Degno Figlio Di Tanto Padre? Per Quanto Possibile, Questa Volta Sì! Big Bill Morganfield – “Bloodstains On The Wall”

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Big Bill Morganfield – “Bloodstains On The Wall” – Black Shuck Records                  

William “Big Bill” Morganfield è il figlio di Muddy Waters, anche se in vita ha avuto scarsi contatti con il padre ed è stato allevato dalla nonna in Florida. E la sua carriera nell’ambito musicale è partita solo parecchi anni dopo la dipartita dell’augusto genitore avvenuta nel 1983: infatti il suo primo disco esce solo nel 1997, quando aveva già 41 anni, e da allora ne ha pubblicati comunque sette, compreso questo “Bloodstains On The Wall”. Nessuno particolarmente memorabile, alcuni anche buoni (ricordo di averne recensiti credo un paio), forse quest’ultimo il migliore in assoluto, ma ovviamente McKinley Morganfield era tutta un’altra storia: va bene che non sempre, anzi assai raramente, i figli d’arte riescono a raggiungere o avvicinare i vertici di chi li ha preceduti, ma almeno ha avuto il buon gusto di non farsi chiamare Big Bill Waters. A 60 anni, l’età del nostro amico oggi, il babbo aveva già realizzato una serie di capolavori quasi ininterrotta, cosa che non possiamo certo pretendere dal suo erede e mi fermo prima di avventurarmi in qualche giudizio di cui potrei poi pentirmi, diciamo che l’album in questione è un onesto album di Chicago Blues, ben suonato e con quattro brani composti dallo stesso Big Bill.

In sei brani appare la Mofo Party Band, con i tre fratelli Clifton, oltre a Brian Bischel alla batteria e Bartek Szopinski a piano e organo. Nei restanti brani ci sono parecchi ospiti di nome e sostanza: oltre ad un altro paio di figli d’arte, Eddie Taylor Jr. sicuramente e Chuck Cotton probabilmente, troviamo anche Colin Linden e Bob Margolin alle chitarre, nonché Augie Meyers al piano in un brano e Jim Horn al sax, e, in alternativa a John Clifton all’armonica, l’ottimo Steve Guyger soffia di gusto in una brillante I Don’t Know Why che porta la firma di Willie Dixon. Per sgombrare da equivoci il mio commento devo precisare che Big Bill Morganfield ha una eccellente voce, il marchio di famiglia si percepisce e il disco si gusta tutto d’un fiato, ripeto, non aspettiamoci il capolavoro, ma il Blues viene trattato con gusto e perizia in questo CD e anche se il disco è stato registrato tra Nashville, la California e il North Carolina si respira l’aria dei club fumosi di Chicago dove il papà si era costruito la sua reputazione. E il “giovane” Big Bill ha pure un eccellente tocco alla slide come dimostra in un intenso slow blues come When You Lose Someone You Love che porta la sua firma, e dove si apprezza anche il piano di Szopinski. Ogni tanto viene inserito il guidatore automatico, come nell’iniziale Lost Without Love o nella cadenzata Too Much, dove lo stile non dico si faccia scolastico ma manca un po’ di nerbo.

Però nella vibrante Help Someone il pianoforte corre a tutto boogie e sembra quasi di ascoltare Pinetop Perkins o Otis Spann, mentre nella title-track, in  origine un country blues degli anni ’50, qui trasformato in un brano alla Muddy Waters (e ci mancherebbe) tutti i musicisti suonano alla grande, a partire da Augie Meyers al piano, il titolare alla slide acustica (o forse è Linden?), Jim Horn al sax, Doc Malone all’armonica, grande intensità veramente. Niente male anche Can’t Call Her Name, lo spirito è sempre quello giusto delle 12 battute classiche, con chitarre ovunque e la penna di Morganfield si conferma capace. Se occorre si pesca dal repertorio: una Keep Loving Me scritta da Otis Rush, tirata e chitarristica come poche, preceduta da una sorprendente Wake Up Baby, leggera e divertente e che porta la firma di Lisa Stansfield (proprio lei!); avviso per i naviganti, i due brani sono invertiti nel CD e nel libretto, ma nulla sfugge al vostro recensore preferito. I Am The Blues è uno dei manifesti assoluti di questa musica, scritta da Willie Dixon, e qui resa in una eccellente versione da Big Bill Morganfield, che nell’occasione reclama la sua eredità con la giusta intensità e gli assoli di chitarra sono veramente ricchi di gusto. Anche un tocco di West Coast Blues con una cover di Help The Bear di Jimmy McCracklin e siamo al finale, Hold Me Baby, un’altra composizione di Big Bill presentata come bonus track: la slide è acustica, ma il tocco di “modernità” della drum machine potevano risparmiarcelo. Per il resto un ottimo album, meglio di quanto mi aspettassi.

Bruno Conti

E Dopo Il Piccolo Questa Volta Tocca Al “Grande Walter”! Various Artists – Blues For Big Walter

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Various Artists – Blues For Big Walter – Eller Soul Records

Dopo il tributo al “piccolo Walter” Remembering Little Walter, dedicato dalla Blind Pig nel 2013 a questo fenomenale armonicista http://discoclub.myblog.it/2013/05/18/e-dopo-i-chitarristi-una-pioggia-di-armonicisti-remembering/ , era quasi inevitabile che prima o poi ne giungesse uno anche per il Walter più grande (non nella accezione della Litizzetto), in tutti i sensi, quel Big Walter Horton che, non uno che passa per caso per strada o il vostro umile recensore, ma il “signor” Willie Dixon ha definito “il migliore che abbia ma sentito”. Forse meno celebrato di Little Walter, anche perché la sua discografia come solista è veramente, scarna, mi pare cinque o sei dischi in tutto, di cui nessuno è rimasto negli annali della storia del disco, anche se l’Alligator del 1972 con Carey Bell e lo Stony Plain del 1974 sono degni di nota, la carriera del grande armonicista, nato sul Mississippi e morto a Chicago, è stata soprattutto quella di un grande, anzi grandissimo, gregario, in pista dagli anni ’30, ma arrivato alla consacrazione quando sostituì nel 1952 Junior Wells nella band di Muddy Waters, e poi suonando con chi lo richiedeva (anche con Martin Stone dei Savoy Brown, con i Fleetwood Mac e Johnny Winter), sia in studio che dal vivo, con l’ultima registrazione effettuata nel 1980, un anno prima della morte.

Questo tributo, curato e  prodotto da Ronnie Owens, è strutturato in modo diverso rispetto a quello a Little Walter: in quel disco Mark Hummel aveva radunato un certo numero di armonicisti per partecipare ad una session in cui tutti suonavano insieme, magari alternandosi alla guida, mentre per questo Blues For Big Walter l’approccio è diverso. Diciamo che il nucleo dell’album è stato registrato in una seduta unica il 18 gennaio del 2016 al Montrose Studio di Richmond, Virginia, con varie sezioni ritmiche, chitarristi, pianisti e, ovviamente, armonicisti, che si alternano nei vari brani, ma ci sono anche alcuni pezzi registrati in altre locations, e alcune registrazioni provengono dal passato. Ma veniamo al dettaglio: diciamo che in questo caso non si è voluto calcare la mano sui classici (qualcuno c’è pero), privilegiando anche brani meno conosciuti; per esempio l’iniziale Someday era uno dei brani che Big Walter suonava con Koko Taylor, e per riproporla abbiamo uno dei migliori armonicisti di oggi, Kim Wilson, che si accompagna al giovane chitarrista Big Jon Atkinson, che è anche la voce solista della canzone, un classico Chicago Blues di quelli duri e puri. She Loves Another Woman, viceversa viene dagli archivi di Bob Corritore, si tratta di una registrazione dell’ottobre del 1992 con il grande Jimmy Rogers alla chitarra e alla voce, ancora ruspante e in gran forma, mentre Worried Life (Blues) era uno dei classici che Horton suonava con Johnny Shines, qui ripresa da Mark Wenner dei Nighthawks, altro grande virtuoso dello strumento, ma chi non lo è in questo disco?

Per esempio Steve Guyger non è un nome celeberrimo, ma la sua prestazione in If It Ain’t Me, registrata in Finlandia (!) è da manuale. In un disco come questo non poteva mancare Mark Hummel, un altro dei grandi contemporanei dello strumento, la sua Hard Headed Woman è calda e vibrante come poche, sia la voce che l’armonica sprizzano blues a denominazione di origine controllata, mentre ammetto che Kurt Crandall, registrato in Olanda con musicisti locali, mi era del tutto sconosciuto, ma la sua versione di Great Shakes è ottima, con un suono dell’armonica arioso e potente. Bravo anche Ronnie Owens (in arte Li’l Ronnie Owens) l’ideatore del tributo, alle prese con una lenta e cadenzata We’re Gonna Move To Kansas City e fantastico il contributo di Sugar Ray Norcia & The Bluetones, con Mike Welch alla chitarra, con un Sugar Ray Medley di oltre 18 minuti, dove Norcia (soprattutto), Welch e il pianista Anthony Geraci suonano il blues alla grandissima, tra soli, ritmo e sudore, come le dodici battute classiche richiedono, il tutto registrato in quel di Quincy, Massachusetts, non una delle culle del blues, ma se suonano così chi se ne frega.

Anche Andrew Alli, alle prese con Evening Shuffle, mai sentito ma bravo; di nuovo Mark Hummel impegnato in Easy uno strumentale con Sue Foley, che dal fruscio iniziale sembra provenire da qualche vecchio vinile (ma è una impressione, è inciso benissimo, come tutto il CD) e poi Walking By Myself ancora con Mark Wenner e l’intenso Little Boy Blues, uno dei rari slow blues con Steve Guyger. Ma tutti i brani sono buoni, anche le ulteriori proposte di Owens ed Alli, oltre all’altra chicca di Corritore, questa volta con Robert Lockwood Jr. in Rambling On My Mind. Veramente un bel disco di armonica blues.

Bruno Conti