Una Band Che Trova Nel Deserto “Il Luogo Dell’Anima” ! Giant Sand – Heartbreak Pass

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Giant Sand – Heartbreak Pass – New West/Warner

Tre anni dopo Tucson (12), uscito a nome Giant Giant Sand, e dopo trent’anni di onorata carriere sotto varie “bandiere” (The Band Of Blacky Ranchette, Calexico, QP8, Friends Of Dean Martinez e i suoi lavori solisti), il buon Howe Gelb (originario della Pennsylvania) pensa bene di festeggiarsi con la sua creatura più amata, i Giant Sand, (una formazione ormai allargata, come dimostra la cover del CD) con questo ottimo Heartbreak Pass, un disco che nella sua costruzione ha visto la luce nelle “locations” più svariate, a partire come al solito da Tucson, Arizona, per approdare poi in Belgio, Canada, Grecia, Olanda, toccando anche la nostra bella Italia, per poi registrare il tutto in quel di Bristol, sotto la consueta produzione dell’amico John Parish (P.J.Harvey). In una discografia sterminata (che solo sotto la ragione sociale Giant Sand, arriva ad una ventina di uscite), non posso non ricordare il capolavoro assoluto Chore Of Enchantment (00) https://www.youtube.com/watch?v=c6LcBPEZ0Os , la “triade” iniziale composta da Valley Of Rain (85), Ballad Of A Thin Line Man (86) dove entra in formazione la futura moglie Paula Jean Brown (ex Go Go’s), Storm (88), con una versione “stratosferica” di The Weight della Band, il bistrattato (dalla stampa e dai critici) Long Stem Rant (89), il rock teso, visionario e lunare di Glum (94), e in tempi più recenti un lavoro intrigante come Is All Over The Map (04), dove giovani musicisti “danesi” rimpiazzavano gli storici Convertino e Burns (ormai usciti dalla band e impegnati a tempo pieno nel progetto Calexico).


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L’attuale formazione dei Giant Sand è un originale e “camaleontico” combo che unisce Arizona e Danimarca, composto da Thoger Lund, Gabriel Sullivan, Brian Lopez, Peter Dombernowsky, Jon Villa, Nikolaj Heyman, Anders Pedersen, Iris Jakobsen, Asger Christiansen, il tutto sotto l’infinito genio musicale di Howe Gelb. Come dichiarato dallo stesso musicista nelle interviste, Heartbreak Pass è una lunga “suite” di quindici canzoni divise idealmente in tre parti, che presenta numerosi ospiti durante il percorso, a partire da Vinicio Capossela e i romagnoli Sacri Cuori (una band affine al sound di Gelb), Grant-Lee Phillips (Grant Lee Buffalo), Ilse DeLange (Common Linnets), Steve Shelley (Sonic Youth), Jason Lytle (Grandaddy), il coro gospel dei Voices Of Praise, e l’importante supporto delle brave Maggie Bjorklund e Lonna Beth Kelley.

La prima parte (quella decisamente più rock) si apre con la tenue ballata acustica Heaventually, dove si trova il recitato (un cameo) di Capossela, il controcanto di Grant-Lee Phillips, ma soprattutto la batteria di John Parish https://www.youtube.com/watch?v=akZWdz7RgEE , il rock’n’roll di Texting Feist, per poi passare al notevole “swamp-blues” di Hurtin’ Habit dove spiccano Steve Shelley e i nostri Sacri Cuori, e al tappeto elettronico di una Trasponder, con Jason Lytle, che rimanda ai solchi dei Grandaddy (non poteva essere altrimenti). La seconda parte è più di impronta “americana”, parte con il country-rock di Song So Wrong https://www.youtube.com/watch?v=mpj9NpBBfA0 , e prosegue con gli immancabili suoni “mariachi” della melodiosa Every Now And Then https://www.youtube.com/watch?v=NH3IZpSgmUI , le atmosfere “morriconiane” di una bellissima Man On A String, cantata in duetto con Ilse DeLange https://www.youtube.com/watch?v=rDeSk0BufGc , e la batteria avvolgente di una country-song come Home Sweat Home. La terza parte è quella più intrigante e meno etichettabile, e qui troviamo la malinconica Eye Opening, con accompagnamento solo di voce, chitarra e violino, la jazzata Pen To Paper con la voce di Lonna Kelley a duettare con quella di Howe che incarna il grande Serge Gainsbourg, l’intermezzo pianistico strumentale di Bitter Suite, una dolce ballata cantautorale come House In Order, prima di tornare all’intimismo di una solenne Gypsy Candle (con archi, piano e di nuovo la bella voce della Kelleyhttps://www.youtube.com/watch?v=z3j522N_NNY  , passare per le deliziose note suggestive di una Done in chiave quasi “lounge”, prima di chiudere con l’incantevole conclusiva Forever And Always, scritta e cantata da Howe con la figlia dodicenne Talula (ma che nome è?).

Imprevedibili, sperimentali, anticipatori di tendenze e suoni, i Giant Sand di Howe Gelb hanno percorso con assoluta dignità artistica trent’anni di rock alternativo e marginale, rileggendo pagine della musica “americana” con un approccio non convenzionale e rigorosamente lo-fi, e vengono considerati trai  fondatori, con i grandissimi Thin White Rope, nella prima metà degli anni ’80, di quel genere etichettato come “desert-rock”, assoluto protagonista del loro percorso musicale. Oggi Howe Gelb, che viaggia verso i sessant’anni, è un vecchio fanciullo che si diverte ancora, e l’uscita di questo nuovo CD Heartbreak Pass (che forse non sarà un capolavoro come Chore Of Enchantment, ma un bel disco sicuramente si), unita alle recenti ristampe dei primi lavori (per la Fire Records), è un’ottima occasione (per chi scrive, ma anche per chi legge) per (ri)percorrere la carriera di una delle band più visionarie e sperimentali del “roots-rock”.

Tino Montanari

E Questo Perché L’Ho Saltato? Israel Nash Gripka – Barn Doors And Concrete Floors

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Israel Nash Gripka – Barn Doors And Concrete Floors – Continental City Song/Ird

Ok è uscito solo da alcuni giorni e in Italia dove sarà distribuito dalla IRD non è ancora arrivato ma un disco così non si può tralasciare. Israel Nash Gripka (nome impronunciabile e difficile da memorizzare ma gran talento) già nel 2009 si era fatto notare con un album New York Town che era bello ma secondo molti troppo simile alla produzione di Ryan Adams (ma del migliore però, quindi mica cotica!), ebbene questo Barn Doors And Concrete Floors è bellissimo, un disco come quelli che facevano i grandi cantautori degli anni ’70 (Bob Dylan, Neil Young ma anche la Band) ma anche negli anni ’80, ’90 e ’00, sempre insomma. Un disco di quelli completi senza un genere particolare, vogliamo dire rock, solo una sfilza di belle canzoni una dietro all’altra, una voce espressiva e senza tempo con sfumature di tutti i musicisti citati fin qui ma con una sua specificità, un talento per dirlo in una parola. Uno che se li è ingoiati tutti (viste le dimensioni della “personcina” ritratta in copertina del CD) e non li ha più “sputati” ma se li è metabolizzati insieme a tante altre influenze (una voce alla Fogerty, ritmi tipici dello Springsteen più rurale).

La produzione di un insospettabile, il batterista dei Sonic Youth Steve Shelley, che con il suo drumming rilassato alla Levon Helm nobilita i il sound di questo album, un gruppo, The Fieros che agisce quasi telepaticamente con Gripka ma, soprattutto, mi ripeto, una manciata di belle canzoni (facciamo due manciate, anche con la mancia, undici brani): perché non ce n’è una brutta, sono una più bella dell’altra e con una grande varietà di temi e quella voce che più la sento più mi ricorda Fogerty + Young + un misto di quelle dei vocalists della Band(Helm, Danko & Manuel). Il disco precedente era prodotto da Jim Zhivago proveniente dal giro Ollabelle di cui alcuni musicisti apparivano nel disco: il gruppo della figlia di Levon Helm, Amy, un segno del destino.

Tra un vorticare di pianoforti,organi, armoniche a bocca, violini e tante chitarre, acustiche ed elettriche i nostri amici si sono rinchiusi in un granaio in disuso sulle Cattskills nello stato di New York come fecero in quel di Woodstock Bob Dylan e la Band e ne sono usciti qualche mese dopo con questo splendido disco Barn Doors and Concrete Floors. Vogliamo dire i nomi dei musicisti? Ma direi di si! Oltre a Shelley che ha suonato la batteria e prodotto ci sono Joey McClellan che suona sia con i Fieros che con i Midlake in tour, il chitarrista più il fratello bassista Aaron McClennan che suona anche lui nei Fieros. C’è Brandon Anthony che suona violino, mandolino e banjo, le tastiere di Jason Crosby e la pedal steel di Rich Hinman quando serve. I suoni sono a cura di Ted Young, quello dei Gaslight Anthem, umani ed analogici come meglio non si potrebbe.

Le canzoni: il bel roots-rock di Fool’s Gold un energico brano mid-tempo con armonica in evidenza, belle armonie vocali e un suono di chitarre in crescendo che ti cattura subito in modo inesorabile. Il country-folk tra Dylan e Young (ma anche Springsteen) di Drown con un violino insinuante e melodie che basterebbero per un album intero di tanti “cantautorucoli” che girano al momento, “intenti” acustici ma “risultati” elettrizzanti.

Sunset regret è una di quelle ballate “campagnole” (traduci country) con un pianino sospeso e il drumming pigro di Shelley che evidenziano le voci di Gripka e dei suoi sodali fino all’ingresso di una chitarra acustica che sparge serenità younghiana al procedere delle operazioni. Goodbye Ghost con un apertura tra banjo, chitarre sferraglianti e piano accarezzato, con organo e pedal steel che fanno capolino all’orizzonte potrebbe sembrare un capitolo smarrito dell’opera del Ryan Adams più ispirato con la voce volutamente aspra e alta di Gripka che aggiunge spessore al brano che è uno dei momenti più emozionanti del disco. Un brano corale che solo chi ha del talento genuino può scrivere ed eseguire con tanto fervore! Grande brano.

Four winds con il suo incedere country-rock ma sempre di quelli di nobili origini (Jayhawks forse o i loro mentori Buffalo Springfield) è un altro brano di grande presa sonora, ti acchiappa e non ti molla, una caratteristica di tutto l’album. Lousiana è uno di quei pezzi rock stradaioli figli dei Rolling Stones americani di Sticky Fingers o Exile, quindi country e rock miscelati con eguale misura e un tocco della Band per sovrappiù, e poi questa voce rauca e vissuta fa il resto con vaghi echi gospel aggiunti per umiliare la concorrenza.

Baltimore è un brano come  quelli che Neil Young o Robbie Robertson non scrivono più da tempi immemorabili, derivativo, vogliamo dire ispirato da costoro, ma chi se ne frega, ragazzi se è bella è bella! Con energia che trabocca dai solchi se il CD ce li avesse e quella armonica che vale più di cento discorsi. Pure il finale chitarristico doc, che volete di più! Red Dress più “normale” ma sempre di gran classe con profusione di armonie vocali e armoniche, banjo, mandolino e violino ancora sugli scudi e quell’aria già sentita che non sai da dove proviene ma te la immagini in altri cento dischi e non ti dispiace per niente. Black and Blue con le sue chitarre ricche di reverberi è un altro energico mid-tempo rock con atmosfere giubilanti che ti sparano una iniezione di ottimismo attraverso quel violino gioioso ed insinuante.

Non manca il lato riflessivo e acustico come nella desolata Bellwether Ballad che mi ha ricordato il lato folk del nostro amico del New Jersey e con il suo lento ed inesorabile crescendo si insinua nelle pieghe della tua attenzione che non riesce ad essere distratta da fattori esterni, è inutile il disco te lo devi godere fino alla fine. E alla fine di tutto trovi Antebellum che è forse la più bella del lotto, una sferzata di elettricità che chiude alla grande un disco che è difficile non fare ripartire per un nuovo giro di scoperte e godurie sonore.

Disco del mese, a sorpresa ma non troppo (era dai tempi dei primi Counting Crows, Wallflowers o il Ryan Adams di Gold che non sentivo musica così valida) e già fin d’ora tra i migliori dell’anno (ma anche il live di James Maddock se la gioca alla grande, nei prossimi giorni elaboro il concetto).

Bruno Conti