Ancora Un “Metallaro” Convertito Al Blues, E Lo Fa Pure Bene. Derek Davis – Resonator Blues

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Derek Davis – Resonator Blues – Southern Blood Records

Devo dire che sono sempre stato sospettoso dei metallari pentiti, o anche non pentiti, che improvvisamente si scoprono bluesmen a tutto tondo: c’è stata qualche eccezione, penso a Gary Moore (che però aveva già ruotato intorno al genere ad inizio carriera), oppure nel country di recente Aaron Lewis https://discoclub.myblog.it/2019/07/13/un-ex-metallaro-che-ha-trovato-la-sua-reale-dimensione-aaron-lewis-state-im-in/ , anche Gary Hoey che non è un “metallaro” puro https://discoclub.myblog.it/2019/04/11/un-virtuoso-elettrico-ed-eclettico-questa-volta-senza-esagerazioni-gary-hoey-neon-highway-blues/ , e sinceramente al momento non me ne vengono in mente altri, che comunque ci sono, pensate a  tutti i vari gruppi e solisti che per definizione  inseriamo nel filone blues-rock o rock-blues, a seconda della durezza del suono. Derek Davis è stato, ed è tuttora (visto che mi risulta siano ancora in attività), leader dei Babylon A.D. , un gruppo hard rock/metal in pista da fine anni ’80, di cui Davis era la voce solista ma non il chitarrista. Per Resonator Blues il musicista si scopre quindi anche chitarrista, e in questo terzo album da solista, dopo due dischi che esploravano il rock e il soul/R&B, si rivela provetto praticante delle 12 battute più classiche, tuffandosi  nel Mississippi Delta blues con grande profusione di bottleneck e slide, oltre che di momenti acustici.

Non siamo di fronte ad un capolavoro, ma si percepisce la sincerità di questa operazione, in cui Davis ha scritto dieci brani originali e scelto due cover di peso per estrinsecare il suo omaggio al blues:il nostro amico ha una voce roca e vissuta (visti i trascorsi musicali), a tratti “esagerata”, ma nell’insieme accettabile. Nell’iniziale Resonator Blues c’è un approccio vocale quasi (ho detto quasi) alla Rory Gallagher, voce ruspante e partecipe, un bel drive della ritmica, molto Chicago blues anni ’50 o se preferite tipo il Thorogood più tradizionale, un bel lavoro della slide e un delizioso assolo del piano di David Spencer, mentre alla batteria siede il fido Jamey Pacheco dei Babylon A.D., chitarre e basso le suona lo stesso Derek, risultato finale molto gradevole; Sweet Cream Cadillac sembra quasi un pezzo di R&R primi anni ’60, con Davis impegnato alla Silvertone acustica, sempre modalità slide e un approccio che rimanda al Brian Setzer meno attizzato, ma anche al Rory Gallagher appena citato. Mississippi Mud potrebbe essere un omaggio a Muddy Waters, ma anche al suono pimpante dei Creedence dei primi dischi,  sempre fatte le dovute proporzioni, con ripetute sventagliate di bottleneck, mentre fa la sua apparizione anche l’armonica di Charlie Knight; Penitentiary Bound è una vera sorpresa, una folk ballad deliziosa, solo voce, chitarra acustica e delle percussioni appena accennate, il consueto tocco di slide, e una bella melodia che si anima nel finale.

In Jesus Set Me Free troviamo Rich Niven all’armonica, per una incalzante cavalcata con qualche retrogusto di musica degli Appalachi, rivista nell’ottica più frenetica di Davis, che non fa mancare neppure la sua primitiva 3 string Cigar Box Guitar; Red Hot Lover è un gagliardo blues di stampo texano di quelli tosti e tirati, con chitarra ed armonica in evidenza. Death Letter è la prima cover, si tratta del celebre brano di Son House, ancora Delta Blues rigoroso ed intenso, vicino allo spirito dei grandi bluesmen del Mississippi, con Whiskey And Water e Unconditional Love, più elettriche e tirate entrambe, con l’armonica di Knight a fare da contraltare alla chitarra incattivita di Davis e il sound che quasi si avvicina a quello della vecchia sua band, più roots-rock ma sempre energico anziché no, con la slide costantemente mulinante, come viene ribadito in una potente cover di It Hurts Me Too di Elmore James, con il bottleneck distorto di Derek Davis che ricrea le atmosfere ferine di Stones e Led Zeppelin. Anche in Back My Arms lo spirito del blues più genuino viene rispettato, sembra quasi di ascoltare i vecchi Fleetwood Mac nei brani a guida Jeremy Spencer. E anche la conclusiva Prison Train non molla la presa su questo Festival della slide, sempre con il valido supporto dell’armonica di Knight.

Forse Davis non saprà ripetersi in futuro, ma per questa volta centra l’obiettivo di un bel disco di blues, solido e per certi versi rigoroso.

Bruno Conti

Come Un Vino Di Ottima Annata. John Gorka – True In Time

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John Gorka – True In Time – Red House Records/Ird

Un antidoto contro le grigie giornate di questo freddo inverno? Vi suggerisco il nuovo CD di John Gorka, True In Time, appena pubblicato dalla sua abituale etichetta discografica, la Red House Records. Il cantautore nativo del New Jersey, ma residente nel Minnesota, è ormai giunto alla sua quindicesima uscita, considerando anche l’album del 2010 a nome Red Horse, inciso insieme a Lucy Kaplansky ed Eliza Gilkyson, e la riproposizione di due anni fa del suo disco d’esordio, I Know, nella sua prima differente versione registrata a Nashville nel 1985. Nella sua trentennale carriera John non ha mai sbagliato un colpo, scrivendo decine di splendide canzoni scaturite dalle corde della sua chitarra acustica ed impreziosite da arrangiamenti raffinati ed essenziali. Se poi consideriamo anche la profondità ed il calore della sua voce dal timbro baritonale, dobbiamo a giusto titolo considerarlo uno dei più validi esponenti del folk americano ancora in attività. Ricordo  con piacere quando ebbi l’occasione di incontrarlo all’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana il 22 maggio 2010 (interisti, vi dice niente questa data?), nella splendida location della Fortezza Firmafede. Lui si era esibito sul palco la sera precedente, ma ancora si intratteneva nelle sale dove i liutai italiani ed esteri esponevano i propri strumenti, curiosando con l’entusiasmo di un bambino nel paese dei balocchi, provando chitarre ed eseguendo canzoni, non solo sue, con la massima disponibilità nei confronti di tutti i presenti. John Gorka è questo, un innamorato del suo mestiere, un formidabile storyteller dotato di una capacità non comune di trasporre in parole e musica ogni sfaccettatura dell’animo umano.

Passione ed entusiasmo sono rimasti gli stessi da quando si esibiva nelle coffeehouses di Bethlehem, in Pennsylvania, oppure, trasferitosi a New York City, quando frequentava il prestigioso circolo denominato Fast Folk, istituito da Jack Hardy come vera e propria scuola per nuovi talenti. E già alla fine degli anni ottanta Gorka era uno dei nomi di punta in un gruppo di talentuosi songwriters che il magazine Rolling Stone definì New Folk Movement, insieme ad altri nomi di spicco come Richard Shindell, David Massengill, Bill Morrissey, Cliff Eberhardt o Frank Christian. Anche alcune delle più valide interpreti del folk revival al femminile  hanno inciso sue canzoni o hanno collaborato con lui in studio e dal vivo, a cominciare da Nanci Griffith e Mary Chapin Carpenter, fino alle irlandesi Mary Black e Maura O’Connell. Per quest’ultima fatica, John ha radunato un gruppo di fidati ed esperti musicisti: J.T Bates alla batteria ed Enrique Toussaint al basso, gli ottimi Dirk Freymuth, chitarra elettrica, e Tommy Barbarella, tastiere, con il notevole contributo di Joe Savage alla pedal steel. Con la produzione dell’amico di lunga data Rob Genadeck, il disco è stato registrato a Minneapolis con il vecchio metodo dell’interagire tutti insieme nello studio, ottenendo così un suono spontaneo e coinvolgente per l’ascoltatore, quasi ci si trovasse lì di persona ad assistere alle sessions. Ballate come Nazarene Guitar e Arroyo Seco suonano fresche come i torrenti di montagna, la prima con una ritmica che ricorda i vecchi treni a vapore in corsa ed il delizioso controcanto di Lucy Kaplansky, la seconda, permeata di nostalgia, ci trasporta negli assolati e desertici territori del New Mexico.

Tattoed è spruzzata di southern blues con l’ottimo apporto di Savage alla pedal steel https://www.youtube.com/watch?v=h1Fiz7vqMCM , mentre Mennonite Girl è un’altra limpida song cantata a due voci con la bella e brava Jonatha Brooke. Crowded Heart e Fallen For You toccano le fragili corde dei sentimenti con un’intensità da pelle d’oca creata dalla calda voce del protagonista. Cry For Help è l’ennesimo gioiello intimista, mentre The Body Parts Medley è la prima di un trittico di canzoni scritte da John nel corso degli anni ottanta ma mai pubblicate prima, riscoperte grazie all’aiuto di alcuni fans che gliele hanno fatte riascoltare attraverso registrazioni di vecchi concerti. The Body Parts è allegra e ritmata, quasi una filastrocca che divertiva il pubblico nei suoi shows. Red Eye And Roses è più rilassata, un acquarello western, con un bell’uso del piano elettrico e dell’organo sullo sfondo. Blues With A Rising Sun è invece un’intensa ed accorata lettera al grande bluesman Son House, in cui Gorka cita con devozione Charlie Patton e Robert Johnson esprimendo il suo amore per il Mississippi blues. The Ballad Of Iris & Pearl, piacevolissima country ballad, è stata scritta da John quand’era ospite nella scuola musicale fondata dall’amica Eliza Gilkyson che appare ai cori insieme al bassista Joel Sayles. Citazione a parte merita la title track, posta all’inizio e poi ripresa in fondo all’album come a chiudere in cerchio ideale intorno alle storie che ne formano il contenuto. True in time è stata scritta insieme a Pete Kennedy, l’elemento maschile del duo folk-pop The Kennedys, La canzone è una domanda aperta su ciò che sia autentico in tempi complicati come quelli che stiamo vivendo. Ovviamente ognuno può dare la propria personale risposta, ma è certo che ci sia ancora bisogno di canzoni tanto intime ed intense e di autori tanto profondi ed ispirati come John Gorka, generoso e gradevole come il vino di ottima annata.

Marco Frosi

Due Slide Sono Sempre Meglio Di Una, Nuova Puntata. Delta Moon – Cabbagetown

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Delta Moon – Cabbagetown – Jumpin’ Jack Records

Qualcuno ha definito la loro musica “una voce, un groove e due chitarre slide”! E mi sembra fotografi alla perfezione il loro stile, ormai forgiato da una serie di nove album (alcuni anche usciti in Europa con titoli e copertine diverse, più un paio di Live antologici):    http://discoclub.myblog.it/2012/06/07/due-slide-son-meglio-di-una-delta-moon-black-cat-oil/  potremmo aggiungere che in qualche brano la voce non c’è e che siamo, naturalmente, dalle parti delle 12 battute del blues (elettrico). I due leader, chitarristi ed autori dei brani, sono sempre Tom Gray, a tratti impegnato anche all’elettrica in modalità normale, ma più spesso alla lap steel suonata con la barretta d’acciaio, nonché voce solista, mentre Mark Johnson è il “maestro” della bottleneck classica,  entrambi affiancati dal bassista haitiano Franher Joseph (un omone nero impassibile che è una via di mezzo tra il laconico Bill Wyman, come stile e Clarence Clemons fisicamente) e dal batterista Marlon Patton, che si occupa anche della parte tecnica in questo Cabbagetown, ma non sempre è in tour con loro.

Come al solito, in alcuni brani, la band utilizza anche delle voci femminili di supporto, Kyshonna Armstrong e Susannah Masarie, presenti proprio nei due brani che aprono il CD: Rock And Roll Girl, dove Johnson è impiegato alla slide, mentre Tom Gray è la voce solista, rauca e vissuta (vagamente tipo l’ultimo Stephen Stills o JJ Cale, per avere una idea) oltre che autore del brano, così come dei tre successivi, un brano dove la band, anche grazie alle due ragazze che ci danno dentro d’impegno, accentua, come da titolo, l’aspetto rock della loro musica, sempre con la guizzante slide che è l’elemento portante del sound. E pure la successiva The Day Before Tomorrow rimane su queste coordinate sonore, brani brevi e compatti, tutti tra i tre i quattro minuti, elementi roots comunque spesso presenti, anche chitarre acustiche a rendere più corposi gli arrangiamenti, ma è il lavoro della slide quello caratterizzante, pensate ad uno stile alla John Hiatt, con Landreth o Cooder alla chitarra , anche se la voce, come detto, purtroppo non è a quei livelli ovviamente, siamo più dalle parti oltre che del citato JJ Cale anche del primo Billy Gibbons. Il blues sale al proscenio per l’elettroacustica Just Lucky I Guess, un po’ di swamp, il contrabbasso a scandire il tempo con la batteria, e le due chitarre meno “elettriche del solito”. Ma è quando il gruppo lavora sulle twin guitars in modalità slide che il suono decolla, come nella mossa Coolest Fools, dove i ritmi ricordano quelli della Louisiana e la Masarie aggiunge la sua voce a quella di Gray.

Refugee, firmata dalla band al completo, gioca ancora su un groove ciondolante con elementi gospel, una vocalità corale e parlata, e Gray che si doppia anche al piano per l’occasione, mentre le due ragazze vivacizzano la parte cantata. Mad About You ha un ritmo più incalzante, un groove rotondo di basso, un piano elettrico aggiunto e le “solite” chitarre ad intrecciarsi in assoli sempre piacevoli. Il centerpiece del disco è una poderosa rilettura di Death Letter di Son House, l’unico brano che supera i sei minuti, con l’armonica di Jon Liebman aggiunta alle procedure, e le due chitarre veramente “minacciose”, come pure le voci, fino alla vorticosa improvvisazione degli strumenti solisti nella parte finale del brano, sempre con il groove al centro dell’arrangiamento. 21st Century Man è un altro potente blues elettrico, sembra quasi un brano di Robert Johnson in versione southern rock-blues (d’altronde vengono dai sobborghi di Atlanta, Georgia), un bel riff ricorrente di chitarra e il piano ancora una volta elemento aggiunto nell’arrangiamento guizzante. Tom Gray passa all’armonica e Joseph al contrabbasso per il country-blues strumentale di Cabbagetown Shuffle, con le slide questa volta in modalità acustica. Sing Together sempre firmata coralmente dalla band, è un altro esempio del loro Delta blues elettrico e ad alta densità, con le chitarre che si dispiegano nella consueta ed immancabile versione a tutto bottleneck.

Visti di recente, ad aprile, in concerto al Nidaba a  Milano, dal vivo sono veramente fantastici.

Bruno Conti

                

Una Delle “Signore” Del Blues Bianco. Rory Block – Keepin’ Outta Trouble: A Tribute To Bukka White

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Rory Block – Keepin’ Outta Trouble: A Tribute To Bukka White — Stony Plain/Ird                          

Rory Block è certamente una delle “signore” del Blues bianco, ma è anche una delle più rigorose e fervide portatrici della tradizione delle 12 battute, tra coloro che più si battono per preservarne la memoria tra gli ascoltatori e gli appassionati. Ormai non più giovanissima (come Springsteen è del 1949), ma dalla foto di copertina i suoi 67 anni li porta veramente bene, ciò non di meno è sulle scene dal 1965 circa, quando poco più che quindicenne decise che quella sarebbe stata la sua musica: prima frequentando i locali dove si esibivano gli ultimi giganti del folk blues acustico, gente come Mississippi John Hurt, Reverend Gary Davis, Son House, Skip James, Mississippi Fred McDowell,  a cui ha dedicato i suoi album della cosiddetta “Mentor Series”, incentrata su questi grandi e che ora si arricchisce di un nuovo capitolo, sempre pubblicato dalla Stony Plain, ma in precedenza la Block aveva inciso The Lady And Mr. Johnson, dedicato a Robert Johnson. Come al solito questo Keepin’ Outta Trouble è registrato in solitaria da Rory Block, voce e chitarra acustica (e qualche percussione sparsa), caratteristica che è il grande pregio di tutta la serie, rigorosa e filologica, ma in parte ne è anche il “piccolo” difetto, se uno non è un grande fan del Country Blues, alla fine potrebbe trovare i vari volumi ripetitivi e un filo noiosi.

Potrebbe, ma non è detto, perché comunque la nostra amica è in possesso di una bella voce (temprata da oltre 50 anni di dischi, il primo uscito nel lontano 1967) e a fianco dei vari brani pescati dal repertorio di questi grandi bluesmen, inserisce sempre qualche canzone scritta da lei e ispirata dalle storie di questi musicisti. Nel caso di Bukka White, forse uno dei meno conosciuti tra quelli citati finora, sono le prime due tracce, una sorta di preludio alle canzoni originali: Keepin’ Outta Trouble e Bukka’s Day sono delle piccole biografie in musica, su cui poi si innestano Parchman Farm Blues e Fixin’ To Die, quest’ultima riscoperta da Bob Dylan nel suo primo album (sia pure come sempre riadattata a modo suo) e poi ripresa, sotto varie forme, dai Led Zeppelin, da Plant come solista, dagli Avett Brothers in una collaborazione con G Love, e da altri. Tra i brani celebri mancano Shake ‘Em On Down, che nell’interpretazione di Eddie Taylor diventerà Ride ‘Em On Down, e appare anche nel nuovo degli Stones, come pure Po’ Boy, che con il titolo Poor Boy  e similari, è stata incisa in decine di versioni, prima e dopo quella di White. Rory Block si conferma chitarrista sopraffina, anche nell’uso della slide acustica, come nell’iniziale Keepin’ Outta Trouble, oltre che vocalist superba, una voce temprata dal tempo, ma sempre limpida e fresca come quella di una ragazzina, ottima narratrice di storie, in grado di arrangiare i suoi brani in solitaria, con un tocco di modernità, anche grazie al multitracking di sé stessa. Voce che tocca anche falsetti deliziosi, quasi di stampo gospel o soul, come nella successiva Bukka’s Day.

Dopo i due brani composti per l’occasione dalla nostra amica si passa a Aberdeen Mississippi Blues il primo dei classici di Bukka White (che forse molti non sanno, era cugino di B.B. King), dedicato alla sua città natale, un classico country blues rurale incalzante e ricco di variazioni chitarristiche, a seguire Fixin’ To Die Blues, il brano che più di tutti rimane legato al mito di Booker White, un complesso, elegante ed intenso brano, classico Delta blues, con le percussioni, suonate dalla stessa Block che fanno le veci del washboard, mentre Rory la canta con grande forza ed intensità, sempre con eccellente uso della slide acustica (che nell’originale del 1940 era quella presa in prestito da Big Bill Broonzy). Ottima versione anche del talkin’ blues Panama Limited, mentre Parchman Farm Blues narra della detenzione di Bukka nel famoso (e famigerato) penitenziario dello Stato del Mississippi, dove il nostro passò circa due anni e mezzo, prima di essere rilasciato, proprio nel 1940, in occasione delle sue registrazioni a Chicago di quell’anno. La versione della Block è una delle più vivide ed intense del disco, sempre con lo splendido dualismo tra voce e slide acustica, come pure per la successiva tambureggiante Spooky Rhythm. New Frisco Train è tra le prime registrazioni del bluesman nero, viene dalle incisioni per la RCA Victor del 1930, quindi molto prima di Robert Johnson, e la versione della musicista di NY è sempre rigorosa, ma comunque ricca di variazioni e vitale. Anche le ultime due tracce, Gonna Be Some Walkin’ Done e soprattutto Back To Memphis, confermano il valore e la bravura di questa paladina del country blues che si è presa, come dice lei stessa nelle note, l’impegno di diffondere l’eredità di questa musica che è in parte cantare, in parte “parlare”, ma anche testimoniare e danzare. E forse, a dispetto di quanto detto da chi scrive, meriterebbe un giudizio ancora più favorevole, per quanto  limitato agli “adepti”. Tanto di cappello!

Bruno Conti         

La Via Italiana Al Blues 3: Indipendente E “Alternativo”! Snake Oil Ltd – Back From Tijuana

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Snake Oil Ltd – Back From Tijuana – Killer Bats/Riserva Sonora 

Sono un po’ in ritardo perché il CD è “uscito” da qualche mese ma sono qui a parlarvi di una nuova, allegra, rumorosa, divertente e preparata, brigata di musicisti che si dedicano alla divagazione del Blues Made In Italy. Nuovi, almeno per chi scrive e, presumo, per i lettori del Blog, esclusi i liguri, genovesi nello specifico. I quattro, classica formazione a tre più cantante, i cui nomi probabilmente non diranno molto ai più, ma che per rispetto di chi fa musica con passione ricordiamo: Andrea Caraffini e Zeno Lavagnino (che nel frattempo ha lasciato il gruppo) sono la sezione ritmica, mentre Stefano Espinoza è il chitarrista e last but not least Dario Gaggero, il cantante, nonché autore delle divertenti notizie che punteggiano il loro sito  http://snakeoillimited.altervista.org/, e, nelle proprie parole, “fondatore e Leader Massimo degli Snake Oil Ltd., laureato col massimo dei voti all’ Università della Terza Mano di Fatima, sommo conoscitore di filtri d’amore, rappresentante esclusivo per l’Europa dell’Olio di Serpente più efficace e miracoloso del Globo Terracqueo”. Ma i giovani (almeno all’apparenza delle foto, meno forse Gaggero che vanta pure una collaborazione più “seria” con i Big Fata Mama), sono anche preparati e quasi enciclopedici nella scelta del loro repertorio che, partendo dal blues, sconfina nel rockabilly, nel R&R, nel voodoo rock delle paludi della Louisiana, meno marcato di quello di Dr. John, forse più deferente verso Fats Domino, nume tutelare della band, insieme a Bo Diddley, Hound Dog Taylor, Howlin’ Wolf, con qualche reminiscenza di Tav Falco, a chi scrive (se no cosa sto qui a fare) ricordano anche il sound dei primi dischi di Robert Gordon con Link Wray, o dei primissimi Dr. Feelgood, quelli più deraglianti di Wilko Johnson.

Ma poi la scelta del repertorio cade anche su brani “oscurissimi” tratti da vecchi 45 giri anni ’50 o da compilation di etichette poco conosciute, pure se la grinta e la velocità con cui vengono porti sta a significare la passione, che rasenta la devozione, di questi allegri signori che probabilmente fanno musica per divertirsi e, ovviamente, finiscono per divertire i loro ascoltatori. Anche l’idea di esordire con un disco dal vivo non è peregrina: Back From Tijuana/Live From The Sea è stato registrato ai Bagni Liggia di Genova Sturla, che sono più rassicuranti, presumo, delle stradine di New Orleans e anche temo delle paludi della Louisiana, ma l’aria di festa collettiva che si respira nei solchi digitali di questo album è assolutamente contagiosa anche per chi non era presente all’evento. Loro orgogliosamente annunciano che la prima tiratura del CD è andata esaurita e ne stanno preparando uno nuovo in studio.

Se nel frattempo  vi volete sparare, ad alto volume, una carrellata nelle origini del rock, qui trovate un po’ di tutto: dal blues del Delta di Son House, con l’iniziale Grinnin’ On Your Face ad una Give Back My Wig che dai solchi dei dischi Alligator di Hound Dog Taylor plana sulle tavole di un locale genovese, con la grinta del pub-rock tinto punk dei Feelgood, mista a sonorità Gordon-Wray e persino Blues Brothers, The Greatest Lover In The World è un Bo Diddley “minore” fatto alla Elvis primo periodo, quindi bene, Ask Me No Questions faceva la sua porca figura in In Session, il disco postumo di Albert King con Stevie Ray Vaughan e la solista di Espinoza qui viaggia che è un piacere.This Just Can’t Be Puppy Love, Leopard Man, Going Down To Tijuana, Bow Wow, non nell’ordine in cui appaiono nel disco, appartengono alla categoria “da dove cacchio sono uscite?”, ma ci piacciono. Too Many Cooks apparterebbe alla categoria, ma visto che l’ha recuperata anche Mick Jagger per il suo Very Best, da una inedita session con Lennon, lo mettiamo nella sezione chicche. Dove si aggiunge ad  uno-due tra la trascinante Whole Lotta Loving del vate Fats Domino e la cattivissima Evil (is going on) di mastro Howlin’ Wolf. Aggiungete il divertente R&R di Wynonie Harris Bloodshot eyes, The Drag, un brano degli Isley Brothers che ha la stamina dei più famosi Shout e Twist & Shout, senza dimenticare la conclusiva Let The Four Wind Blows, altro classico di Domino, oltre otto minuti, uno di quei brani che non ne vogliono sapere di finire. Se lo riuscite a trovare (magari sul loro sito citato prima, vista la distribuzione difficoltosa) sono soldi spesi bene, veramente bravi, anche qui siamo nella categoria morfologica “italiani per caso”!

Bruno Conti

Slidin’ Blues At Its Best! Sonny Landreth – Bound By The Blues

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Sonny Landreth – Bound By The Blues – Provogue CD

Clyde Vernon Landreth, detto Sonny, è un musicista che nel corso della sua ormai più che quarantennale carriera non ha inciso molti dischi, ma quando lo ha fatto ha quasi sempre colpito nel segno: il suo ultimo lavoro, Elemental Journey (risalente a tre anni fa) è forse il meno brillante del lotto, ma in passato il nostro ci ha regalato vere proprie perle come Levee Town e The Road We’re On (i due che preferisco) ed ottime cose come Grant Street e quel South Of I-10 che nel 1995 lo fece uscire dal semi-anonimato nel quale viveva immeritatamente da anni. Landreth è un grande chitarrista, maestro della tecnica slide (in America, secondo il sottoscritto, inferiore solo a Ry Cooder, almeno tra i viventi) che negli anni è stato sempre molto richiesto anche sui dischi altrui: John Hiatt, uno che di chitarristi se ne intende, lo ha voluto come leader della sua band per ben tre dischi (Slow Turning, The Tiki Bar Is Open, Beneath This Gruff Exterior) e relative tournée.

Sonny è sempre stato avvicinato al genere blues, ma non è un bluesman canonico: nei suoi dischi infatti è sempre partito da una base blues, per poi rivestire le sue canzoni di influenze zydeco-cajun (è infatti soprannominato “il Re dello Slydeco”), country e rock’n’roll, una fusione di stili che è quasi d’obbligo per un musicista cresciuto in Louisiana sin da bambino (essendo nato in Mississippi, altro luogo dove il blues ce l’hai nel sangue). Quindi Landreth un vero disco tutto di blues non lo aveva mai fatto, almeno fino ad oggi: Bound By The Blues è infatti un excursus personale da parte di Sonny nel mondo delle dodici battute, un lavoro fatto con amore e passione esattamente bilanciato tra brani nuovi ed omaggi ai grandi che lo hanno influenzato.

Registrato e prodotto in maniera diretta e senza fronzoli (in trio: oltre a Sonny abbiamo David Ranson al basso e Brian Brignac alla batteria), Bound By The Blues non è quindi un esercizio scolastico fine a sé stesso, ma un vero e proprio Bignami lungo dieci brani nel quale Landreth esplora da par suo i meandri della musica del diavolo: il disco è suonato da Dio (e non c’erano dubbi), prodotto in maniera asciutta da Sonny stesso con Tony Daigle e cantato in maniera più che accettabile (e d’altronde la voce è sempre stato un po’ il tallone d’Achille del nostro, diciamo non altrettanto blues come le sue dita…), un album quindi che soddisferà pienamente sia i fans di Landreth che gli appassionati di blues, e che merita di essere messo a fianco, se non dei suoi lavori migliori in assoluto, sicuramente di quelli appena un gradino sotto (e dunque belli lo stesso).

Il disco si apre con la classica Walkin’ Blues (di Son House, ma resa celebre da Robert Johnson) ed è subito goduria, a partire dal colpo di batteria iniziale e fin dalle prime note di slide, un suono “grasso” che mette subito a suo agio l’ascoltatore, con Sonny che inizia a ricamare assoli. La title track è una rock song fluida e diretta, che ha sì il blues nei cromosomi ma si sviluppa in maniera non canonica, e Landreth alterna con maestria la slide acustica e quella elettrica; The High Side ha un suono paludoso, la sezione ritmica che pressa e Sonny che fa i numeri all’acustica, sopperendo ai suoi limiti vocali con massicce dosi di feeling. It Hurts Me Too è nota soprattutto per le versioni di Tampa Red ed Elmore James, ma l’hanno fatta in mille (tra cui Junior Wells, Eric Clapton, John Mayall, Bob Dylan, Grateful Dead), e qui non riserva grandissime sorprese, ma a me basta che il nostro trio suoni bene, e poi quando Sonny lascia scorrere le dita sul manico non ce n’è per nessuno; Where They Will è un’intrigante rock ballad, intensa e sinuosa, che a ben vedere non è neanche tanto blues (ha quasi un’atmosfera alla Chris Isaak), ma è comunque piacevole e, devo dirlo?, ben suonata.

Cherry Ball Blues, di Skip James (ma l’ha fatta anche Cooder) è tesa ed affilata, quasi più rock che blues, con il nostro che suona come se non ci fosse domani, lo strumentale Firebird Blues è un sentito omaggio al grande Johnny Winter, uno slow blues caldo e vibrante nel quale i tre musicisti danno prova di grande affiatamento: le casse del mio stereo quasi sudano … Dust My Broom (Robert Johnson, ma la versione “storica” è quella di Elmore James) è uno dei classici assoluti della musica del diavolo in generale, e della chitarra slide in particolare, e Sonny ci dà dentro di brutto, fornendo una prestazione da applausi, anche se qui più che mai si sente l’assenza di un vocalist adatto; chiudono il lavoro Key To The Highway (Big Bill Broonzy, ma tutti conoscono quella di Clapton), ripresa abbastanza fedelmente e con la consueta classe da Landreth (anche se verso la fine gigioneggia un po’ ma tenderei a perdonarlo …), e Simcoe Street, uno scatenato boogie strumentale dove tutti girano a mille.

Anche se non sarà un capolavoro, Bound By the Blues è un disco corroborante, che ci fa ritrovare il Sonny Landreth che conosciamo dopo il mezzo passo falso di Elemental Journey.

Marco Verdi

In Due Parole: Era Ora! John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall

john mellencamp trouble no more live at town hall

John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall – Mercury/Universal CD USA 08/07/2014 EUR/ITA 22/07/2014

Di tutti i cosiddetti “big” della musica internazionale, John Mellencamp era l’unico che non aveva ancora pubblicato un vero e proprio album dal vivo, a parte qualche bonus track sparsa qua e là nei singoli ed un EP (Life, Death, Live And Freedom), che però riprendeva soltanto una manciata di brani tratti dal suo disco del momento (il quasi omonimo Life, Death, Love And Freedom). Tra l’altro stiamo parlando di uno di quei musicisti che trova sul palco la sua dimensione ideale, uno che negli anni ottanta riempiva le arene e si rimpallava con Springsteen e Petty il ruolo di rocker numero uno in America (Bob Seger aveva perso un po’ di terreno negli eighties), quindi l’assenza di live albums nella sua discografia gridava ancor più vendetta. Ora finalmente anche il nostro ripara a questa grave mancanza, ma lo fa a modo suo: Trouble No More Live At Town Hall non è un live canonico, in quanto palesemente (ed anche il titolo lo indica) sbilanciato verso quello che comunque è obiettivamente uno dei migliori lavori della seconda parte della carriera dell’ex Puma, Trouble No More.

john mellencamp trouble no more

Pubblicato nel 2003, l’album era una sorta di ripasso da parte di Mellencamp delle sue radici, un disco di pura roots-Americana che, con un feeling formato famiglia, presentava una serie di covers prese a piene mani dal ricco songbook a stelle e strisce . Brani tradizionali, cover di canzoni blues, riletture di vecchi folk tunes (ed un solo brano contemporaneo): un disco che lasciava un po’ indietro il Mellencamp rocker e ci presentava il Mellencamp musicista a tutto tondo, che proseguì con i seguenti dischi il suo discorso di brani che, anche se autografi, erano profondamente legati alla tradizione dei songwriters blues e folk più classici https://www.youtube.com/watch?v=xi3w9eduwXI .

john mellencamp trouble no more making

Trouble No More Live At Town Hall riprende (quasi) interamente quel disco, aggiungendo un omaggio a Bob Dylan e, solo nel finale, tre classici di John: registrato nel 2003 a New York con la sua touring band dell’epoca (Mike Wanchic ed Andy York alle chitarre, Miriam Sturm al violino, John Gunnell al basso, Dane Clark alla batteria e Michael Ramos alle tastiere e fisa), davanti a 1.500 persone, tra le quali anche membri della famiglia di Woody Guthrie.

Il disco è, manco a dirlo, bellissimo (mi sembra di essere il Mollicone nazionale): Mellencamp dimostra di essere un fuoriclasse sul palco, la band dietro di lui va come un treno, dipingendo le canzoni con tinte rock che le loro versioni di studio non avevano, ed i brani, va da sé, sono straordinari. L’unica piccola pecca è l’aver lasciato fuori due canzoni che quella sera (era il 31 Luglio) John suonò, e se all’assenza di The End Of The World possiamo sopravvivere. *NDB Però… https://www.youtube.com/watch?v=8GpxR2H241g , mi sarebbe invece piaciuto parecchio ascoltare la versione di Mellencamp dell’ultraclassico House Of The Risin’ Sun (non presente peraltro sul Trouble No More di studio).

john mellencamp 1

1. Stones In My Passway (Robert Johnson)

2. Death Letter (Son House)

3. To Washington (John Mellencamp/Traditional)

4. Highway 61 Revisited (Bob Dylan)

5. Baltimore Oriole (Hoagy Carmichael/Paul Francis Webster)

6. Joliet Bound (Kansas Joe McCoy)

7. Down In The Bottom (Willie Dixon)

8. Johnny Hart (Woody Guthrie)

9. Diamond Joe (John Mellencamp/Traditional)

10. John The Revelator (Traditional)

11. Small Town (John Mellencamp)

12. Lafayette (Lucinda Williams)

13. Teardrops Will Fall (Marion Smith)

14. Paper In Fire (John Mellencamp)

15. Pink Houses (John Mellencamp)

Apre Stones In My Passway, di Robert Johnson, con Wanchic (o è York?) scatenato alla slide ed il nostro subito in partita; Death Letter (Son House), ancora blues, senza un momento di respiro, ancora la slide a dominare e John che canta alla grande https://www.youtube.com/watch?v=vN2AMvDdOAk . To Washington è splendida, una folk song tradizionale alla quale John ha aggiunto delle parole nuove, non proprio carine verso l’allora presidente George W. Bush: accompagnamento rootsy, con chitarre acustiche, violino e slide, una vera goduria. Highway 61 Revisited è il già citato omaggio a Dylan, nel quale viene fuori il Mellencamp rocker: solito grande lavoro di slide (una costante per tutto il CD) ed il violino che le dà un sapore meno urbano, facendola sembrare una outtake del grande The Lonesome Jubilee (per chi scrive il miglior disco di Mellencamp).

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Baltimore Oriole è il più celebre brano scritto da Hoagy Carmichael: la versione di John è bluesata, quasi tribale, profonda, suggestiva, con strumentazione scarna ma tanta anima (il duetto tra fisarmonica e violino è da brividi). Il pubblico ascolta in rigoroso silenzio per poi esplodere in un fragoroso applauso nel finale. Joliet Bound è un antico brano reso noto da Memphis Minnie: versione frenetica, dalla ritmica spezzata, sempre con il giusto bilanciamento tra folk, blues e roots; Down In The Bottom vede Mellencamp alle prese con Howlin’ Wolf, una trascinante resa tra rock, blues ed un pizzico di swamp, tanto che non sarebbe dispiaciuta a John Fogerty: ritmo alto e solita grande slide. E’ la volta di Guthrie a venire omaggiato: Johnny Hart mantiene intatto lo spirito dell’originale, una versione splendida per purezza e sentimento, il miglior ricordo che John poteva tributare a Woody.

john mellencamp 4  live

Diamond Joe è un traditional rifatto da un sacco di gente (anche da Dylan): John la personalizza parecchio, suonandola full band, elettrica, ritmando e roccando, e facendola sembrare sua. Un capolavoro rifatto alla grande, uno dei momenti salienti del CD. John The Revelator è un gospel che hanno cantato in mille: ancora un intro swamp e John che si traveste da predicatore, versione intensa come al solito, manca solo il coro alle spalle. Ci avviamo alla conclusione: Small Town è uno dei tre classici di John presenti, una delle canzoni rock con il più bel riff in assoluto, anche se qui viene stravolta ed adeguata al mood della serata (tanto che il pubblico la riconosce solo quando John inizia a cantare).

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Lafayette, di Lucinda Williams, era l’unico brano contemporaneo presente su Trouble No More, e siccome io non sono un fan della Williams performer, ho gioco facile ad affermare che la versione di John è di gran lunga superiore; Teardrops Will Fall l’hanno incisa da Wilson Pickett a Ry Cooder, e Mellencamp la personalizza, grazie anche alla sua band coi fiocchi, e la fa sembrare anch’essa sua (cosa non facile quando su un brano ci ha già messo le mani Cooder) https://www.youtube.com/watch?v=JOk8kv_Tecc . La serata si chiude in crescendo con le straordinarie Paper In Fire, il pezzo che apriva col botto The Lonesome Jubilee (e qui la resa è molto più aderente all’originale, anche se manca la batteria esplosiva di Kenny Aronoff), e con Pink Houses, un manifesto roots-rock, scritta quando il movimento roots era di là da venire: leggermente più blues della versione apparsa all’epoca su Uh-Huh, resta comunque un capolavoro https://www.youtube.com/watch?v=-fDZmEW4TMs .

Grande disco questo “esordio” dal vivo di Mellencamp (anche se comunque prima o poi ci vorrà anche un live, diciamo, career-spanning): esce l’8 Luglio in America ed il 22 in Europa (anche in vinile, ma con solo 10 canzoni contro le 15 del CD).

Non lasciatevelo sfuggire.

Marco Verdi

Vecchie Glorie 12. Pat Travers – Live At The Bamboo Room

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Pat Travers – Live At the Bamboo Room – CD+DVD Purple Pyramid/Cleopatra

Spesso trovare un incipit per un articolo o una recensione è impresa ardua: ti infili in citazioni colte o ti rifugi in una battuta, magari scontata. Anche per gli artisti, soprattutto nei loro dischi dal vivo, non è un’arte facile da praticare. O hai un MC (Master of Ceremonies) rodato da mille battaglie (BB King, James Brown e i grandi artisti neri in generale) o stai facendo la storia del rock e lo fa per te un Bill Graham o qualcuno di simile nei grandi Festival oppure ancora ci sono quelle introduzioni “classiche”, semplici ma indimenticabili – From Los Angeles California, The Doors! A Man And His Guitar, Jimi Hendrix – e anche quelle selvagge che caricano il pubblico come per l’apertura del formidabile Kick Out The Jams degli MC5.

Nel suo piccolo anche Pat Travers in questo Live At The Bamboo si carica e “aizza” il suo pubblico con un iniziale: “ How you doin’ everybody, my name is Pat Travers, this is my band, we’re gonna kick your ass tonight…one, two, three, four” e parte una sparatissima Life In London, due chitarre, basso, batteria, del rock-blues ad alto potenziale, come se gli anni ’70 non fossero mai passati e gente come Travers continuasse a portare la bandiera di gente come Hendrix, il suo idolo, in primis, ma anche dei vari Ted Nugent, Frank Marino, Robin Trower, più raffinato e bluesy, i Thin Lizzy o Rory Gallagher con una classe superiore, gli hard rockers della seconda e terza generazione che hanno sempre tenuto alta la bandiera del genere, con cadute di gusto e qualità, come lo stesso Travers, ma senza scadere nel metal più bieco, pur senza toccare le vette dei Led Zeppelin, Deep Purple, dei primi Black Sabbath, che so, dei Free o dei Bad Company, i primi Aerosmith e mille altri che non citiamo. Pat Travers arriva sulle scene a metà anni ’70, dal Canada, scoperto da Ronnie Hawkins e portato in Inghilterra dove viene messo sotto contratto dalla Polydor e partecipa al Rockpalast nel 1976

Già dal secondo album, Makin’ Magic del 1977, il batterista della band è Nicko McBrain, che poi troverà fama e fortuna negli Iron Maiden, nel quarto album arriva il secondo chitarrista solista Pat Thrall e nello stesso anno, 1979, esce Live, Go For What You Know, che è  forse il disco da avere della sua discografia, e che contiene una versione gagliarda di Boom Boom Out Goes The Light di John Lee Hooker che rimane tuttora una dei suoi cavalli di battaglia, presente in Bamboo Room. Questo nuovo CD con DVD allegato, o viceversa, di Pat Travers riprende i temi dei suoi album migliori, un misto di brani originali, come alcuni dei suoi più grandi successi, Snortin’ Whiskey, Drinkin’ Cocaine scritta dalla coppia Travers/Thrall, Crash And Burn, Heat In The Street e alcune delle cover più riuscite della sua carriera. I’ve Got News For You dal repertorio di Ray Charles, ma perché ce lo dice lui, dalla violenza che si sprigiona dalle chitarre non si direbbe, Black Betty, scritta da Leadbelly, ma conosciuta da tutti nella versione durissima dei Ram Jam. Riprese di classici del blues come Death Letter di Son House, If I Had Possession Over Judgment Day dal repertorio di Robert Johnson o una sudista Statesboro Blues, scritta da Blind Willie McTell, ma qui nella versione resa celebre dagli Allman Brothers, con le due soliste usate all’unisono, come avviene peraltro spesso nel corso del concerto, l’altro chitarrista Kirk McKim è pure lui un ottimo manico, e ben si amalgama con la solista e la slide di Pat Travers,

Il brano appena citato, insieme a Rock’n’Roll Susie, appare solo nella versione CD del live, mentre la versione eccellente di Travers di Red House di Jimi Hendrix appare solo nel DVD, ma questi sono i misteri imperscrutabili della discografia, visto che comunque i due supporti vengono venduti insieme. Nel finale del concerto appaiono anche alcuni dei vecchi componenti della Pat Travers Band originale e devo dire che complessivamente il concerto è molto meglio di quanto mi aspettavo, non solo vecchie glorie o meglio ci sono, ma “vivi e vegeti” e in grado, soprattutto dal vivo, di fare ancora della buona musica; registrato a dicembre del 2012 in quel di Lake Worth, Florida, del sano hard rockin’ blues di grana grossa, ma ricco anche di finezze e tanta energia, gli appassionati del genere sanno di cosa stiamo parlando ed il disco è assolutamente valido.

Bruno Conti     

L’Arte Della Slide Guitar! Ron Hacker – Live In San Francisco

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Ron Hacker – Live In San Francisco – Ronhacker.com

Quando, circa un anno e mezzo, parlavo del precedente disco di Ron Hacker, (bravi-ma-sconosciuti-ron-hacker-and-the-hacksaws-filthy-anim.html), in termini più che lusinghieri, tra le cose dette, una, scontata, ma non per questo meno vera, era che sarebbe stato bello se il nostro amico avesse registrato un bel album dal vivo (si dice sempre, sarà scontato, ma per certi tipi di performers, è la pura verità), magari al Saloon, che era il locale dove Hacker era solito esibirsi, Non è passato neppure un anno, e tac, registrato il 30 novembre del 2011, ma pubblicato oggi, esce questo Live In San Francisco, non al Saloon ma al Biscuits And Blues, che a giudicare dal rumore di ambiente e da quello del pubblico, che si percepisce dal CD, a occhio (e a orecchio), deve essere una venue dove possono entrare poche decine di persone, ma non è il numero che fa la qualità.

Non posso che confermare quanto di buono detto su Ron Hacker, che è sicuramente uno dei migliori nell’arte della slide e che dal suo strumento estrae ogni stilla possibile di blues, potente e ad alta densità, degno dei migliori Johnny Winter, John Campbell, o Ry Cooder annate con Taj Mahal , già citati in passato e qui ribaditi, con il più lo spirito dei grandi bluesmen, da John Lee Hooker e Elmore James passando per Willie Dixon, Sleepy John Estes (pard del suo “maestro” Yank Rachell), Son House e in generale di tutti i grandi che vengono rivisitati nel vorticoso stile di Hacker.

Quello che si ascolta in questo album è del Blues di grande energia, nulla di nuovo ma eseguito con una forza, una grinta e una maestria che dividono il grande disco dal compitino eseguito con poca voglia. Siamo quindi di fronte ad un album di blues elettrico, molto “carico”, ma sempre all’interno dei parametri delle classiche 12 battute e che sfiora il rock-blues senza mai varcarne completamente i confini labili. E comunque è un bel sentire. Dai primi secondi di Ax Sweet Mama, un brano appunto di Estes, che apre il concerto con un bottleneck solitario e la voce di Ron Hacker, capisci subito di trovarti di fronte a qualcuno che conosce a fondo la materia, la vive fin nelle pieghe più recondite e la riversa sul pubblico in un torrente di note (il brano, se la memoria non mi difetta è conosciuto anche come Sloppy Drunk). Il basso pulsante di Steve Ehrmann e la batteria di Ronnie Smith innestano i ritmi classici che stimolano la creatività di Hacker, che prende subito di petto una versione cattiva di Meet Me In The Bottom, un brano di Willie Dixon per Howlin’ Wolf, che però come in molte storie del blues, potrebbe essere anche Down In The Bottom, che facevano anche gli Stones, che a sua volta era una bastardizzazione di Lawdy Mama, con testo e musica riveduti e corretti, ma nel blues funziona così e nessuno si offende (per la verità il buon Willie un poco si era incazzato con Page e Plant, ai tempi), per non sbagliare Ron ci dà dentro alla grande. Poi si accelera a tempo di boogie, per uno sfolgorante medley tra Baby Please Don’t Go e Statesboro Blues, suonati come Dio comanda e che si innestano uno dentro all’altro come un coltello nel burro. Welfare Store è un vecchio classico di Sonny Boy Williamson, lento e cadenzato con chitarra e voce che scandiscono le note come se ne andasse della vita dell’interprete, che aggiorna il testo del brano al presidente Obama (che è perfetto perché fa rima con mama) e ai giorni nostri.

My Bad Boy è un brano originale scritto dallo stesso Hacker e dedicato al figlio quando questi aveva 18 anni (ora ne ha 40 e Ron ne compirà 68 quest’anno), e il risultato non sfigura con i classici fin qui sfornati, ma Death Letter di Son House è sempre un gran brano e questa versione è veramente gagliarda, con la slide che viaggia rapida e tagliente. Uno dei maestri dello stile, forse l’inventore, è stato il grandissimo Elmore James, di cui viene riproposta It Hurts Me Too, una delle più belle canzoni mai scritte (e suonate) nell’ambito Blues. Two Timin’ Woman, strepitosa, a livello di boogie, potrebbe dare dei punti a Winter, Thorogood e forse anche a Hound Dog Taylor e anche il match con Johnny Winter nella “sua” Leavin’ Blues, potrebbe finire in un bel pareggio. Per concludere la serata (e il disco) in bellezza, un bel brano di John Lee Hooker come House Rent Blues ci sta proprio a pennello. Tra l’altro Hacker racconta che in una serata con Roy Rogers gli capitò di suonare il brano proprio di fronte al suo autore, ottenendo da quel vocione inconfondibile un responso positivo, che è come avere la laurea honoris causa e anche noi gliene conferiamo con piacere una, in Blues, che non rimanga un segreto!

Bruno Conti