Nothing But The Blues…And More, Senti Che Roba: Può Bastare?! Joe Bonamassa – Muddy Wolf At Red Rocks

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Joe Bonamassa – Muddy Wolf At Red Rocks -2CD/2DVD/BRD Provogue/Edel

Sappiamo tutti che Joe Bonamassa, per usare un eufemismo, è un artista prolifico, e quindi essendo passati ben sei mesi dall’ultimo, ottimo, album di studio, Different Shades Of Blue http://discoclub.myblog.it/2014/09/10/ebbene-si-eccolo-joe-bonamassa-different-shades-of-blues/ , ci si chiedeva quale sarebbe stata la prossima mossa di Joe. Ma in effetti l’artista di Utica, stato di New York, la mossa l’aveva già pianificata lo scorso 31 agosto del 2014, quando, nel meraviglioso anfiteatro naturale di Red Rocks, a due passi da Denver, Colorado, e di fronte a 9.000 entusiasti spettatori, ha organizzato una speciale serata unica dedicata al Blues ed in particolare a quello di due titani delle 12 battute come Muddy Waters e Howlin’ Wolf, da cui il titolo Muddy Wolf At Red Rocks. Negli ultimi anni il buon Joe sembra avere “messo la testa a posto”: una ottima serie di album, in studio e dal vivo (non ve li ricordo tutti perché sono veramente tanti) ma non sbaglia un colpo, e non è che prima non avesse fatto buoni dischi, ma la sua carriera, quantomeno a livello critico, era stata più discontinua. Diciamo che la collaborazione con il produttore sudafricano Kevin Shirley, ha giovato ad entrambi i personaggi, con un percorso lento ma sempre più sicuro, disco dopo disco, stanno creando un body of work che rivaleggia con quelli dei grandi Guitar Heroes del passato.

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Una delle “piccole lacune” da colmare era quella di un disco dedicato completamente al Blues; in effetti in passato Bonamassa, nel 2003, aveva già dedicato un disco che, fin dal titolo, Blues Deluxe, era un tributo alla musica del diavolo, ed infatti viene considerato uno dei dischi migliori della sua discografia, però, accanto ad alcuni brani classici, c’erano anche un paio di composizioni autografe e la title-track, a firma Jeff Beck/Rod Stewart, peraltro bellissima, che non si possono certo considerare pietre miliari della musica nera. Questa volta tutto è stato fatto a puntino: dalla scelta della band che lo accompagna, i “soliti” Anton Fig alla batteria e Michael Rhodes al basso, solidissima sezione ritmica, l’ultimo arrivato, il tastierista della Florida Reese Wynans, vecchio pard di SRV, ma che era già in pista sul finire anni ’60, con i Second Coming pre-Allmans, la sezione fiati composta da Lee Thornburg, Ron Dziubla e Nick Lane, ormai una presenza fissa negli ultimi anni, e, per l’occasione, il chitarrista americano Mike Henderson, che proprio recentemente ha dato alle stampe un nuovo album, If You Think It’s Hot Here, dopo parecchi anni di silenzio discografico, qui utilizzato, con ottimi risultati, come armonicista e Kirk Fletcher dei Mannish Boys, altro veterano del blues, alla seconda chitarra. Il risultato è un bijou, disponibile in doppio CD o doppio DVD  e Blu-Ray (con vari contenuti extra nei supporti video, tra cui un breve documentario sul viaggio di Kevin e Joe al famoso Crossroads, il dietro le quinte del concerto e materiale d’archivio dedicato a Muddy e al Wolf): secondo me il disco meriterebbe almeno 4 stellette, ma visto che ci sono ancora gli scettici che considerano Bonamassa un volgare caciarone dal suono pesante e violento, gli consiglierei di ascoltarsi questo disco o video dal vivo e ricredersi.

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Si tratta veramente di una serata blues con i fiocchi e controfiocchi: fin dall’introduzione atmosferica dello strumentale We Went Down To The Mississipi Delta, all’ultima nota dei credits che scorrono sulla finale Muddy Wolf, Bonamassa e soci dimostrano come si suona O’blues. La prima parte del concerto è dedicata al repertorio di McKinley Morganfield, in arte Muddy Waters, ed ecco così scorrere, preceduta dalla versione originale, Tiger In Your Tank https://www.youtube.com/watch?v=vlqK4DMhawk , un inizio da brividi, per un brano che molti non considerano uno dei super classici, ma che è perfetto con il suo mood swingante per aprire le operazioni, con Joe che comincia a regalarci il primo dei suoi soli, che saranno numerosi e sempre molto variati, con un perfetto uso della solista, misurata, cristallina e perfetta come in rare precedenti occasioni mi è capitato di ascoltare, sempre misurato ma in grado di regalare le sue proverbiali zampate. Da I Can’t Be Satisfied, dove da perfetto band leader comincia a chiamare gli assolo dei suoi musicisti, il primo, Mike Henderson all’armonica e poi il suo, inserito alla perfezione nel contesto di uno dei cavalli di battaglia di Waters https://www.youtube.com/watch?v=_q3L0my3cao . Ma è con You Shook Me che le cose cominciano a farsi serie, Wynans passa al piano, Bonamassa canta sempre benissimo e comincia a scaldare la sua chitarra, per quello che sarà uno degli interventi solistici più belli della serata, con un fiume lungo e torrenziale di note che inizia a scorrere con grande intensità, sembra di ascoltare il suo idolo Eric Clapton in serata di grazia, grande musica. Che non si ferma neppure con Stuff You Gotta Watch, altro swing-blues dove fiati ed interventi misurati di Henderson, Wynans, Fletcher e un ingrifato Bonamassa ci riportano alle origini del blues https://www.youtube.com/watch?v=wvOwOrBrxNI , prima di tramortirci di nuovo con una versione micidiale di Double Trouble, brano che spesso viene accostato anche alla figura di Otis Rush, ma pure a Clapton che ne ha spesso rilasciato delle versioni da manuale, e qui Joe, di nuovo baciato dall’ispirazione dimostra di nuovo perché è veramente un grande chitarrista, in uno degli altri momenti topici della serata.

Real Love raffredda brevemente gli animi (si fa per dire perché è comunque un gran canzone) ma è un attimo, perché Bonamassa dimostra di essere anche un grande chitarrista slide e indossato il bottleneck ci regala una versione devastante di My Home Is On The Delta, Chicago Blues allo stato puro, per concludere la prima parte della serata con il train time inarrestabile di All Aboard, tra sferzate di chitarra ed armonica. Lo show riprende, preceduto da un breve talking di Howlin’ Wolf che ci spiega cosa è il blues, e si riparte proprio con un super classico come How Many Years, con tutta la band in gran spolvero https://www.youtube.com/watch?v=9Tk-4aC2lok  e poi si susseguono i ritmi sincopati della immancabile Shake For Me, con retrotoni quasi R&B https://www.youtube.com/watch?v=Hv2hGTGrwvI , la scatenata Hidden Charms in odore di boogie e R&R https://www.youtube.com/watch?v=TWh57xQG3wo , prima dell’immortale riff di Spoonful, condita da un altro assolo di chitarra di quelli da sentire per credere, otto minuti di pura magia sonora, che rievocano le migliori serate dei Cream, perché siamo su quei livelli https://www.youtube.com/watch?v=MJMzjqsitq0 , seguita da un altro dei brani più conosciuti della storia, una pimpante e ricca di ritmo Killing Floor che confluisce in un’altra intensa punta della serata, di nuovo il “lupo” più cattivo, ecco il momento del Diavolo, Evil (is going on), uno slow blues dove c’è spazio anche per l’armonica di Henderson, il solito inarrestabile fiume di note di Bonamassa, ispiratissimo ancora una volta, che entusiasma il pubblico, prima di lanciare l’ultimo brano della seconda parte, All Night Boogie (All Night Long), che finisce in gloria la serata con tutto il gruppo al proscenio, musicisti di classe e sostanza come raramente è dato ascoltare in un concerto blues in questi anni moderni.

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La serata non è finita e Joe ritorna per presentare alcuni dei suoi classici, dove potrà dare luogo anche a qualche escursione con il suo pedale wah-wah, raramente innestato nel corso della serata di blues elettrico, ma ora è tempo di rock-blues, e così arrivano, l’omaggio a Jimi Hendrix di Hey Baby (New Rising Sun), Oh Beautiful e Love Ain’t A Love Song, che allora erano nuove per il pubblico presente, una tiratissima Sloe Gin ed un’epica Ballad Of Joe Henry, tra le due quasi venti minuti di rock-blues feroce e selvaggio che illustrano anche il lato più heavy ed entusiasmante della musica del nostro amico. Titoli di coda, fine: uno dei migliori album dal vivo di questi anni, dovrebbe bastare!

Bruno Conti

Brava Anche Lei, Altra Voce Di Classe! Cathy Lemons – Black Crow

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Cathy Lemons – Black Crow – Vizztone

Cathy Lemons non è una “giovane pischella del bigoncio” è una veterana (“Mistress of The Blues” recita il suo sito) che da oltre 25 anni si muove in quel territorio che sta tra Blues (principalmente), soul, rock, funky e un pizzico di gospel. Nella sua carriera ha cantato con Stevie Ray Vaughan, John Lee Hooker (già nel lontano 1987), Tommy Castro, Anson Fundeberbergh, con cui ha mosso i primi passi, Doug James e Volker Strifler che appaiono anche come ospiti in questo Black Crow, il terzo album della sua discografia.

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Definita una sorta di Howlin’ Wolf in gonnella e dalla voce vellutata e ipnotica, ma le iperboli sono all’ordine del giorno, soprattutto nella critica blues, direi che si tratta “semplicemente” di una brava cantante, tanto per avere una idea potremmo essere più o meno dalle parti di una Janiva Magness (forse non così brava, per onestà): nativa del Wisconsin, ma cresciuta musicalmente in Texas (dove ha conosciuto Funderburgh e SRV), la Lemons, già dalla seconda metà degli anni ’80 opera soprattutto nella Bay Area, San Francisco e dintorni. Anche la brava Cathy, come altre donne nel blues, pure la Magness appena citata, è stata una “late starter”: il primo disco, Dark Road è uscito nel 2000, quando di anni ne aveva già 42 (sempre dire l’età delle signore, per par condicio). Il secondo, Lemonace, esce nel 2010, poi ha sciolto la sua partnership musicale ed affettiva con il bassista Johnny Ace, che durava da 17 anni ed è iniziata la parte tre della sua carriera, con dolori d’amore e nella vita che sono spesso l’oggetto di canzoni struggenti e ricche di pathos: la nostra amica Cathy ne ha scritte sei per questo nuovo album, registrato con la sua nuova band che vede Stevie Gurr alla chitarra, Paul Olguin al basso (che ha lavorato con Maria Muldaur e Bonnie Raitt, altre due donne che trattano bene l’argomento), Theron Person  alla batteria, Kevin Zuffi alle tastiere, tutti bravi ma non particolarmente conosciuti, più Doug James al sax (dalla band di Jimmie Vaughan e dai Roomful Of Blues).

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Il risultato è un disco solido e piacevole, uscito da poco per la Vizztone, una etichetta che ultimamente ha pubblicato i lavori di Bob Corritore, Candye Kane, della Ruff Kutt Blues Band, Dave Riley, in passato Bob Margolin, che è uno dei fondatori della piccola casa, ed è una certezza in questo ambito musicale. Il suono è bello pimpante, come la voce, quindi si parte con una I’m A Good Woman, scritta da Kim Wilson, un bel errebì dal groove poderoso, con ritmica e gli interventi delle due chitarre e del sax che sostengono la voce sicura e grintosa della Lemons https://www.youtube.com/watch?v=eWPlwi88c_w . Ain’t Gonna Do It ha un’aria più country got soul, porta la firma di Kieran Kane ed è più rilassata della precedente ma sempre ben arrangiata, con armonica e chitarre che si dividono la scena, nell’arrangiamento molto memphisiano. La title-track, Black Crow, è una bella ballata quasi di stampo sudista, potrebbe ricordare certe cose à la Lynyrd Skynyrd o Gregg Allman, rarefatte ma ricche di atmosfera, con quei crescendo tipici delle migliori cose del genere https://www.youtube.com/watch?v=ycrCDnswEDE . Stevie Gurr si divide tra chitarra ed armonica, come nell’ottima Hip Check Mama, a tempo di boogie, dove tutta la band ci dà dentro di gusto e la Lemons arrochisce la sua voce, tra Raitt e Magness, per rendere più rovente il tono della canzone.

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Non manca uno slow super classico come You’re In My Town Now dove Cathy gigioneggia come richiesto dal tipo di canzone, con Gurr alla chitarra e Zuffi al piano che la istigano nel giusto modo. Notevole anche la cover di It All Went Down The Drain un brano di Earl King che riceve nuovamente quel trattamento country-soul, tra New Orleans e Memphis anche grazie alla chitarra slide di Volker Strifler, che aggiunge quel pizzico di pepe alle procedure, molto bella, come la precedente peraltro. The Big Payback è proprio quella di James Brown, e quindi vai col funky, chitarrina con wah-wah, voci femminili di supporto, il sax di Doug James, il piano, tutti perfetti nel titillare la Lemons, che ci mette del suo https://www.youtube.com/watch?v=qMtrS6n2hfI . I’m Going To Try è un’altra ballatona di quelle emozionanti, un poco Etta e un poco Janis, con chitarra, organo e sax che disegnano le loro linee per permettere la migliore resa alla voce di Cathy Lemons. Texas Shuffle, come da titolo, è un omaggio all’arte di SRV, un bel blues con la chitarra di Volker Strifler che pompa alla grande. Ancora le dodici battute in evidenza con The Devil Has Blue Eyes, un brano che riprende le leggende dei classici di Robert Johnson, solo voce, acustica ed armonica, usati con gusto e perizia, che sono i tratti più evidenti di questo bel disco. Un altro nome da tenere d’occhio, prendere nota!

Bruno Conti   

“Gregario Di Lusso”? Non Solo Un Grande Chitarrista! David Grissom – How It Feel To Fly

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David Grissom – How It Feels To Fly –  Wide Lode/Blue Rose Records/Ird

Credo che per definire David Grissom il termine “gregario di lusso” possa essere usato tranquillamente, un modo di dire forse abusato ma che rende l’idea in modo chiaro, un po’ come  “non ci sono più le mezze stagioni” o “SPQR – Sono Pazzi Questi Romani” (Asterix)! Scherzi a parte, il musicista texano è proprio l’epitome del musicista for hire, chiedete a Joe Ely, John Mellencamp, James McMurtry, Chris Kinght, e a migliaia di altri che hanno usufruito dei suoi servizi nell’ultimo trentennio e più. Però Grissom ha anche cercato di farsi una carriera in proprio, per esempio negli Storyville (con la sezione ritmica dei Double Trouble, Shannon e Layton, con l’altro “manico” David Holt e con il cantante Malford Milligan), autori di tre album tra il 1994 e il 1998 quando David era stalo licenziato da Mellencamp perché suonava “troppo texano”! https://www.youtube.com/watch?v=pXJzKppxKrg

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E soprattutto una carriera solista dal 2007, che, ad oggi, ha fruttato quattro album, compreso questo How It Feels To Fly, il primo che viene pubblicato anche in Europa dalla tedesca Blue Rose. Naturalmente Grissom non ha cessato la sua lucrativa attività di sessionman (ottima quella nel recente Rhythm & Blues di Buddy Guy), ma nel corso dello scorso anno si è dedicato alla preparazione di questo disco, registrato nei suoi Spicewood Studios e ad un concerto con la sua band, al Saxon Pub, sempre di Austin, Texas, dalla quale sono stati ricavati quattro brani posti in coda del CD. Suonano con lui da qualche anno l’eccellente pianista e organista pavese Stefano Intelisano (che dagli inizi con Fabrizio Poggi & Chicken Mambo è passato alla world domination, suonando anche lui con centinaia di gruppi e solisti), il bassista Scott Nelson (Tony Price, Doyle Bramhall) e il batterista Bryan Austin. Nei pezzi di studio appaiono anche alcuni vocalist di supporto, tra cui Kacy Crowley che firma con lo stesso Grissom il brano Overnight.

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Vi vedo già chiedervi, ma il risultato? Un onesto, a tratti buon album di rock, nobilitato dalla parte dal vivo, dove ci sono un paio di cover straordinarie e percorso in tutta la sua durata, che supera l’ora (a differenza del penultimo Way Down, dove i sei brani presenti faticavano a raggiungere la mezz’ora), dalla chitarra del leader, che è poi il motivo, a ben vedere, per cui si compra un disco del genere, memori degli assolo del nostro, che so, in Letter To L.A. di Joe Ely o in tutto Whenever We Wanted e anche in Human Wheels del “coguaro” Mellencamp, due dei suoi dischi più rock. Peraltro David se la cava discretamente anche come autore (e cantante) in questo How It Feels To Fly, lo si capisce dal riffatissimo blues-rocker iniziale Bringin’ Sunday Mornin’ To Saturday Night dallo spirito stonesiano e nobilitato dal “solito” assolo fumigante di Grissom, breve e cattivo, come è spesso sua caratteristica, linee rapide e pungenti https://www.youtube.com/watch?v=rZhhye1JUdo . How It Feels To Fly, la title-track si divide equamente tra un sound che ricorda gli Who, anche per l’eccellente lavoro delle tastiere di Intelisano e della sezione ritmica, agile e potente al contempo, e come ha rilevato qualcuno, i brani più rock del non dimenticato Tommy Keene.

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Georgia Girl, firmata con Chris Stapleton, si avvale delle armonie del cantautore Drew Womack, e di un sound a metà tra le radici sudiste e il rock di Mellencamp, con qualche deriva di pop orecchiabile ma non commerciale, sempre con quella chitarra che inventa musica gioiosamente. Never Came Easy To Me, con Grissom che si divide tra acustiche ed elettriche forse ricorda il suo lavoro con il Joe Ely più rock, ma ha una bella costruzione sonora, sempre con un sound à la Stones più roots https://www.youtube.com/watch?v=y5DzWVCV-U4 . Way Jose è uno shuffle strumentale che gli permette di misurarsi con alcuni dei suoi ispiratori, da SRV a Freddie King, grandi chitarristi come lui https://www.youtube.com/watch?v=nqQpOmD8cys . La già citata Overnight è una bella ballata elettroacustica, che chissà perché mi ricorda sempre gli Stones (ma anche Mellencamp attingeva da questa musica a piene mani). Gift Of Desperation è un altro bel pezzo rock, molto solare, da sentire su qualche highway americana, ma funziona anche sulle nostre strade e Satisfied, l’altra canzone firmata con Stapleton, una bella ballata deep soul, con acustica e organo che tracciano il suono, chiude la parte in studio.

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Nella parte dal vivo David Grissom si supera, prima con una straordinaria cover di Jessica degli Allman, fatta da Dio https://www.youtube.com/watch?v=8t5zkpq9H50 , dove anche Intelisano si cimenta con successo nella parte che fu di Chuck Leavell , poi con due brani dal proprio repertorio, Way Down Deep e lo strumentale Flim Flam che ne esaltano le grandi capacità chitarristiche https://www.youtube.com/watch?v=wOlL8XaTJZQ , per concludere con una ferocissima Nasty Dogs And Funky Kings che si trovava su Fandango degli eroi di casa ZZ Top. In conclusione, ca…spita se suona, confermo: è il motivo per cui si compra un disco come questo!

Bruno Conti

Il Miglior Chitarrista Blues Di San Diego?! Charles Burton Blues Band – Sweet Potato Pie

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Charles Burton Blues Band – Sweet Potato Pie – Charles Burton.com

Il mondo è bello perché e vario, ma anche no. Prendete la musica, il blues in particolare e ancora più nello specifico i chitarristi Blues. Ogni stato e città degli USA ha un suo “eroe locale”, un virtuoso dello strumento che dai piccoli e fumosi locali dove si aggira dispensa la sua arte, piccola o grande che sia. Non so dirvi se sempre sia vera gloria, perché nel caso dovremmo avere decine, centinaia, per non dire migliaia di musicisti di cui è indispensabile avere, se non l’opera omnia, almeno una testimonianza del loro lavoro. Forse non tutti sono dei fenomeni come vengono dipinti dalla stampa specializzata e di settore, ma sicuramente sono degli onesti e valorosi lavoratori delle sette note. Prendiamo questo Charles Burton, il “miglior chitarrista” della scena blues di San Diego, come testimoniano molti premi colà ricevuti nel corso degli anni, con cinque album già alle spalle, tutti rigorosamente autogestiti, ma la cui fama difficilmente può raggiungere tutti gli angoli del mondo.

Indubbiamente bravo ma, come dicevo prima, non più di tanti altri, per intenderci forse non ha quel quid, quella scintilla che lo eleva nettamente sopra la media della produzione in circolazione. Ma gli appassionati del blues elettrico e della chitarra in particolare, si possono rivolgere ai suoi prodotti con la certezza di avere tra le mani un prodotto solido e consono alle loro aspettative. Prendiamo questo Sweet Potato Pie, l’iniziale Shake It! con il suo abbrivio quasi R&R alla Thorogood o alla Little Charlie (al leader dei quali; Charlie Baty, Burton viene spesso accostato) poi si trasforma in un vigoroso blues(Rock) che tanto mi ha ricordato i migliori Ten Years After di Alvin Lee, con la chitarra di Charles Burton (non parente dell’altro Burton, quel James che giustamente rientra tra i grandissimi della chitarra) che corre velocissima sul solido groove creato dalla sua band e l’ospite Karl Cabbage che fornisce il suo contributo all’armonica. Anche Double Up ha la giusta grinta, ritmo da vendere, una solista molto presente e ricca di inventiva. Qualità che si confermano in Drivin’ Home un altro blues elettrico di quelli tosti con Burton che duetta con tale Chill Boy, mai sentito, probabilmente una leggenda locale, ma che bisogno c’era di prendere uno senza voce, già il buon Charles non è un fulmine di guerra a livello vocale (un po’ alla Robillard), quando in giro ci sono miliardi di ottimi cantanti? La parte strumentale ottima però. In comune con Robillard Burton ha una passione per il jazz classico che si estrinseca in una New York Jump che spezza un poco la tensione sonora decisamente bluesata del resto dell’album.

Goin’ To Memphis aggiunge un sapore di spezie sudiste al sound dell’album, mentre lo strumentale Crackdown dimostra che la Charles Burton Band è in grado, quando vuole, anche di dare del filo da torcere ai vecchi Double Trouble di SRV. Livin’ Without You (Blues For Simon) è un brano che nasce da una promessa fatta in uno dei viaggi nel Nord Europa (dai nomi i componenti del gruppo mi sembrano svedesi o norvegesi) ed è la classica ballata blues. La title-track è un divertente rockin’ blues dai ritmi spezzati, mentre New Boogie è un brano, fin dal titolo, che non sfigurerebbe tra i migliori del repertorio degli ZZ Top, uno strumentale che consente a tutta la band di mettersi in luce e non permette al vostro piede di rimanere fermo. Torna l’armonica di Cabbage per Used To Love That Woman e Your Number, due onesti esemplari di blues classico, senza infamia e senza lode, inframmezzati dalla tirata Brown Paper Bag dove Burton ha occasione di mettere in mostra ancora il suo stile chitarristico che mi ricorda, per certi versi, il classico British Blues dei tempi che furono, ancora TYA ma anche Chicken Shack o i Bluesbreakers di Mayall. Si torna in territori jazzati per la conclusiva Drop A Dime, un po’ fine a stessa, come altri brani di questo Sweet Potato Pie che alterna punte di eccellenza a momenti decisamente soporiferi,  non indispensabile, ma assai piacevole.

Bruno Conti