Dopo Due Decadi Sono Ancora In Ottima Forma! Solas – All These Years

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Solas – All These Years – THL Records

Questo disco è uscito lo scorso anno (in occasione del ventennale della band) a distanza di quattro anni dall’ottimo Shamrock City, e come sempre (anche se in ritardo, ma è di difficile reperibilità, venduto solo da loro) se il disco merita ne parliamo. All These Years è il dodicesimo album dei Solas, che si presentano con l’attuale “line-up” del gruppo composta ancora dai membri fondatori Seamus Egan (flauto, banjo, chitarre, bodhran, mandolino), Winifred Horan (violino e voce) che costituiscono la spina dorsale del gruppo, senza dimenticare i membri di lunga data come Eamon McElholm (chitarre, tastiere. piano e voce), Mick McAuley (fisarmonica e voce), e la nuova entrata la brava Moira Smiley (banjo e voce), con la partecipazione di alcuni membri storici del passato, a partire dalla storica cantante Karan Casey,ma anche John Doyle, John Williams, Donal Clancy, Deirdre Scanlan, Mairead Phelan, Noriana Kennedy, e Niamh Varian Barry, a confermare che sono stati (e lo sono ancora oggi) uno dei gruppi più influenti nella storia della musica irlandese (anche se ufficialmente si sono formati in America).

La prima traccia del lavoro, lo strumentale e vivace Roarie Bummlers, è l’ennesimo esempio della capacità della band di riuscire a fondere magistralmente stili vecchi e nuovi, pezzo a cui fa seguito un brano tradizionale Standing On The Shore , una ballata morbida cantata al meglio e accompagnata dagli archi, presenti pure nella bellissima e struggente Lay Me Down, eseguita solo piano e voce da Moira e dal violino della signora Horan,  per poi tornare ad un medley di “jigs” con i tradizionali Lucy Locket’s / The Quiet Pint / The Sleepy Sailors. Si riparte con un altro brano tradizionale Wandering Aengus, con la voce solista di Noriana Kennedy inserita su un intrigante tessuto “bluegrass”, andando poi a ripescare un brano del gruppo sixties americano come gli Youngbloods, con una suntuosa cover di Darkness Darkness, farci muovere il piedino con il valzer di Lost In Quimper e i danzanti “reels” Unnamed Shetland Reel / Da New Rigged Ship. Uno dei punti più alti del disco è sicuramente la magnifica e tragica ballata repubblicana (racconta la morte di un giovane ribelle) Padraig Og Mo Chroi, raccontata dalla soave voce della brava Deirdre Scanlan e arrangiata con il tradizionale suono irlandese; seguita da due cover di “signore” del folk americano, una Not Alone della nota Patty Griffin, cantata con la solita maestria da Karan Casey, e una dolce e sussurrata Little Bird Of Heaven della meno nota, ma altrettanto brava, Martha Scanlan interpretata da Mairead Phelan, a cui fa seguito una fantastica “jig” Mr. And Mrs. Walsh.

L’ultima parte dell’album comprende una classica “Appalachian song” come As I Went Out Walking dove spiccano ancora la voce della Smiley e il magico  violino della Horan, seguita dal vecchio tradizionale Willie Moore (un’altra tragica storia di amore e omicidio), che si avvale della voce di Niamh Varian Barry, omaggiare la grande Bothy Band (storica formazione irlandese degli anni ’70) con una versione corale di Sixteen Come Next Sunday, e concludere con il bel valzer strumentale firmato da Seamus Egan All These Years, un degno e struggente finale con il violino di Horan a duettare con il piano di Egan.

A distanza di vent’anni dal loro esordio nei fumosi pub irlandesi di New York, i Solas sono ancora in pista ad alimentare la passione per la loro musica (nonostante i vari cambi di formazione),  a dimostrare che la musica “celtica” oggi è un linguaggio universale come il rock, la classica, il jazz, e il ripetuto ascolto di questo All These Years (che miscela tradizionale e moderno con riuscite cover), dà la netta sensazione che vecchi amici sono tornati insieme per fare ancora una volta grande musica, che parte principalmente dal cuore e dall’anima. Per quelli che sono stati “fans” dei Solas nel corso degli anni (come chi scrive), semplicemente questa è la migliore musica “tradizionale” irlandese, suonata da una delle migliori band “tradizionali” irlandesi in giro per il mondo.

Tino Montanari

Sprazzi Di Gran Classe! Linda Thompson – Won’t Be Long Now

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Linda Thompson – Won’t Be Long Now – Pettifer Sounds/Topic

Linda Thompson non è mai stata una artista prolifica, quattro album in trenta anni di carriera solista (più due raccolte di materiale inedito, sublimi) lo stanno a testimoniare. Ma la qualità della sua produzione è sempre stata elevatissima, in grado di rivaleggiare con quella realizzata in coppia con l’ex marito Richard, alcuni dischi veramente superbi, tra i migliori della storia del rock (e del folk) d’autore, il primo e l’ultimo in particolare, I Want To See The Brights Lights Tonight e Shoot Out The Lights, dove cala il sipario sulla loro vita sentimentale ed artistica, il divorce album per eccellenza: ma tutta la discografia è, direi indispensabile, con qualche alto e basso, ma s’ha da avere, anche i Live postumi usciti nelle decadi successive.

Nata Linda Pettifer (da qui il nome dell’etichetta del nuovo disco), poi con il nome d’arte Linda Peters ha iniziato a collaborare con il giro folk-rock inglese dei primi anni ’70, in particolare nell’album Rock On attribuito a The Bunch, dove duetta con Sandy Denny in una bellissima cover di When I Will be Loved? degli Everly Brothers (e proprio di Sandy Denny, Linda Thompson dovrebbe essere considerata la sodale ed anche erede, per quanto discontinua). Nello stesso anno, 1972, partecipa come corista al primo album solista di Richard Thompson, Henry The Human Fly, e da lì in avanti inizia il loro sodalizio artistico ed umano, che durerà una decina di anni, la scoperta della filosofia Sufi e poi la fine brusca nel 1982, con l’appendice di un tour americano completato per problemi contrattuali, quando i due già erano praticamente divisi.

Se aggiungiamo che nel corso degli anni Linda è sempre stata perseguitata dalla “disfonia isterica”, un disturbo psicologico che spesso la lasciava senza voce per lunghi periodi, non certo l’ideale per una cantante, che, unita alla sua indole riservata, ha fatto sì che la sua carriera non sia stata quella che avrebbe potuto essere, ma accontentiamoci, meglio pochi ma buoni, Kate Bush, Peter Gabriel e lo Springsteen dell’epoca d’oro le facevano un baffo (se l’avesse avuto) quanto a prolificità. Ma questa è un’altra storia.

Veniamo a questo Won’t Be Long Now, il primo album di materiale inedito dopo Versatile Heart del 2007 (siamo nella media temporale della sua produzione) e il primo disco dall’approccio decisamente folk, inteso come British Folk, quello della grande tradizione inglese degli anni ’70, che ancora oggi è in grado di soprassalti di gran classe. E questo è uno dei casi. Disco ricchissimo di ospiti, che vedremo brano per brano e con gran parte della famiglia Thompson impegnata, figli, nipoti, cognati, ex mariti, oltre agli “amici” di una vita.

Si parte con una stupenda collaborazione con l’ex Richard, evidentemente il tempo guarisce tutte le ferite ( i due erano già apparsi insieme nel recente tributo a Kate McGarrigle): si tratta di una canzone, Love’s For Babies And Fools, scritta proprio per il figlio scavezzacollo, e preferito, di Kate McGarrigle, quel Rufus Wainwright che è uno dei grandi talenti, non totalmente espressi, della scena musicale attuale. Un brano, che proprio Kate poco prima di morire l’aveva incoraggiata a completare, un ritratto poco complimentoso, anche sferzante, ma ricco di affetto, con una splendida melodia sottolineata dalle sempre geniali fioriture dell’acustica di Richard Thompson e con Linda che si doppia anche alle armonie vocali e ci permette di gustare la sua straordinaria voce, ancora ricca e corposa a dispetto dell’età che avanza. Grande inizio. Never Put To Sea Boys è un’altra folk song, anzi una di quelle che si chiamano sea shanties, scritta con l’ex Solas John Doyle, che suona l’acustica, si avvale anche di un “programming umano”, se esiste una cotale guisa, che ricrea il sound del migliore folk tradizionale d’aria celtica in maniera egregia.

Secondo molti If I Were A Bluebird è uno dei momenti topici dell’album: scritta da Linda Thompson in coppia con Ron Sexsmith (che la nostra amica invidia proprio per quella prolificità che a lei è sempre mancata, in una iperbole dice che “scrive un milione di canzoni alla settimana” e tutte belle). L’esecuzione poi è straordinaria, David Mansfield alla Weissenborn guitar, l’ottimo cantautore Sam Amidon all’acustica e al banjo e le struggenti armonie vocali di Amy Helm. Dura quasi 7 minuti, ma potrebbe durare anche mezz’ora tanto è bella. E non scherza un c….neppure As Fast As My Feet una canzone dal repertorio delle McGarrigles, scritta in questo caso da Anna con l’aiuto di Chain Tannenbaum. E’ uno dei brani “elettrici” del disco, vicino allo stile caratteristico della vecchia produzione di Linda, ma è anche una canzone di “famiglia”, ci sono quasi tutti i Thompson: i figli, Kami, che è la voce solista (e ci fa ben sperare per la prosecuzione della tradizione familiare, bella voce, calda e vivida), Muna, alle armonie vocali, con la mamma, Teddy, chitarra acustica e armonie, Jack Thompson, il figlio di Richard al basso, il nipote Zac Hobbs alla chitarra solista e al mandolino, dal passato dei Fairport torna Gerry Conway alla batteria e Glenn Patscha degli Ollabelle alle tastiere. E il risultato è una delizia folk-rock di stampo angloamericano.

Decisamente folk tradizionale la sontuosa Father Son Ballad scritta da Teddy Thompson, con John Doyle ancora alla acustica, Glenn Patscha alle tastiere, compreso un pump organ dei tempi che furono e il grande Dave Swarbrick, che ancora una volta presta il suo magico violino alle operazioni. Nursery Rhyme Of Innocence & Experience è uno standard della canzone popolare inglese, eseguito con l’accompagnamento della chitarra acustica di Martin Carthy (ci sono proprio tutti!) e del cello di Garo Yellin (non conosco, ammetto, però il nome l’ho visto in parecchi dischi). Mr. Tams è un’altra bellissima canzone di stampo folk, scritta con il figlio Teddy, e con l’accompagnamento strumentale della coppia Swarbrick-Carthy, le voci, assieme a Linda, sono quelle di Eliza Carthy, che suona anche il melodeon, Susan McKeown e di nuovo la figlia Kami. Paddy’s Lamentation era nella colonna sonora di Gangs Of New York. Linda Thompson ricorda nelle note che quando Scorsese seppe che nella colonna sonora c’era una sua canzone disse “Ma è ancora viva?”. Un onore, perché il regista appassionato di musica, sapeva chi fosse, ma rispondiamo con un “Ma certo”, toccandoci. Il brano, solo Linda, supportata dalla chitarra acustica e dalla seconda voce del figlio Teddy, che l’ha scritta con lei, ha un piglio tradizionale classico.

Never The Bride, ancora scritta dall’accoppiata mamma/figlio, è una stupenda ballata elettrica, di quelle che sapevano fare solo lei e Sandy Denny. Ironica nel testo (perché la nostra amica dice di essere praticamente sempre stata sposata, nel corso della sua esistenza, con diversi mariti ovviamente): ad aggingersi alla famiglia, in questo brano, alla chitarra elettrica solista slide, c’è James Walbourne, che ha suonato, tra gli altri, con Pernice Brothers e Son Volt e si è sposato la figlia della Thompson, Kami (quindi è il cognato, ci mancava). Ma protagonista della canzone, oltre alla voce, malinconica ed evocativa di Linda, è la fisarmonica (o button accordion come direbbero quelli che sanno) di John Kirkpatrick, un altro dei grandi “vecchi” del movimento folk britannico, magnifico brano con un ritornello da accendini (o telefonini, ora) accesi. Blue Bleezin’ Blind Drunk è un piccolo intermezzo vocale, un traditional cantato accapella, registrato dal vivo al Bottom Line di New York in uno dei rarissimi tour della cantante inglese.

Si conclude con la title-track, It Won’t Be Long Now, scritta ancora da Teddy Thompson (che è un ottimo cantautore, ma si deve misurare con due mostri sacri come Richard & Linda Thompson): è il brano più americano dell’album, una canzone country-bluegrass deliziosa, registrata con un paio dei migliori musicisti nel genere, Tony Trischka al banjo e David Mansfield al mandolino, oltre alle armonie vocali, ancora una volta, di Kami Thompson ed Amy Helm.

Uno dei migliori dischi dell’anno nel genere folk, ma che se la batte anche in assoluto tra i migliori dischi del 2013, per esempio con Electric dell’ex consorte Richard, piccoli, grandi dischi, sconosciuti alle masse, ma da non lasciarsi sfuggire.

P.S. E’ venuta lunga? Meglio, c’è di più da leggere!

Bruno Conti    

La Prima “Vera” Irish Band Americana! Solas – Shamrock City

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Solas – Shamrock City – Thl Records 2012/2013

Continua il nuovo capitolo della “saga” dei Solas, iniziato con For Love And Laughter (2008), proseguito con il seguente The Turning Tide (2010), per arrivare a questo Shamrock Cit,y con l’attuale line-up composta dallo storico polistrumentista e attuale leader Sèamus Egan, dalla violinista e vocalist di New York Winifred Horan, dal fisarmonicista di Belfast Mick McAuley, dal bravo chitarrista e pianista Eamon McElholm, e dalla nuova vocalist Niamh Varian-Barry, cui tocca l’ingrato compito di succedere alle bravissime Deirdre Scanlan (dal 2000 al 2008) e ultimamente all’irlandese Mairèad Phelan.

Il gruppo formatosi nel lontano ’96, annoverava tra le sue file artisti irlandesi e statunitensi, ed era depositario di un suono corposo, in cui gli strumenti della tradizione venivano accompagnati da un ricco e caldo tappeto percussivo, dove l’elemento celtico era senza dubbio predominante, il tutto certificato dal trittico iniziale, con l’esordio Solas (96), cui faranno seguito Sunny Spells & Scattared (97) e The Words That Remain (98). Il sodalizio iniziale con la label Shanachie Recordsprosegue nell’ambito del folk revival contemporaneo, con album sempre su uno standard elevato come The Hour Before Dawn (2000), The Edge Of Silence (2002), Another Day (2003) e Waiting For An Echo (2005). Scritturati dalla Compass Records e per celebrare la prima decade di attività, i Solas danno vita ad un concerto dal vivo Reunion: A Decade Of Solas (2006) che metteva insieme l’allora attuale line-up, membri fondatori che se ne erano andati da tempo e ospiti di riguardo che avevano suonato nei loro album (evento proposto sia in CD che in DVD).

Fatto il punto della decennale produzione discografica, il gruppo riparte (senza Karan Kasey e John Doyle, gli altri membri fondatori, rientrati per l’occasione, ma che avevano già lasciato il gruppo tra il 1999 ed il 2001) dai due album menzionati all’inizio, dove la brava Mairéad Phelan canta anche motivi di grossi personaggi come Richard Thompson (The Ditching Boy) Bruce Springsteen (Ghost Of Tom Joad), Rickie Lee Jones (una stupenda riedizione di Sailor Song) e brani di autori minori (ma non meno interessanti) quali Josh Ritter (A Girl in The War) e Karine Polwart (Sorry) ,cercando di dare sempre una personale anima celtica.

Con Shamrock City il gruppo propone un progetto ambizioso, un singolare concept album che scava in una storia familiare di immigrazione, con la morte di un certo Michael Conway, prozio del padre di Sèamus Egan, il leader indiscusso della band, avvalendosi, nello sviluppo della storia, di un cast di musicisti ospiti tra i quali Rhiannon Giddens del trio Carolina Chocolate Drops, il grande cantante scozzese Dick Gaughan, Aoife O’Donovan cantante del gruppo folk bluegrass Crooked Still e il bassista dei Lunasa Trevor Hutchinson, che contribuiscono ad un “sound” folk più contemporaneo, dove si fondono le “radici” e la musica celtica. Il disco si apre con Far Americay una ballata scritta da McAuley (il lamento di una madre) che Niamh Varian-Barry canta con profonda e malinconica partecipazione, seguita dalla briosa Tell God and The Devil, mentre Michael Conway è il brano principale nel quale Egan lascia ampio spazio agli strumenti a corda, per farne apprezzare la dolcissima melodia.

Si riparte con uno strumentale sotto forma di reel Girls On The Line, mentre Lay Your Money Down, uno splendido bluegrass, viene preso per mano dalla brava Rhiannon Giddens, seguito dal valzer malinconico Arbor Day, cantato dall’altrettanto brava Aoife O’Donovan, mentre Welcome The Unknown è uno struggente brano strumentale, valorizzato dal violino di Winifred Horan. La parte finale narrativa della storia, inizia con il ballo scatenato dello strumentale High, Wide, and Handsome, poi entra in scena la voce inconfondibile di Dick Gaughan in Labour Song (una storia di minatori), seguito dal tradizionale Am I Born To Die?, arrangiato dai Solas come un brano dei tempi d’oro dei Fairport Convention, dove emerge la voce angelica della Varian-Barry, concludendo con una canzone di speranza, No Forgotten Man in memoria di tale William J.Parks.

I Solas sono sulla breccia dal ’96, passano gli anni anche per loro, eppure l’entusiasmo, l’energia, la voglia di ricercare e creare che sprigionano non si affievolisce e si mantengono su uno standard sempre elevato e significativo. La loro forza resta comunque il collettivo (nonostante i vari cambi di formazione), come certificato da questo lavoro, con la voce della nuova entrata Niamh, il flauto, il whistle e il mandolino di Sèamus, il violino della Winifred, la fisarmonica di Mick, la chitarre e le tastiere di Eamon, per un perfetto equilibrio di brani originali e strumentali. Quello che il vostro “umile recensore” ha chiamato il nuovo capitolo della saga Solas, è un disco davvero splendido e sontuoso, un chiaro esempio di come si possa suonare della celtic music con uno spirito e una ventata di freschezza, e di cui certamente i Solas sono tra gli alfieri nel panorama musicale mondiale.

Tino Montanari   

Questa Mi Mancava! Celtic Pink Floyd.

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Celtic Pink Floyd – Celtic Pink Floyd – Vented Irish Records

“Questo le mancava” per Cyndi Lauper e “Questa mancava” per le 100 Greatest Guitar Songs di Rolling Stone, come titoli di Post li avevo già usati, ma “Questa mi mancava” in effetti non lo avevo mai utilizzato, e decisamente i Celtic Pink Floyd mancavano dai miei ascolti e sul Blog (e non credo in Italia qualcuno ne abbia mai parlato). Come vi dicevo in altri Post sono in quel periodo dell’anno in cui vado al recupero di album inconsueti ma validi che per vari motivi avevo tralasciato nel corso del 2011, in attesa di passare alle novità 2012. Ho già sentito il nuovo Ani DiFranco Which Side Are You On, che uscirà il 16 gennaio e mi sembra un Signor Disco!

Ma torniamo ai Celtic Pink Floyd! Il nome del gruppo e titolo del loro primo album omonimo dice un po’ tutto o quasi: intanto non “dice” che sono di Los Angeles, sono metà di mille, nove per l’esattezza, sono guidati dai due fratelli Damon e Brian Stout, che sono i leader del gruppo, arrangiatori e quelli che hanno avuto l’idea di unire le loro due passioni, Pink Floyd e musica celtica. Non dice che il tipo di sound è più orientato verso sonorità celtic rock, quindi a fianco di Uileann Pipes, Whistles, Bodhran, Fiddles, Mandolin, Accordion, Dulcimer e altri strumenti tipici della musica celtica come i Bones (ovvero le “ossa”, utilizzate come piccole percussioni) ci sono anche chitarre elettriche, acustiche e una sezione ritmica con basso e batteria, più Celtic Rock Pink Floyd in definitiva.

Il risultato, se non è innovativo, è molto piacevole, quattro vocalists, due uomini e due donne che si alternano alla guida dei vari brani contribuiscono al fascino del progetto, il fatto che le canzoni siano belle una importanza ce l’avrà? Ma direi proprio di sì!

E quindi scorrono i tempi di giga di Another Brick In The Wall (part 2), con violini, flautini, fisarmoniche, cornamuse,i citati Bodrhan e Bones con il loro “clang” inconfondibile (non è il CD difettoso) che si inseguono a velocità supersoniche con basso, batteria e chitarre elettriche e il canto corale. O Wish You Were Here che è una perfetta “aria” celtica nella sua tipica vena malinconica cantata con piglio sicuro  dalle due voci femminili (Marian Tomas Griffin e Laura Solter) e che senza discostarsi troppo dall’arrangiamento classico aggiunge il fascino della strumentazione celtica, con flautini, mandolini, dulcimer e cornamuse che si ritagliano ampi spazi strumentali nel tessuto sonoro del brano, veramente una bella versione.

Non male anche una piacevole e fedele rilettura di Comfortably Numb con uno dei vocalist, Sam Morrison o Michael Kelly, non so dirvi chi, non li riconosco, ma forse entrambi, comunque una versione molto Gilmouriana con il violino e flautini vari si sostituiscono nel finale alla solista di Gilmour con ottimi risultati. Hey You che è il terzo brano su quattro estratto finora da The Wall, viaggia su sonorità simili con maggiore spazio alla fisarmonica e una presenza più marcata della chitarra elettrica di Bob Boulding. La solista è uno degli ingredienti fondamentali in un brano come Money e anche in questa versione non manca, si parte a tempo di giga ma poi il brano riassume la sua melodia inconfondibile, una bella slide e le due voci femminili sono gli ingredienti aggiunti in questa versione che dopo vari interventi degli strumenti acustici approda alla sua parte centrale elettrica immancabile e al tipico crescendo finale.

The Fletcher Memorial Home da Final Cut non è uno dei brani più conosciuti del loro repertorio ma ben si adatta al trattamento melodico che ne danno i Celtic Pink Floyd con una bella voce femminile che si libra sulla strumentazione acustica in un sound che potrebbe ricordare i Solas e Karen Casey che il gruppo cita tra le proprio influenze, un notevole assolo della solista di Boulding timbra la parte centrale più rock del brano, notevole. One Of These Days da Meddle è un altro dei brani migliori di questo CD, le atmosfere incalzanti e sfuggenti dell’originale ben si adattano alla commistione tra rock e musica celtica e il risultato è assai riuscito. Brain Damage è uno dei brani più evocativi di Dark Side Of The Moon e la sua struttura semplice ma epica al tempo stesso ben si adatta ancora una volta a queste riscritture elettroacustiche. Mother, un ulteriore estratto da The Wall che evidentemente è il loro album preferito dei Pink Floyd (e si capisce anche dalla copertina del CD) si trasforma in una sorta di ballata country-folk, le idee per gli arrangiamenti non mancano al gruppo di Los Angeles, Eagles meets Pink Floyd meets Celtic Music, bello!

Young Lust cantata da una delle due voci femminili è sempre tratta da The Wall ma mi convince meno, forse perché già l’originale non mi entusiasmava. On The Turning Away è l’unico brano degli “ultimi” Floyd quelli senza Waters ed ha quelle caratteristiche, ancora una volta, da aria celtica. La conclusione, con una frenetica intro da giga e poi il suo tipico tempo incalzante è affidata a Run Like Hell un ennesimo brano tratto da The Wall, ma questo è uno dei brani più belli del doppio album e quindi ci sta bene per concludere questo inconsueto progetto della band americana. Non so se ci saranno seguiti, in caso contrario dovranno cambiare nome. Nell’attesa buona ricerca, tenete conto che è uscito ad aprile solo negli Stati Uniti per una etichetta indipendente e quindi reperibilità scarsina.

Oggi doppia razione ancora una volta.

Bruno Conti