Agli Albori Della Sua Carriera, La Genesi Di Un Grande Cantautore. James Taylor – Audio Radiance (Jabberwocky Club New York Feb 6th 1970)

james taylor audio radiance

James Taylor – Audio Radiance (Jabberwocky Club New York Feb 6th 1970) – Lexington 

Continua, sempre a ritmo assai sostenuto, la pubblicazione di concerti tratti da broadcasts radiofonici, ormai ha decisamente superato le uscite dei Live ufficiali e sembra non avere più freni, le etichette hanno nomi sempre più improbabili, questa Lexington da dove è sbucata? Ma noi, finché dura, non ci lamentiamo, e documentiamo quelli più interessanti. James Taylor è, stavo per dire, uno dei più “piratati”, mi correggo, maggiormente documentati: abbiamo avuto, solo recentemente, concerti del 1974, 1975, 1976 e 1981, spesso recensiti sul Blog, ma anche i suoi primissimi tempi sono “ben coperti”, con le registrazioni del 1970 insieme a Carole King e Joni Mitchell (anche nel bellissimo Amchitka, che era la testimonianza del concerto per Greenpeace). Conosco l’esistenza anche di un bootleg “non ufficiale” doppio registrato ad Harvard, sempre nel ’70, ma qui siamo proprio agli inizi assoluti della sua attività, 6 febbraio 1970, James Taylor sta per pubblicare o ha appena pubblicato (non conosco la data esatta), Sweet Baby James, che poi salirà fino al 3° posto delle classifiche americane, decretando il successo dei singer songwriters negli anni ’70, ma allora, forse, James, era solo un cantante di belle speranze che aveva anche scritto una canzone, Suite For 20 G, sperando che la casa discografica gli avrebbe dato quei 20.000 dollari promessi in caso di pubblicazione del disco.

Non so neppure dove fosse questo Jabberwocky Club (ma comunque mi sono documentato, con internet nulla sfugge, pare sia un club a Syracuse, nello stato di New York, tutt’ora in attività peraltro), ma il lungocrinito e baffuto signore che sale sul palco non esegue neppure Country Road, che sarà uno dei massimi successi dell’album, di cui vengono ripresi solo quattro pezzi, per il resto affidandosi a materiale che era uscito sul disco omonimo per la Apple nel 1968, oltre ad alcune cover di varia provenienza. Però ha la già classe e la stamina del grande performer, scherza con il pubblico presente e quello radiofonico, poi attacca con la bellissima Rainy Day Man, tratta dall’esordio del 1968 e già uno dei classici assoluti di Taylor, poi passa a Diamond Joe, un brano classico della canzone americana. attribuito a A.P. Carter della Carter Family, con tanto di lunghissima, dotta e divertente presentazione. La voce è già quella calda ed espressiva che tanto abbiamo amato negli anni a venire. Ma il diavoletto era dietro l’angolo ed ecco una Things Go Better With Coke, che era il pezzo di Roy Orbison, Ray Charles e molti altri, dedicato alla Coca Cola, ma Taylor si presenta come un “cokehead” (in modo forse profetico), creando un certo imbarazzo tra il pubblico, e penso anche alla radio, perché l’audio scompare per un attimo quando Taylor chiede se ci sono altri cokeheads tra il pubblico, poi quando parte il breve spot della nota bevanda tutto si stempera in un sorriso e una risata. Machine Gun Kelly, scritta da Danny Kortchmar, sarebbe uscita solo l’anno successivo su Mud Slide Slim, ma è comunque una gran canzone, come pure Anywhere Like Heaven, il primo pezzo della serata tratto dal nuovo album Sweet Baby James.

Poi Taylor cala l’asso con la stupenda Fire & Rain, accolta da un timidissimo accenno di applauso, forse non la conoscevano ancora, e che rimane comunque a tutt’oggi una delle sue canzoni più belle in assoluto, direi nella Top 5 delle mie preferite del nostro, che come tutti sanno è anche eccellente chitarrista acustico, come dimostra nel corso del concerto. Che prosegue con Circle Round The Sun, un traditional che appariva nel primo album, dall’andatura folk-blues, seguito da un altro brano celeberrimo come Will The Circle Be Unbroken, presentato come vecchio spiritual e poi da Carolina In My Mind, brano che non abbisogna di presentazione, tra i più conosciuti dal pubblico presente. Sunshine Sunshine, sempre dal disco Apple, scritta per la sorella Kate, presentata come la sua sorella preferita, nonché l’unica, tra l’ilarità dei presenti e poi decide di cantare, a New York, un pezzo intitolato Dixie, quella di Stephen Foster, prima di lanciarsi in una intricata Hallelujah I Love Her So, il bellissimo brano di Ray Charles. Blossom è solo il terzo brano tratto dal nuovo album, immagino per la gioia dei suoi discografici, altra canzone deliziosa e tipica del suo repertorio, come la successiva Sunny Skies, che apre i bis, sempre preceduta da simpatiche battute, “per fortuna ci siete ancora”, brano dove mi pare si senta anche un contrabbasso, non so dirvi suonato da chi, visto che nel libretto del CD note zero. Chiude la serata, preservata per i posteri, con un audio perfetto, dall’emittente WAER-FM (anche se nella serata vennero eseguiti altri brani non compresi nel broadcast, tra cui la bellissima cover del brano dei Beatles che ascoltate sopra) un altro pezzo dal primo album, Brighten Your Night With My Day. Concerto intimo e molto raccolto, che vi consiglio caldamente, la genesi di un grande cantautore!

Bruno Conti

Il “Canto Del Cigno” Di Una Grande Folk-Rock Band? Black 47 – Last Call

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Black 47 – Last Call – BLK Records – Self Released

Ogni uscita discografica dei Black 47 rappresenta per il sottoscritto un evento particolare: amo la loro musica, l’accavallarsi di culture e di stili diversi che si incontrano nella loro proposta, e la  bravura con cui riescono a far convivere umori così forti e così differenti tra di loro. Essendo un “irlandese” di cultura (nato per sbaglio a Pavia), sono totalmente coinvolto da questa musica che prende le mosse dalla tradizione celtica, e più precisamente dalla storia del suo popolo, che si fonde con le sonorità urbane della Grande Mela, un autentico miscuglio di ritmi e colori provenienti da tutto il resto del mondo. Quindi ogni mio giudizio sull’opera del gruppo, pur tendendo ad essere il più oggettivo possibile, risente inesorabilmente di questa sfrenata passione, a maggior ragione per questo Last Call, (che dopo 25 anni di carriera e 15 album), viene annunciato con una e-mail dallo stesso leader della band Larry Kirwan come “l’ultima chiamata” del gruppo, che staccherà la spina con un ultimo concerto a New York nel Novembre di quest’anno https://www.youtube.com/watch?v=80kXCFSdNiQ .

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La band (che prende il nome dalla carestia che colpì l’Irlanda nello scorso secolo) è stata fondata dal commediografo Larry Kirwan e dall’ex poliziotto Chris Byrne, entrambi di origine irlandese, ma ormai definitivamente trapiantati a New York come il resto della “ciurma”, e propone un suono inimitabile in cui convogliano tutti gli umori metropolitani, dal rock al reggae, dal rap all’hip-hop (poco), senza assolutamente dimenticare la tradizione folk dell’isola dello smeraldo, con uso di chitarre distorte e cornamuse. La saga inizia nel lontano ’91 con l’esordio dell’omonimo Black 47, a cui faranno seguire un trittico di album Fire Of Freedom (93), Home Of The Brave (94), Green Suede Shoes (96) di un livello entusiasmante, dove la tradizione celtica riveste un ruolo più importante. Il gruppo in quel periodo suonava quasi tutte le sere nei locali di New York, e questa frenetica attività live li porta ad incidere due ottimi lavori “on stage” Live In New York City (99) e On Fire (01) con un suono potente e elettrico che coinvolge l’ascoltatore, intervallato dallo splendido Trouble In The Land (00) dove svettava una granitica sezione ritmica composta da Andrew Goodsight e Thomas Hamlin. Dopo una breve pausa si ripresentano con New York Town (04), Elvis Murphys’ Green Suede Shoes (05) e una raccolta di canzoni popolari e rarità Bittersweet Sixteen (06). L’ultimo periodo li vede affrontare tematiche politiche con un disco coraggioso come Iraq (08), la svolta con il “rhythm and blues” di Bankers And Gangsters (10) e un’introvabile raccolta A Funky Cèilì (11), con diciotto brani scelti dagli stessi componenti, da suonare sempre con il volume al massimo.

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L’attuale line-up del gruppo oltre al leader indiscusso e letterato Larry Kirwan (autore di romanzi e buoni lavori solisti Kilroy Was Here e Keltic Kids), è formata dal nucleo storico con Geoffrey Blythe (membro fondatore dei Dexys Midnight Runners) ai sassofoni, Thomas Hamlin alla batteria e percussioni, Fred Parcells al trombone e tin whistle, e il duo Joe Burcaw al basso e Joseph Mulvanerty al flauto, bodhràn e uilleann pipes, che hanno sostituito brillantemente gli ex-componenti Chris Byrne e Andrew Goodsight, con l’apporto delle belle e brave (un po’ di sano femminismo!) coriste Christine Ohlman, Oana Roche e Mary Ann O’Rourke.

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Il disco si apre con i fiati di Salsa O’keefe e Larry è sempre lo stesso, con la sua voce acuta, calda e confidenziale https://www.youtube.com/watch?v=hURcX53Gieg (che si avvicina a quella del miglior Kevin Rowland dei Dexys Midnight Runners), seguito dalle note irlandesi di Culchie Prince con tanto di cornamuse, e un brano imperioso come Dublin Days in cui tutta la band gira a mille (con un ritornello che ricorda la Thunder Road del Boss), mentre Us Of A 2014 è uno spaccato dell’America attuale, raccontato con un brillante suono con sottofondo“ska”. The Night The Showbands Died (drammatico racconto dell’assassinio di una gruppo musicale) è una ballata lenta in cui la voce assume toni caldi e confidenziali, per poi diventare aggressiva nella parte centrale, e tornare di nuovo gentile sul finire https://www.youtube.com/watch?v=ScoCAZQ39Gc , seguita da una Johnny Comes A’Courtin (sul tema della schiavitù irlandese) https://www.youtube.com/watch?v=H1ZwD-i_2ow  che viene introdotta e cantata in coppia con la delicata voce della Roche, dai ritmi giamaicani, per passare ancora al groove funky-rap di Let The People In sull’immigrazione. Il breve brano cornamusa Lament For John Kuhlman introduce St. Patricks Day, brano dalla tipica spavalderia irlandese che scorre come un fiume in piena https://www.youtube.com/watch?v=lKYyVMsIHIc , assieme alla seguente Queen Of Coney Island dove Mary Ann O’Rourke presta la sua voce per un divertente duetto. Con Shanty Irish Baby, con i fiati in spolvero, si respira un’aria quasi “dixieland”, mentre Ballad Of Brendan Behan ci riporta in Irlanda, una ballatona da pub , marchio di fabbrica dei migliori Pogues, andando infine a chiudere un grande disco con una cover di Stephen Foster (riconosciuto come “il padre” della musica americana), Hard Times. una canzone sofferta dove Larry Kirwan domina la scena con la sua splendida voce, e la band sembra seguirlo in punta di piedi.

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La loro storia è iniziata con quel primo concerto nel Bronx nel novembre del lontano ’89, e sono stati negli ultimi 25 anni una delle più originali e valide band venute alla ribalta negli States, non hanno ceduto un millimetro dalla linea musicale intrapresa, divertenti, eccessivi e generosi con un leader, Kirwan, irlandese vero (cantante, autore e scrittore di pieces teatrali, come già detto), che continua a cantare e declamare con la stessa forza e allo stesso tempo comporre canzoni dagli spunti autobiografici, da ascoltare sempre con il volume al massimo. Last Call è un addio inebriante (se così sarà, mai dire mai), e non posso che consigliare l’ascolto di questo disco a tutti, sia a quelli che già li conoscono, ma in particolar modo a quanti ancora non sono entrati in contatto con un mondo inimitabile, e quindi si lasceranno trasportare da questa “miscellanea” di suoni esaltante. Per quel che mi riguarda, grazie ragazzi e in alto i calici!

NDT:  Disco di difficilissima reperibilità, comunque si può acquistare come ha fatto il sottoscritto in download, attraverso le piattaforme abituali in rete, oppure sul loro sito http://www.black47.com/ Ne vale la pena!

Tino Montanari