 Dove arriva il nuovo produttore Terry Manning, partito con il soul Stax e poi passato anche per i Led Zeppelin fino ad approdare agli ZZ Top, un’altra band che di boogie e blues se ne intendeva, il suono si fa un più duro e mainstream, ma i nostri ci danno dentro comunque, come dimostra l’uno-due iniziale di Gear Jammer che va di slide, e I Drink Alone, un altro dei grandi cavalli di battaglia di Thorogood, che complessivamente firma ben quattro canzoni https://www.youtube.com/watch?v=4E9ydw_aDMg , notevole anche la famosa Willie And The Hand Jive di Johnny Otis, l’unico singolo che in carriera entrerà nella Top 100, forse perché sembra in tutto e per tutto un brano alla Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=AuNOkGnEme8 . Insomma la qualità dei dischi comincia a diminuire, benché il tocco country di What A Price di Fats Domino e ldela conclusiva The Ballad Of Maverick e il rockabilly di Dixie Fried di Carl Perkins non sono per niente male, e una minacciosa e sospesa Crawling King Snake di Sor John Lee Hooker, e ben due Chuck Berry il medley Memphis/Little Marie e Go Go Go, dimostrano che il tocco magico non è scomparso. Dopo altri tre anni, e il primo disco ufficiale dal vivo arriva

George Thorogood BornToBeBad

Born To Be Bad – 1988 EMI *** Ancora Terry Manning in cabina di regia, suono sempre troppo secco e anni ‘80, anche se alcuni brani tirano di brutto, come l’iniziale Shake Your Money Maker dell’amato Elmore James dove Thorogood va di bottleneck con libidine  https://www.youtube.com/watch?v=pNKFePZk3rQ , come pure in Highway 49 di Big Joe Williams, rock’n’roll per You Can’t Catch Me e I’m Ready quella di Fats Domino, un po’ di R&B scatenato in Treat Her Right a tutto sax, blues nella “cattiva” e ululante Smokestack Lightning e nel train time di I’m Movin’ On, successo di vendite e fama sempre stabili. Dopo altri tre anni si entra nella nuova decade, con l’arrivo di un nuovo chitarrista Steve Chrismar che appare in

George Thorogood BoogiePeople

Boogie People – 1991 EMI ***1/2, con un suono decisamente più grintoso e sul versante blues-rock e classic rock, come testimonia l’iniziale If You Don’t Start Drinkin’, molto buona Long Distance Lover a tutta slide, il classico boogie Mad Man Blues di John Lee Hooker, come pure la cover acustica di I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo voce e chitarra con bottleneck, non un granché la title track, ottima la “lupesca” No Place To Go di Howlin’ Wolf https://www.youtube.com/watch?v=7burMF7K-Lk  , seguita da una gagliarda Six Days On The Road e dalla tirata Born In Chicago, con ottimo lavoro della solista, un tuffo nel country con la piacevole Oklahoma Sweetheart e l’omaggio R&R all’amato Chuck Berry con la riffatissima Hello Little Girl. Quindi un buon disco, che però non ha successo e segnala un declino del successo di Thorogood, che procede anche con il successivo

George Thorogood -Haircut

Haircut – 1993 Capitol *** Un solo pezzo firmato da George, su, indovinato, i canonici dieci: produce ancora Manning, Get A Haircut è un brano divertente ma non essenziale, questa volta ci sono tre canzoni a firma Wiilie Dixon, due per Howlin’ Wolf, tra cui la classica Howlin’ For My Baby, oltre a I’m Ready che ogni tanto Thorogood incide in studio, bene anche Cops And Robbers con il tipico drive sonoro del suo autore Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=l7QKNP-C-CU , l’immancabile John Lee Hooker di Want Ad Blues e una “strana” Gone Dead Train, un pezzo cantato in origine da Randy Newman nella colonna sonora di Performance, il film con Mick Jagger https://www.youtube.com/watch?v=dSgWQSVGgig . Anche questo disco non rientra nella categoria degli indispensabili. Dopo quattro anni arriva l’ultimo CD per la Capitol, anche questo, per usare un eufemismo, non particolarmente brillante, parliamo di

George Thorogood RockinMyLifeAway

Rockin’ My Life Away – 1997 Capitol **1/2 Prodotto dalla band insieme a Waddy Wachtel(!), variazione sul tema ci sono 12 brani, alcuni anche inconsueti: Trouble Every Day di Frank Zappa, che in questa versione sembra un brano della J.Geils Band, anche vocalmente https://www.youtube.com/watch?v=UT6DRjA8k7s , mentre in Night Rider si va di slide, ma il brano è moscio, anche in The Usual, una bella canzone di John Hiatt il suono non sembra particolarmente brillante, e così via, anche il country Living With the Shades Pulled Down di Merle Haggard non acchiappa più di tanto, si salvano, a fatica, Manhattan Slide di Elmore James, il R&R della title track, e la cadenzata Blues Hangover di Slim Harpo. Non un brutto disco, ma manca la grinte e per un disco di Thorogood è una eresia: per il successivo album, l’ultimo del millennio

George Thorogood Half_a_BoyHalf_a_Man

Half a Boy/Half a Man – 1999 CMC *** torna Terry Manning alla produzione, un po’ meglio, ma niente di che. C’è anche una nuova etichetta del gruppo BMG, ma la collaborazione durerà per un solo album, più un Live: per confondere le idee si prova con 11 canzoni, solo un Chuck Berry e un Fats Domino, poi brani abbastanza oscuri di Keith Sykes B.I.G.T.I.M.E., la title track di Nick Lowe, un pezzo poco noto di Solomon Burke come Be Bop Grandma https://www.youtube.com/watch?v=gawgzsAqL4I  , ma anche due canzoni firmate da Willie Dixon, una per Little Walter e una per Magic Sam, in quota Blues, e Double Shot, tra R&R e R&B. Dopo una pausa di quattro anni, nuovo secolo, nuova casa discografica, nuovo produttore

george thorogood 2000's

Gli Anni 2000, Con Colpo Di Coda Finale.

George_Thorogood_ride_til_i_die

Ride ‘Til I Die – 2003 Eagle Records***1/2 Dietro la consolle c’è Jim Gaines, uno che di solito di blues ne capisce (ma non sempre), però questa volta ci siamo, anche l’arrivo di Jim Suhler, altro chitarrista coi fiocchi, controfiocchi e pappafico, alza il livello, forse non tutte le canzoni sono all’altezza, però: Greedy Man, scritta dal sassofonista jazz Woody Shaw è un ottima partenza, con la slide di George che si confronta con il sax di Hank Carter alla ultima apparizione con i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=y-ZyrDQpAu4 , Sweet Little Lady è un buon pezzo rock dove Thorogood e Suhler che sono anche gli autori se le suonano di gusto, Don’t Let The Bossman Get You Down è un gagliardo blues elettrico di Elvin Bishop del 1991, mentre anche il pezzo di JJ Cale Devil In Disguise subisce il trattamento boogie à la Destroyers, poi ripetuto nella ruvida She’s Gone di Hound Dog Taylor https://www.youtube.com/watch?v=0c7H3mWWwK8 , The Fixer è un robusto rock-blues scritto da Tom Hambridge il batterista/produttore. You Don’t Love Me, You Don’t Care, un brano di Bo Didley, sembra La Grange parte 2, veramente potente, poi si va di R&R con My Way di Eddie Cochran, e niente male anche That’s It I Quit, un tipico pezzo di Nick Lowe, e pure come country ci siamo, I Washed My Hands In Muddy Water, un pezzo che anche Elvis Presley incise in Elvis Country è veramente delizioso https://www.youtube.com/watch?v=QfofoLFQLhU , Move It di Chuck Berry è una garanzia, come pure la title track, un pezzo di John Lee Hooker, in versione acustica ma trascinante. Tre anni dopo arriva

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The Hard Stuff – 2006 Eagle Records ***1/2 Altro buon album, il 13° in studio prodotto nuovamente da Gaines, addirittura ben 15 brani (e nel precedente ce ne erano 13): con il nuovo sassofonista Buddy Leach, che è tuttora con i Destroyers, e una scelta del materiale interessante, grazie anche alla presenza di Rick Steff, alla fisarmonica e piano, e dell’aggiunta di Tom Hambridge, come co-produttore e autore di quattro canzoni, tra cui la esplosiva title-track https://www.youtube.com/watch?v=j1lCNtLQ1mM , la riffatissima I Did’t Know e Any Town U.S.A che sembra un brano del Mellencamp più rock https://www.youtube.com/watch?v=2THiY8mV148 . Ottime Hello Josephine di Fats Domino, che grazie alla fisa sembra, un pezzo cajun https://www.youtube.com/watch?v=3mxdw8j8iOI , Little Rain Falling una bella blues ballad con uso sax, scritta da Jimmy Reed, Dynaflow Blues di Johnny Shines dove George si esibisce alla acustica con bottleneck, una scatenata Rock Party scritta dal musicista contemporaneo texano Holland K. Smith, che sembra un pezzo dei migliori Rockpile o Blasters. Eccellente anche una rispettosa cover di Drifter’s Escape di Bob Dylan, la turbolenta Give Me Back My Wig del vate Hound Tog Taylor, la magnifica Taking Care Of Business, con profumi di Louisiana, grazie al suo autore Rudy Toombs, e un superbo lavoro del nostro alla slide https://www.youtube.com/watch?v=uEi2CN-KbfA , che poi si ripete nella vorticosa Huckle Up Baby di John Lee Hooker. Questo è il Thorogood che ci piace, che poi torna alla Capitol per l’ultimo album pubblicato nella decade

George Thorogood TheDirtyDozen

The Dirty Dozen – 2009 Capitol *** Anche se è una mezza fregatura, perché a fianco di sei brani nuovi tutti belli, ci sono sei canzoni tratte dai vecchi dischi della EMI. Il produttore è ancora Jim Gaines: le sei canzoni nuove sono tutte cover, Tail Dragger, Willie Dixon per Howlin’ Wolf, solita formula dei Destroyers, ovvero sano rock-blues tirato https://www.youtube.com/watch?v=beGfipR1mIY , Drop Down Mama è di Sleepy John Estes, un boogie con slide, una sorta di southern rock nordista, vista l’origine del nostro, Run Myself Out Of Townè un pezzo degli Holmes Brothers, un bel roots-rock, Born Lover di Muddy Waters, sempre con bottleneck a manetta, è un boogie rock travolgente, Twenty Dollar Gig tra R&R e R&B, con sax in evidenza e Let Me Pass di Ellas McDaniel completano il CD a tempo di robusto Bo Diddley beat.

george thorogood live in boston 1982 first edition

La nuova decade parte con il botto: intanto nel 2010 viene pubblicato il Live In Boston 1982 ****, dalla Rounder, la vecchia etichetta di George,che è stato diciamo la causa scatenante per questo articolo. All’inizio dell’anno successivo esce un altro eccellente album della discografia del musicista di Wilmington, ovvero l’ottimo

George Thorogood 2120_South_Michigan_Ave.

2120 South Michigan Avenue – 2011 Capitol **** Stiamo parlando dell’indirizzo dei famosi Chess Studios a Chicago, una delle mecche del blues, dove anche i Rolling Stones registrarono negli anni ‘60. Il produttore è di nuovo Tom Hardbridge, e come ospiti appaiono Buddy Guy, in una strepitosa rilettura di Hi-Heel Sneakers, un brano di Tommy Tucker dove i due chitarristi, soprattutto Guy, se le “suonano” di santa ragione https://www.youtube.com/watch?v=rhQtXHN8TvM , e anche Charlie Musselwhite è presente in due brani, prima una vibrante My Babe e poi nella title track, attribuita a Nanker Phelge, che era lo pseudonimo che usavano i Rolling Stones per le composizioni collettive, a piano ed organo per questo strumentale molto sixties anche Kevin McKendree, che insieme a Tommy McDonald e Hambridge, suona in alcuni brani del CD, quando non appaiono i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=SYMQQzIOFyg . Ottimi anche i due brani dell’accoppiata Thorogood/Hambridge, la potentissima Going Back a tutta slide e Willie Dixon’s Gone, altra blues song tosta e poi una sequenza di classici del blues, Seventh Son, Spoonful, Two Trains Running, Mama Talk To Your Daughter, Help Me, Chicago Bound e del rock and roll, Let It Rock e Bo Diddley, tutti eseguiti in modo brillantissimo con Thorogood in grande spolvero https://www.youtube.com/watch?v=u7UlDyUcV4I . Sembrava essere un ritorno di George ai livelli della prima parte di carriera, e invece cala il silenzio. Concerti dal vivo ne escono un paio, uno del 2013 e uno registrato nel 1980, ma per un nuovo album di studio, dobbiamo attendere fino all’uscita dell’unico album solo di George Thorogood

george thorogood party of one

Party Of One – 2017 Rounder/Spinefarm ***1/2 che esce 40 anni dopo il debutto omonimo, un album principalmente acustico, anche se il nostro amico non resiste ed in alcuni brani tira fuori la sua Gibson elettrica: produce di nuovo Jim Gaines ed il disco è proprio bello, anche se il titolo è “rubato” da un disco di Nick Lowe del 1990, I’m A Steady Rollin’ Man di Robert Johnson, apre le procedure, acustica con bottleneck e grande intensità https://www.youtube.com/watch?v=zKhgnxbsGlw , Soft Spot di Gary Nicholson è una via di mezzo tra Cash e il Presley ‘68 in modalità unplugged, Talahassee Women è un pezzo anni ‘30 che assomiglia a certe cose del primo Rory Gallagher, Wang Dang Doodle di Willie Dixon regge anche in versione acustica, come pure una delicata Boogie Chillen di John Lee Hooker. Eccellente anche No Expectations degli Stones, solo voce e acustica con bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=qSyh5tC94l8 , Bad News di John D. Loudermilk sembra nuovamente un pezzo del Johnny Cash anni ‘60, mentre Down The Highway era su The Freewheelin’ Dylan, anche questa fatta molto bene, e Got To Move di Elmore James non si può fare senza una elettrica, ma The Sky Is Crying evidentemente sì, sempre in modalità slide. Dal lato tradizionale anche un Brownie McGhee e un Hank Williams, altre due canzoni del vecchio Hook, tra cui una One Bourbon, One Scotch, One Beer, dal vivo in solitaria e a chiudere una Dynaflow Blues dylaniana, alla faccia di chi pensa che i dischi di Thorogood siano tutti uguali  , saltiamo le sette antologie e veniamo ai dischi dal vivo.

george thorogood livegeorge thorogood live let's work together

Il primo, l’omonimo Live – 1986 EMI *** non è però rappresentativo della vera forza dei concerti del nostro, un po’ come era stato per Springsteen con il suo cofanetto ufficiale dal vivo, questa data registrata in Ohio, pur contenendo molti classici non soddisfa a fondo, intendiamoci non parliamo di un brutto album, d’altronde Who Do You Love? https://www.youtube.com/watch?v=mYcob11rKHc , Bottom Of The Sea di Muddy Waters, Night Time, I Drink Alone, One Bourbon, One Scotch, One Beer, Madison Blues, una attesissima Bad To The Bone, The Sky Is Crying e Reelin’ And Rockin’ danno l’idea del suo carisma di performer, e neppure Live: Let’s Work Together – 1995 Capitol *** registrato in due date del 1994 a Saint Louis e Atlanta, pur essendo più che rispettabile, soddisfa del tutto: non ci sono brani in comune con il Live del 1986, il pubblico è comunque entusiasta già da prima che inizi il concerto, il suono è più brillante e presente, ma come detto non convince a fondo, ottime No Particular Place To Go di Chuck Berry e Ride On Josphine con il classico Diddley Beat, il country-boogie di Cocaine Blues, una galoppante I’m Ready, Get A Haircut molto stonesiana  , la pimpante Move It On Over e la dirompente Let’s Work Together, oltre alla conclusiva Johnny B. Goode, presentata come inno nazionale del R&R e che se la batte con la versione di Johnny Winter https://www.youtube.com/watch?v=xZYcBFqaca0 .

george thorogood live in '99george thorogood live 30th anniversay

Anche Live In ‘99 – 1999 CMC *** è un disco dal vivo di discreta qualità (parliamo sempre del prodotto discografico, il perfomer non si discute), con punte di eccellenza nelle “solite” Who Do You Love?, una colossale anche se spezzettata One Bourbon, One Scotch, One Beer, l’uno-due di Get A Haircut/Bad To The Bone e la conclusiva You Talk To Much. Finalmente con Live 30TH Anniversary Tour – 2004 Capitol ***1/2 ci siamo, suono potente e presente, preceduto dal suo solito saluto al pubblico “How Sweet It Is”, vengono presentate, a fianco delle immancabili Who Do You Love, One Bourbon…, The Sky Is Cryng e Bad The Bone, anche I Drink Alone, lo slow blues Don’t Let The Bossman Get You Down, una scatenata Sweet Little Lady https://www.youtube.com/watch?v=cH3Twc55od8  e nella parte finale Greedy Man, The Fixer molto garage, That’s It I Quit e Rockin’ My Life Away.

george thorogood live in boston 1982george thorogood live at montreux 2013

Nella seconda parte della decade escono forse i due Live mgliori in assoluto, insieme alla recente strepitosa ristampa potenziata di Live In Boston 1982 – 2020 2 CD Rounder/Universal **** https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_n-_3nWNtXXXuc083M4gGHqJL1fvbOy13M , ovvero Live At Montreux 2013 – CD DVD e Blu-ray Eagle Records **** con qualità audio/audio superba e qui mi cito: “anche i “malcapitati” (o fortunati) del Festival di Montreux dopo lo “Smoke On The Water” dei tempi che furono vedono di nuovo il fumo alzarsi dai locali del casinò, ma è quello dell’energia che sprigiona da questo uomo, sempre uguale ma sempre diverso nei sentimenti che ti ispira. Sarà solo Rock’n’roll ma minchia (scusate), che grinta, non ha nulla da invidiare a quella delle origini, voce e chitarra sono ancora oggi incredibili, la bandana non manca mai e lui è sempre una forza della natura https://www.youtube.com/watch?v=wZwHXdUVBuQ , il “solito” George Thorogood, grazie di esistere!” I brani sono più o meno quelli abituali, forse troviamo le inconsuete Rock Party e Tail Dragger, ma confermo quanto detto sette anni fa.”

george thorogood live at rockpalast

Anche per il successivo Live At Rockpalast – Dortmund 1980 – MIG Made In Germany 2CD+DVD ****, ma pubblicato nel 2017, rispolvero quanto scritto nella recensione originale, faccio una cover di me stesso: “per l’occasione siamo a Dortmund, quindi in “trasferta” rispetto alla più famosa location della Grugahalle di Essen, ma comunque anch’essa teatro di memorabili serate dal vivo, preservate per i posteri dalla emittente radiotelevisiva WDR, nella serie Rockpalast. Per la precisione è il 26 novembre del 1980, il nostro amico aveva appena pubblicato quello che sarebbe stato il suo terzo e ultimo album per la Rounder, More George Thorogood And The Destroyers. La prima cosa che colpisce l’occhio è la scelta del repertorio: su 15 brani (sia nella versione DVD, immagini un po’ buie, ma efficaci, come nel doppio CD https://www.youtube.com/watch?v=1zHsAyyS1_Y ), uno solo porta la firma di Thorogood, il resto è una scorribanda nelle pieghe del miglior blues e R&R d’annata, suonato a velocità supersonica, ma quando e dove serve, capace anche di momenti di finezza e abbandono (non molti, ma ci sono)! Chuck Berry, John Lee Hooker e Elmore James sono i più “saccheggiati”, ma tutto il Gotha della grande musica viene omaggiato.” Quindi da allora ad oggi poco è cambiato, se non la forza e la consistenza del suo repertorio. Dopo la lunga pausa dai concerti a causa del Covid il nostro amico è pronto a ripartire non appena la situazione lo consentirà. Direi che è tutto, leggete con attenzione e poi se volete approfondire, con il classico “celo manca” scegliete con cura.

Bruno Conti

E Intanto Sonny Landreth Non Sbaglia Un Disco! Sonny Landreth – Blacktop Run

sonny landreth blacktop run

Sonny Landreth – Blacktop Run – Mascot/Provogue

Molti anni fa Carboni aveva intitolato un suo disco ” E Intanto Dustin Hoffman Non Sbaglia Un Film”: e per lungo tempo questa affermazione era rimasta corrispondente al vero, poi l’attore americano aveva iniziato purtroppo a ciccare film a raffica, ma nella musica ci sono ancora artisti che si attengono a questo credo, penso a Richard Thompson, a Bruce Cockburn e a pochi altri, magari minori ma di culto. Sonny Landreth appartiene anche lui a questa categoria, forse più “artigiano” che Artista con la A maiuscola, il musicista della Louisiana è un virtuoso assoluto della chitarra slide, ma anche come solista la sua discografia si è mantenuta sempre su livelli elevati e costanti, con parecchie punte di eccellenza: per esempio il doppio Recorded Live In Lafayette https://discoclub.myblog.it/2017/07/31/semplicemente-uno-dei-migliori-chitarristi-americani-sonny-landreth-recorded-live-in-lafayette/  e tra quelli recenti anche Bound By The Blues https://discoclub.myblog.it/2015/07/28/slidin-blues-at-its-bestsonny-landreth-bound-by-the-blues/ , ma anche molti CD del passato, a partire da Outward Bound, South Of I-10 e Leevee Town, solo per citarne alcuni, e fino al 2005, quando il produttore era R.S. Field, il motto citato prima era quasi doveroso (per non dire dei dischi di John Hiatt con i Goners, uno più bello dell’altro, dove il bassista era David Ranson, ancora oggi con Landreth).

Questo nuovo Blacktop Run riunisce i due vecchi amici, ed è stato registrato quasi completamente in presa diretta ai Dockside Studios di Vermilion River vicino a Lafayette, Louisiana, con l’appena citato Ranson, Brian Brignac alla batteria e Steve Conn a tastiere e fisa, che ancora una volta affiancano Sonny. L’album è veramente bello, dieci brani in tutto, di cui due che portano la firma di Conn, quattro strumentali ed una varietà di temi ed atmosfere sonore veramente ammirevole, completando l’approccio del doppio dal vivo del 2017, dove c’erano un disco acustico ed uno elettrico, questa volta fonde mirabilmente le due anime sonore di Landreth. In Blacktop Run la canzone c’è un intreccio di acustiche tradizionali e slide, una ritmica intricata, tocchi quasi di musica modale orientale, un cantato rilassato, ma brillante e l’intesa quasi telepatica dei vari musicisti, poi ribadita nella delicata e deliziosa Don’t Ask Me, una sorta di laidback Delta Blues partorito nei dintorni di New Orleans, scritta da Steve Conn che ci suona la fisarmonica interagendo in modo ammirevole con l’acustica slide di Landreth. Lover Dance With M è un sontuoso zydeco rallentato e cadenzato, uno dei suoi incredibili brani strumentali, con Sonny che per l’occasione anziché con il solito bottleneck, lavora con il tremolo della sua chitarra, ed il risultato è filtrato attraverso il Leslie degli altoparlanti con risultati suggestivi.

Groovy Goddess, un altro dei brani strumentali è l’ennesima rappresentazione della prodigiosa abilità alla slide di Landreth, ben sostenuto dalle tastiere di Conn e la complessa Beyond Borders alza ulteriormente la quota improvvisativa, per un brano che in origine doveva far parte del disco del 2008 di duetti From The Reach per un “tete à tete” con Carlos Santana, e che è stato riadattato ai multiformi talenti alle tastiere di Steve Conn, un pezzo jazz-rock preso a velocità vorticose dove tutta la band gira come una macchina perfettamente oliata e gli assoli dei due solisti sono fantastici. Conn è anche l’autore della sinuosa e leggiadra ballata Somebody Gotta Make A Move, cantata molto bene da Sonny che in questo album ha curato con puntiglio anche le parti vocali, come ribadisce un’altra soave ballata elettroacustica come la calda Something Grand, un brano dove, per la prima volta da molti anni, non c’è un assolo di chitarra di Landreth, che lascia la parte solista all’organo di Conn, ma si rifà poi abbondantemente in The Wilds Of Frontier, canzone che nel testo affronta il tema dei cambiamenti climatici e delle crisi ambientali che stanno interessando il nostro pianeta.

Non poteva mancare un brano dove Sonny Landreth si cimenta con i suoni e i ritmi della sua amata Louisiana, come nella incantevole Mule dove la slide “scivola” senza sforzo intrecciandosi con la fisa di Conn in una danza senza fine di amore inquieto a tempo di cajun e zydeco. Quindi per l’ennesima volta il musicista di Canton, Mississippi, ma “Cajun” onorario, c’entra l’obiettivo di fondere tutte le sue musiche, stili ed influenze in un tutt’uno seducente ed irresistibile, una volta di più vivamente consigliato. Dustin Hoffman sarebbe contento: chapeau! Anche questo rientra tra i papabili per i migliori dischi di fine anno del 2020.

Bruno Conti

Da Tulsa, Oklahoma, Un Altro Bravissimo Chitarrista! Seth Lee Jones – Live At The Colony

seth lee jones live at the colony

Seth Lee Jones – Live At The Colony – Horton Records

Tulsa, Oklahoma, è una ridente cittadina del Sud degli Stati Uniti (beh cittadina, insomma, ha quasi mezzo milione di abitanti), famosa anche per la canzone scritta da Danny Flowers per Don Williams, ma resa celeberrima da Eric Clapton. Nella città, già dagli anni ’60 e ’70, esiste una fiorente scena musicale che ha prodotto gente come JJ Cale e Leon Russell, ma che nel corso degli anni si è sempre rinnovata con nuovi innesti. A Tulsa ha la sua sede anche la Horton Records, piccola etichetta che abbiamo conosciuto per gli ottimi lavori di Carter Sampson https://discoclub.myblog.it/2018/06/05/non-e-solo-fortunata-e-proprio-brava-carter-sampson-lucky/ e Levi Parham https://discoclub.myblog.it/2018/07/09/non-posso-che-confermare-gran-bel-disco-levi-parham-its-all-good/  (e in alcuni dei quali Seth LeeJones è uno dei chitarristi), ma che ha un eccellente roster di artisti tra cui spiccano la Paul Benjaman Band, Dustin Pittsley, Jesse Aycock ed altri, e che ha in Jared Tyler, un eccellente musica, produttore ed ingegnere del suono, che guida una pattuglia di musicisti che suonano a rotazione  in molti dei dischi della etichetta.

Anche Seth Lee Jones vive a Tulsa, dove si è costruito una solida reputazione come mastro liutaio, uno dei migliori della zona, grazie alla trentina di chitarre che costruisce ogni anno per gli artisti che gliene fanno richiesta, ma che dopo una lunga gavetta fatta suonando nei piccoli locali, anche lui approda all’esordio discografico, proprio con un disco dal vivo, registrato al Colony, appunto un piccolo locale di Tulsa, dove è stato registrato questo (mini) album di esordio: sono comunque più di 30 minuti di musica, benché a giudicare dalla risposta, peraltro entusiasta del pubblico, non deve essere stato un evento a cui partecipavano più di una trentina di persone, forse cinquanta ad esagerare. Ma il buon Seth non se ne dà per inteso e suona come se fosse di fronte ad un folla oceanica: dotato di uno stile chitarristico irruente e vibrante, è anche un vero virtuoso della slide, e per di più, cosa che non guasta, dotato di una voce potente, roca e vissuta, con echi di Elvis e George Thorogood, cui lo lega un certo tipo di sound ruspante e dalle forti influenze blues e R&R, e a tratti il suo approccio alla chitarra può rimandare, a mio parere, a quello dell’Alvin Lee degli anni d’oro, con lo stile che è contemporaneamente ritmico e solista:

Gli assoli sono in ogni caso continui, freschi, con una tecnica fluida e fluente al contempo, come testimonia subito una gagliarda rilettura di Key To The Highway breve, ma anche frizzante, grazie ad una slide guizzante e alla voce intensa e palpitante di Seth Lee Jones, che poi inizia a scaldare l’attrezzo in una torrida Long Distance Call, dove l’atmosfera è raffinata e sospesa, i tempi si dilatano e la chitarra viaggia che è un piacere nella lunga intro strumentale, grazie anche al suono nitido e molto presente fornito dal tocco di Tyler alla consolle, e agli ottimi Bo Hallford al basso e Matt Teegarden alla batteria, con la voce che si fa più cattiva e lavora di concerto con la solista, che continua ad improvvisare lunghi assoli di quasi ferina e fremente intensità. Ma c’è anche un tocco quasi jazz e più rilassato in Payday, con una ambientazione sonora più pigra e dai sapori sudisti, grazie ai continui rilanci della solista in bilico tra slide ed accordatura normale e al cantato più rilassato, prima però di partire per un finale a tutto power trio di grande slancio.

Shake Your Tree sempre con il suo approccio ritmico-solista è più mossa e vivace, con echi di R&R e un ondeggiante lavoro della sezione ritmica, mentre Hard Times è la classica blues and soul ballad di fattura squisita, sempre con voce e chitarra che lavorano quasi all’unisono, grazie anche al vivido timbro della solista che pesca in sentimenti  accesi e ricchi di passione.110, come altri brani, ricorda parecchio anche lo stile di Sonny Landreth, che potrebbe essere un punto di riferimento per inquadrare la musica di Seth Lee Jones, pure se la voce bassa e profonda è più vicina a quella del datore di lavoro di Sonny, ovvero John Hiatt, anche se il risultato è decisamente più blues. Comunque lo si giri è uno bravo, se amate il genere vale la pena di dargli (più) di un ascolto.

Bruno Conti

Uno Dei Dischi Rock (Blues) Più Belli Dell’Anno! Damon Fowler – The Whiskey Bayou Session

damon fowler the whiskey bayou session

Damon Fowler – The Whiskey Bayou Session – Whiskey Bayou Records

Sono passati 4 anni dall’uscita di Sounds Of Home, album che chiudeva il suo contratto di tre dischi con la Blind Pig Records https://discoclub.myblog.it/2014/01/20/suoni-casa-tab-tanta-slide-damon-fowler-sounds-of-home/ , eccellente lavoro che evidenziava, come i precedenti, le virtù di chitarrista, cantante e compositore, nell’ordine, di Damon Fowler, nativo di Brandon, Florida, ma da anni residente in quel di New Orleans, un uomo del Sud degli States, come testimonia anche il bellissimo disco dei Southern Hospitality, la band che condivide con JP Soars, Victor Wainwright, Chris Peet e Chuck Riley, il cui disco del 2013 Easy Livin’, come pure Sounds Of Home, era stato prodotto da una delle punte di diamante della musica blues e rock della Louisiana come Tab Benoit. Negli anni successivi Fowler ha fatto parte anche della touring band di Butch Trucks, fino alla sua tragica scomparsa, e poi è stato chiamato da un altro grande ex Allman Brothers come Dickey Betts, che però, come forse avrete letto ha avuto grossi problemi di salute e quindi ha dovuto interrompere la propria attività.

Comunque nel frattempo Damon si è ricongiunto con Benoit che gli ha proposto un contratto per la sua piccola etichetta, e il disco che nasce ha preso proprio il nome di The Whiskey Bayou Session, in omaggio all’etichetta e agli Houma Louisiana Studios dove è stato realizzato. Sono  con Fowler i bravissimi Todd Edmunds al basso e Justin Headley alla batteria, con l’aggiunta di Tab Benoit, che oltre a produrre il disco suona la chitarra in tre pezzi e firma con Fowler sei brani. Il disco è un ennesimo gioiellino della discografia del nostro amico, che in questo nuovo CD  non ha perso il suo magico tocco a Fender Telecaster, slide e lap steel, di cui è un vero virtuoso, in più ha anche un gran voce, vibrante ma con sottili tonalità soul, melodica e grintosa al tempo stesso. Il suo timbro di chitarra oscilla tra la grinta di Johnny Winter, la classe di Duane Allman, e in ambito slide Lowell George o Ry Cooder , quindi tra blues, rock e soul. Il suono creato da Benoit è splendido: nitido, con gli strumenti ben definiti e la chitarra di Fowler messa sempre in primo piano, sembrano quei vecchi dischi Stax o Capricorn, dove le chitarre di Duane Allman o Eddie Hinton si innestavano su groove ritmici paradisiaci alla Muscle Shoals, come nell’iniziale It Came Out Of Nowhere dove la voce nera e scurissima, poi lascia spazio alla solista limpidissima di Fowler, mentre la sezione ritmica va di carnoso errebì alla grande.

Fairweather Friend è un altro limpido esempio di rock-blues sudista con Damon che maramaldeggia nuovamente con la sua Telecaster letale che disegna traiettorie soliste di classe sopraffina e con un suono da leccarsi i baffi; Hold Me Tight è un brano scritto dal giamaicano Johnny Nash (ve lo ricordate, quello di I Can See Clearly Now?), che diventa un galoppante country got soul dalla melodia accattivante. Up The Line è un brano di Little Walter Jacobs, un incalzante rock-blues sporco e cattivo, basso rotondo e batteria agile, e poi la chitarra che entra come un coltello nel burro, fluida e pungente come solo i grandi solisti sanno fare.  Ain’t Gonna Rock With You No More della premiata ditta Fowler/Benoit è un bluesaccio con uso slide come se fossero tornati i vecchi Little Feat più assatanati di Lowell George, con il bottleneck che scivola senza freni, mentre per Just a Closer Walk with Thee Fowler imbraccia la sua lap steel sognante per un tuffo gospel nel sacred steel sound più mellifluo e sinuoso, cantato con fervore estatico https://www.youtube.com/watch?v=pitbNXOz80A .

Pour Me è un altro blues-rock trascinante con le due chitarre di Fowler e Benoit in pieno trip sudista, di nuovo in modalità slide quella di Damon, poi tocca a Holiday,  altro pezzo rock splendido, sembrano i Dire Straits di Sultans Of Swing, brano che va di rock swingato, ma anche con continui cambi di tempo, sarà old school, ma ragazzi se suonano https://www.youtube.com/watch?v=v_EPBx_-gnA  e lui come canta, con un assolo di chitarra da dichiarare illegale. E non è finita, Running Out Of Time ha un altro groove di pura matrice sudista, semplice e orecchiabile, ma il lavoro della solista è sempre sopraffino, Candy è un duetto country-blues tra le chitarre acustiche di Fowler e Benoit, con Damon che estrae dal cilindro un timbro suadente da storyteller , e per concludere in bellezza tocca ad un altro brano dove domina il suono dolcissimo della lap steel , tra western swing, tocchi hawaiani e sonorità impossibili, per una Florida Baby dall’impianto veramente laidback. Fatevi un favore, cercate questo disco.

Bruno Conti

Torna Il Miglior Chitarrista Slide Australiano. Dave Hole – Goin’ Back Down

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Dave Hole – Goin’ Back Down – Black Cat Records/Dave Hole Music    

Ammetto che me lo ero perso un po’ per strada: ma pensavo si fosse ritirato, invece Dave Hole per circa sei mesi all’anno si spostava ancora dall’Australia, dove vive tuttora, per fare sia dei tour down under che in giro per il mondo, ma ultimamente ha diradato anche quelli. Però era comunque dal 2007, anno in cui era uscito Rough Diamond e prima ancora dal Live del 2003, che non pubblicava nulla di nuovo. Anche lui ha compiuto 70 anni da poco, benché appaia ancora battagliero e per questo nuovo Goin’ Back Down, che ha richiesto una lunga gestazione di oltre tre anni, si è finanziato da solo, ha costruito addirittura uno studio per registrarlo, sì è fatto da ingegnere dal suono e lo ha prodotto in proprio, e infine, a parte in tre brani, ha suonato anche tutti gli strumenti.  Molti brani originali e una cover per uno dei migliori chitarristi slide australiani, ancorché nato in Inghilterra, e non è che ne ricordi molti altri laggiù, ma questo non ne diminuisce la bravura e la tecnica. Non sono un grande estimatore delle registrazioni” fai da te” in solitaria, specie se prevedono l’uso di samples e drum loop, ma visto che il nostro amico non fa certo musica elettronica il suono rimane comunque abbastanza organico e pimpante, come indica subito una gagliarda Stompin’ Ground posta in apertura e dove la slide viaggia sinuosa e sicura, come pure la voce ancora valida e vicina alle sue radici blues https://www.youtube.com/watch?v=lg4F4ZB-mAg .

Forse il suono, viste le premesse, è un po’ troppo secco e rudimentale, ma niente di insopportabile, la brillante Too Little Too Late ha un groove decisamente più duro e tirato, ci sono molte chitarre e voci, tutte a cura di Hole, ma poi a ben vedere il tutto è incentrato sui continui soli e rimandi del buon Dave, che è ancora un manico notevole, e sa estrarre dalla sua solista interessanti divagazioni sonore. The Blues Are Here To Stay prevede la presenza del suo vecchio pianista Bob Patient, di Roy Martinez al basso e del batterista Ric Eastman, e l’andatura quasi country-rock, un po’ Albert Lee e un po’ Elmore James, conferma l’autenticità blues del nostro amico, che con il bottleneck è in effetti uno dei migliori su piazza e lavora veramente di fino alla slide in una continua serie di assoli. Measure Of A Man dove suona una National dal corpo di acciaio è decisamente più cadenzata e tradizionale, per un brano chiaramente ispirato da Robert Johnson, ma anche con qualche cadenza vagamente orientale e folk, mentre lo strumentale Bobby’s Rock, anche con un sax aggiunto , torna al suono dell’amato Elmore James, più vintage e ruspante.

Used To Be è il classico slow blues che non può mancare in un disco di Hole, chitarra fluida e lancinante, il sax di Paul Mallard di supporto e anche il piano che lavora sullo sfondo, gran bel pezzo, più di sei minuti di ottima musica, seguita dalla cover poderosa del classico di Elmore James Shake Your Moneymaker, di nuovo  a tutta slide, tra Thorogood e i vecchi Fleetwood Mac a guida Jeremy Spencer https://www.youtube.com/watch?v=iPxcfVY8OK4 . Arrows In The Dark non c’entra molto con il resto del CD, chitarre riverberate alla Shadows o Rockpile, e suono appunto alla Dave Edmunds/Nick Lowe misto a pop britannico anni ’60 https://www.youtube.com/watch?v=LzD0epS59qo , ma si torna subito a ragionare con una robusta Back Door Man, anche se il suono sintetico da one man band in questo caso non aiuta il pezzo, che si salva comunque grazie ai soliti virtuosismi funambolici alla slide https://www.youtube.com/watch?v=PohQi0jpTMI . Altra deviazione dal repertorio blues per una inconsueta ballata,Tears For No Reason, molto da cantautore intimista, con cello aggiunto e chitarra acustica arpeggiata, su lidi folk non usuali per il bluesman australiano, ma non disprezzabile https://www.youtube.com/watch?v=4TBroHpSeDs , che ritorna comunque alle sue frenesie blues per la title track Goin’ Back Down che in effetti sembra la ripresa dell’iniziale Stompin’ Ground, ancora minaccioso e granitico rock-blues in cui Hole eccelle.

Bruno Conti

Ancora Uno Che Di Slide Se Ne Intende! Roy Rogers – Into The Wild Blue

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Roy Rogers – Into The Wild Blue – Chops Not Chaps Records 

Lo avevo lasciato un paio di anni fa alle prese con l’ultimo disco registrato in collaborazione con Ray Manzarek (il terzo della serie http://discoclub.myblog.it/2013/07/08/ray-manzarek-roy-rogers-atto-finale-twisted-tales-5497222/ ) e ora Roy Rogers si ripresenta con questo nuovo album Into The Wild Blue, pubblicato come di consueto dalla sua etichetta Chops Not Chaps (che era anche il titolo del suo primo album solista uscito nel lontano 1986), ma in mezzo, e anche prima, c’è tutta una vita di blues (e non solo). Il musicista californiano, è nato a Redding, quasi un destino nel nome, muove i primi passi a metà degli anni ’70, poi forma la sua prima band, i Delta Rhytm Kings, viene “scoperto” da John Lee Hooker che lo vuole nel suo gruppo dei tempi, la Coast To Coast Band, dove passa quattro anni, prima di iniziare la carriera solista con l’album citato prima. Ma la sua collaborazione con il grande “Hook” non finisce lì, infatti Rogers gli produrrà quattro album, The Healer, Mr. Lucky, Boom Boom e Chill Out, non un granché l’ultimo, ma gli altri tre sono strepitosi, prima di lasciare a Van Morrison la produzione dell’ultimissimo Don’t Look Back. Comunque Mr. Rogers è un ottimo chitarrista (e cantante) anche in proprio: uno dei maestri della slide guitar delle ultime generazioni, assolutamente alla pari con gente come Ry Cooder, Sonny Landreth, Derek Trucks, anche se meno pirotecnico e virtuosistico nel suo approccio, quindi forse più vicino a Cooder; anche per lui, come quasi per tutti, i suoi album migliori risalgono al passato, tutti quelli con la parola Slide nel titolo, ma anche i due pubblicati dalla Point Blank negli anni ’90, e non è male, tra i più recenti, Split Decision, uscito per la Blind Pig nel 2009, il suo ultimo come solista prima di questo Into The Wild Blue, senza dimenticare quello registrato in coppia con il compianto Norton Buffalo.

 

Il nuovo album propone la solita formula dei dischi di Roy Rogers, un misto di stili, dove confluiscono varie forme di blues, irrobustite da innesti rock e funky, con una serie di brani strumentali, quattro questa volta e il suo stile chitarristico spesso in evidenza, ma senza esagerare. Rogers è anche un buon vocalist, niente di memorabile, si scrive le proprie canzoni e ha un buon gruppo dove spiccano il tastierista Jim Pugh, vecchio sodale di Robert Cray e anche il batterista Kevin Hayes, pure lui in passato con Cray, oltre a Carlos Reyes che con i suoi violino e arpa aggiunge sonorità inconsuete al tutto. Si parte alla grande con Last Go Round, un brano dove si gusta subito la slide di Roy Rogers, in bella evidenza con il suo sinuoso fluire, mentre la band gira a mille, con abilità e tecnica, senza strafare. Don’t You Let Them Win, con un bel groove ritmato tra Buddy Holly e Bo Diddley, la voce pacata e gradevole di Rogers, con Reyes all’arpa che appoggia le fluide evoluzioni chitarristiche di Rogers, per una volta non alla slide, e Pugh che con l’organo aggiunge quel tocco soul-rock in più, molto piacevole.

Got To Believe, ha un’aura latineggiante, ma anche un vago sentore di tango, con il violino di Reyes e la voce di supporto di Omega Rae ad aggiungere quel tocco esotico di cui si diceva qualche riga fa, poi ci pensano la slide sognante di Roy e il piano di Pugh a fare il resto https://www.youtube.com/watch?v=CW9jqlKzHeU . Losin’ You è uno dei pezzi più tirati e rock dell’album, con un tiro non dissimile dalle prove soliste dei dischi di Sonny Landreth e anche con pari virtuosismo, qui la slide viaggia alla grande, mentre She’s A Real Jaguar ricorda certe cose più rilassate, laid-back, di Ry Cooder, magari nelle collaborazioni con Hiatt e nei Little Village, sempre con il piacevole dualismo tra violino e chitarra https://www.youtube.com/watch?v=jrUCll6Cr9s . Dackin’ è il primo dei quattro strumentali, qui si va di groove funky, una voglia di jam tra la chitarra slide decisa di Rogers e l’organo di Pugh e anche Love Is History, di nuovo cantata in coppia con la Rae, rimane in territori funky-soul, questa volta con Pugh al piano a sostenere il solismo di Rogers. Into The Wild Blue, altro strumentale, più sognante, con i florilegi dell’arpa di Reyes a sostenere il leader, con High Steppin’ che ricorda nuovamente le scorribande al bottleneck di Landreth, ricche di tecnica anche se non particolarmente eccitanti. Dark Angels torna  al blues-rock deciso dei brani iniziali e la conclusiva Song For Robert, dedicata al fratello scomparso, è l’ultimo strumentale, questa volta un lento d’atmosfera dove si apprezza il lato più riflessivo della musica di Roy Rogers https://www.youtube.com/watch?v=7ihaCZYmDh8 . In definitiva un buon album, per amanti dei chitarristi, ma non solo!

Bruno Conti

Di Nuovo Effetti Slide! Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’

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Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’ – Ron Hacker

Nell’ultimo periodo, puntuale, ogni due anni circa, Ron Hacker si (ri)presenta con un nuovo album, e noi, altrettanto tempestivi, ve ne diamo conto. Dopo gli ultimi, notevoli, Filthy Animal e Live In San Francisco http://discoclub.myblog.it/2013/01/12/l-arte-della-slide-ron-hacker-live-in-san-francisco/ , il musicista della Bay Area (ma originario di Indianapolis, 70 anni quest’anno) ci propone, nella consueta formula del trio, la sua personale visione del Blues, e lo fa rivisitando, in questo Goin’ Down Howlin’, molti classici delle 12 battute, invertendo il programma tipico delle sue esibizioni, concertistiche e discografiche, dove abitualmente si ascoltava una serie di brani della stesso Hacker, arricchita da alcun cover, scelte con cura nel repertorio sterminato del blues. Per l’occasione il vecchio Ron apre il nuovo album con due brani che portano la propria firma e poi rilegge una serie di canzoni famose di Sleepy John Estes, due brani, Little Walter, Jimmy Reed, Fred McDowell, Chuck Berry, St. Louis Jimmy Oden, e Chester Burnett (aka Howlin’ Wolf), a cui si ispira il titolo del CD. Come ricorda nelle note la figlia Rachell (con due l, così chiamata in onore del mentore di Hacker, Yank Rachell), la musica di questi musicisti è stata la colonna sonora della sua vita, fin dall’infanzia, e se agli altri bambini cantavano ninne nanne, lei si trovava a canticchiare Miss You Like The Devil di Slim Harpo, un brano composto quasi 100 anni prima. Quindi le sembra giusto e doveroso che il babbo abbia voluto rendere omaggio ai grandi musicisti blues che lo hanno preceduto.

Armato della sua immancabile chitarra d’acciaio e di un bottleneck, come riporta la foto di copertina, aiutato da Artis Joyce al basso e da Ronnie Smith alla batteria, e con la sua inconfondibile voce vissuta, Ron Hacker ci regala dieci perle di blues classico (una in due versioni), con due brani acustici, posti in apertura e chiusura, che incapsulano questo disco, tra i migliori della sua discografia. Si apre con Evil Hearted Woman, solo voce e chitarra, e poi si comincia a rollare, con il boogie scatenato di Big Brown Eyes, dove la slide del titolare inizia a macinare note con la consueta grinta e maestria. La prima cover è un adattamento dello stesso Hacker di Hate To See You Go, un brano di Little Walter, dalla classica costruzione sonora, che conferma l’impressione che per l’occasione Ron abbia trattenuto la sua proverbiale furia sonora, brani più brevi del solito, al solito infarciti di soli, però meno selvaggi e irrefrenabili del solito. Impressione confermata nella successiva Axe Sweet Momma, il primo dei brani a firma Sleepy John Estes, qui reso in una versione elettrificata dove si apprezza, come sempre, la slide del titolare, mentre Baby What You Want Me To Do è uno dei brani più famosi di Jimmy Reed e del blues tutto, eccellente la versione presente nell’album, come pure quella di You Got To Move, brano di Fred McDowell, già apparso in altri dischi di Hacker, per esempio in Filthy Animal, dove era attribuito a Memphis Minnie, per l’occasione in versione solo voce e chitarra slide.

Nadine, di Chuck Berry ovviamente, richiede una veste elettrica più tirata e il nostro Ron non si tira indietro, anche se fino a che non si scatena al bottleneck, la prima parte sembra un poco con il freno a mano tirato. Come ricorda il titolo, Goin’ Down Slow, è uno dei grandi “lenti” del blues, prima in versione elettrica, eccellente, e poi in chiusura, acustica, brano famoso anche nella versione di Howlin’ Wolf, e che nel corso degli anni hanno suonato tutti, da B.B. King agli Animals, i Canned Heat, gli stessi Led Zeppelin la suonavano live nel medley di Whole Lotta Love, come riportato nel bellissimo How The West Was Won, ma anche Duane Allman, Eric Clapton, Jeff Beck, tutti i grandi chitarristi l’hanno suonata, poteva mancare la versione di Ron Hacker? Che poi rende omaggio anche all’appena citato Chester Burnett con una sapida Howlin’ For My Darlin’ e chiude con una scoppiettante Goin’ To Brownsville che più che a Sleepy John Estes sembra appartenere ad Elmore James per la sua profusione di effetti slide.

Bruno Conti  

“Business As Usual” Per Eric Sardinas And Big Motor – Boomerang

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Eric Sardinas And Big Motor – Boomerang – Jazzhaus Records

L’unica cosa nuova in questo ennesimo album di Eric Sardinas è la casa discografica. Per il resto è “business as usual” per il chitarrista di Fort Lauderdale, Florida: stesso produttore dei dischi precedenti Matt Gruber, la band è sempre quella dei Big Motor, con Levell Price al basso e Bryan Keeling alla batteria, non cambiano neppure la grinta e la passione di Sardinas per quel Rockin’ Blues che lo ha portato ad essere indicato, da alcuni, come l’erede di Johnny Winter. Come al solito non manca neppure l’immancabile Resonator dal corpo d’acciaio, suonata con il bottleneck, mentre, per fortuna, rispetto al precedente Sticks And Stones, spariscono coretti femminili e tastiere, a parte in un brano, non malvagio peraltro anzi, Bad Boy Blues, dove sono suonate da Dave Schulz, e un bell’organo Hammond dà contegno ad un brano che si avvicina parecchio anche all’attitudine sonora del miglior Thorogood, altro praticante dello stile in oggetto https://www.youtube.com/watch?v=UT5jFe94Cr4 . Dieci brani compatti e grintosi per 35 minuti di sano blues-rock dove il buon Eric si alterna tra i vari tipi di chitarre resofoniche, acustiche ed elettriche, come nell’iniziale Run Devil Run, dove la slide viaggia subito che è un piacere e il vocione di Sardinas rafforza questo déjà vu di un Winter resuscitato a nuova vita, anche se forse, anzi senza forse, Johnny Winter era pur sempre di un’altra categoria.

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Però il rock’n’roll di Boomerang, la canzone, è sempre poderoso come in passato, senza mettere troppo in primo piano il “tamarro” che si agita nel suo animo, o almeno solo la parte buona, quella che ama blues e R&R, e come dicono le note “Respect Tradition”! Ogni tanto gli piace lasciarsi andare e Tell Me You’re Mine è una costruzione quasi hendrixiana, con pedale wah-wah innestato a manetta, la solita bottleneck immancabile e chitarre ovunque, ma in fondo è quello che ci si aspetta da lui https://www.youtube.com/watch?v=qL8fIFd1Xmc . Nei primi dischi, come Treat Me Right e Devil’s Train probabilmente gli veniva meglio, o forse è solo un ricordo del vostro cronista, ma non credo, anche se non sono andato a risentirmi i vecchi dischi, la Alzheimer non ha ancora colpito. In Morning Glory si produce al dobro resonator acustico per un tuffo più consistente nella tradizione, detto di Bad Boy Blues, in fondo uno dei brani migliori, If You Don’t Love, con una bella intro acustica, ha la struttura di una sorta di ballata blues che si elettrifica comunque quasi subito, pur se ci sono tentativi di unire la melodia alla solita forza bruta, qualche coretto inconsueto e la solita ottima performance chitarristica.

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Trouble è proprio il vecchio brano di Elvis, scritto da Leiber & Stoller, uno dei rari blues del King Of Rock And Roll, e ad oltre 55 anni dalla sua prima apparizione fa ancora la sua porca figura, compresa la fantastica accelerazione finale che coincide con una esplosione solista segna dei migliori brani di Sardinas https://www.youtube.com/watch?v=pquPpp9-arA . Preso questo abbrivio R&R il nostro lo mantiene per una gagliarda Long Gone, niente di nuovo in vista, ma i Big Motor ci danno dentro di gusto e il buon Eric sembra più motivato che in altre occasioni. A riprova e a coronamento del tutto, da sentire una bella versione di quelle “cattive” del classico How Many More Years di Chester Burnett,  per tutti Howlin’ Wolf, meno dura di quella di Zeppelin e Co., ma sempre ad alta gradazione chitarristica, con la solista di nuovo in modalità wah-wah più slide, che picchia di gusto https://www.youtube.com/watch?v=D47RU3rF76s  (o con mancanza di gusto, a seconda dei punti di vista, soprattutto per i “puristi” che non amano troppo queste contaminazioni “selvagge ed esagerate”). A questi ultimi Eric Sardinas regala in conclusione una breve Heavy Loaded,con dobro acustico, kazoo e sezione ritmica minimale, quantomeno inconsueta.

Bruno Conti

Discepoli Winteriani. Jay Willie Blues Band – Rumblin’ And Slidin’

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Jay Willie Blues Band – Rumblin’ And Slidin’ – Zoho Music

Nella nostra ricerca geografica in giro per gli Stati Uniti, alla ricerca di gruppi che fanno Blues, mi sembra che dalle parti del Connecticut non fossimo ancora passati: o almeno di una band ivi residente, in quanto poi la Jay Willie Blues Band dichiara di fare Texas Blues, e da quello che si ascolta si potrebbe forse credergli, vista anche la presenza in formazione di Bobby T Torello, uno dei batteristi storici di Johnny Winter, aggiunta ad una certa qual venerazione per la musica di quest’ultimo. Rumblin’ And Slidin’ è il terzo album di questo quartetto  https://www.youtube.com/watch?v=Jkm5q6fNdrw che vede le due chitarre di Jay Willie, anche alla slide e Bob Callahan, alla guida delle operazioni e un paio di ospiti di qualità a dare man forte, l’ottimo Jason Ricci all’armonica in alcuni brani e Suzanne Vick che canta Fly Away, uno dei brani più noti di Edgar Winter https://www.youtube.com/watch?v=vcFNzuKsBHY .

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D’altronde un CD che parte con Rumble di Link Wray e si chiude con con For What It’s Worth di Stephen Stills, per definizione “dovrebbe” essere buono. Sono dieci brani, che spaziano in tutte le tematiche del Blues, quello “forte” e quattro bonus dal vivo poste in coda del dischetto. Loro lo hanno definito Texas Blues Music ma tra le influenze, oltre a Winter, citano anche la J Geils Band, Elvin Bishop, Canned Heat, Leslie West, che certo texani non sono, e tra i meno noti, James Montgomery e i Monkey Beat di Jim Suhler, oltre naturalmente ai grandi delle dodici battute, e per questo nelle note del libretto si parla anche di “electric post-Chicago rock-blues” (questa me la segno)! https://www.youtube.com/watch?v=3pTNhUvXUQA

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In effetti, ricorda Torello, Johnny Winter gli disse più volte che non era capace di suonare il blues e come il suo stile venisse più dagli Allman Brothers che dal blues classico, più che un rimprovero un complimento, a mio modo di vedere, ma sono punti di vista. La recente aggiunta alla formazione è il bassista Steve Clarke https://www.youtube.com/watch?v=T33kDhvoirs , uno che ha suonato con Mike Stern, Yellow Jackets, Tower of Power, e quindi aumenta la quota funky-fusion della band. Ma si nota poco, almeno a giudicare dall’iniziale cover di Rumble https://www.youtube.com/watch?v=4RQK6JSPISk , dove il turbolento drumming di Torello si scontra con la fluentissima armonica di Ricci, un vero virtuoso dello strumento, più dalle parti di John Popper che dei nomi classici, con le chitarre che si limitano ad una coloritura del brano. Ma già in Dirty la slide di Jay Willie cerca di farsi largo, in un brano che però non pare memorabile, tra voci filtrate ed accenni di rap, molto meglio una lunga versione di Key To The Highway, dove i duelli tra le chitarre e l’armonica sono più pertinenti al genere, anche se il problema è quello solito, né Willie Callahan hanno una gran voce, quindi il paragone con la J Geils Band, dove c’era Peter Wolf o i Canned Heat, con Bob Hite e Alan Wilson, è francamente improponibile, ma livello musicale parzialmente ci siamo https://www.youtube.com/watch?v=vnrm-I3H4o8 .

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In Bad News di Callahan, più sul R&R, si aggiunge il sax di Ted Stakush in sostituzione dell’armonica, mentre Rotten Person, scritta e cantata da Torello, vira verso il Sud con una bella slide, ma quando arriva qualcuno che ha una bella voce, come Suzanne Vick, si sente la differenza, nella piacevole ballata di Edgar Winter, Fly Away, con l’armonica di nuovo in bella evidenza, magari poco blues ma godibile, ancorché non memorabile. Altri due brani di Bob Callahan, Come Back, una blues ballad e il funky di The Leetch, si salvano grazie agli interventi dei solisti ma non brillano https://www.youtube.com/watch?v=3NMaw-xHBN8 , più vitale il classico It Hurts Me Too, in una versione che peraltro non entrerà negli annali della musica. Caballo, finalmente, è quel Texas rock-blues di cui tanto si era parlato, grintoso ed energico, come sono i quattro brani finali dal vivo, registrazione meno brillante ma il suono si fa più sporco e vitale, prima in Hold Me Tight Talk Dirty, con le chitarre finalmente fumiganti, in una ottimaTore Down https://www.youtube.com/watch?v=8vd0PgMREHU , nel classico Rhythm & Blues della Mercy, Mercy, Mercy scritta da Joe Zawinul per Cannonball Adderley e che si avvale del sax di Stakush, e nella citata canzone di Stills, più rock dell’originale, ma che non turberà i sonni dell’autore.

Bruno Conti

Un Altro “Maghetto” Del Collo Di Bottiglia! Nikk Wolfe – Slide Stormin’

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Nikk Wolfe – Slide Stormin’ – Wolves At The Door

Nikk Wolfe è l’ennesimo veterano che sbuca dai meandri del sottobosco musicale Americano, area rock-blues, uno dei tantissimi animati da una passionaccia per la musica sin dalla più tenera età, spesa inizialmente nelle grandi pianure del Nord Dakota, poi per seguire i suoi istinti, accesi dall’ascolto di Robert Johnson negli anni formativi, si trasferisce, prima a Portland, Oregon e poi nelle Twin Cities, dove cerca di sbarcare il lunario con la musica. Visto che le cose non funzionano decide di abbandonare, ma come racconta lui stesso, spronato dall’ascolto di South Of I-10 di Sonny Landreth decide di fare un nuovo tentativo, si trasferisce nel Wisconsin con la nuova partner (e consorte) Kai Ulrica, conosciuta ad una audizione, e fonda il gruppo dei Wolves At The Door (da non confondere con degli omonimi metallari) si affida al produttore Kevin Bowe (che ha lavorato con Jonny Lang, Shannon Curfman, Etta James, tra i tanti) e pubblica un paio di album a nome della band https://www.youtube.com/watch?v=TD-JQLEad-E .

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Poi gli viene in mente di fare un album tutto dedicato alla slide guitar, da qui il titolo Slide Stormin’, ingaggia Mike Vlahakis, tastierista e collaboratore in passato della famiglia Allison (Luther e Bernard), pure il bassista di Bernard, Jassen Wilber, suona nell’album, insieme ad alcuni musicisti locali https://www.youtube.com/watch?v=Wy91eweeJNc . Il risultato è un onesto disco di rock-blues: come Landreth, Wolfe non è un gran cantante, quella brava in famiglia è la moglie Kai, come si arguisce dalla sua presenza come backing vocalist, comunque il nostro Nikk se la cava, con questa voce che vira molto verso le note basse, poco potente, ma grintosa, quasi laconica, in certi momenti ricorda vagamente quella del grande Lou Reed, sentire Nothin’ But Trouble o Blues From Baton Rouge, però la musica è bella tirata, la slide viaggia che è una meraviglia, ottime le evoluzioni nello strumentale Slide Stormin’, che dà il titolo a questa raccolta, l’organo e il piano di Vlahakis sono molto presenti, l’organo in particolare ha uno strano suono, mentre ascoltavo il CD, ogni tanto mi sembrava di sentire suonare il telefono di casa.

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Insomma non è un disco per cui strapparsi i capelli (e dalle foto non mi pare ne abbia molti, più cappelli) e se accetta un consiglio gli direi di tornare a fare dischi con i Wolves At The Door (un terzo è in cantiere), a giudicare dalla’ultima canzone, Fortune’s Wheel, uno slow blues cantato proprio dalla moglie Kai Ulrica, dai risultati, che anche in questo caso, intendiamoci, non sono niente di trascendentale, però, almeno a livello vocale sembrano decisamente migliori. Se ve lo sparate a volumi congrui, ovvero decisamente alti, magari in macchina, su una delle nostre highways, potreste passare trequarti d’ora più che piacevoli in compagnia di un vibrante rock tendente al blues, animato da una miriade di soli di slide, che sono il motivo principale del fascino di questo disco, influenzato ed ispirato oltre che da Landreth, da gente come Johnny Winter e Dave Hole, come lui virtuosi dell’attrezzo. Come si diceva poc’anzi, non un capolavoro ma si può fare, cresce dopo vari ascolti.

Bruno Conti