Tra Roots, Rock’n’Roll E “Casino Organizzato”! The Suitcase Junket – Mean Dog, Trampoline

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The Suitcase Junket – Mean Dog, Trampoline – Signature Sounds CD

The Suitcase Junket non è il nome di una vera è propria band, ma un progetto solista dietro il quale si nasconde Matthew Lorenz, songwriter originario del Massachusetts che ha già alle spalle ben quattro album e due EP con questo moniker. TSJ sono pertanto una sorta di one man band, in cui Lorenz si occupa della scrittura delle canzoni e della loro esecuzione, sia dal punto di vista strumentale che da quello del canto: la critica ha paragonato la sua musica ad un mix di vari tipi di rock, sia urbano che rurale che da roadhouse, mentre altri in lui vedono una fusione delle melodie degli Avett Brothers con gli arrangiamenti asciutti dei Black Keys e certe atmosfere un po’ malate alla Tom Waits. Devo dire che per una volta certi paragoni non sono campati in aria, se non per il livello artistico almeno per il genere di riferimento: Lorenz è infatti autore di una pregevole miscela di rock’n’roll elettrico e chitarristico con qualche elemento blues urbano, il tutto senza mai perdere l’attenzione verso le melodie orecchiabili e dirette, proprio come è nelle caratteristiche dei Black Keys, anche se Matthew qua e là mostra anche influenze roots.

Ed è proprio in conseguenza di ciò se per produrre il suo nuovo album, Mean Dog, Trampoline, Lorenz ha chiamato il “Lobo” Steve Berlin, che ha portato in studio la sua esperienza ed un certo suono che ogni tanto troviamo anche nei lavori del suo gruppo principale, un mix tra tradizione e modernità che fa sì che Mean Dog, Trampoline sia il disco più riuscito di quelli usciti finora a nome Suitcase Junket. Lorenz si occupa come al solito del 90% degli strumenti, lasciando spazio solo a Bruce Hughes al basso in tre pezzi, al percussionista Camilo Quinones (fratello dell’ex Allman Brothers Marc), allo stesso Berlin in altre due canzoni, e soprattutto alla sorella Kate Lorenz che si occupa del controcanto in tutto l’album. Dodici brani, a partire dalla coinvolgente rock’n’roll song High Beams, diretta e piacevole: motivo immediato, ritmo pulsante e chitarre che riempiono gli spazi in modo perfetto https://www.youtube.com/watch?v=1JQNbGnIvXQ ; Heart Of A Dog è subito più dura, sporca e bluesata, con un ritmo strascicato e mood indolente all’interno di un’atmosfera quasi dissonante: qui il paragone con Waits ci può stare, anche se Matthew ha una voce molto più limpida di quella del cantautore di Pomona https://www.youtube.com/watch?v=07aJCrlxkNQ .

Everything I Like è ancora elettrica, ma ha un ritmo cadenzato ed un approccio decisamente più fruibile, tra rock urbano e roots, con un refrain vincente, Stay Too Long non molla la presa, ma è più frenetica e ricorda davvero il duo di Auerbach e Carney, mentre l’annerita Gods Of Sleep, sarà per la presenza in consolle di Berlin, ma non è distante da certi episodi più modernisti dei Lupi di East L.A., in cui però la melodia non viene dimenticata. Dreamless Life ci porta totalmente su altri lidi, essendo una gentile ballata acustica di stampo folk, ma subito si torna al rock’n’roll un po’ sghembo con l’intrigante Son Of Steven, dove il motivo anni sessanta contrasta apertamente con l’accompagnamento moderno, una miscela creativa ed a suo modo geniale. Dandelion Crown è una sorta di godibile errebi dai suono sempre molto contemporaneo, Scattered Notes From A First Time Homebuyers Workshop è folk elettrificato “sporcato” da una chitarra leggermente distorta ed una melodia degna di Paul Simon, mentre New York City torna al piacevole rumore delle cose dei Black Keys. Il CD termina con l’attendista What Happened e con la folkeggiante Old Machine, chiusura delicata e pastorale per un dischetto intrigante che riserva più di un momento degno di nota.

Marco Verdi

Tra Los Angeles Ed Il Messico Il Natale Arriva Prima! Los Lobos – Llegò Navidad

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Los Lobos – Llegò Navidad – Rhino/Warner CD

Quest’anno nei listini delle uscite discografiche da Ottobre a Dicembre ho constatato un’assenza di dischi a tema natalizio particolarmente interessanti, con l’unica eccezione di Llegò Navidad, prima escursione nella musica stagionale dei losangeleni Los Lobos. Tranne rare eccezioni, gli album di Natale occupano una posizione di secondo piano nelle discografie dei vari artisti, in quanto legati a doppio filo all’atmosfera della festività, ma nel caso dei Lupi di East L.A. (che erano fermi a Gates Of Gold del 2015 https://discoclub.myblog.it/2015/10/20/signori-fanno-disco-brutto-neanche-sbaglio-los-lobos-gates-of-gold/ ) abbiamo tra le mani un lavoro che può essere ascoltato benissimo anche nei mesi estivi. Sì, perché Llegò Navidad è un disco che di natalizio ha solo i testi delle canzoni, dato che il contenuto musicale è un vero tripudio di suoni e colori di matrice latina: infatti i nostri hanno fatto un disco che si avvicina molto a La Pistola Y El Corazon, il famoso album che pubblicarono nel 1988 e che ancora oggi è uno dei più amati dai fans. Dodici brani, di cui solo uno originale ed altri presi dalla tradizione messicana, ma anche diversi pezzi contemporanei con provenienza sudamericana. Un disco latino a tutti gli effetti, non solo messicano come era La Pistola Y El Corazon, e come ulteriore differenza abbiamo la presenza anche di due canzoni in inglese.

Ma soprattutto il fatto che Llegò Navidad è un album che si può definire folk-rock, in quanto a fianco a strumenti della tradizione come fisarmonica, guitarron, vihuela e bajo sexto troviamo anche chitarre elettriche, harmonium, organo e batteria: i Lupi sono da sempre nella stessa formazione (David Hidalgo, Louie Perez, Cesar Rosas, Conrad Lozano e Steve Berlin, quest’ultimo, ex Blasters, con loro dalla metà degli anni ottanta), ed in questo album troviamo anche qualche ospite come Jason Lozano (figlio di Conrad) alla batteria, Marco Reyes e Alfredo Ortiz alle percussioni e Josh Baca dei Los Texmaniacs alla fisarmonica. Llegò Navidad è dunque un album che si può ascoltare in tutte le stagioni dell’anno, ed è tra le sorprese più belle di questa parte del 2019, sia per la varietà di stili e suoni (mentre il pur splendido La Pistola Y El Corazon era, come ho già scritto, più monotematico), sia per l’allegria che infonde durante l’ascolto, ma soprattutto per la straordinaria abilità dei nostri nel suonare qualsiasi strumento passi loro davanti. L’avvio è subito notevole con La Rama, un son jarocho (musica originaria della regione di Veracruz, in Messico) suonato in maniera tradizionale al massimo, con il requinto jarocho (una chitarra tipica del luogo di cui sopra) di David a guidare la splendida melodia corale, che trasmette gioia sin dalle prime note, e con Rosas che si prende la scena come voce solista: grande inizio. Reluciente Sol è una salsa resa celebre da El Gran Combo De Puerto Rico, e porta ancora più suoni e colori della precedente, con Perez in una delle sue rare performance alle lead vocals, Berlin al sax mentre Hidalgo suona la “hidalguera”, una chitarra fatta su misura per lui: brano delizioso.

It’s Christmas Time In Texas è uno dei due pezzi in inglese (scritto da Freddy Fender) ed è un tex-mex strepitoso, con la fisa di Baca in primo piano e la sezione ritmica che non perde un colpo: se ci fosse stato anche Ry Cooder era una canzone da cinque stelle. La malinconica Amarga Navidad, un brano di José Alfredo Jimenez, vede Rosas al canto ben supportato dai compagni, che sembrano una congrega di messicani duri e puri; con Arbolito De Navidad ci spostiamo in Colombia, per una fantastica cumbia dal ritmo contagioso, in cui compare la chitarra elettrica di Rosas che doppia in maniera irresistibile la voce di Hidalgo: una meraviglia. Donde Està Santa Claus è una canzone resa popolare nel 1958 dal dodicenne Augie Rios, ed i nostri la arrangiano in puro stile latin-rock, in cui la chitarra elettrica stavolta è di Hidalgo anche se il vero mattatore è Berlin, che suona sax, vibrafono ed un inconfondibile organo Vox Continental, mentre con la title track sembra di andare a Cuba, con il ritmo cadenzato e “caliente” tipico dell’isola castrista, e la melodia fluida e distesa che fa il resto: bello l’intermezzo verso la fine del brano, quando la chitarra elettrica si affianca alla strumentazione tradizionale. Las Mananitas (un pezzo della tradizione messicana che solitamente si canta ai compleanni, ma sempre di “fiesta” si parla) è un godibilissimo lento a tempo di valzer, e quindi si sente anche un po’ di Texas.

La Murga, una salsa resa celebre nel 1971 dal duo Willie Colon & Hector Lavoe, ha un ritmo coinvolgente ed una melodia profondamente tradizionale, ennesimo brano pieno di colore che di natalizio ha poco (ma sentite come suonano i Lupi); è la volta dell’unica canzone nuova, Christmas And You (scritta da Hidalgo e Perez), che è anche la sola a non avere nulla di comparabile al resto del disco, essendo una ballatona romantica tipica in stile anni cinquanta, con strumentazione rock ed un motivo decisamente evocativo. Il CD si chiude con la squisita Regalo De Reyes, un bolero dalla melodia toccante, e con la popolarissima Feliz Navidad, un classico stagionale scritto da José Feliciano, uno dei brani natalizi più famosi che qui assume i toni di un’allegra “cancion mixteca” resa ancora più trascinante dal canto corale.I Los Lobos sono finalmente tornati, ed in grande forma: se prevedete di trascorrere le feste natalizie in qualche località esotica, meglio se centro-sud americana, non dimenticate di mettere la vostra copia di Llegò Navidad in valigia.

Marco Verdi

“Alternativa” Ma Non Troppo, Anzi Sofisticata Ed Elegante. Neko Case – Hell-On

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Neko Case – Hell-On – Anti-

Neko Case non è più una “giovanotta”, 47 anni compiuti (sempre dire l’età delle signore), una carriera iniziata nel 1994, ma il primo disco da solista è del 1997: all’inizio, per quanto valgano le etichette, era più alternative country, nel primo album appunto del 1997 The Virginian, e pure nel successivo Furnace Room Lullaby, ma già Blacklist virava verso lidi più rock, anche se poi l’esibizione all’Austin City Limits del 2003 era ancora in un ambito “Americana” con tanto di cover di Buckets Of Rain di Dylan.

Poi da Fox Confessor… del 2006 il suono si fa più “lavorato”, ma a tratti anche spensierato, visto che Neko Case aveva anche una sorta di carriera parallela con i New Pornographers, più orientati verso un sound power-pop, definirlo commerciale forse è una esagerazione, ma i dischi in Canada vendono in modo rispettabile. Whiteout Condition è l’ultimo disco del 2017 in cui canta Neko, e l’album in trio del 2016 con Laura Veirs e KD Lang il penultimo uscito https://discoclub.myblog.it/2016/06/29/le-csn-degli-anni-2000-caselangveirs/ . E proprio la Lang appare come voce di supporto in Last Lion Of Albion, il delizioso secondo brano di raffinato stampo pop di questo nuovo Hell-On, -co-prodotto, come altri sei del CD, da Bjorn Ytlling di Peter, Bjorn And John, che ha curato la quota svedese dell’album e il mixaggio complessivo del disco. La title track Hell-On è stata scritta con Paul Rigby, chitarrista e collaboratore abituale della Case, mentre Doug Gillard è l’altro chitarrista, e nella parte americana dell’album collaborano anche Joey Burns dei Calexico, Steve Berlin e Sebastian Steinberg, un brano “lunare” e soffuso, dove Neko suona la kalimba, e ci sono anche cello e autoharp.

Da Stoccolma arriva pure Halls Of Sarah, delicata e complessa, con la base strumentale incisa in Arizona, come le voci di Laura Veirs e Kelly Hogan. A questo punto facciamo un piccolo salto nel passato: siamo nel settembre del 2017, quando alle tre del mattino Neko Case riceve una chiamata dagli Stati Uniti in cui le viene comunicato che la sua casa nel Vermont sta bruciando e non ci sono speranze di salvare nulla, tutti i suoi possedimenti vanno in fumo, si salvano solo i cani e le persone care. Ma la nostra amica, che a dispetto dell’aspetto esteriore tranquillo è una tipa tosta, decide di completare comunque l’album, infatti nei contenuti appaiono vari richiami a questa vicenda, a partire dal titolo e dalla copertina, dove la Case appare con il capo ricoperto di sigarette e con la sua strana acconciatura che prende fuoco. Si sa che spesso dalle disgrazie nascono spunti di resilienza ed in effetti l’album nel complesso risulta una dei suoi migliori https://www.youtube.com/watch?v=j5MPRCf2M9U , con una clamorosa eccezione in Bad Luck (altro riferimento) che sembra quasi un brano della futura reunion degli Abba, e che francamente, esprimo un parere personale, a qualcuno piacerà, ci poteva risparmiare, tra ritmi disco-pop e coretti insulsi molto kitsch https://www.youtube.com/watch?v=MnCRbKyn1KY .

Invece molto meglio, sempre prodotta da Ytlling, la lunga e maestosa ballata Curse Of The I-5 Corridor che vale quasi da sola l’album, e in cui la Case duetta con Mark Lanegan, e con le voci, quella chiara e cristallina di Neko e quella bassa e profonda di Lanegan che si intrecciano con risultati assolutamente affascinanti, a tratti anche solari,  grazie alle tastiere di Burns e alla batteria di Matt Chamberlain. Molto bella Gumball Blue, scritta con Carl A.C. Newman dei New Pornographers, che aggiunge la sua voce a quella della Hogan, della Lang e di vari altri vocalist per una pop song raffinata e composita, dove si apprezzano il violino di Simi Stone e pure il synth di John Collins, vogliamo chiamarlo, parafrasando Nick Lowe, “pure pop for now people” https://www.youtube.com/watch?v=ccNWxAB8hk8 ? Anche la sognante Dirty Diamond ha complessi arrangiamenti, con  doppia chitarra e batteria, altro “alt-pop” elegante dove spicca la voce sicura e brillante della nostra amica https://www.youtube.com/watch?v=Ki7wQbTGPXI .

Oracle Of The Maritimes, scritta con Laura Veirs, suono avvolgente, molte chitarre acustiche ed elettriche, cello, piano, clavicembalo e la voce che quasi galleggia sulla base strumentale, con un ottimo crescendo finale. Winnie, dove tra le altre appare anche Beth Ditto, buona ma nulla di memorabile, mentre più interessanti Sleep All Summer, scritta e cantata a due voci con Erich Bachmann, da tempo anche nella sua touring band e ancora My Uncle’s Navy, di nuovo con Newman, che grazie anche alla stessa Case a piano e chitarre ed alla pedal steel di Jon Rauhouse rimanda in parte alle sonorità del passato, tra wave e alt-country https://www.youtube.com/watch?v=cPkr54tl1gw . Pitch Or Honey, con un misto di strumenti tradizionali e drum machines e synth incombenti mi piace meno, ma non inficia il giudizio complessivamente più che positivo dell’album.

Bruno Conti

Tra Texas E Louisiana, Sempre Con Brio E Classe. Marcia Ball – Shine Bright

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Marcia Ball – Shine Bright – Alligator Records/Ird

Sono circa 50 anni che Marcia Ball fa musica, praticamente da quando era alla Louisiana State University, con quello che si ricorda, più o meno, come il suo primo gruppo,  i Gum. Già nel 1970 era però ad Austin, Texas, dove nascono  Freda And The Firedogs,  un disco nel 1972, tra country e rock, e dal 1974 parte la sua carriera solista,  alla prima prova discografica però solo nel 1978 con Circuit Queen, e poi, più solidamente, con l’ottimo Soulful Dress nel 1984. La nostra amica è sempre stata fedele ai suoi amori, la Louisiana e il Texas, e infatti anche questo Shine Bright è stato inciso tra Maurice, Louisiana e Austin, Texas: un altro connubio che funziona è quello con la Alligator con cui Marcia incide da più di 15 anni e che, disco dopo disco, le fornisce sempre eccellenti produttori, per il precedente The Tattooed Lady & The Alligator Man del 2014 era Tom Hambridge https://discoclub.myblog.it/2014/11/11/la-donna-illustrata-marcia-ball-the-tattoed-lady-and-the-alligator-man/ , questa volta tocca a Steve Berlin, che tutti ricordiamo con i Los Lobos, ma ha suonato e prodotto centinaia di dischi nella sua lunga carriera.

E nel disco si alternano anche moltissimi musicisti di notevole spessore, alcuni noti, altri meno, ma tutti con il giusto “tocco”: ne ricordiamo alcuni, Eric Adcock e Red Young che si avvicendano all’organo (al piano c’è già una piuttosto bravina),  Conrad Choucroun alla batteria, Mike Schermer alla chitarra, ci sono anche cinque suonatori ai fiati, oltre a Berlin, che si succedono nei vari brani, e le “amiche” della Ball, Shelley King e Carolyn Wonderland, che prestano le loro splendide voci  per questo album. Non occorre ribadire che ancora una volta il disco si muove in tutte le mille sfaccettature della musica di Marcia Ball: dall’immancabile boogie-woogie al soul, passando per R&B e gospel, il gumbo di New Orleans, tra swamp e blues, l’arte della ballata, il tutto condito, quasi inutile dirlo, da tanto piano, suonato in modo splendido dalla nostra amica, che nel 2015 ha vinto il  ‘Pinetop Perkins Piano Player’ award, che nel 2013 e 2014 era andato a Victor Wainwright https://discoclub.myblog.it/2018/04/14/un-grosso-artista-in-azione-in-tutti-i-sensi-victor-wainwright-the-train-victor-wainwright-and-the-train/ .

Dodici brani in tutto, otto originali della Ball, uno di Ray Charles, uno di Jesse Winchester, la deliziosa e sfrenata Take A Little Louisiana, che tra cajun e zydeco, e sulle ali della fisarmonica di Roddie Romero, ci porta alla conclusione di questo variegato viaggio. Ma prima troviamo anche il R&B cadenzato e fiatistico di Ernest Kador, che però gli appassionati della buona musica conoscono come Ernie K-Doe, con un vecchio brano del 1962 I Got To Find Somebody, che ancora oggi suona fresco e pimpante.  Il  roadhouse party di R&B, se vogliamo impossessarci di un termine con cui viene definita la musica di Marcia Ball, era partito con il groove contagioso della title track dove la musicista di Vinton, Louisiana (ancora in possesso di una buona voce, nonostante le quasi 70 primavere)  e le sue amiche King e Wonderland si scambiano intrecci vocali di pregio, mentre il piano  e la chitarra di Schermer, oltre all’organo di Young, viaggiano alla grande.

Ci sono altri divertenti esempi di party music, come la mossa e speziata They Don’t Make ‘Em Like That, scritta con Gary Nicholson, e che ricorda certi brani di Fats Domino, altra grande influenza della Ball, o Life Of The Party, un brano di puro Mardi Gras, tra derive caraibiche e New Orleans soul.  Il brano di Ray Charles  What Would I Do Without You  è una sontuosa soul ballad nello stile del “genius”, ma anche il contributo di Shelley King, una robusta e profetica  When The Mardi Gras Is Over, non è da trascurare, con il piano di Marcia e i fiati che impazzano. Ma pure la sequenza di sei canzoni firmate dalla Ball non manca di divertire ed affascinare, da Once In A Lifetime Time, ancora pura Louisiana, alla bluesata Pots And Plans, la incantevole gospel ballad World Full Of Love, la contagiosa perla soul  I’m Glad I Did What I Did , con i suoi florilegi pianistici, il boogie Too Much For Me, testimoniamo di una musicista ancora in piena forma. Se volete gradire.

Bruno Conti

La Via Italiana Al Blues 1. Paolo Bonfanti – Back Home Alive

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Paolo Bonfanti – Back Home Alive – Club De Musique Records/IRD

Lo stato dell’arte del blues (e anche del rock) in Italia è alquanto strano. Ovviamente soprattutto per ciò che riguarda i praticanti in lingua inglese, raramente sui grandi giornali o in televisione, non certo per scarsa qualità quanto per il provincialismo al contrario di certa stampa italiana che li considera prodotti inferiori. E invece ci sono fior di artisti italiani che navigano in questo mare tempestoso del “non solo blues”: penso a gente come Paolo Bonfanti, di cui tra un attimo, la Gnola Blues Band, i Mandolin’ Brothers, in passato Treves (ma anche oggi, non è in pensione), Fabrizio Poggi, che in tempi recenti ci hanno regalato ottimi album tra blues, roots-rock, folk, country, rock vero e proprio, spesso con risultati nettamente superiori a quelli di moltissimi colleghi d’oltreoceano. Prendete questo Back Home Alive, partendo dai credits che riportano: produzione artistica Steve Berlin (proprio quello dei Los Lobos), mixaggio David Simon-Baker (fonico, sempre dal giro Los Lobos) e mastering di David Glasser ( sta curando le ristampe dei Grateful Dead per il cinquantenario), le foto sono di Guido Harari, altro italiano (ok è nato a Il Cairo!), famoso in tutto il mondo per le sue istantanee di Lou Reed, Zappa, in Italia De André, anche lui genovese come Bonfanti. Che tra gli ospiti di questa serata del 28 febbraio al Teatro Comunale di Casale Monferrato ha voluto anche l’appena citato “Puma di Lambrate”, più noto come Fabio Treves.

Il tutto esce per una piccola etichetta di Courmayeur, un prodotto di ottima qualità artistica sin dalla confezione molto curata. Ovviamente quello che conta principalmente è il contenuto musicale e anche in questo caso ci siamo in pieno. Accompagnato dal suo gruppo elettrico, Paolo Bonfanti, voce solista e chitarre, con Alessandro Pelle alla batteria e Nicola Bruno al basso, Roberto Bongianino all’accordion (per i non anglofili sarebbe la fisarmonica), strumento che dà un tocco inconsueto al sound, collocandolo a cavallo tra le paludi della Louisiana e i sobborghi di Los Angeles dei Los Lobos. Quindi tanto blues, “musica delle radici” naturalmente, ma anche rock potente e tirato, come è chiaro fin dall’iniziale The Seeker, un brano che porta la firma di Pete Townshend  e anche se non è tra i brani più famosi degli Who, ha comunque l’imprinting e la grinta della band inglese, granitici power riffs adattati ai suoni dei barrios di LA, con la chitarra di Paolo che corre veloce e ricca di inventiva sulle note di un pezzo che è puro classic rock. E’ un attimo e siamo dalle parti del Sud degli States, A Nickel And A Nail un vecchio pezzo di O.Wright, grande cantante soul della scuderia di Willie Mitchell, ma la canzone la facevano anche Roy Buchanan, Otis Clay, Billy Price (il cantante di Buchanan), Ruthie Foster in tempi recenti, non so Paolo da dove l’ha presa (poi gliel’ho chiesto e mi ha detto che conosceva l’originale) ma il pezzo ha mantenuto il suo spirito tra blues e soul. Terror Time, il primo brano “autoctono”, è un blues di quelli raffinati, alla Robben Ford o se preferite alla Mike Bloomfield, solista jazzy e il tocco della fisa che fa le veci delle tastiere o dell’armonica.

Hands Of A Gambler è una ballata mid-tempo, da storyteller, quasi springsteeniana, ma anche con uno spirito texano, con la fisarmonica alla Ponty Bone di Bongianino, mentre Second World, con la sua insinuante andatura funky-blues viene dal primo album solista di Paolo, On My Backdoor Someday, disco prodotto a Nashville nel 1992. In Takin’ A Break si vira di nuovo verso la forma canzone, mid-tempo, malinconica e struggente il giusto, per tornare al rock misto a blues o viceversa di Route One,  dove viene estratto il “collo di bottiglia” per una bella cavalcata nello slippin’ and slidin’ appunto a tempo di slide. I’m Just Tryin’ era sullo stesso disco ed è un R&R di quelli scatenati, alla Blasters, per non parlare solo dei classici, con la chitarra a pungere come si conviene. Time Ain’t Changed At All è una ballata dylaniana, una sorta di answer song che ci dice che i tempi purtroppo non sono cambiati per niente, ma almeno questo valzerone è una bellissima canzone. Guard My Heart è un omaggio ai Nighthawks di Mark Wenner, altro grande armonicista ed è l’occasione per portare sul palco Fabio Treves per una rimpatriata a tempo di boogie. Slow Blues For Bruno, dall’ultimo eccellente disco Exile On Backstreets non è dedicata al sottoscritto, ma è il classico lentone blues strumentale dove Paolo Bonfanti mette tutto quello che ha nella sua chitarra per dedicarci un assolo che rivaleggia con quelli dei grandi dello strumento e anche Bongianino non scherza con il suo accordion. E per concludere in bellezza, una ottima versione di Franklin Tower, in puro Grateful Dead style, per ricordare i 50 anni della band di Garcia e Co in bello stile: bella musica e bella serata, disponibile per tutti da gustare.

Bruno Conti

Un “Supergruppo”? Più O Meno. Diamond Rugs – Cosmetics

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Diamond Rugs – Cosmetics – Sycamore Records/Thirty Tigers

Cosa otteniamo unendo due musicisti dei Deer Tick, un ex dei Black Lips, un Dead Confederate, un Six Fingers Satellites e Steve Berlin, del giro Los Lobos e Blasters? Un supergruppo? Più o meno, anche se dovendo pensare ad un supergruppo mi vengono in mente i Blind Faith di Clapton, Baker e Winwood, o in tempi più recenti i Traveling Wilburys con Dylan, Harrison, Orbison, Petty e Lynne, però in questo caso,  con tutto il rispetto per i nomi dei musicisti coinvolti, parlerei più di un progetto collaterale o di una collaborazione, per quanto riuscita. Infatti questo Cosmetics è già il secondo album che i Diamond Rugs pubblicano, dopo l’omonimo esordio del 2012: e se proprio vogliamo indagare fino in fondo, non sono neppure coinvolti solo i sei musicisti principali, ma ce ne sono altri quattro di contorno, due ulteriori fiati, che uniti al sax di Berlin (impegnato anche a tastiere varie) danno alle procedure, ove occorra, un suono più caldo e diretto, già accentuato dal fatto di avere registrato il tutto su un vecchio otto piste nel Playground Sound Studio di Nashville, in una decina di giorni nell’agosto del 2013. Se aggiungiamo ancora Adam Landry, chitarrista e pianista, nonché produttore dell’album (di recente all’opera con Lilly Hiatt) insieme a Justin Collins, pure lui alla chitarra, otteniamo una formazione dove il classico formato, chitarre (ben tre), basso, batteria è arricchito appunto da una sezione di fiati e da molte tastiere.

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Secondo alcuni il risultato è la somma delle parti dei vari musicisti coinvolti, secondo altri ognuno porta il suono del proprio gruppo, ma il mondo è bello anche perché alla fine ognuno ha la propria opinione, comunque rispettabile. Oltre a tutto John McAuley, perché non abbiamo detto che dietro al tutto, in un certo senso, c’è lui, in quanto il precedente album doveva essere il suo esordio solista, il “vizio” della collaborazione ce l’ha nel sangue, visto che, al di fuori dei Deer Tick, c’era già stato il progetto Middle Brother, altro “supergruppo” con Taylor Goldsmith dei Dawes e Matthew Vasquez dei Delta Spirit, sia pure con attitudini più roots-rock, mentre per questi Diamond Rugs si è parlato di indie rock, e qui dobbiamo ancora metterci d’accordo su cosa si intenda esattamente: è un genere musicale o il fatto che i frequentatori vengono da un background indipendente dalle majors discografiche? Boh! Comunque si ondeggia tra il R&R rauco e fiatistico di Voodoo Doll, dove si oscilla tra un classico rock alla Los Lobos e Blasters e derive più funky-wave, tipo i Talking Heads della parte centrale di carriera, tra synth e sax che si contendono gli spazi sonori del brano con le chitarre https://www.youtube.com/watch?v=IdBv7Q9EDiE . Thunk, con i suoi fiati all’unisono appoggiati ai riff delle chitarre ha un suono più classico, sempre divertente e ben scandito, insomma l’energia sembra non mancare https://www.youtube.com/watch?v=2ij76Ntnb8o . Couldn’t Help It addirittura potrebbe essere un bel garage rock and roll melodico (si può dire?) che avrebbe fatto la sua bella figura su Negativity dei Deer Tick, ma anche in un disco dei citati Travelin’ Wilburys https://www.youtube.com/watch?v=8faDZtRh_n0  e pure Meant To Be ha un bel groove d’assieme, scandito e più rallentato rispetto ai precedenti brani, ancorché più chitarristico https://www.youtube.com/watch?v=vIRa61opst4 .

Non guasta che nei vari brani i componenti del gruppo si alternino alla voce solista, garantendo al disco una discreta varietà di temi sonori, senza per questi essere troppo dispersivo. Live And Shout ha un bel drive alla Bo Diddley o alla Buddy Holly, se fossero vissuti nel 21° secolo https://www.youtube.com/watch?v=-DYdJi4CEsE , ma la passione per le chitarre se la fossero portata dietro dai loro tempi, magari con un pizzico di ghigno alla Tom Petty. La brevissima So What non rimarrà negli annali della pop music, mentre Ain’t Religion, per il ritmo della batteria e la costruzione del brano, potrebbe apparire come una (quasi) riuscita fusione tra un mid-tempo pettyano e un brano alla Creedence https://www.youtube.com/watch?v=SSYW4OKqHO4  e Killin’ Time, con un organetto molto vintage e il riff ripetuto delle chitarre elettriche, spolverato dalle acustiche, ha un sapore vagamente sixties, di nuovo piacevole ma non non memorabile, anche le se chitarre qui roccano in modo più energico. Blame forse ha dei tratti tipo i Wall Of Voodoo meno minacciosi e più leggerini, interessanti spunti strumentali, spesso irrisolti e anche Clean, unisce suono garage e sixties, l’attacco sembra Wild Thing dei Troggs e lo svolgimento è un po’ scolastico https://www.youtube.com/watch?v=bdWfjBEQTZQ , come si usa dire. Meglio la botta di energia della conclusiva Motel Room, dove chitarre, fiati e tastiere tornano tutti insieme appassionatamente per un bel finale a base di spastico funky & roll https://www.youtube.com/watch?v=wd0MmIsgCoE .

Bruno Conti     

Musica Di “Peso”, Non Fate Caso Al Titolo Del CD! Matt Andersen – Weightless

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Matt Andersen – Weightless – High Romance/True North/Ird

A giudicare dal titolo e dalla piuma che svolazza senza peso, Weightless, sulla copertina del disco, uno non potrebbe neppure immaginare che siamo di fronte ad una “personcina” che ha più il peso e le dimensioni di un Popa Chubby. Ma il talento, in questo caso, non è inversamente proporzionale: ogni etto contiene talento a profusione! Presentato sullo sticker della copertina come vincitore dell’European Blues Award e dell’International Blues Challenge uno si aspetterebbe un disco sulla falsariga di un Duke Robillard, un Matt Schofield, un Johnny Lang. Ma in effetti, anche se il Blues è presente, sarebbe come dire che i Jethro Tull sono una band di heavy metal? Come dite? Ah, gli hanno dato un Grammy proprio per quello! Strano.

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Se dovessi definire lo stile di Matt Andersen. ottimo musicista canadese mi riferirei a gente come John Hiatt, il primo Joe Cocker, il Clapton influenzato da Delaney & Bonnie, la Band. Tutta musica buona: non per nulla il disco è stato prodotto dall’ex Blasters e Los Lobos, Steve Berlin, registrato ad Halifax, nella Nova Scotia canadese, i fiati (elemento integrante del sound) sono stati aggiunti ad Austin, Texas, mixato a Newbury Park, in California e masterizzato da Hank Williams (giuro, non III o Jr.!), in quel di Nashville, Tennessee, Se dovessi sintetizzare, gran bel disco, canzoni notevoli, splendida voce, ottimi musicisti. E qui, se volete, potete smettere di leggere, ma conoscendomi, sapete che non posso esimermi dall’elaborarne un po’ i contenuti, per cui vediamo cosa stiamo per ascoltare, anche se il consiglio sentito è di acquistare questo album https://www.youtube.com/watch?v=SqZtVvziHJA .

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Dodici brani, tutti firmati dallo stesso Matt Andersen, quasi sempre con diversi parolieri e musicisti, uno migliore dell’altro: oltre alla produzione di Berlin il CD si avvale anche del decisivo lavoro del chitarrista Paul Rigby (quello dei dischi di Neko Case). Questo è l’ottavo album di Andersen, già il precedente Coal Mining Blues, prodotto da Colin Linden, era un bel disco https://www.youtube.com/watch?v=unh4gbcanoI , ma in questo Weightless la qualità migliora ancora, prendete la canzone d’apertura, I Lost My Way, un brano che mescola il meglio di Steve Winwood, John Hiatt e Delbert McClinton, un filo di Joe Cocker, la chitarra lavoratissima di Rigby, una sezione fiati che aggiunge pepe al brano, le vocalist di supporto, guidate da Amy Helm, che donano una patina soul à la Band, un’aria rootsy-rock che ricorda anche le mid-tempo ballads del Marc Cohn più ispirato, tanto per non fare nomi https://www.youtube.com/watch?v=GC8jw0LM_z0 .

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My Last Day prosegue con questo groove rilassato ed avvolgente, anche le tastiere si fanno sentire, il cantato è sempre delizioso, una voce avvolgente che ti culla e ti scuote al contempo, sembra di essere in quel di Memphis per qualche session dei tempi che furono, una meraviglia https://www.youtube.com/watch?v=WKbht9nKFKI . Paul Rigby, ha un sound chitarristico inconsueto ma affascinante e tutti i musicisti sono al servizio delle canzoni e non viceversa, come ogni tanto accade. Anche So Easy, con una bella intro di chitarra acustica, ruota intorno alla voce espressiva di Andersen, qui ancora più suadente ed emozionante, e alla pedal steel incisiva di Rigby, che sorpresa, un cantante che sa esporre i suoi sentimenti attraverso la voce senza dovere urlare come un ossesso https://www.youtube.com/watch?v=tNEC6NVDRd4 . Per Weightless tornano i fiati e le voci femminili di supporto, il suono è tra la Band più soul e gli Stones di Honky Tonk Women, qui Matt lascia andare un po’ di più la voce e l’amico Mike Stevens aggiunge un gagliardo assolo di armonica. Alberta Gold è un’altra gioiosa ode ai grandi cantautori degli anni ’70, mossa e ritmata, con Rigby sempre magico alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=ek1-swOBYfY , Let’s Go To Bed viceversa è un gioiellino elettroacustico, molto intimista, “canadese” se vale come aggettivo, sempre con la voce sugli scudi e la chitarra che lavora di fino sullo sfondo.

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The Fight ha un attacco molto pettyano, acustica e organo in evidenza, Berlin al piano (?!), l’elettrica minacciosa subito in primo piano, ma il brano prende quota quando la voce e la chitarra acquistano grinta e stamina per un crescendo entusiasmante, bellissima canzone. Drift away, nuovamente dolce e tranquilla, potrebbe ricordare l’Hiatt più bucolico, ma è solo l’impressione di chi scrive, potete sostituire con chi volete, solo gente brava mi raccomando! Ottima anche Let You Down, dove un mandolino, le armonie vocali avvolgenti e il lavoro di fino del batterista Geoff Arsenault, potrebbero ricordare ancora la Band, ma anche il sound del primo album di Bruce Hornsby, esatto, così bello. Un po’ di country-rock-blues per City Of Dreams, una fantastica ballata tra soul e Cooder, Between The Lines, con la slide di Rigby perfetta, e la conclusione con l‘errebì rauco di What Will You Leave. Cosa volere di più?

Bruno Conti

Un Romantico Poeta Canadese. Stephen Fearing – Between Hurricanes

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Stephen Fearing – Between Hurricanes – LowdenProud Records 2013

Ma chi è questo cantautore? Ebbene, per chi non lo conosce, Stephen Fearing è un canadese, di Vancouver per la precisione, scoperto da Steve Berlin dei Los Lobos, ma anche noto come membro fondatore del trio canadese Blackie And The Rodeo Kings, con i due soci Tom Wilson e Colin Linden (progetto grazie al quale si è portato a casa un Juno Award, equivalente dei Grammy). La storia artistica di Fearing merita una breve introduzione: Stephen, come detto, nasce in quel di Vancouver da una mamma irlandese e da un padre inglese, si trasferisce a Dublino fino alle scuole superiori, e fra i suoi compagni di classe ci sono elementi degli U2. A diciotto anni visita gli Stati Uniti, in seguito si iscrive alla British Columbia ad Alberta, dove vive la sorella, e da li inizia una gavetta di almeno una decina d’anni, trascorsi a suonare in piccoli Clubs, diventando un ottimo chitarrista. Dopo i commenti positivi dei primi due dischi Out To Sea (88) e Blue Line (91) (purtroppo ormai introvabili) incide The Assassin’s Apprentice (93) un piccolo capolavoro, prodotto da Steve Berlin  e supportato in studio da Richard Thompson e Sarah McLachlan. Seguiranno negli anni Industrial Lullaby (97), l’intermezzo acustico live di So Many Miles (2000), That’s How I Walk (2002) prodotto da Colin Linden, Yellowjacket (2006), l’immancabile raccolta The Man Who Married Music (2009) e la collaborazione con il songwriter di Belfast Andy White Fearing & White (2011), recensito da chi scrive su queste pagine. una-misteriosa-strana-coppia-fearing-and-white.html Tralascio volutamente la discografia con i Blackie And The Rodeo Kings (ottima, ma che fa parte di un’altra storia musicale).

Prodotto da John Whynot (Bruce Cockburn e Blue Rodeo fra i suoi clienti) e registrato in quel di Toronto, con Between Hurricanes Fearing, in 54 minuti di grande musica, consolida la reputazione, raccontando nelle varie canzoni la tenerezza e l’umanità dei suoi personaggi. Il lavoro si mantiene su livelli di eccellenza per tutto il suo svolgimento, ma ci sono almeno cinque canzoni decisamente sopra la media e che si fanno amare in maniera particolare, partendo dalla delicata Don’t You Wish Your Bread Was Dough (sembra di sentire il miglior Cockburn), l’intro di un pianoforte intimista  in Cold Dawn (il racconto di un incidente di elicottero a Terranova), la ballata acustica Fool, una canzone sulla fragilità dei sentimenti, la folkeggiante These Golden Days, per concludere con una personale versione di un classico di Gordon Lighfoot Early Morning Rain.

Nel corso della sua carriera Stephen Fearing ha collaborato con una lunga lista di artisti tra i quali Tom Wilson e Colin Linden (suoi attuali “pards” nei BTRK), Richard Thompson e Bruce Cockburn (i suoi modelli dichiarati), Shawn Colvin e Margo Timmins (Cowboy Junkies), e, l’ultimo in ordine di tempo, Andy White, e di tutti questi personaggi (come ha dichiarato in varie interviste), ricorda il piacere di frequentarsi e scrivere canzoni insieme. Oggi Stephen, dopo aver vissuto per anni a Guelp nell’Ontario (terra ricca di castori, alci e trapper) in compagnia della poetessa Angela Hryniuk (la cui unione è stata fondamentale per l’evoluzione del musicista canadese), si è trasferito ad Halifax, si è risposato e recentemente è diventato padre. Fearing è certamente un autore di “nicchia” (ma assai stimato in patria), e questo Between Hurricanes è il risultato: un disco, che esalta le melodie folk-rock , dai testi intelligenti e mai banali, composto di umide ballate che profumano degli inverni in Canada  e mette in risalto una voce splendida per dolcezza e portamento. Questo umile recensore (e spero di diffondere la conoscenza di questo artista), rende un doveroso omaggio a tutti quei songwriters che sopravvivono fuori dal mercato.

Tino Montanari

Dopo Una Lunga Risalita Di Otto Anni Son Tornati I “Salmoni”! Leftover Salmon – Aquatic Hitchhiker

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Leftover Salmon – Aquatic Hitchhiker – Los Records 2012

Questo nuovo disco dei “salmoni” (dopo otto anni di inattività discografica si vociferava di un ritiro definitivo dalle scene), è sicuramente, dai tempi della morte del banjoista Mark Vann avvenuta nel 2002 (era uno dei fondatori del gruppo), il migliore della discografia della band di Boulder, Colorado. Il gruppo nasce all’inizio degli anni novanta dalla fusione di due band, i Left Hand String Band (formazione bluegrass) e i Salmon Heads (formazione cajun), e unendo le due cose abbiamo lo stile personale (azzarderei “folle”) dei Leftover Salmon, anche se inserito nel filone jam band. Cominciano a suonare in Colorado, per poi farsi un nome e diventare una formazione di “culto” in tutti gli Stati Uniti (per certi versi si possono paragonare ai Phish, anche se musicalmente sono completamente diversi), e il suono dei Salmons è un cocktail di country-bluegrass-cajun-reggae, ma è dal vivo che il gruppo dà il meglio, in quanto si lascia andare ad una musica spontanea, piena di immaginazione, in cui le invenzioni e gli altri stili coinvolti compongono un “sound” decisamente affascinante, come nel live Ash The Fish (95) registrato al Fox Theatre di Boulder.

I Leftover Salmon hanno esordito con l’interessante Bridges To Bert (93), cui faranno seguito altri lavori importanti come Euphoria (97), e The Nashville Sessions (99) con ospiti delle “personcine” come Taj Mahal, Sam Bush, Earl Scruggs, Waylon Jennings, Lucinda Williams e Bela Fleck, e un intrigante O’ Cracker Where Art Thou’ (2003) in collaborazione con i Cracker. Questo nuovo disco Aquatic Hitchhiker, a otto anni dall’omonimo CD del 2004, con una formazione decisamente rinnovata rispetto al passato, vede sempre in primo piano i “leader” storici Drew Emmitt, Vince Hermann e il nuovo arrivato Andy Thorn (banjo elettrico), con Steve Berlin dei Los Lobos che ha usato il suo ruolo di produttore per dare ordine al suono ed ha scelto la via più semplice, facendo confluire il naturale senso della melodia delle canzoni di Drew Emmitt e Vince Herman, in una forma sonora fluida e ben strutturata.

Apre Gulf Of Mexico un funky-rock di sicuro impatto (un po’ alla Little Feat, infatti nella versione live di Light Behind The Rain che vedete dopo, c’è Bill Payne ospite alle tastiere), limpido e divertente, mentre Keep Driving è un cajun rock agile e spigliato che sembra preso dalla tradizione, ma è invece uscito dalle penne di Herman e Thorn. Liza è il brano più intrigante del lavoro, un pezzo “caraibico” che ricorda le atmosfere dell’isola, perfetto per il grande Henry Belafonte, seguita dalla “title track” una traccia strumentale velocissima, con il violino dell’ospite Jason Carter in evidenza. Si riparte con Bayou Town, un “valzerone” agreste che sembra uscito dal repertorio della Nitty Gritty Dirt Band anni settanta, cui segue una Sing Up To The Moon sempre in ambito country. Light Behind The Rain è una ballata americana dalla classica struttura, con un arrangiamento limpido, cantata magnificamente e con una melodia che richiama il miglior country-rock stile Eagles.

Stop All Your Worrying è un bluegrass classico con il banjo di Andy in primo piano, mentre Walking Shoes è una canzone dal suono “roots”, cantata con molto “feeling”, seguita da una Kentucky Skies sempre sulle piste del bluegrass, tempo spedito e strumentazione cristallina. Concludono il disco Gone For Long, una composizione lenta, classica ballata di altri tempi (firmata dal bassista Greg Garrison), sincero omaggio al gruppo di Robbie Robertson (The Band), mentre Here Comes The Night è un brano splendido, leggermente dal tocco blues, un passo “allmaniano” con una fitta trama di chitarra ed hammond, tutto giocato sulla bravura dei musicisti.

I Leftover Salmon sono musicisti preparati che si divertono a stravolgere il country ed il bluegrass, suonando in modo velocissimo, mischiando elementi rock e blues, spesso improvvisando, uscendo quindi dai binari circoscritti che questi generi musicali prevedono. Musica interessante, intrigante, senza vincoli, per questi ragazzi del Colorado, e che piacerà sicuramente ai fans; per gli altri è il tempo di scoprire un gruppo che rende onore alle radici della musica americana.

Tino Montanari

Cassaforte Sulla Sabbia! Prego?!? Great Big Sea – Safe Upon The Shore

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Great Big Sea – Safe Upon The Shore – Warner Music Canada

Ogni tanto in rete si trovano degli esempi di umorismo involontario quando i programmi di traduzione istantanea si sbizzarriscono in ilari alzate d’ingegno: certo che da “Sicuro sulla riva” a “Cassaforte sulla spiaggia” c’è una leggerissima differenza.

Comunque niente paura, in ogni caso stiamo parlando del nono album di studio (live, DVD e compilations escluse) dei Great Big Sea, canadesi di Newfoundland che approdano a questo Safe Upon The Shore dopo 17 anni di onorata carriera. Ricca di soddisfazioni nel loro paese d’origine (dove l’album, uscito a metà luglio, è andato direttamente al 2° posto delle classifiche canadesi) e negli States, un po’ più di culto, ma sempre apprezzati a livello critico, nel vecchio continente. Questo album (sempre ammesso che qualche volonterosa etichetta lo pubblichi pure da noi) non farà nulla per cambiare lo cose, ma rimane comunque un bel sentire.

I Great Big Sea che fin dal loro apparire con un omonimo album nel 1993, seguito dagli ottimi Up nel 1995 e Play nel 1997, si sono prefissati di realizzare una sorta di ibrido tra le “sea shanties” che pescano a piene mani dalla musica popolare delle loro zone che deriva dal folk britannico, irlandese e francese tradizionale unito a un rock, quasi punk, grintoso, veloce, antemico anche facilmente assimilabile ma suonato con grande glasse e gusto, una sorta di Pogues misti ai Waterboys della “Big Music” di Mike Scott con abbondanti spruzzate di country, bluegrass e musica popolare americana.

Ebbene direi che in questo nuovo album ci sono riusciti alla perfezione. Lasciate le virate pop-rock dell’ultimo Fortune’s Favour si sono lanciati decisamente verso lidi (o spiagge) più orientate alla roots music e sotto la produzione di Steve Berlin (in libera uscita dai Los Lobos) e registrando questo materiale tra St.John nel Newfoundland canadese e le “paludi” della Lousiana e di New Orleans, hanno realizzato, forse, il loro miglior album.

Già dall’iniziale Long Life (where did you go) con la slide fantastica dell’ospite Sonny Landreth ad impreziosire le trame sonore dell’ottimo Sean Mc Cann, uno dei tre leader e vocalist del gruppo, per intenderci quello con la voce più roca e vissuta, si respira ottima musica.

Alan Doyle, quello con la voce più antemica e da hit singles, canta l’ottimo singolo Nothing But A Song e qui i pugnettini in concerto inevitabilmente si alzeranno.

Se vogliamo, i nostri amici canadesi e in particolare Alan Doyle sono anche un po’ ruffiani e si tengono stretti i “vicini Americani” nella quasi traditional Yankee Sailor (con flautini, fisarmoniche, violini e mille altri strumenti del folk) e un testo che recita “You say America is beautiful /And I sure hope you’re right/ If I could see you across the water/ I’d say America is beautiful tonight” senza neppure sembrare troppo retorici.

Good People è una piacevole country-folk song di Sean McCann con delle pregevoli armonie vocali, che non aggiungerà nulla al canone del genere ma è assai ben eseguita e si lascia ascoltare con piacere mentre Dear Home Town con un tema di armonica ricorrente è una collaborazione con il connazionale Randy Bachman (proprio quello di Guess Who e Bachman Turner Overdrive) e Alan Doyle rivela le sue abilità pop rinforzate dalle virtù orecchiabili di Bachman. Over The Hills And Far Away è un tradizionale celtico arrangiato dal terzo vocalist del gruppo, Bob Hallett, polistrumentista di classe, che in questo brano e nell’album in generale si cimenta con accordion, concertina, whistle, armonica, bouzouki, mandolino, violino, banjo e cornamuse, alla faccia dell’ecelettismo e canta pure bene!

Il co-autore con Alan Doyle di Hit The Ground and Run non è un omonimo è proprio “quel” Russell Crowe, e sapete una cosa? Si tratta di un fantastico e travolgente bluegrass con il gruppo che diverte e si diverte alla grande con un frenetico tourbillon di voci e strumenti nella migliore tradizione del genere. Safe Upon The Shore uno straordinario brano cantato a cappella da Doyle e dal gruppo si inserisce in quel gruppo di canzoni dedicate al mare nel corso degli anni e cha fa onore al loro nome, non è un antico canto perso nelle nebbie del tempo ma una canzone scritta oggi per rinverdire una grande tradizione.

Have A Cuppa Tea è una cover dal repertorio del Kink Ray Davies, che subisce piacevolmente il trattamento GBS per trasformarsi in un divertertente brano che avrebbe potuto tranquillamente far parte del repertorio della Albion Dance Band, folk rock allo stato puro. Wandering Ways che viaggia a mille all’ora avrebbero potuto farla i Pogues ma la trovate in questo album e non per questo è meno bella e coinvolgente.

Follow me back è una sonnacchiosa ballata cantata da Hallett in duetto con la cantante Jeen O’Brien e francamente mi sembra abbastanza superflua. Road to ruin è un altro invito alle danze celtiche, vogliamo chiamarla giga?

L’ultima cover è fantastica: già si trattava di un traditional riarrangiato e infatti all’inizio mi sono detto, ohibò ma questa la conosco! In effetti si tratta di Gallows Pole, firmata Page-Plant faceva il suo figurone su Led Zeppelin III, non potendo competere con la potenza della batteria di Bonham i Great Big Sea la buttano sul folk ma poi non resistono al ritmo irresistibile del brano e ci regalano un finale travolgente.

Finale leggero con la piacevole I Don’t Wanna Go Home. Al solito le versioni per iTunes hanno un paio di bonus tracks tra cui una ottima Protest song. Non salveranno la crisi mondiale del disco ma quei tre quarti d’ora di buona musica sicuramente te li regalano.

Bruno Conti