Dopo 40 Anni Di Grandi Canzoni, Un’Altra Splendida “New York City Serenade”. Willie Nile – New York At Night

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Willie Nile – New York At Night – River House Records

Quando lo scorso ottobre Willie Nile iniziò a registrare le nuove canzoni negli Hobo Sound Studios di Weehawken, New Jersey, non poteva certo aspettarsi, come nessuno di noi, tutto quello che sarebbe accaduto nei primi mesi di questo travagliatissimo 2020: la pandemia che è dilagata in tutto il mondo, avvicinando in modo drammatico Milano, Bergamo e Brescia alla sua New York, tragici epicentri di un male nascosto e spietato che ha stravolto le nostre esistenze. Alla luce di tutto ciò, acquista ancora più valore l’ennesimo affresco traboccante di musica e vita che il rocker di Buffalo ha saputo dedicare alla sua città di adozione, presentandocelo come il seguito ideale dell’eccellente Streets Of New York, pubblicato quattordici anni fa. Prodotto insieme all’esperto amico Stewart Lerman, che ricordiamo in cabina di regia anche con Elvis Costello, Patti Smith e Neko Case, New York At Night è l’ennesima prova dello straordinario talento di Willie Nile nella doppia veste di compositore e performer.

Ad accompagnarlo nell’alternanza di lirismo e adrenalina che pervade questa dozzina di nuovi brani, troviamo un ristretto numero di fidati musicisti che spesso lo hanno supportato anche dal vivo: Il bassista Johnny Pisano, il batterista Jon Weber e i chitarristi Matt Hogan e Jimi K. Bones, a cui vanno aggiunti alcuni ospiti illustri come il blasonato polistrumentista Steuart Smith, che molti ricorderanno nelle più recenti esibizioni live degli Eagles o nei dischi di Rosanne Cash e di Rodney Crowell, il sopraffino tastierista Brian Mitchell, già collaboratore di B.B. King, Levon Helm e Bob Dylan, e, tra i vocalist, il fedele amico Frankie Lee e lo stimato collega James Maddock. Permettetemi di citare anche la copertina dell’album, l’ennesima superba istantanea in bianco e nero scattata dalla compagna di Willie, Cristina Arrigoni, (di cui consiglio caldamente il magnifico libro fotografico The Sound Of Hands, edizioni Wall Of Sound) che ritrae il nostro songwriter con le spalle appoggiate a una colonna di una stazione metropolitana mentre un treno gli sfreccia accanto.

Per saltare idealmente su quel treno, non dobbiamo fare altro che far partire New York Is Rockin’, la traccia di apertura del nuovo lavoro. Sembra di fare un salto indietro di quarant’anni, quando un giovane Willie Nile si presentava al mondo del rock con una sublime serenata elettrica dedicata alla sua luna vagabonda. L’energia e il sound sono gli stessi di allora, tra chitarre sferraglianti e ritmica incalzante, fino ad un ritornello che già ci fa immaginare (quando si potrà) sotto un palco a cantare a squarciagola a braccia alzate. Questa è la meravigliosa spontaneità comunicativa di un piccolo grande rocker capace con quattro semplici accordi di arrivare all’essenza gioiosa del rock ‘n’ roll, come pochi altri sanno fare. Il riff assassino di The Backstreet Slide non dà tregua, trascinandoci nei bassifondi poco illuminati della Grande Mela, con la voce del protagonista che si fa più roca e scura, mentre alle sue spalle le sei corde impazzano con gran lavoro di bottleneck, in omaggio al Willie DeVille di Cadillac Walk. Una tastiera soffusa ci introduce alla prima delle ballads, Doors Of Paradise, che parte lenta ma poi prende ritmo su una piacevole linea melodica, con tanto di coretto in chiave afro-gospel sullo sfondo. Gradevole sì, ma non proprio memorabile.

Decisamente meglio Lost And Lonely World, che lancia subito il suo ripetitivo refrain, tipico dei brani di Willie che diventano inni cantati in coro da tutto il suo pubblico durante i concerti. Tra sventagliate di chitarra e grande pathos nel testo diventerà sicuramente uno degli highlights del prossimo tour, che avrebbe già dovuto partire questa primavera con date in Spagna ed Italia, ma che per i ben noti problemi verrà posticipato all’autunno, se non al prossimo anno. Anche The Fool Who Drank The Ocean, scritta insieme a Frankie Lee, avrà di sicuro una bella resa dal vivo col suo incedere duro ed incalzante, le chitarre che si inseguono a briglia sciolta mentre il testo sembra alludere alla classe dirigente americana, facendo uso di una satira pungente. A Little Bit Of Love, come spiega il suo autore, è nata in seguito agli emozionanti incontri che Willie ebbe lo scorso anno con suo padre, giunto alla veneranda età di centodue anni e definito un grande storyteller. Composta al pianoforte nel corso di una notte, fa emergere tutta la sua carica emotiva reggendosi su una melodia limpida e subito assimilabile. Il suo lento crescendo diventa via via irresistibile e ne fa uno dei migliori brani di questa raccolta, sulla scia di altre grandi ballate del passato come Love Is A Train, Renegades o Back Home.

Non so quale sia la vostra idea della perfetta rock ‘n’ roll song, la mia si avvicina parecchio a quanto si ascolta nella title track New York At Night: chitarre infuocate, ritmica a palla, melodia vincente, parole urlate in modo semplice e diretto, da cantare in coro come una selvaggia catarsi. Chi altri è in grado di pubblicare oggi pezzi di questa potenza e immediatezza? Forse gli Stones o Springsteen, se ne avesse ancora voglia, lascio a voi l’ardua sentenza, perché si cambia completamente registro con la successiva The Last Time We Made Love, una preziosa ballad pianistica sulla falsariga di altri gioielli sparsi da sempre all’interno della sua discografia. E una volta di più Willie ci mette a tappeto, con un’interpretazione vocale da brividi e con le note struggenti del suo piano a cui viene sovrapposta a metà e in coda una chitarra elettrica dal suono abrasivo, quasi a sottolineare la malinconica fugacità di un amore che non può tornare. Ci torniamo noi indietro, fino alla seconda metà degli anni settanta, grazie alle atmosfere acide e allucinate di Surrender The Moon, che pare un tributo ai Television per i suoni taglienti delle chitarre mentre Nile canta in modo declamatorio facendo il verso a Patti Smith.

Questo brano risale a tredici anni fa e nacque da un’idea del fratello minore di Willie, John Noonan (Robert Anthony Noonan è il vero nome del nostro protagonista, per chi ancora non lo sapesse) poi venuto a mancare l’anno successivo. Willie si dice sicuro che il fratello sarebbe contento e orgoglioso di questa versione, e noi lo siamo con lui. Under This Roof ci fa fare un ulteriore salto nel passato, quando la sua casa e i locali che frequentava erano nel Greenwich Village e uno stuolo di romantici bohémiens, armati di chitarra acustica, facevano a gara per farsi ascoltare e trovare fortuna in luoghi poi mitizzati come il Cornelia Street Cafè o il Kenny’s Castaways. Under This Roof è un luminoso ricordo di quegli anni e dei sogni e delle illusioni che nascevano e svanivano sotto quel tetto nell’arco di una sola notte. Dopo questa delicata ed intima parentesi, ripartono i fuochi d’artificio con un altro potenziale singolo, la ruvida Downtown Girl, ennesimo esempio di rock immediato ed efficace, proposto con l’impeto di una garage band. Ma il gran finale è riservato a un brano che Willie registrò nel 2003 con la sua band di allora, The Worry Dolls. Incredibile che un pezzo di questo livello abbia dovuto aspettare 17 anni per essere pubblicato, si intitola Run Free ed è un’esortazione a spezzare ogni tipo di catena e puntare in alto inseguendo i propri sogni. Musicalmente si rivela una trascinante cavalcata elettrica con il piano in bella evidenza e una slide imperiosa che ricama sullo sfondo. A metà strada, acquisisce i colori del gospel grazie all’intervento di un coro di voci femminili che ne accrescono ulteriormente l’impeto e la solennità. Una degna conclusione per un album costruito con ottime canzoni che non mancheranno di avere la loro consacrazione definitiva dal vivo.

Per passione, energia e talento Willie Nile si conferma un punto di riferimento per le nuove generazioni di cantautori rock e, per noi appassionati ascoltatori, un compagno di viaggio insostituibile.

Marco Frosi

Per Chi Avesse Voglia Di Un Po’ Di Sano Rock’n’Roll! Willie Nile – Children Of Paradise

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Willie Nile – Children Of Paradise – River House CD

Willie Nile, al secolo Robert Noonan, da quando ha ripreso ad incidere con una certa costanza, non ha più mollato il colpo, tra dischi bellissimi (Streets Of New York, American Ride) e “solo” belli (House Of A Thousand Guitars, The Innocent Ones). Lo scorso anno Willie ci aveva deliziato con l’ottimo Positively Bob, in cui rileggeva alla sua maniera alcuni classici del suo idolo Bob Dylan https://discoclub.myblog.it/2017/06/30/e-dopo-bob-sinatra-ecco-a-voi-willie-dylan-comunque-un-grande-disco-willie-nile-positively-bob/ , ma il suo ultimo lavoro composto da brani originali era World War Willie del 2016, un buon album, molto spostato sul versante rock, che bilanciava il sorprendente If I Was A River di due anni prima, formato esclusivamente da ballate pianistiche. Ora Willie torna tra noi con un disco nuovo di zecca, Children Of Paradise, che si può tranquillamente inserire tra i suoi lavori più riusciti. Nile non cambia di una virgola il proprio suono, un rock’n’roll molto diretto e chitarristico, con occasionali intermezzi in cui sono le ballate a farla da padrone, ma in questo lavoro si nota subito una freschezza compositiva maggiore che in World War Willie, con addirittura un paio di canzoni che potrebbero entrare di diritto in qualsiasi “best of” del rocker di Buffalo. Willie ha fatto un gran lavoro anche per quanto riguarda i testi, che sono influenzati dalla difficile situazione politica ed economica degli Stati Uniti, con un pizzico di ecologia che non guasta mai, ed in alcuni casi i brani si esprimono anche in modo crudo e diretto.

Come la musica d’altronde, che vede il nostro accompagnato dagli abituali compagni di viaggio (Steuart Smith, chitarrista che è da anni nella live band degli Eagles al posto di Don Felder, Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre ritmiche, Jon Weber alla batteria ed Andy Burton all’organo, mentre Willie come di consueto si alterna a chitarre e pianoforte), con l’aggiunta dell’amico James Maddock ai cori. Per la verità il brano iniziale, Seeds Of A Revolution, non è nuovissimo, in quanto faceva parte dell’ormai introvabile EP del 1992 Hard Times In America, ma siccome il testo è ancora attuale Willie ha pensato bene di riproporlo: uno scintillante folk-rock di sapore byrdsiano, che rispetto alla versione originale ha un suono decisamente più solido e vigoroso, puro Nile al 100%. La saltellante All Dressed Up And No Place To Go è un altro tipo di canzone che nei dischi di Willie non manca mai, una classica rock song con un call & response voce-coro, una sorta di trascinante filastrocca rock’n’roll dal testo profondamente ironico; Don’t è un pezzo molto elettrico ed aggressivo (anche nelle liriche), il cui ritmo decisamente sostenuto e le sventagliate chitarristiche fanno pensare ai Ramones https://www.youtube.com/watch?v=41ECsxenuwE . Earth Blues prosegue all’insegna del rock, un brano duro e roccioso ma che manca di quell’immediatezza compositiva che viceversa trovavamo nei pezzi precedenti, anche se il gruppo arrota che è una meraviglia.

La title track è l’altra canzone non nuova del CD, in quanto era presente nell’ottimo Places I Have Never Been del 1991 (l’ultimo disco inciso da Willie per una major), ma qui ha un suono molto più diretto che in origine ed un refrain davvero immediato: la quintessenza del vero rock’n’roll. Ancora meglio Gettin’ Ugly Out There, un folk-rock elettroacustico dalla melodia contagiosa ed accompagnamento strumentale perfetto, per chi scrive tra le cose più belle proposte da Willie, almeno ultimamente: dopo un solo ascolto non riesco a smettere di canticchiare il ritornello https://www.youtube.com/watch?v=D_z2X26k_vw ; la roboante I Defy mostra che tra i gruppi preferiti dal nostro ci sono anche i Clash, mentre Have I Ever Told You è una ballata soffusa e tutta giocata su una tenue melodia, un’oasi gradita a questo punto del CD https://www.youtube.com/watch?v=OmWm1eewuow . Secret Weapon riporta l’album su territori elettrici, una rock ballad vigorosa ed ancora con un motivo diretto e fruibile, il marchio di fabbrica di Willie; Lookin’ For Someone è un brano scritto con lo scomparso Andrew Dorff, una delicato folk tune elettrificata, guidata da mandolino e chitarra elettrica, oltre che da un limpido pianoforte, altro brano da antologia. Finale per Rock’n’Roll Sister, un travolgente pezzo ad alto ritmo che mantiene ciò che promette nel titolo, e la toccante All God’s Children, una ballatona pianistica che non poteva mancare: bella e struggente, perfetta per chiudere con una nota malinconica l’ennesimo ottimo rock’n’roll album da parte di Willie Nile, un altro di quelli che non tradiscono mai.

Marco Verdi

Una Bella Dose Di Rock And Roll Non Fa Mai Male! Willie Nile – World War Willie

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Willie Nile – World War Willie – River House Records/Blue Rose/Ird

Partiamo da un fatto assodato: Willie Nile (nome d’arte di Robert Anthony Noonan), rocker di Buffalo, ma trapiantato a New York, nel corso di 36 anni di attività non ha mai sbagliato un disco, anche se ne ha incisi appena una decina, sebbene le premesse di inizio carriera fossero ben diverse dallo status di cult artist al quale è ormai ancorato. Infatti il suo omonimo esordio del 1980, un disco di pura poesia rock’n’roll tra Byrds, Bob Dylan, punk e Lou Reed, era una vera e propria bomba, un album che personalmente avrei giudicato il migliore di quell’anno se un certo rocker del New Jersey non avesse pubblicato un doppio intitolato The River: il suo seguito, Golden Down (uscito l’anno seguente), non aveva la stessa forza, ma era comunque un gran bel lavoro, e lasciava presagire l’ingresso di Willie nell’olimpo dei grandi.

Poi, all’improvviso, ben dieci anni di silenzio, pare dovuti a beghe contrattuali con l’Arista e problemi personali, un’assenza che in buona fine gli ha stroncato la carriera (almeno a certi livelli): il ritorno nel 1991 con l’eccellente Places I Have Never Been, uno scintillante album con almeno una mezza dozzina di grandi canzoni ed una produzione di lusso, prima di ricadere nell’oblio per altri otto lunghi anni (in mezzo solo un EP, Hard Times In America, oggi introvabile), quando Willie pubblica il buon Beautiful Wreck Of The World, che ci mostra un artista un po’ disilluso ma sempre in grado di fare grande musica. Ancora sette anni di nulla, poi dal 2006 Nile si mette finalmente a fare sul serio, facendo uscire ben quattro lavori in otto anni (gli splendidi Streets Of New York e American Ride ed i discreti House Of A Thousand Guitars e The Innocent Ones): in tutto questo tempo Willie non è cambiato, fa sempre la sua musica, un rock urbano con pezzi al fulmicotone e ballate di grande impatto, dimostrando una coerenza ed una rettitudine che gli fa onore (io gli ho parlato brevemente una sera del 2008 a Sesto Calende e ho trovato una persona modesta, gentile e disponibilissima, e stiamo parlando di uno che da del tu a Bruce Springsteen).

Meno di un anno e mezzo fa , un po’ a sorpresa, Willie ha pubblicato il bellissimo If I Was A River http://discoclub.myblog.it/2015/01/12/fiume-note-poetiche-notturne-willie-nile-if-i-was-river/ , un disco di ballate pianistiche, un lavoro molto diverso dai suoi soliti, ma di una profondità ed intensità notevole, che un po’ tutti hanno giudicato uno dei suoi migliori di sempre: oggi, esce World War Willie (titolo un po’ così così, ed anche la copertina non è il massimo), un album che ci riporta il Willie più rocker, quasi fosse la controparte del disco precedente. Prodotto da Willie insieme a Stewart Lerman, e suonato con una solida band formata da Matt Hogan alle chitarre, Johnny Pisano al basso ed Alex Alexander alla batteria (e con la partecipazione di Steuart Smith, chitarrista dal vivo degli Eagles, in tre pezzi, e della nostra vecchia conoscenza James Maddox ai cori, oltre che a Nile stesso a chitarre e piano), World War Willie ci mostra il lato rock del nostro, e meno quello cantautorale, un disco di chitarre e ritmo altro che palesa l’ottimo stato di forma del riccioluto musicista, anche se, forse, si pone un gradino sotto i suoi lavori migliori. Ma forse la cosa è voluta: dopo due dischi come American Ride (uno dei suoi più belli di sempre) e If I Was A River Willie ha deciso di divertirsi e di fare solo del sano rock’n’roll senza fronzoli…e chi siamo noi per disapprovare?

Forever Wild ha un inizio pianistico alla Roy Bittan, poi entrano le chitarre, la sezione ritmica e la voce riconoscibilissima del nostro ad intonare una tipica rock ballad delle sue, con un bel ritornello corale ed una generosa dose di elettricità. La discorsiva Let’s All Come Together è classico Willie, sembra uscita da uno dei suoi primi due album, con la voce che non ha perso smalto, altro chorus da singalong e feeling a profusione; l’energica Grandpa Rocks è a metà tra Clash e rock urbano della New York anni ’70 (CBGB e dintorni), forse poco originale ma di sicuro impatto adrenalinico, mentre con Runaway Girl Willie stempera un po’ gli animi con una canzone elettroacustica che rivela il suo lato più romantico.

La title track è un boogie frenetico che ha la freschezza del primo Link Wray ed il solito mix tra ironia ed amarezza nel testo, niente di nuovo dal punto di vista musicale, ma ormai è chiaro che in questo disco il Willie songwriter si è preso una piccola vacanza in favore del suo gemello rocker. L’annerita Bad Boy è un travolgente e ritmato swamp-rock con venature blues, meno tipico ma decisamente riuscito, anche qui con un ritornello killer; Hell Yeah non avrà un testo da dolce stil novo ma ha un tiro irresistibile, un boogie frenetico e tostissimo, mentre Beautiful You fa calare un po’ la tensione e si rivela forse la meno riuscita del CD, priva com’è di una vera e propria melodia.

Splendida per contro When Levon Sings, un sentito omaggio a Levon Helm, suonata e cantata con un’andatura quasi da country ballad, ritmo saltellante e motivo di prim’ordine: il miglior Willie (come spesso capita quando dedica una canzone a qualcuno, pensate alla stupenda On The Road To Calvary, scritta in memoria di Jeff Buckley). L’album si chiude in deciso crescendo con il bel rock’n’roll urbano di Trouble Down In Diamond Town, un brano scintillante che rivela echi di Springsteen, seguito dalla divertente Citibank Nile, costruita intorno ad un tipico giro di blues, e soprattutto da una rilettura potente del superclassico di Lou Reed (e dei Velvet Underground) Sweet Jane, un brano che già in passato aveva avuto cover di livello (ricordo in particolare quelle, molto diverse tra loro, dei Mott The Hoople e dei Cowboy Junkies): Willie preme l’acceleratore, lascia in primo piano il mitico riff e ci consegna una versione piena di feeling e di rispetto per lo scomparso Lou.

Fa sempre bene un po’ di rock’n’roll ogni tanto, e Willie Nile è uno che non ce lo fa mai mancare.

Marco Verdi

Un Fiume Di Note Poetiche E Notturne ! Willie Nile – If I Was A River

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Willie Nile – If I Was A River – River House Records/Blue Rose Records/Ird

Avendo avuto la fortuna di vederlo dal vivo (in uno dei tanti concerti tenuti nel nostro paese), ho sempre considerato Willie Nile un piccolo folletto di altri tempi, con un’energia rock difficile da contenere in un giubbotto di pelle. Nile viene da Buffalo, ed è una delle più felici fusioni tra cultura beat, pop e letteratura, uscita dalle parti del Greenwich Village. Sicuramente a questo ha contribuito anche la musica respirata in famiglia: un nonno pianista, un vecchio zio appassionato di “boogie”, con i fratelli “malati” di Fats Domino e i Rolling Stones, hanno fatto di Willie (al secolo Robert Noonan) un songwriter che, sul finire degli anni ’70, ha avuto le carte in regola per esplodere nella scena rock dell’epoca (complice anche una infatuazione per Dylan e Springsteen).

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Ingaggiato dall’Arista, esordisce con l’omonimo Willie Nile (80), composto da undici ballate elettriche dal suono marcatamente ritmico https://www.youtube.com/watch?v=x9QJBFt9WdA , a cui ha fatto seguire a breve distanza Golden Down (81) un disco più maturo, acclamato da stampa e pubblico https://www.youtube.com/watch?v=x9QJBFt9WdA . Causa una lunga controversia e la rottura con la casa discografica, passano dieci anni prima di essere messo sotto contratto con la Columbia ed uscire con un disco di valore come Places I Have Never Been (91), ricco di energia e ballate di grande spessore come la title-track https://www.youtube.com/watch?v=-KqXgNzMIhk , Rite Of  Spring e Heaven Help The Lonely (supportate da ospiti prestigiosi, tra i quali Roger McGuinn, le sorelle Roche, Loudon Wainwright III e Richard Thompson). Eventualmente li trovate tutti qui:

willie nile arista columbia recordings

Dopo un’altra pausa arriva il primo disco dal vivo, Archive Live! Live In Central Park (97), seguito da un lavoro autoprodotto come Beautiful Wreck Of The World (99), album di buona fattura ma ormai destinato ai soli appassionati. Passano ancora sette anni prima che Nile ricompaia con l’eccellente Streets Of New York (06) e il conseguente CD+DVD Live From The Streets Of New York (08), riscoprendo una seconda carriera con un “trittico” di piccoli capolavori come House Of A Thousand Guitars (09), The Innocent Ones (10) e l’ultimo lavoro in studio American Ride (13).

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Per questo nuovo lavoro If I Was A River, il buon Willie accantona la sua amata “Stratocaster” per un pianoforte “Steinway” (lo stesso che suonava agli inizi di carriera), ed accompagnato da pochi musicisti (ma di qualità), tra cui il leggendario chitarrista Steuart Smith (Eagles, Rodney Crowell, Rosanne Cash), il multi strumentista David Mansfield (veterano di lungo corso con Bob Dylan e Johnny Cash), al mandolino e violino e Frankie Lee alle armonie vocali e coautore di alcuni brani, ci propone un disco diverso, un album di ballate solo voce e piano e poco altro. Il “fiume di note” si apre con la bellissima title track If I Was A River, una canzone d’amore cantata con la rabbia di Springsteen e suonata alla Randy Newman https://www.youtube.com/watch?v=_ikxC6mwuCI , così come le seguenti Lost e le toccanti folk-irish Song Of A Soldier e Once In A Lullaby, impreziosite dalla chitarra e dal mandolino di Smith e dal violino di Mansfield.

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Il lavoro prosegue con la dissacrante cantilena di Lullaby Loon, la solenne e maestosa Gloryland, la quasi recitativa I Can’t Do Crazy (Anymore), per poi passare alla scanzonata Goin’ To St.Louis https://www.youtube.com/watch?v=BL6P1QVcxl4 , alle delicate e struggenti note pianistiche di The One You Used To Love, e terminare il viaggio, come l’aveva iniziato, con un testo che si ricollega alla title track, un brano come Let Me Be The River suonato in punta di dita da un magnifico pianista, come ha dimostrato di essere per questo lavoro Willie Nile https://www.youtube.com/watch?v=vTpynzBbOK0 . La rinascita artistica del signor Robert Noonan non accenna a fermarsi, e questo If I Was A River (anche se è distante dal repertorio più amato dai suoi “fans”), breve ma intenso, è un disco che ti conquista, che non vorresti mai togliere dal lettore, che ti rimane dentro (da segnalare anche l’artwork  con scatti in bianco e nero), da ascoltare in queste fredde e umide serate invernali (possibilmente in dolce compagnia).!

Tino Montanari

Una Serata Con Luci Ed Ombre! Eagles Live a Lucca – Piazza Napoleone – 2 Luglio 2014

eagles live

*NDB. Dopo una “pausa di riflessione” (direi lavoro), torna sul Blog l’amico Marco Verdi, oggi con un reportage sul concerto degli Eagles a Lucca, domani con l’anteprima del nuovo Live di John Mellencamp. Per ora, la parola all’inviato.

Eagles Live a Lucca – Piazza Napoleone – 2 Luglio 2014

A causa della mancanza di tempo non ho potuto scrivere un reportage sul concerto a Roma dei Rolling Stones, una serata fantastica che però il caldo esagerato e la scomodità al limite dell’invivibile di quel gigantesco prato spelacchiato che è ormai il Circo Massimo (mi perdonino gli storici e gli esperti d’arte, un conto sono i Fori Imperiali che vi si affacciano, una meraviglia che toglie il fiato anche alla decima visita, un conto è il catino dove un tempo correvano le bighe) mi hanno impedito di godermi fino in fondo, in quanto ero già stanco ancora prima dell’inizio.

Ieri invece, con ben altre condizioni (clima caldo ma ventilato, molto piacevole, e posti a sedere), mi sono recato in quel di Lucca, trasferta che per me sta diventando una bella abitudine (Tom Petty due anni fa http://discoclub.myblog.it/tag/lucca/ , Neil Young l’anno scorso) per assistere al concerto degli Eagles, che ha aperto il consueto Summer Festival e nello stesso tempo ha chiuso la tournée europea dello storico gruppo americano.

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E’ la quarta volta che assisto ad un live delle Aquile, ma mentre nei precedenti casi il concerto era una sorta di greatest hits ambulante (anche se a Milano nel 2009 diedero molto spazio all’allora nuovo CD, Long Road Out Of Eden), questa sera già pregusto qualcosa di diverso, in quanto lo show che i quattro portano in giro da un anno prende spunto dal loro ultimo DVD, History Of The Eagles, per ripercorrere le tappe salienti della loro carriera in ordine quasi cronologico, suonando anche brani meno noti quali https://www.youtube.com/watch?v=HFl4H55Qe0w Saturday Night (che di solito apre la serata), Train Leaves Here This Morning e Doolin-Dalton https://www.youtube.com/watch?v=8SslxLGjP3E : addirittura nel leg americano del tour (in Europa no), durante la prima parte, con loro sul palco c’era anche Bernie Leadon, membro fondatore del gruppo nel lontano 1971 https://www.youtube.com/watch?v=cF_q8nNnECM e poi sostituito da Don Felder.

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L’attesa è dunque alta: i quattro salgono sul palco, anticipati dalla loro touring band (che ha come membro di punta l’eccelso chitarrista Steuart Smith, che ha in pratica rimpiazzato Felder) con un ritardo accettabile di venti minuti e già iniziano con la prima sorpresa: How Long, primo singolo del loro comeback album del 2007, non solo non ha mai aperto i concerti recenti, ma non era neppure in scaletta.

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Già al secondo brano inizio però a sentire puzza di bruciato: Take It To The Limit, grandissima canzone per carità, ma di solito era messa in chiusura della prima parte, in quanto adatta a portare il climax ad alti livelli, mentre sparata subito come seconda perde molto del suo potere.

Man mano che si susseguono le canzoni, sul cui livello di resa sia chiaro non ho nulla da dire, mi rendo conto che ciò che temevo si sta avverando: i quattro stanno suonando una scaletta ridotta, stravolgendo completamente il senso cronologico originale, e per di più dando spazio a brani non proprio eccelsi (Those Shoes) o alla brutta Dirty Laundry, appartenente al repertorio solista di Don Henley ed anch’essa riesumata solo per questa serata.

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Anche se l’ottanta per cento del pubblico presente non sa della scaletta originaria e si gode la serata, io mi chiedo il perché di tale scelta: alla fine saranno ben dieci i brani esclusi (dodici se contiamo che due sono stati suonati solo a Lucca, e quindi usati come parziale rimpiazzo), per un concerto di “solo” diciassette brani per poco più di un’ora e mezza di (grande) musica (e qui il disappunto tra la gente cresce, quando si cominciava a prenderci gusto il concerto è finito).

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Al momento non ho trovato su internet una spiegazione a questo, e mi sono divertito a formularne una, inventandomi un dialogo surreale tra il promoter/organizzatore italiano e gli Eagles stessi:

“Promoter” (con sigaro tra i denti): Allora, cosa suonate stasera?

Glenn Frey (da sempre il portavoce del gruppo): Ecco qua la scaletta: è una sorta di storia cronologica dalle nostre origini fino a…

P (strappando di mano a Frey il foglietto ed iniziando a depennare titoli con il pennarello nero): Che cosa? Ma a chi (bip) volete che interessino le vostre origini? Il pubblico italiano vuole sentire solo i grandi successi!

GF (balbettando): Ma, veramente, il pubblico americano e quello europeo hanno apprezzato, ci sono anche canzoni meno famose…

P (alzando la voce): Queste sono solo (bip)!!! Secondo voi la gente paga per sentire canzoni che non conosce? Adesso la scaletta ve la faccio io…e mi raccomando, date spazio al chitarrista biondo, quello che fa lo scemo sul palco, perché gli Italiani vogliono anche ridere, non solo sentire della musica!”

joe walsh eagles

Scherzi a parte, questo spiegherebbe anche lo spazio eccessivo dato a Joe Walsh (che comunque è sembrato quello in forma migliore, e questo è un evento), gran chitarrista, abile showman ma come songwriter non proprio un fuoriclasse: quattro brani su ventisette sono una percentuale giusta, ma su diciassette siamo chiaramente sbilanciati.

Questa comunque la scaletta nel dettaglio:

How Long
Take It to the Limit
Tequila Sunrise
I Can’t Tell You Why
Lyin’ Eyes
Heartache Tonight
Those Shoes
In the City
One of These Nights
https://www.youtube.com/watch?v=eruyymqmyqA

Life’s Been Good
Dirty Laundry
Funk #49
Life in the Fast Lane

Hotel California
Take It Easy
Rocky Mountain Way
Desperado

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E’ chiaro che, essendo grandi professionisti, quello che hanno fatto lo hanno fatto egregiamente, ma qua e là qualcosa ha scricchiolato: Frey era in forma vocale appena discreta, mentre Henley, fisicamente appesantito ma ancora un grande cantante, sembrava incazzato come una biglia, quasi non vedesse l’ora di finire e andare a casa. *NDB Ma Timothy B. Schmit (la B. sta per Bruce) ti sta proprio sulle balle, tanto da non nominarlo neppure? Ok, la canzone non è fantastica, ma una piccola citazione…https://www.youtube.com/watch?v=WfZgdkauTzE

Peccato, dato che comunque quando suonano ci sanno ancora fare alla grande, e soprattutto perché non so se e quando capiteranno ancora dalle nostre parti.

Marco Verdi