Il Secondo Disco Del 2020, Anche Meglio Del Precedente! Drive-By Truckers – The New Ok

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Drive-By Truckers – The New Ok – ATO Records

Tra l’uscita di American Band (il disco pubblicato nel periodo della campagna elettorale che avrebbe portato alla elezione di Trump) e quella di The Unraveling (dopo tre anni di The Donald e l’imminente arrivo del corona virus) erano passati quasi quattro anni, mentre in questo 2020 Patterson Hood e il suo socio Mike Cooley (oltre agli altri tre componenti dei Drive By-Truckers) hanno sentito il bisogno di pubblicare un nuovo album nello stesso anno, concepito durante il periodo di inattività concertistica causata dalla pandemia e l’impossibilità di incontrarsi tra Hood che vive a Portland, Oregon e Cooley a Birmingham, Alabama, ma registrato in gran parte a Memphis nelle stesse sessions del 2018 che hanno dato vita all’album precedente. L’album è stato rilasciato per il download ad inizio ottobre, e viene pubblicato in formato fisico il 18 dicembre: quindi era uscito in digitale in una sorta di interregno in cui non si sapeva ancora il risultato delle elezioni, come una chiamata alle armi pacifica (ma molto incazzosa) agli elettori, e la buona notizia per molti è che Trump ha perso, anche se al momento in cui scrivo non vuole mollare il cadreghino della Casa Bianca a Biden.

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A prescindere dai contenuti politici e sociali (che comunque negli ultimi album della band sudista sono molto presenti e che indicheremo brevemente nel corso della recensione) il disco conferma il periodo di ottima vena musicale del gruppo, in ogni caso sempre rimasta nella loro quasi venticinquennale carriera su livelli vicini alla eccellenza. Partiti come gruppo alternative rock, hanno poi aggiunto elementi country e sono arrivati a quel moderno southern rock del 21° secolo, ben esemplificato nel bellissimo Southern Rock Opera del 2001 e in molti altri CD usciti negli anni a seguire. Anche The New Ok, dal titolo alla fine profetico, benché al momento del suo concepimento aveva un accento più pessimista, si rivela un album di notevole fattura: la title track illustra subito lo spirito testuale della canzone di Hood “Goons with guns coming out to play/It’s a battle for the very soul of the USA/It’s the new OK,” la musica non è violenta, comunque ha un bel drive sostenuto, su cui si innestano le chitarre di Patterson e Mike e le tastiere di Jay Gonzalez, la melodia come al solito non manca nelle canzoni della band e il produttore storico David Barbe evidenzia al solito in maniera brillante il tipico spirito southern-roots del loro stile, che quando ci sono anche le canzoni come in questo disco, li inserisce nel novero delle migliori band rock americane https://www.youtube.com/watch?v=kR8ec75oPrA .

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Tough To Let Go, sempre di Hood, che scrive sette delle nove canzoni, aggiunge anche elementi soul (d’altronde con un babbo che lavorava ai Muscle Shoals non sorprende) in una sorta di heavy ballad, dove l’organo e i coretti e i fiati nel finale rendono il tutto più maestoso https://www.youtube.com/watch?v=Od6nzGj7yK4 ; The Unraveling prende lo spunto dal titolo dell’album precedente e inizia a picchiare di brutto, come loro sanno fare, voce filtrata, ritmi accelerati e quell’aria esuberante del rock americano più pimpante con chitarre sventaglianti a destra e a manca https://www.youtube.com/watch?v=PCyOcKvA9Oo . The Perilous Night era già uscita come singolo nel 2017, molto riffata e sempre con un testo che non si nasconde dietro perifrasi ( “Dumb, white and angry with their cup half-filled/Running over people down in Charlottesville/White House Fury, it’s the killing side he defends”), la canzone è stata re-incisa aggiungendo un pianino jazzy nel finale e nella parte centrale un assolo torcibudella di Hood https://www.youtube.com/watch?v=1jAuXReZlGg , mentre l’unico contributo di Cooley Sarah’s Flame ricorda l’intervento di Sarah Palin che per certi versi permise a Trump di vincere le elezioni precedenti, una placida ballata con uso di acustica e piano elettrico, che contrasta con il testo al vetriolo https://www.youtube.com/watch?v=p_7cOp2sTk8 , mentre Sea Island Lonely è un altro pezzo di impianto più vicino al soul, di nuovo con organo e fiati ad evidenziare lo spirito dei vecchi brani Stax o comunque un aura rock got soul che quando entrano i fiati ricorda certe canzoni di Otis Redding https://www.youtube.com/watch?v=Lf2ReDHrszg .

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La scandita The Distance forse è l’unico episodio minore del disco, molto attendista nella parte iniziale, su un groove marcato del basso e l’uso di un banjo, non decolla completamente, mentre Watching The Orange Clouds, che tratta dei disordini razziali e sociali dell’America attuale, visti dalla “sua” Portland, è un mid-tempo elettroacustico con un suggestivo assolo di slide. In chiusura una violentissima ed esuberante cover di The KKK Took My Baby Away dei Ramones (ebbene sì) https://www.youtube.com/watch?v=0l_tIcUDd38 che sigilla un altro ottimo album dei Drive-By Truckers.

Bruno Conti

Tra Nuovo E Vecchio, Un Outsider Da Scoprire Assolutamente. Steve Azar – My Mississippi Reunion

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Steve Azar – My Mississippi Reunion – Ride Records

Steve Azar è il classico artista di culto, un musicista che ha saputo muoversi tra stili diversi: il country dei primi dischi, la roots music, il soul bianco e nero, lui definisce la sua musica “Delta Soul” , e ha anche fatto un disco con questo titolo, e quindi il blues rimane sullo fondo, visto che viene proprio da Greenville, Mississippi, una delle patrie delle 12 battute. Steve è un cantautore prestato al blues, o forse viceversa, visto che le canzoni se le scrive e se le canta, magari come nel precedente eccellente Down At The Liquor Store, recensito tre anni fa e in cui era accompagnato dai King’s Men, una pattuglia di musicisti che in passato aveva suonato con alcuni Kings, da Elvis a B.B. , da cui il patronimico https://discoclub.myblog.it/2017/10/17/quasi-un-piccolo-classico-del-rock-steve-azar-the-kings-men-down-at-the-liquor-store/ .

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Ma essendo un artista indipendente cerca sempre di sfruttare al meglio il materiale che incide: già Delta Soul conteneva un misto di canzoni nuove (quattro) e rivisitazioni di vecchi brani incisi ex novo (cinque), ma in questo My Mississippi Reunion Azar fa un ulteriore passo avanti, costruendo una sorta di concept album alla rovescia, dedicato alla sua terra di origine, una serie di brani , undici in tutto, di cui otto estratti da vecchi album, alcuni rimasterizzati, altri reincisi, più tre canzoni nuove, di cui una registrata con Cedric Burnside, un perfetto caso di riciclo ecodiscografico, nulla si butta, tutto si riutilizza. Se poi i suoi dischi sono pure poco conosciuti, è una ulteriore spinta per avvicinarsi alla sua musica.

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Anche nelle canzoni nuove, prevale comunque lo stile discorsivo e cantautorale di Steve, in possesso di una bella voce piana, con uno spiccato gusto per le melodie, come per esempio la delicata Rosedale posta in apertura, inizio attendista, con acustiche, organo, piano, violino e archi, poi entra con il botto il resto del gruppo, la musica si anima, sembra di ascoltare ancora una volta i grandi cantautori degli anni ‘70, sparo un po’ di nomi? Guthrie Thomas, i texani doc, ma anche Springsteen, Mellencamp, nelle loro derive più roots https://www.youtube.com/watch?v=LgIO5P0JZt0 , mentre nel secondo brano Midnight, ancorato da un basso pulsante, citerei pure il primo Dirk Hamilton, e come affinità elettive magari gente come Jim Lauderdale, Lyle Lovett o Marty Stuart, quelli che danno del tu al country d’autore , anche se con vocalità e stili differenti, ma la qualità non manca in un brano arioso ed avvolgente, dove spunta anche una tromba e poi c’è un bellissimo assolo di chitarra https://www.youtube.com/watch?v=uz40V0o-myU ; il richiamo del blues è molto più marcato nella sanguigna Coldwater, un duetto a due voci con Burnside, che suona anche una slide tangenziale che impreziosisce questo bellissimo brano, firmato come tutti quelli contenuti nel CD dallo stesso Azar https://www.youtube.com/watch?v=YP6R7OXshrY .

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One Mississippi è un brano commissionato nel 2017 a Steve dal governatore dello stato della Magnolia per il bicentenario, un pezzo mosso e brioso che potrebbe rimandare al sound dei grandi Amazing Rhythm Aces https://www.youtube.com/watch?v=SB5BL8qi8kQ , anche Flatlands che era su Indianola, l’album del 2007 (e pure su Delta Soul), è un pezzo rock tirato e chitarristico, di nuovo con una bella slide in evidenza, con la band che gira alla grande https://www.youtube.com/watch?v=VDI6rhU5rVs , seguita da Rena Lara, un ottimo country got soul posto in apertura di Down At The Liquor Store, con chitarra e organo molto presenti ed inserimenti dei fiati, per un brano veramente bello. Greenville era la canzone che chiudeva il disco appena citato, una ballata pianistica, che ricorda in modo impressionante Jackson Browne https://www.youtube.com/watch?v=AWzRfuEw_4A .

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Sweet Delta Chains viene da Slide On Over Here del 2009, un funky fiatistico coinvolgente, con piano elettrico e chitarre che ricordano il blues-rock meticciato dei Little Feat, grazia anche a una slide malandrina https://www.youtube.com/watch?v=jcDXmqcuv4E ; viceversa Indianola, dal disco omonimo, è una bella ballata mid-tempo sudista, con interplay tra armonica e bottleneck, sempre cantata con grande partecipazione da Azar, con Mississippi Minute, estratta da Delta Soul Volume One, un altro brano in bilico tra rock e blues, con una bella acustica “Harrisoniana”, e in chiusura troviamo Highway 61, il brano scritto con il bravo James House che apriva il disco appena ricordato, con la Weissenborn in primo piano insieme all’organo, pure questa una bella canzone della serie non solo blues https://www.youtube.com/watch?v=RhV7qBNJdFo , per questo riassunto con nuovi brani di questo musicista che si conferma un outsider di lusso da scoprire assolutamente.

Bruno Conti

Più Di 40 Anni Dopo Quello A L.A. Un Bel Fine Settimana A Londra. George Benson – Weekend in London

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George Benson – Weekend In London – Mascot/Provogue

42 anni fa usciva Weekend In L.A, un disco dal vivo di jazz, R&B e funky, registrato l’anno prima al Roxy Theatre di Los Angeles, album che vendette più di un milione di copie ed arrivò fino al 5° posto delle classifiche americane, grazie anche alla canzone trainante, una cover trascinante di On Broadway, dove George Benson, perché di lui stiamo parlando, andava alla grande anche di scat, senza dimenticarsi di accarezzare la sua chitarra elettrica, di cui era uno dei grandi virtuosi, sin da quando uscirono i primi album a metà anni ‘60, per Prestige, Columbia, Verve, A&M e poi dal 1971 per la CTI, dischi nei quali il suo stile si spostò man mano dal jazz iniziale ad uno stile che incorporava anche R&B, light funky e smooth jazz, fino ad arrivare nel 1976, dopo il passaggio alla Warner Bros, al successo clamoroso di Breezin’ e anche di In Flight. Poi negli anni successivi a Weekend In L.A. la sua musica si è sempre più commercializzata, perdendo parte dello spirito iniziale e aggiungendo anche molti elementi pop, arrivando pure a sfiorare la disco.

george-benson-Photo-DavidWolffPatrick-Redferns@1400x1050David Wolff – Patrick / Redferns

Ammetto che me lo ero perso per strada moltissimi anni fa, ma poi all’improvviso lo scorso anno, dopo il passaggio alla Mascot/Provogue (e sotto l’egida del produttore Kevin Shirley, famoso soprattutto per il suo lavoro con Joe Bonamassa), pubblica un album molto bello Walking To New Orleans, un omaggio alla musica di Chuck Berry e Fats Domino, suonato e cantato con grande passione e con risultati eccellenti https://discoclub.myblog.it/2019/05/04/il-classico-disco-che-non-ti-aspetti-veramente-una-bella-sorpresa-george-benson-walking-to-new-orleans/  Prima di quel disco Benson intraprende (non nell’era Covid, in rete si legge che Benson avrebbe suonato a Londra nel 2017) un tour mondiale che lo porta anche a Soho, al celebre Ronnie Scott’s Jazz Club (un piccolo locale con 250 posti, che però ha fatto la storia della musica), circa 45 anni dopo la sua ultima apparizione nel locale, creando una sorta di continuità con il vecchio Weekend in L.A., visto che anche il Roxy a Hollywood è una venue che contiene 500 persone scarse, e quindi era quasi inevitabile che il nuovo CD in uscita (al solito lo ascolto prima e quindi ho poche notizie) si chiamasse Weekend In London. Il suono purtroppo, almeno per me, torna a virare verso quello dei vecchi album, senza sbracare troppo, ma con molte concessioni verso le abitudini sonore del passato, con parecchio spazio per i vecchi successi (ma niente On Broadway che avrei ascoltato volentieri, ma magari l’ha suonata e non è stata inserita nel disco).

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Si parte con Give Me The Night, dove l’artista di Pittsburgh può indulgere nei suoi classici ritmi levigati e ballabili, nobilitati da qualche accenno di scat e dal lavoro fluido della sua fedele Ibanez, perché questo signore a 78 anni suonati è ancora sia un ottimo cantante che un virtuoso della chitarra, aiutato da un gruppo numeroso dove gentili signorine lo aiutano, anche troppo, nelle armonie vocali, le ritmiche sono rotonde, fiati, tastiere a go-go e archi (presumo sintetici) molto presenti per un suono che Shirley cerca di contenere da derive troppo zuccherose, non sempre riuscendoci, ma tutto scorre in modo comunque piacevole e suonato molto bene https://www.youtube.com/watch?v=Eqmw8rM1LWg . Turn Your Love Around, Love X Love, You Eyes, ogni tanto ci sono dei soprassalti di qualità, come per I Hear You Knocking di Dave Bartholomew via Dave Edmunds, dove il suono si anima https://www.youtube.com/watch?v=1TAqaZEEgxs , o nella cover eccellente di The Ghetto di Donny Hathaway in cui si suona della ottima soul music https://www.youtube.com/watch?v=lGYdMvsnIuw , decisamente più “leccate” Nothing’s Gonna Change My Love For You e Feel Like Makin’ Love di Roberta Flack, anche se in entrambe ci sono assoli degni di nota.

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Meglio la cover di Don’t Let Me Be Lonely Tonight di James Taylor, raffinata e notturna, con il solito lavoro di fino della chitarra di George https://www.youtube.com/watch?v=qOOoEJ1m_qM , come pure Moody’s Mood, ispirata dal celebre jazzista James Moody, che sembra quasi un brano di Nat King Cole. Love Ballad e Never Give Up On A Good Thing illustrano il lato più disimpegnato e danzereccio di Benson, mentre la cover dello strumentale di Affirmation di José Feliciano rappresenta, in modalità fusion, la sua grande perizia alla chitarra, mentre Cruise Control dal suo disco GRP del 1998 Standing Together, mette in mostra di nuovo il suo inconfondibile scat voce-chitarra e la bravura della band. In complesso, come detto, un po’ leggerino, ma piacevole, ovviamente per chi ama il genere.

Bruno Conti

Un Altro “Grosso” Protetto Di Mike Zito. Kevin Burt – Stone Crazy

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Kevin Burt – Stone Crazy – Gulf Coast Records

Il famoso detto recita “una ne fa e cento ne pensa”, ma nel caso di Mike Zito dovremmo modificarlo in “cento ne pensa e cento ne fa”, in quanto il nostro texano preferito è sempre impegnatissimo con nuovi progetti. Certo aiuta molto il fatto che avere una studio casalingo vicino a casa, soprattutto in questo periodo di pandemia durante il quale i musicisti non possono andare in giro in tour e quindi si occupano delle loro cose: nel caso di Zito anche il fatto di avere una propria etichetta è ulteriore stimolo. E quindi in questi mesi di quarantena ha “prodotto” molto: andando a ritroso troviamo nuovi album di Kat Riggins, il ritorno dei Louisiana’s Le Roux, l’ottimo disco della Mark May Band, quello dei Proven Ones, lo stesso Zito con Quarantine Blues. Il comune denominatore è che sono tutti belli: ora si aggiunge anche questo CD di Kevin Burt, registrato a giugno ai Marz Studios di Nederland. Texas, dove vive il buon Mike.

Come si rileva facilmente dalla foto di copertina Burt è una “personcina” più o meno delle dimensioni di Popa Chubby, e che brandisce la sua Gibson come fosse uno stuzzicadenti: alla registrazione di Stone Crazy hanno partecipato alcuni dei fedelissimi di Zito, ovvero l’ottimo Lewis Stephens a piano e organo, e la sezione ritmica formata da Doug Byrkit al basso e Matthew Johnson alla batteria, con lo stesso Zito che aggiunge anche le sue chitarre a profusione. Burt scrive tutte le canzoni, con l’eccezione della cover di Better Off Dead di Bill Withers. Ah dimenticavo, Mr. Burt, che suona anche l’armonica nel disco, è uno di quelli bravi, ottimo strumentista e voce potente, ma anche duttile, influenzata sia dal blues come dal soul, forgiata in 25 anni di musica on the road, che lo ha portato in giro in tour per gli States, a registrare un paio di CD precedenti autogestiti e a vincere alcuni premi nelle consuete classifiche blues.

Si parte subito forte con il blues di I Ain’t Got No Problem With It, dove l’armonica guida le volute di un brano fortemente influenzato da funky e R&B, mentre Kevin canta con brio, nella successiva Purdy Lil Thang si viaggia su territori cari allo swamp rock di Tony Joe White o al sound dei Creedence, chitarre acustiche ed elettriche in bella vista, l’ottima voce sempre in evidenza, mentre Rain Keeps Comin’ Down, con slide ed armonica a guidare le danze ha forti elementi sudisti nella costruzione del brano, ed un ottimo lavoro al bottleneck; la title track è una bella soul ballad, calda e suadente, sempre con la voce espressiva di Kevin in primo piano, per un sound che non è giocato su un lavoro da axeman, ma più da musicista raffinato, quale e è il nostro amico. In Busting Out entra in azione l’organo di Stephens e il suono si fa più pressante ed incisivo, sempre con derive funky e southern vintage anni ‘70 e un bel groove della band, mentre la chitarra inizia a lavorare di fino con un bel assolo.

Same Old Thing è un’altra piacevole ballata mid-tempo più influenzata dal blues, con Kevin che canta con fervore e lascia andare la solista con classe e feeling, You Get What You See è un boogie-shuffle dal bel drive, dove appare anche un sassofono non accreditato e un sound che richiama alla Marshall Tucker Band, con il plus della voce di Burt che è veramente un cantante espressivo. La musica sudista classica torna anche nella elettroacustica Something Special About You un rock got soul in crescendo di grande fascino, ottima anche Should Have Never Left Me Alone, un blues con uso R&B, che grazie anche alla presenza costante dell’armonica mi ha ricordato i non dimenticati Wet Willie di Jimmy Hall, ed eccellente anche la cover di Better Off Dead di Withers, dove il soul dell’artista nero viene coniugato con il rock in modo impeccabile, con la conclusiva Got To Make A Change dove una slide minacciosa ed incombente caratterizza un altro brano di ottima fattura dove la band e Kevin Burt hanno modo di mettere in evidenza con personalità la loro bravura. Ottimo ed abbondante.

Bruno Conti

Sempre Tra Blues E Soul Il Musicista Di Boise Conferma Il Suo Valore. John Nemeth – Stronger Than Strong

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John Nemeth – Stronger Than Strong – Nola Blue Records

Nuovo album anche per John Nemeth, il cantante ed armonicista dell’Idaho, ma dal 2013 cittadino di Memphis, una delle più belle voci della scena americana tra blues e soul. Lo avevamo lasciato nel 2018 alla guida della Love Light Orchestra con un disco dal vivo Live from Bar DKDC in Memphis, TN! dove rivisitava il sound delle Big Band Blues, quelle per intenderci di Bobby “Blue” Bland e B.B. King, ma anche tante altre, dedite a quello stile di Soul Revue dove le traiettorie del Memphis Sound si intrecciano con le 12 battute classiche https://discoclub.myblog.it/2018/02/15/che-band-che-musica-e-che-cantante-divertimento-assicurato-the-love-light-orchestra-featuring-john-nemeth-live-from-bar-dkdc-in-memphis-tn/ . Ma Nemeth è anche cultore di un blues got soul, a volte esuberante e anche fiatistico, come nell’ottimo Feelin’ Freaky del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/06/27/blues-got-soul-da-una-voce-sopraffina-john-nemeth-feelin-freaky/ , o nel torrido Memphis Grease del 2014.

Insomma il buon John non sbaglia un disco: anche per questo nuovo Stronger Than Strong si è recato agli Electrophonic Recording Studios gestiti da Scott Bomar dei Bo-Keys, che sono gli eredi diretti degli Hi-Studios dove negli anni ‘70 a Memphis nasceva la musica di Al Green, Ann Peebles ed altri luminari, in pratica è uscito di casa e ha fatto quattro passi, per arrivare sul posto di “lavoro”, dove lo aspettavano i componenti delle sua touring band, The Blue Dreamers, una band giovane ma ricca di talenti, guidata da uno degli astri nascenti della chitarra blues&soul come John Hay, e la sezione ritmica formata dal batterista Danny Banks, e dal bassista Matt Wilson, più Nemeth che come detto è anche ottimo armonicista, il produttore Bomar è all’occorrenza tastierista di pregio, e quindi questa volta il suono è più compatto e grintoso, come testimonia subito la gagliarda Come And Take It che ci trasporta sulle rive del Mississippi per un Country Hill Blues, voce filtrata (ed è un peccato) e chitarra “sporca” per un sound alla Fat Possum https://www.youtube.com/watch?v=EE6w4tLJG64 , ribadito anche nella successiva Fountain Of A Man dove Nemeth soffia con forza nell’armonica, Banks e Wilson trovano un groove veramente cattivo e Banks strapazza le corde della sua solista, mentre John lascia anche andare in libertà la sua voce, in un brano travolgente.

Non mancano momenti più raffinati come nella cover di una vecchia B-Side di Junior Parker Sometimes, dove il nostro amico gigioneggia con la voce come lui sa fare, o rocka e rolla come nel rocking boogie della potente Throw Me In The Water dove la band va come un treno, poi passando allo shuffle targato Chicago Blues di Chain Breaker che sembra uscire da qualche vecchio vinile Chess o Delmark, ma anche dalle rielaborazioni delle 12 battute di Blues Brother (visto che anche Nemeth è un bianco) e altri di successive generazioni. E il soul mi chiederete? Ci sta, ci sta, introdotto dal basso pulsante di Wilson John Nemeth comincia a lasciare andare la sua ugola vellutata nella deliziosa Bars, dove il suo timbro tenorile è godibile come sempre, mentre Hay va di classe e finezza in un assolo cesellato; non manca una divertita I Can See Your Love Light Shine, di nuovo con il dancing bass di Wilson in azione e Banks che lo segue con le sue percussioni molto presenti, qualche accenno gospel mentre anche Hay titilla di nuovo il capo con la sua solista ricca di feeling, che poi sposta il sound verso lidi che ricordano i primi Fabulous Thunderbirds di Vaughan e Wilson, dove il blues e il rock erano parenti stretti, ma con l’aggiunta di un signor cantante che guida pure i coretti dei suoi pards nella eccellente Depriving A Love.

Work For Love, sta tra blues puro e funky, come in certe cose di un collega della stessa parrocchia musicale, Boz Scaggs, armonica pronta alla bisogna, voce felpata e sinuosa, il basso che va di groove come se il funky lo avesse inventato lui, poi arriva di nuovo Hay che completa il lavoro; e non poteva mancare una ballata sublime, come l’unico successo targato fine anni ‘50 del dimenticato Jesse Belvin, al quale Nemeth rende merito con una interpretazione da manuale del soul e del R&B di Guess Who, cantata con il cuore in mano e suonata in modo sublime dalla band di John, più l’organo di Bomar che sottolinea un assolo da urlo di Banks, che distilla di nuovo grande musica. Per concludere arrivano la deliziosa She’s My Punisher tra swing e doo-wop alla Sam Cooke e per non farsi mancare nulla anche un divertente e coinvolgente boogaloo come Sweep The Shack, di nuovo con Hay sugli scudi. Bravi tutti! L’unica nota negativa, che mi preme sempre segnalare, è la scarsa reperibilità del CD, soprattutto per noi europei (con spese di spedizione proibitive per noi europei)

Bruno Conti

Dai Sobborghi Di Brooklyn Alle Rive Del Mississippi, Un’Altra Grande Voce. Bette Smith – The Good The Bad And The Bette

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Bette Smith – The Good The Bad The Bette – Ruf Records

Pettinatura Afro, corporatura prorompente, a Milano affettuosamente si dice “una bella paciarotta”, solo una piccola differenza grafica con l’altra Smith, la più famosa Bessie, anche se il genere non è proprio lo stesso, ma è passato un secolo, e non è un modo di dire: la nostra Bette Smith viene dai sobborghi di Brooklyn, NY, ha esordito tre anni fa con un disco Jetlagger, pubblicato dalla Big Legal Mess/Fat Possum Records, prodotto da Jimbo Mathus degli Squirrel Nut Zippers, che l’ha portata nel Mississippi, dove l’aspettavano Matt Patton, basso e Bronson Tew, batteria, che sono la sezione ritmica dei Drive-By Truckers, insieme ad altri musicisti, per registrare un album di funk/soul, R&B, rock, per sintetizzare diciamo blues contemporaneo, materiale in gran parte originale, ma con un paio di cover, un Isaac Hayes e I Found Love della coppia Maria McKee/Steve Van Zandt ai tempi dei Lone Justice, se vi capita cercatelo, perché ne vale le pena.

Ma stiamo parlando ora di questo The Good The Bad The Bette, chiara citazione Leone/Morricone, anzi ci siamo spinti ancora più in là, visto che la prima canzone del CD si chiama Fistful Of Dollars, ma le analogie con lo “spaghetti western” finiscono li: per la nuova missione lungo il Mississippi Patton e Tew sono sempre in pista, anzi sono loro i nuovi produttori, Jimbo Mathus era casualmente da quelle parti a dare una mano e suona organo e chitarra, l’etichetta è nuova, la tedesca Ruf Records, che se parliamo di blues e dintorni non si fa mancare nulla e quindi il risultato è di nuovo più che soddisfacente.

Adesso parliamo però di Bette Smith, cresciuta a pane e gospel, visto che il babbo era il direttore del coro di bambini della chiesa locale, ma lei era pure una grande appassionata di rock’n’roll, e nei lunghi anni di pratica di entrambe le passioni, a furia di cantare, deve avere consumato una parte della sua voce, visto che ora è roca e vissuta (si scherza), anche se questo non le impedisce di darci dentro alla grande nel nuovo album: organo, chitarra e fiati impazzano nella incalzante Fistful Of Dollars dove si apprezza la vocalità prorompente di Bette, a seguire arriva Whistle Stop una ballata delicata e malinconica dedicata alla madre scomparsa, dove la voce si fa più roca ed accorata, ben sostenuta da un arrangiamento complesso e curato.

Mentre in I’m A Sinner, voce riverberata e atmosfere tra psych e garage rock anni ‘60 Jimbo Mathus scatena la sua chitarra, e anche I Felt It Too non scherza quanto a grinta, un altro pezzo corale dove i musicisti si scatenano e la Smith lascia andare divertita la sua voce, con Mathus alle prese con un assolo distorto e selvaggio, doppiato da un sax in overdrive suonato da Henry Westmoreland  degli Squirrel Nut Zippers. Visto che era disponibile nei dintorni perché non utilizzare la chitarra di Luther Dickinson, e allora vai con il southern carnale di Sign And Wonders, sempre funzionale alla vocalità esuberante, ma mai sopra le righe, di Bette Smith, e non manca neppure una ode al suo amato cane, ripreso pure in un video legato all’album, nel funky, rock and soul della potente (I Wanna Be Your) Human.

Con Song For A Friend che ci riporta all’amato soul cantato con un timbro vocale quasi fanciullesco e buffo a tratti, diciamo piacevole ma non memorabile. In Pine Belt Blues la band torna a roccare e rollare, con una pattuglia di voci aggiunte che stimolano la brava Bette a darci dentro con più impeto, mentre in Everybody Needs Love, i pard Patton e Tew invitano il loro capo Patterson Hood a duettare con la Smith in un brano che come struttura sonora e melodia, anche se con un suono decisamente più grintoso, ha parecchie analogie nel ritornello con All You Need Is Love, se i Beatles avessero voluto farne un brano soul.

Per chiudere un’altra ballatona emozionale come Don’t Skip Out On Me, una storia di redenzione dove la nostra amica ha modo di mettere in mostra le sue indubbie doti vocali ancora una volta facendo ricorso ai ricordi dell’amato gospel della gioventù, e con uno splendido assolo di tromba, sempre di Westmoreland, che è la ciliegina sulla torta del brano, per un album complessivamente molto interessante e vario.

Bruno Conti

Un’Altra “Scoperta” Dell’Infaticabile Mike Zito! Kat Riggins – Cry Out

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Kat Riggins – Cry Out – Gulf Coast Records

Anche in questo caso garantisce Mike Zito, che la produce e pubblica il disco per la propria etichetta: non è il primo album di Kat Riggins, ne ha già pubblicati almeno altri tre, più un EP e uno solo in streaming, ma la cantante nera (lo so che in tempi di politically correct qualcuno storce il naso, ma non è una offesa razzista, semplice constatazione che nella nostra musica si usa normalmente) si conferma una delle voci più interessanti delle nuove generazioni, benché la cantante della Florida abbia ormai compiuto 40 anni nel 2020, peraltro in ambito blues, soul e gospel, quelli che lei frequenta, direi quasi una giovinetta. Lo stile l’ho appena svelato, ma la Riggins ha quella che si suole definire “una voce della Madonna”, con inflessioni che rimandano a Koko Taylor, Etta James e Tina Turner, non esattamente le prime che passano per strada, ma in questo nuovo album prodotto da Zito, che ama le robuste sonorità rock, ci sono analogie pure con Dana Fuchs, Beth Hart e altre paladine del blues rock’n’soul moderno.

Prendiamo l’iniziale Son Of A Gun, ritmica rock gagliarda, riff di chitarra come piovesse, e la voce di devastante potenza della Riggins, Cry Out è un grande Texas blues, con Johnny Sansone all’armonica, brano che ricorda molto l’approccio della citata Koko Taylor, chitarra in primo piano, un organo vintage e la voce profonda e risonante sbattuta in faccia di Kat, che si trova a proprio agio anche nel funky fiatistico e sincopato di una brillante Meet Your Maker, voce che sale e scende, un tocco di raucedine che la rende sensuale, e grande controllo pure nel rock-blues tirato e cattivo di Catching Up, chiaramente farina del sacco di Zito che in questo tipo di brani ci sguazza e lascia andare la sua chitarra con libidine in un vibrante assolo, e anche l’heavy blues di Truth trasuda grinta e personalità, soprattutto quando si “incazza”, va beh diciamo si inquieta, e alza la voce. Dopo l’interludio a cappella di Hand In The Hand, non manca neppure il deep soul venato di gospel della splendida ballata Heavy dove si toccano profondità quasi alla Mavis Staples, fortificato dal ricercato lavoro alla slide di Zito e con un coro di voci di bambini ad aumentare nel finale il pathos del brano.

Nella di nuovo riffatissima Wicked Tongue arriva anche Albert Castiglia a dare una mano con la sua tagliente chitarra, che aumenta ulteriormente il tasso rock del pezzo con un assolo da sballo, mentre la band picchia di brutto e il testo cita anche la “maestra” Koko Taylor. Tornano i fiati e l’organo per la vibrante Can You See Me Now, sempre con chitarre fiammeggianti, che poi scatenano un pandemonio, come direbbe il buon Dan Peterson, nel robusto heavy blues della tirata Burn It All Down con il batterista Brian Zeilie che scandisce il tempo in modo granitico, ben spalleggiato dal bassista Doug Byrkit e dall’organo di Lewis Stephens spesso protagonista nell’album (in pratica la band di Mike), mentre Zito imperversa una volta di più. Molto bella anche la spumeggiante e con un groove quasi da revue alla Ike & Tina Turner On It’s Way, fiati in spolvero e un dinamico assolo di sax nella parte centrale, ma è un attimo e siamo al classico incrocio del blues, in un altro ottimo esempio di 12 battute con lo shuffle No Sale, dove ancora una volta non si prendono prigionieri e Mike Zito estrae il suo bottleneck per un’altra sfuriata delle sue e anche Sansone all’armonica si fa sentire, mentre la voce mi ha ricordato la Beth Hart più infoiata.

In chiusura un altro “lentone” intenso e ad alta intensità rock come The Storm, dove sembra che l’ottima Kat Riggins sia accompagnata dai Led Zeppelin per una scampagnata nei territori cari a Janis Joplin. Ottimo ed abbondante, assolutamente consigliato se amate le emozioni forti e la conferma che Zito raramente ne sbaglia una.

Bruno Conti

Probabilmente La Vera Erede Della Grandi Voci Nere Del Passato! Shemekia Copeland – Uncivil War

shemekia copeland uncivil war

Shemekia Copeland – Uncivil War – Alligator Records/Ird

Ormai Shemekia Copeland è entrata di diritto tra le voci più interessanti delle ultime generazioni blues (e non solo), con una serie di album, questo è il decimo, che spesso e volentieri sono stati candidati ai Grammy e hanno vinto molto premi di settore, l’ultimo come Female Artist Of The Year 2020 per Living Blues. Tutti di qualità elevata, con punte di eccellenza appunto nel precedente America’s Child, dove tra ospiti e collaboratori apparivano John Prine, Rhiannon Giddens, Mary Gauthier, Emmylou Harris, Steve Cropper, Gretchen Peters, Tommy Womack e svariati altri https://discoclub.myblog.it/2018/09/04/alle-radici-della-musica-americana-con-classe-e-forza-interpretativa-shemekia-copeland-americas-child/ . Disco che accentuava, come in precedenti album, ma in modo più marcato, la presenza di elementi rock, soul, country e “Americana” sound, quindi tutta la musica delle radici. Per questo nuovo Uncivil War la formula viene ripetuta: stesso produttore, l’ottimo Will Kimbrough, stessi studi di Nashville, massiccia presenza di ospiti di pregio e la scelta di un repertorio molto variegato, cercato con molta cura tra alcuni classici del passato e il nuovo materiale scritto principalmente dai due produttori John Hahn e Will Kimbrough.

Poi il resto lo fanno la bellissima voce di Shemekia e le sue sublimi capacità interpretative: Clotilda’s On Fire, è una storia vera, dalla penna di Kimbrough, che anche negli Orphan Brigade è un eccellente narratore, e racconta le vicende dell’ultima nave di schiavi che arrivò n America (a Mobile Bay, Alabama nel 1859, 50 anni dopo che il traffico di schiavi era stato ufficialmente bandito). La nave fu incendiata e distrutta dal capitano per nascondere l’evidenza dei fatti, e (ri)scoperta solo nel 2019: uno slow blues di grandissima intensità, cantato con passione dalla Copeland e con Jason Isbell superbo alla chitarra solista, mentre Kimbrough e la ritmica di Lex Price, basso e Pete Abbott, batteria, lavorano di fino, come in tutto l’album, grande canzone. E la successiva Walk Until I Ride non è da meno, come ospite troviamo Jerry Douglas ad una sinuosa lap steel, e la canzone, chiaramente ispirata da quelle degli Staple Singers, anche per l’uso di elementi gospel nei cori e il gran finale emozionante , tratta l’argomento dei diritti civili, sempre di attualità anche nell’America di oggi, e che voce, Mavis sono sicuro che approverà.

Ottima pure la title track Uncivil War, sulla attuale situazione di incertezza e paura che attanaglia il mondo: uno splendido country-folk-blugrass con Douglas che passa al dobro, con Sam Bush al mandolino, Steve Conn all’organo e gli Orphan Brigade alle armonie vocali, sempre cantata con impeto da Shemekia, basterebbero queste tre canzoni per celebrarne l’eccellenza, ma anche il resto del disco, per usare un eufemismo, non è male. Money Makes You Ugly ci introduce agli straordinari talenti del suo giovane compagno di etichetta, il bravissimo chitarrista Christone “Kingfish” Ingram https://discoclub.myblog.it/2019/06/24/lultima-scoperta-della-alligator-un-grosso-chitarrista-e-cantante-in-tutti-i-sensi-christone-kingfish-ingram-kingfish/ , che ci regala una incandescente serie di assoli di chitarra in questo travolgente rock-blues, mentre la Copeland dirige le operazioni con la sua voce potente; Dirty Saint è una commossa dedica a Dr. John, un amico che non c’è più, un brano di tipico New Orleans sound, con Phil Madeira all’organo, Will Kimbrough alla chitarra e slide e un terzetto di vocalist ad alzare la temperatura.

La prima cover è una raffinata ripresa di Under My Thumb degli Stones, rallentata e trasformata quasi in un R&B intimo e notturno, mentre Apple Pie And A .45, sulla proliferazione delle armi negli USA, è una poderosa rock song con Will Kimbrough che imperversa di nuovo a slide e solista a tutto riff, con un suono cattivo il giusto. Give God The Blues del terzetto Shawn Mullins, Phil Madeira e Chuck Cannon è una sorta di preghiera laica alle 12 battute, con Kimbrough e Madeira che si dividono le parti di chitarra, mentre la Copeland declama questo carnale rock-blues cadenzato, seguito dalla divertente e tirata ode al vecchio R&R, She Don’t Wear Pink firmata da Webb Wilder che incrocia anche la chitarra con il re del twang Duane Eddy, mentre No Heart At All vede aggiungersi alla coppia di autori Kimbrough e Hahn, anche il noto produttore/batterista Tom Hambridge, con Jerry Douglas di nuovo alla lap steel in un assolo da urlo e un suono sanguigno quasi alla Ry Cooder dei tempi d’oro del blues elettrico. Per chiudere un paio di altri blues d’annata, di Don Robey una sospesa e sognante In The Dark, con Steve Cropper a duettare con Kimbrough, mentre Shemekia emoziona con una interpretazione da brividi, prima di rendere omaggio al babbo Johnny Clyde Copeland con una deliziosa blues ballad come Love Song, dove Kimbrough ci mette ancora del suo alla chitarra. Il tutto cantato e suonato come Dio comanda.

Bruno Conti

Più Di Dieci Anni Per Completarlo, Ma E’ Venuto Veramente Bene. Rev. Greg Spradlin & The Band Of Imperials – Hi-Watter

rev. greg spradlin and the band of imperials - hi-watter

Rev. Greg Spradlin & The Band Of Imperials – Hi-Watter – Out Of The Past Music

Jim Dickinson, grande amico e mentore di Greg Spradlin, muore nell’agosto del 2009: a questo punto il nostro amico decide che forse è arrivato il momento di completare quell’album che era in fase di registrazione da un po’ di tempo. Ma essendo un tipico rappresentante del Sud degli States (viene da Little Rock, Arkansas, dove è stato registrato parte dell’album, il resto sulle colline di Silverlake, nei pressi di LA, anche se non manca un certo spirito Swamp), più di tanto non può accelerare le procedure, anche per una lunga serie di contrattempi, anche importanti, comunque canzone dopo canzone, e in un arco di tempo di nove anni, il lavoro procede, il Reverendo aveva coinvolto altri amici per registrare l’album: un altro bravo chitarrista, che come Spradlin sappia suonare anche il basso, e all’occorrenza la batteria, un certo David Hidalgo che suona nei Los Lobos potrebbe andare bene, ma un batterista comunque ci vuole, che ne dite di Pete Thomas degli Imposters di Elvis Costello, al basso Davey Farragher (con una r però), che suona anche lui con Costello, ma in passato con Hiatt e e di recente con Richard Thompson, se non può venire facciamo noi, per le tastiere Rudy Copeland, uno che ha suonato con Solomon Burke e Johnny Guitar Watson, scomparso nel 2018 e sostituito da Charlie Gillingham dei Counting Crows, anche lui alle tastiere.

A questo punto, per produrre l’album con Greg, pure lui dall’Arkansas, arriva Jason Weinheimer, che è anche un chitarrista e ha fatto dei dischi con Steve Howell https://discoclub.myblog.it/2020/09/21/tra-jazz-e-blues-acustico-un-trio-molto-raffinato-steve-howell-dan-sumner-jason-weinheimer-long-ago/ , e per mixare l’album, visto che nel frattempo, dopo una lunga gestazione, lo abbiamo finito, Tchad Blake, che ha già lavorato con Hidalgo. L’album, oltre ad essere finito, è venuto anche bene, esce per una piccola etichetta, dal nome propedeutico,Out Of The Past Music, quindi non sarà facile da trovare, ma questa miscela di soul classico, gagliardo rock, blues e musica della Louisiana funziona alla grande, e Hi-Watter è un disco che vale la pena di ascoltare. Scusate se forse vi ho tediato con la lista dei nomi, ma secondo me nella musica contano, eccome se contano: vediamo dunque le canzoni.

Gospel Of The Saint è una piccola meraviglia tra gospel e soul, con un call and respone tra due voci, quella di Greg e Rudy, in modalità Billy Preston, che evoca anche il sound degli Staple Singers, una chitarra pungente, l’organo scivolante di Copeland e il ritmo ondeggiante della ritmica che trasuda serenità e gioia, Hell Or Hi-Watter è uno dei pezzi più tirati e robusti, con chitarre acidissime e organo che ci danno dentro di brutto, mentre Stainless Steel è una soul ballad maestosa, quelle che solo nel deep South sanno fare (per la verità anche la Band sapeva come maneggiare questo materiale), la fisarmonica aggiunge quel tocco di fascino in più interagendo con organo e chitarra ispiratissimi, Jessica Lee, Holly Bradley e Ashley Courtney (non so dirvi quale delle tre o forse tutte) aggiungono un sapido tocco vocale femminile.

Per l’alternanza di brani lenti ed iniezioni rock I Drew Six è un sano rock and roll, come quelli che babbo Jim Dickinson aveva insegnato ai figli Luther e Cody, e quel po’ po’ di musicisti che suonano nel disco, soprattutto le chitarre, fanno sudare gli strumenti in una veemente scarica di R&R; la successiva Don’t Make Me Wait sarà mica una ballata? Certo che sì, una di quelle che Greg Spradlin ascoltava da ragazzino sui dischi Stax della mamma, ma anche di Sam Cooke e Solomon Burke, vista la frequentazione dell’organista Copeland con il “King of Rock ‘n’ Soul“, con Rudy che restituisce quello che ha imparato, a seguire il riff’n’roll della cadenzata Go Big, sempre con chitarre inc…ose e cattive che essudano suoni senza tempo, ma sempre attuali. What Would I Do indovinate, sarà mica un lento, questa volta si va sul blues, uno slow con chitarra d’ordinanza che ricorda il Clapton più ispirato dei primi anni ‘70, e che assolo ragazzi!

Sweet Baby interrompe l’alternanza, un brano che ci riporta al suono degli Stones “americani”, con il plus di un organo alla Garth Hudson, un’altra perla di canzone che conferma la classe di Greg Spradlin anche come chitarrista, che infine congeda l’ascoltatore con la lunga The Maker, una canzone dedicata all’Onnipotente, un formidabile brano dove David Hidalgo e Spradlin incrociano le loro soliste in un duello senza limiti di squisita fattura, che potrebbe rimandare alle sfide tra Betts e Allman, o anche a quelle dei Los Lobos più ispirati. Che aggiungere di altro, grande disco, veramente una bella sorpresa!

Bruno Conti

Terzo Album In 47 Anni Per Una Leggenda Del Songwriting. Dan Penn – Living On Mercy

dan penn living on mercy

Dan Penn – Living On Mercy – The Last Music CD

Nel mondo della “nostra” musica i clamori sono quasi sempre andati giustamente a chi ha fatto la storia davanti ad un microfono o con una chitarra a tracolla (oppure seduto dietro ad una tastiera, o a un drumkit), mentre chi si è “limitato” a dare il suo contributo scrivendo canzoni ha avuto meno riconoscimenti dal punto di vista della popolarità. Tra questi, uno dei nomi più leggendari è sicuramente quello di Dan Penn, songwriter dell’Alabama impiegato ad inizio carriera nei mitici FAME Studios e che è responsabile, da solo o con altri colleghi (tra i quali gente come Chips Moman, Spooner Oldham, Eddie Hinton, Buzz Cason e Donnie Fritts) di alcune tra le più belle canzoni soul degli anni sessanta, brani portati al successo da artisti del calibro di Aretha Franklin, Box Tops, Janis Joplin, James Carr, Percy Sledge, Arthur Conley e Ry Cooder, tanto per citarne qualcuno “abbastanza” famoso.

Anche la lista delle canzoni uscita dalla penna di Penn (nomen omen) è impressionante: The Dark End Of The Street, A Woman Left Lonely, Cry Like A Baby, It Tears Me Up, I’m Your Puppet (della quale una volta Lou Reed disse che, se l’avesse scritta lui, avrebbe poi smesso di comporre in quanto non sarebbe stato in grado di superarla), Do Right Woman Do Right Man, You Left The Water Running, Rainbow Road e molte altre. Nella sua lunga carriera Penn ha anche saltuariamente affiancato l’attività di cantante a quella di songwriter, pubblicando però appena due album dagli anni settanta ad oggi, l’esordio Nobody’s Fool del 1973 ed il bellissimo Do Right Man del 1994, nel quale riprendeva a modo suo alcuni dei suoi capolavori (i successivi Blue Nite Lounge del 1999 e Junkyard Junky del 2008 sono in realtà due collezioni di demo, non incisi originariamente per essere pubblicati). Poche settimane fa Dan si è rifatto vivo alla tenera età di 78 anni (saranno 79 a novembre) con Living On Mercy, terzo “vero” album della sua discografia e nuova eccellente prova d’autore.

Penn ha infatti scritto 13 canzoni nuove di zecca insieme ad alcuni collaboratori storici (Oldham, Cason, Gary Nicholson) ed altri più recenti, eseguendole in perfetto stile blue-eyed soul con una solida ed esperta band che vede Will McFarlane alle chitarre, Clayton Ivey alle tastiere, Michael Rhodes al basso, Milton Sledge alla batteria, una sezione fiati di tre elementi e le backing vocals dello stesso Buzz Cason oltre che di Cindy Walker (che non è ovviamente la celebre songwriter country scomparsa nel 2006) e Marie Lewey. E Living On Mercy, registrato tra Nashville e Sheffield, Alabama, è un signor disco, un album di puro soul ed errebi eseguito da uno di quelli che ha contribuito attivamente allo sviluppo del genere: nonostante gli anni sulle spalle Penn non ha assolutamente perso il tocco per scrivere belle canzoni, ed anche la voce è sorprendentemente profonda ed efficace (personalmente mi ricorda molto quella di Eric Clapton). L’album inizia in modo splendido con la title track, una calda e suadente soul ballad dalla melodia decisamente bella e scorrevole ed un accompagnamento classico che vede piano elettrico ed organo dettare legge. Molto raffinata anche See You In My Dreams, un lento dal sapore errebi suonato in punta di dita e forse un tantino levigato nel suono e nei coretti femminili, ma Penn ha una presenza vocale forte ed il brano si mantiene ampiamente al di sopra del livello di guardia.

Living On Mercy è prevalentemente un disco di ballate, e Dan ce ne offre una di livello superlativo con la pianistica I Do, delizioso pezzo di chiaro stampo sixties dotato di un motivo molto piacevole: probabilmente se fosse stata scritta cinquant’anni fa sarebbe diventata un classico. Bella anche Clean Slate, un blue-eyed soul melodicamente perfetto, suonato con classe e cantato dal nostro con la padronanza ed il carisma che tanti giovani cantanti di “plastic soul” si sognano. What It Takes To Be True è un lento toccante e dal pathos elevato nonostante un synth che scimmiotta una sezione d’archi, I Didn’t Hear That Coming vede aumentare il ritmo e si rivela un pimpante errebi guidato dal piano, anche se nei due bridge il tasso zuccherino si alza leggermente, mentre Down On Music Row fin dalle prime note di piano elettrico si annuncia come una calda e struggente ballata sudista tra soul e gospel, con il suono che ricorda anche certe cose di The Band, soprattutto per l’uso particolare dei fiati: uno dei brani più riusciti del CD.

Ottima e abbondante anche Edge Of Love, con ritmo cadenzato, pianoforte alle spalle e botta e risposta tra fiati e chitarra elettrica (e Dan canta sempre meglio); Leave It Like You Found It non è male specie nella linea melodica (una costante del disco), ma è anche quella più carica di saccarosio, a differenza di Blue Motel che è uno slow cantato col cuore in mano ed uno dei pezzi in cui l’intesa tra voce solista e coro funziona meglio. Il CD termina con Soul Connection, soul-rock immediato e coinvolgente con la chitarra che assume il ruolo di strumento guida, l’elegante Things Happen, con il nostro che fa il romanticone, e One Of These Days, ennesima ballata di grande finezza dotata di un motivo tra i più belli e diretti del lavoro. Chiaramente auguro a Dan Penn una vita ancora lunga e ricca di soddisfazioni, ma non mi stupirei se in ogni caso Living On Mercy fosse il suo ultimo album come artista in proprio: se così sarà, si tratta di un congedo pienamente degno della sua reputazione.

Marco Verdi