Continua Il Filotto Di Ottimi Dischi Per L’Omone Di Ocean City, New Jersey. Walter Trout – Ordinary Madness

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Walter Trout – Ordinary Madness – Mascot Provogue CD Limited Edition – 2 LP Vinile Colorato

Ormai anche Walter Trout si avvia a toccare, il prossimo anno a marzo, il traguardo dei 70 anni: e da come si era messa la sua vita quando nel giugno del 2013 gli fu diagnosticata una grave forma di cirrosi epatica, le sue possibilità di sopravvivenza sembravano veramente poche, senza un trapianto del fegato. Cosa per fortuna puntualmente avvenuta nel maggio dell’anno successivo, tanto che già ad ottobre del 2015 usciva il suo album Battle Scars, che documentava la sua battaglia vinta con la malattia. Nel pieno della malattia aveva pubblicato un sorprendente (per qualità) disco come The Blues Came Fallin’, e negli anni successivi ha confermato una vena compositiva mai perduta, prima con Alive In Amsterdan, poi con l’ottimo album di duetti, con ospiti a go-go, We’re All In This Together, e ancora lo scorso anno l’eccellente Survivor Blues, un album con una serie di cover di brani non notissimi, alcuni addirittura oscuri https://discoclub.myblog.it/2019/01/26/non-solo-sopravvive-ma-prospera-ogni-disco-e-piu-bello-del-precedente-walter-trout-survivor-blues/ .

Per completare il filotto il musicista del New Jersey (che ha ribadito in una recente video intervista con il suo amico Joe Bonamassa, un aneddoto divertente e poco conosciuto dei suoi primi anni sui palchi di Ocean City, quando le rispettive band suonavano una di fianco all’altra su palchi adiacenti, e la chitarra solista degli Still Mill era un certo Bruce Springsteen, di cui Walter non rimase molto impressionato all’epoca dalla abilità come chitarrista, consigliandolo di migliorarla, cosa che poi parrebbe essere successa (!?!?), e ha pure scritto anche qualche “bella canzoncina”) pubblica ora un nuovo album Ordinary Madness, che non fa riferimento alla “pazzia” fuori dal comune causata dalla pandemia, ma alle debolezze e alle fragilità insite in ciascuno di noi. In effetti l’album è stato completato poco prima dello stop per il virus, negli Horse Latitudes, gli studios di proprietà dell’amico Robby Krieger dei Doors, in quel di LA, California, non lontano da Huntington Beach, dove Trout vive da anni con la famiglia. Solito produttore, una garanzia, Eric Corne, dal 2006 al suo fianco, Johnny Griparic al basso, Michael Leasure alla batteria, un altro fedelissimo, e Teddy Andreadis alle tastiere.

Ovviamente ci dobbiamo aspettare un ennesimo album di blues elettrico corposo, influenzato dalle 12 battute, ma innervato da una base rock assai presente e dove la chitarra solista di Walter Trout è la dominatrice assoluta del suono: insomma anche se Walter non ha dimenticato gli anni trascorsi con il suo mentore John Mayall il suo approccio è quello tipico del “guitar hero”, quindi ottime melodie quando servono, belle ballate terse, ma poi quando interviene la Fender di Trout non ce n’è per nessuno o per pochi. Anche se lo scorso anno si è fratturato il mignolo della mano sinistra (quella degli accordi per intenderci) ben tre volte, la title track, un lento sinuoso, languido e ipnotico conferma la grande tecnica e il feeling dei suoi assoli, un brano che potrebbe rimandare a quegli slow blues à la Robin Trower dove la chitarra quasi galleggia, liquida ed affascinante, mentre lascia dipanare lentamente la sua improvvisazione, stabilendo anche quale sarà il concetto sonoro dell’album, ribadito in Wanna Dance dove i ritmi si fanno più incalzanti, le sonorità più lavorate, con le tastiere a sostenere la solista, tra Van Halen e Neil Young (?!? lo ha dichiarato lui) che continua comunque a rilasciare assoli sempre vibranti e di grande consistenza, per poi placarsi nella bellissima ballata My Foolish Pride, quasi di impianto country e cantata benissimo del nostro, in una atmosfera che trasuda serenità, mentre piano e organo, quelli che furono di Ray Manzarek, lavorano di fino e tirano la volata per il lirico assolo di chitarra.

Poi nella pastorale Heartland utilizza la vecchia Telecaster di James Burton, “casualmente” anche quella negli studi di Krieger e fa capolino pure una fisa. All Out Of Tears scritta insieme a Teeny Tucker, e dedicata al defunto figlio di quest’ultima, è uno slow blues duro e puro, ad alto contenuto emotivo, con Trout che distilla dalle corde della sua chitarra un assolo lancinante, che avrebbe reso orgoglioso il suo amato Mike Bloomfield, da sempre citato come suo modello di ispirazione. Final Curtain Call è più dura e tirata, con dei tocchi orientaleggianti che rimandano agli Zeppelin, compreso assolo alla Page, ma con l’armonica suonata dallo stesso Walter che alza la quota blues, Heaven In Your Eyes è una ballata che illustra il suo lato più melodico, con The Sun Is Going Down che rivaleggia con i mid-tempo più ispirati di Clapton, grazie anche al lavoro delle tastiere e finale in crescendo galoppante con la solista in grande spolvero.

Chitarra impiegata in modalità gilmouriana, nel senso di David, con grande assolo, per la sognante Up Above My Sky che ricorda i Pink Floyd mid-seventies, la stonesiana e danzante Make It Right ilustra il lato più ludico e divertente della musica di Trout, un rock-blues di quelli robusti con solista prima accarezzata e poi strapazzata, e ancora più corposa e robusta è la conclusiva Boomer, scritta con la moglie Marie, dove i due parlano delle future generazioni in un brano dove le chitarre ruggiscono, anche la Gibson SG di Krieger di nuovo casualmente nello studio e impiegata insieme alle tastiere di Manzarek, in un brano che è il più duro e tirato, ma forse anche il meno soddisfacente, in un disco che globalmente comunque conferma l’ottimo livello della produzione di Trout. Forse l’unico appunto che si può fare è il fatto che il CD esce solo in quella confezione “Deluxe”, con plettri, sottobicchieri, stickers e cartoline, niente bonus tracks, il tutto francamente inutile e fa solo aumentare il prezzo, se volete potete consolarvi con la versione in doppio vinile colorato.

Bruno Conti

Operazioni Discografiche Dovute…E Altre Un Po’ Meno! The Beatles – Live At The Hollywood Bowl/Bruce Springsteen – Chapter And Verse

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The Beatles – Live At The Hollywood Bowl – Apple/Universal CD

Bruce Springsteen – Chapter And Verse – Columbia/Sony CD

Normalmente dopo la pausa estiva (che peraltro riguarda solo l’Italia, all’estero non si fermano) il mercato discografico da Settembre comincia ad inondarci di proposte più o meno valide, con un occhio già al mercato natalizio, e questi due album di cui mi accingo a parlare non fanno certo eccezione: diciamo che nascono sotto altri presupposti, ma visto a chi sono accreditati pensiamo che nel periodo delle festività saranno tra i più gettonati per il classico regalo dell’ultima ora. Due pubblicazioni che nascono in un certo senso come collaterali ad altri progetti (uno cinematografico, l’altro letterario) e che, se in un caso l’esistenza del CD ha una sua ragione di essere, nell’altro ci sarebbe parecchio da discutere. Ma andiamo con ordine.

Per molti i Beatles sono stati il più grande gruppo mai apparso sulla faccia della terra (parere sotto un certo punto di vista condivisibile, anche se altri preferiscono i Rolling Stones, mentre quelli più “di nicchia” prediligono Led Zeppelin o addirittura i Beach Boys), ma anche i fan sfegatati dei Fab Four sono concordi su una cosa: i Baronetti non sono mai stati una live band eccelsa. I loro concerti erano infatti spesso una mezza farsa, piccoli showcase di appena mezz’ora, nei quali il suono (già di suo non proposto con attrezzature all’avanguardia) era costantemente sommerso dalle urla di migliaia di ragazzine impazzite, che erano lì solo per vedere i quattro ragazzi di Liverpool e non certo per la musica (cosa che spesso impediva ai musicisti stessi di sentire quello che accadeva sul palco). Se a tutto ciò aggiungiamo il fatto che il gruppo smise di esibirsi nel 1966, cioè nel momento stesso in cui discograficamente iniziarono a fare sul serio, capiamo perché l’unico loro album dal vivo, Live At The Hollywood Bowl (che raggruppava il meglio di due serate nella mitica location californiana, registrate rispettivamente nel 1964 e 1965), usci postumo solo nel 1977. Oggi l’uscita del film-documentario Eight Days A Week ad opera del famoso regista Ron Howard (Apollo 13, A Beautiful Mind, Frost/Nixon, Il Codice Da Vinci e moltissimi altri film di successo), in cui viene presa in esame la vita dei Fab Four durante le tournée, ha dato il pretesto per una ristampa in CD di quel disco dal vivo, un’operazione in un certo senso dovuta, data l’assenza pluriennale dal mercato di un album a suo modo storico.

Il CD (che si presenta con una copertina bruttissima, sembra un manifesto pubblicitario anche abbastanza a buon mercato) è stato completamente rimasterizzato dai nastri originali da Giles Martin, figlio dello scomparso George (il mitico produttore degli Scarafaggi), il quale ha fatto un lavoro superlativo: Giles non ha eliminato le grida delle fans (non sarebbe stato giusto, dopotutto), ma ha ripulito il suono, lo ha de-masterizzato e l’ha rimesso forte e centrale in primo piano, dando una nuova freschezza a queste registrazioni, cosa che secondo me può giustificare pienamente l’acquisto anche a chi possiede il vinile del ’77. Certo, le canzoni le conosciamo tutte a memoria (e non è che i quattro dal vivo le modificassero più di tanto), ma riascoltiamo con piacere l’energia rock’n’roll di pezzi come Twist And Shout (che apre il CD), Dizzy Miss Lizzy (che voce che aveva Lennon), A Hard Day’s Night, Ticket To Ride, Roll Over Beethoven (con Harrison come voce solista), o la bellezza di classici minori di McCartney come All My Loving e Things We Said Today, fino ad apprezzare la simpatia di Ringo che si gioca bene la sua chance con Boys. Come ciliegina, questa riedizione offre quattro bonus tracks inedite, tre brani minori ma interessanti (You Can’t Do That, Everybody’s Trying To Be My Baby, la bella Baby’s In Black) ed uno dei brani simbolo della Beatlemania come I Want To Hold Your Hand.

bruce springsteen chapter and verse

Diverso è il discorso per Chapter And Verse, il “nuovo” album di Bruce Springsteen,(uscito tra l’altro il 23 settembre giorno del suo 67° compleanno) che si compone di brani scelti dal Boss in persona per accompagnare l’attesissima autobiografia Born To Run (che fantasia), in uscita in contemporanea in tutto il mondo, un’operazione che si rivela deludente ed anche leggermente offensiva verso i fans, a mio parere, in quanto per il 75% per cento non è che l’ennesima antologia, tra l’altro piuttosto lacunosa, con cinque brani inediti messi in apertura in modo da far ricomprare anche ai fans sempre le stesse canzoni. Purtroppo Bruce non è nuovo a certe operazioni, ma se le altre volte si poteva incolpare la Columbia, qui è chiaro e lampante il suo imprimatur: Chapter And Verse è quindi un disco con poco senso, inadatto ai neofiti (ci sono molte antologie del Boss migliori sul mercato) ed un po’ truffaldino per i fans. Ok, c’è qualche pezzo non usuale nei Greatest Hits del Boss (My Father’s House, Livin’ Proof, Long Time Comin’), ma che senso ha riproporre ancora una volta classici strasentiti come Badlands, The River, Born In The U.S.A., The Ghost Of Tom Joad, The Rising e Wrecking Ball? Sarebbe bastato inserire le stesse canzoni in versioni inedite (anche dal vivo), per costruire un prodotto più accattivante e secondo me vendere anche di più.

I cinque inediti sono comunque interessanti, in quanto ci mostrano un Bruce poco conosciuto, agli esordi, prima di cominciare ad incidere; si parte con due pezzi, incisi nel 1966 e 1967, dei Castiles, la prima band giovanile di Bruce, un gruppo con uno stile rock-beat molto lontano da quello che Springsteen assumerà in seguito, e più sulla falsariga di gruppi come Stones, i primi Kinks e i Them: il primo brano, Baby I, non è niente male, musica rock molto energica e con uno stile da garage band, con la voce del Boss non riconoscibile (anche perché canta all’unisono con George Theiss, co-leader del gruppo) https://www.youtube.com/watch?v=aTeJTkSJMVE ; più caotica, e pure incisa peggio, la cover di You Can’t Judge A Book By The Cover di Willie Dixon (tutti gli altri inediti sono originali di Bruce), suonata con foga punk ma lontana anni luce da gruppi come i Sonics https://www.youtube.com/watch?v=4Ee1DlBMrEY . He’s Guilty (The Judge Song) è un pezzo del 1970 degli Steel Mill, altra band del nostro con all’interno futuri compagni di E Street Band come Danny Federici e Vini Lopez: lo stile cambia poco, punk-rock ante litteram, la grinta è tanta ma già si intravede qualcosa di più, come il breve ma potente assolo chitarristico di Bruce subito doppiato dall’organo di Federici, od il tentativo del nostro di salire di livello per quanto riguarda il songwriting. La chicca del CD è sicuramente The Ballad Of Jesse James del 1972 ad opera della Bruce Springsteen Band, un combo al quale a Federici e Lopez si erano aggiunti Steve Van Zandt e Garry Tallent: il brano è un gustoso country-rock con elementi gospel e sudisti, in uno stile molto vicino a quello di Delaney & Bonnie, un Bruce diverso e non più manifestatosi in seguito (ed anche il brano è sparito dai radar). L’ultimo inedito è Henry Boy, un provino del 1972 di un brano che ha qualche elemento in comune con Growin’ Up, che non a caso in questa compilation è stata messa subito dopo (ma non nella versione del primo album di Bruce, bensì il demo acustico pubblicato su Tracks) https://www.youtube.com/watch?v=cFc7Vqsn5oY . A seguire, come detto, una lunga serie di grandi canzoni, peccato che siano le stesse già sentite e risentite un milione di volte.

Marco Verdi