Dal Sud Degli Stati Uniti Ancora Ottima Musica Da Un Artista Di Culto. Randall Bramblett – Pine Needle Fire

randall bramblett pine needle fire

Randall Bramblett – Pine Needle Fire – New West

Ogni tanto leggendo Wikipedia si apprendono notizie “interessanti”: per esempio che il nostro amico Randall Bramblett ha una carriera che ha attraversato tre decadi, ma considerando che è in attività dai primi anni 70, direi che sono sette decadi, in più si apprende che il suo genere musicale sta tra folk (?!?), pop/rock, acoustic, adult alternative, mentre leggendo sul suo sito, in quanto si presume che almeno lui sappia che tipo di musica faccia, leggiamo di Americana, Blues, Funk, R&B/Soul e Rock (magari southern, visto che è stato in passato un componente dei Sea Level). Dato a Cesare quel che è di Cesare, e a Randall quel che è di Bramblett, ancora una volta il musicista di Jesup, Georgia, ci regala un altro bel disco, dopo Juke Joint At The End Of The World del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/09/05/un-sudista-anomalo-randall-bramblett-juke-joint-at-the-edge-of-the-world/, ecco l’ottavo CD per la New West negli anni 2000.

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Tastierista e cantante, oltre che sassofonista, Bramblett ha una bella voce, rauca e vissuta e si scrive le proprie canzoni, 12 in questo caso, facendosi aiutare dagli stessi musicisti del precedente CD: Nick Johnson alla chitarra elettrica, Michael C. Steele al basso, Seth Hendershot alla batteria e Gerry Hansen alle percussioni, in più come ospite alla chitarra David Causey, con lui sin dai tempi dei Sea Level, Tommy Talton dei Cowboy, che suona la vecchia Gibson SG di Duane Allman in modalità slide nel brano I’ve Got Faith In You, una piccola sezioni fiati e nella title track gli archi, oltre a Betsy Franck alle armonie vocali. Some Poor Soul, chitarra trattata, basso “grasso”, piano elettrico e fiati in evidenza, percussioni e batteria in spolvero, nonché le armonie vocali corpose dei componenti la band e della Franck, ricorda il suono del suo vecchio amico Stevie Winwood https://www.youtube.com/watch?v=WYwbosqIfH0 , con il quale ha collaborato in passato; Rocket To Nowhere, loop di batteria e synth non fastidiosi in apertura, poi diventa un altro funky-jazz-southern rock che ricorda i vecchi Sea Level, con sax e tromba, oltre alle tastiere di Randall, a menare le danze https://www.youtube.com/watch?v=Ops3SUa7fh0 .

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La lunga e soave title track ha delle sonorità sognanti e futuribili, con il Fender Rhodes di Bramblett e chitarre backwards e synth atmosferici a punteggiare la melodia di questa ballata, che nel corso del brano si anima e vede nel finale anche l’ingresso degli archi https://www.youtube.com/watch?v=6OinUsBKNQY . In Lazy (And I Know It), sempre su queste coordinate sonore, ritmi più serrati, Randall va anche di falsetto, sostenuto dalla brava Betsy Franck, Even The Sunlight con un bel drive della batteria, è più mossa e con doppia chitarra, e qualche rimando al suono degli Steely Dan, contemporanei dei Sea Level, grazie agli arrangiamenti intricati e a un acido assolo della chitarra solista https://www.youtube.com/watch?v=NvYtLk0UMKM , I’ve Got Faith In You è il brano nel quale Talton suona la chitarra di Duane, un sincero esempio del vecchio southern rock dei 70’s, con un testo presentato come una risposta a Forever Young di Dylan, molto suggestiva grazie all’insinuante lavoro della slide di Talton e alla seconda voce della Franck https://www.youtube.com/watch?v=huPU4TTrWMw .

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Another Shining Moment, con Causey aggiunto che va di slide, quasi alla George Harrison. è un pezzo dai retrogusti sudisti, di nuovo con falsetti gospel sullo sfondo e una calda interpretazione vocale di Bramblett e e Co https://www.youtube.com/watch?v=u_gwhzem9x4 ., molto piacevole anche la funky Manningtown che spinge sul groove, con chitarrine insinuanti anche wah-wah e piano elettrico e organo a dettare i tempi https://www.youtube.com/watch?v=DLzzyPqZUyU , insieme ai fiati, Built To Last decisamente più sul versante rock corale dimostra una volta di più la versatilità e la classe di questo musicista, ancora con Causey in aiuto con la sua solista insinuante, prima di tornare al funky/R&B con la mossa e fiatistica Don’t Get Me Started sempre vicina agli stilemi di Donald Fagen. In chiusura prima Never Be Another Day che coniuga rootsy rock e deep soul in modo brillante, grazie ancora alla Franck https://www.youtube.com/watch?v=nbMsbyuiwF0 , e l’ultimo brano con la presenza di Causey My Lucky Day insiste con questa riuscita miscela di generi che è la carta vincente di questo ennesimo ottimo album di Randall Bramblett. In attesa di nuovi dischi di Winwood e Fagen “accontentiamoci”.

Bruno Conti

Un Set Musicale “Acustico” Suonato E Cantato Con Grande Passione. Carla Olson & Todd Wolfe – The Hidden Hills Sessions

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Carla Olson & Todd Wolfe – The Hidden Hills Sessions – Red Parlor Records

Ultimamente sono usciti sul mercato musicale una serie di dischi cantati da coppie abbastanza differenti (Brooks & Dunn, Calexico And Iron & Wine, Buddy And Julie Miller), in questo caso Carla Olson e Todd Wolfe, due veterani della musica che avevano già suonato insieme in passato, ed essendo due spiriti liberi ed affini hanno deciso di collaborare nuovamente in questo The Hidden Hills Sessions, che si rivela un lavoro gradevolissimo e prettamente acustico, in cui le voci si intrecciano in bellissime armonie. La Olson, come i nostri lettori sanno bene, ha costruito la sua carriera come cantante, compositrice e anche produttrice nella zona di Los Angeles, prima come leader dei Textones,  una grande band nata a metà degli anni ’80 ( che si sono riuniti lo scorso anno con Old Stone Gang https://discoclub.myblog.it/2018/11/01/sono-passati-piu-di-30-anni-ma-ma-non-hanno-dimenticato-come-si-fa-buona-musica-textones-old-stone-gang/ ), raggiungendo poi ulteriore notorietà collaborando con persone del calibro di Gene Clark, Mick Taylor (ex Stones), Don Henley Ry Cooder,  mentre Wolfe inizialmente ha trascorso anni in giro per il mondo suonando per Sheryl Crow, Lesile West e Stevie Nicks, e gli ultimi venti è stato in giro anche per l’Europa con la sua Todd Wolfe Band, pubblicando nove album da solista (da sentire assolutamente il torrenziale Live del 2011 https://discoclub.myblog.it/2011/03/18/dagli-states-un-grande-chitarrista-todd-wolfe-band-live/ ).

Trattandosi di un lavoro di stampo “unplugged”, Carla chitarra e voce, e Todd chitarra, mandolino e voce, si sono comunque portati nei Rancho Relaxo Studios di Hidden Hills una sezione ritmica formata dal batterista e percussionista Victor Bisetti, da Bobby Perkins e Todd Wadhams al basso, con alla consolle il duo Kim Rosen e Mikal Reid, creando un buon equilibrio in un CD composto da sette brani originali (4 di Olson e 3 di Wolfe), integrati da quattro avvincenti “covers”, il tutto con la produzione della stessa Olson. Long Road Back, la traccia iniziale, fa capire immediatamente con il suo incedere di chitarre in stile “unplugged” quale sarà il percorso sonoro del disco https://www.youtube.com/watch?v=RII-9jIsbFo , brano a cui fanno seguito il “folk-roots” sciolto di Gave It All I Got, un vecchio pezzo di Steve Winwood (quando era nei Blind Faith) ovvero Can’t Find My Way Home, in cui la coppia dimostra il proprio perfetto affiatamento, sancito anche da un omaggio alle “ceneri” dei Byrds con una scoppiettante Sideshow https://www.youtube.com/watch?v=DSGUv4IVVjE . C’è anche un recupero meritorio di un brano abbastanza “oscuro” del Mick Jagger solista, una Blue scritta con Matt Clifford di cui ignoravo l’esistenza, canzone tipicamente bluesy https://www.youtube.com/watch?v=zfzZoITRAk8 , per poi passare ad una If You Want Me dal giusto incedere “country-rock”.

Non poteva mancare l’omaggio a Gene Clark con la splendida In A Misty Morning, con il cantato delizioso di Carla e la bravura al mandolino di Todd, mentre Burn For You  è una canzone che viaggia sui consueti binari del “groove” acustico dominante in questo album. Con One Lost Love è il momento della tipica ballata californiana, con tutti gli strumenti al posto giusto, e  dove si trova pienamente a suo agio la voce un po’ mascolina della Olson, con il controcanto dell’autore Todd Wolfe https://www.youtube.com/watch?v=mZalKQVAmMQ , ancora blues acustico in una “desert song” come Light Of Day, per andare a chiudere infine alla grandissima con la cover di Wild Horses degli Stones , in cui Carla e Todd  rispettano con sensibilità la bellezza della versione originale, confermando il famoso detto “la classe non è acqua”.

The Hidden Hills Sessions è in definitiva un set musicale dal forte spirito acustico, certo niente di trascendentale, ma  composto da belle canzoni, suonate e cantate con passione con una piccola banda di musicisti, album dove trasuda il piacere quasi viscerale di fare musica con le persone giuste, a partire naturalmente da Carla Olson e Todd Wolfe. Consigliato, in quanto a mio parere il “new acoustic” potrebbe anche passare da qui.

Tino Montanari

Sempre Raffinatissimo Gospel Soul Rock Tra Sacro E Profano. Mike Farris – Silver & Stone

mike farris silver & stone

Mike Farris – Silver And Stone – Compass Records/Ird

Mike Farris ha vissuto due vite, almeno a livello musicale: la prima come voce solista degli Screamin’ Cheetah Wheelies, rockers intemerati, selvaggi e potenti, che praticavano il rock sudista più carnale negli anni ’90, la seconda, dopo la sua conversione da ex peccatore pentito, ad eccelso praticante della musica gospel e soul, con una voce naturale e dalla modulazione perfetta, in grado di toccare i cuori degli ascoltatori, grazie ad un timbro vocale temprato dall’ascolto e dalla frequentazione con cantanti come Sam Cooke, Otis Redding, Al Green e altri mostri sacri della musica nera. Il nostro amico lo ha fatto con una eccellente serie di album solisti, inaugurata nel 2002 con Goodnight Sun, e perfezionata con altri quattro dischi, Salvation In Lights, lo splendido Shout! Live, Shine For All The People https://discoclub.myblog.it/2014/09/29/ex-peccatore-convertito-al-grande-gospel-soul-mike-farris-shine-for-all-the-people/ , per arrivare a questo nuovo Silver And Stone.

Registrato in quel di Nashville, Tennessee, con la produzione scrupolosa di Garry West,  che suona anche il basso nel CD, e guida una pattuglia di musicisti notevoli tra cui spiccano Gene Chrisman, leggendario batterista di Aretha Franklin, Elvis Presley e Solomon Burke, presente solo per Are You Lonely For Me Baby?, negli altri brani c’è Derrek Phillips,  Doug Lancio, l’ex chitarrista di Hiatt, ora nella band di Joe Bonamassa (che fa anche lui un cameo in un brano, in ricordo dei tempi in cui giovanissimo apriva i concerti degli Screamin’ Cheetah Wheelies), Paul Brown e Reese Wynans, che si alternano alle tastiere, Rob McNelly, il chitarrista di Delbert McClinton, e il suo bassista Steve Mackey, George Marinelli, solista con Bonnie Raitt, oltre ad una nutrita pattuglia di musicisti ai fiati e alle armonie vocali, in particolare le bravissime Wendy Moten e Shonka Dukureh. Con tutto questo ben di Dio è ovvio che l’album sia più che godibile, anzi gustoso: Tennessee Girl parte subito alla grande, gospel, soul e blues cantati divinamente da Farris, con Jason Eskridge alla seconda voce, e un florilegio di fiati guidati da Jim Hoke, suo l’assolo di sax. A seguire arriva una splendida Are You Lonely For Me Baby?, il celeberrimo brano di Bert Berns, cantato in passato da Freddie Scott, Otis Redding, Al Green e una miriade di altri, con le donzelle che cominciano a titillare Mike, che la canta come fosse anche lui uno dei mostri sacri appena citati; Can I Get A Witness? non è quella di Marvin Gaye, ma un brano originale di Farris, sempre in controllo del suo timbro più suadente, pezzoche profuma comunque di Motown anziché no, mentre in Golden Wings, brano dedicato al figlio, una delicata ballata cantata con voce vellutata, si fa pensoso e malinconico, quasi saggio, dopo tutti questi anni.

Let Me Love You Baby è invece proprio il brano di Willie Dixon, scritto per Buddy Guy negli anni ’60, ma suonato anche da Stevie Ray Vaughan, Jeff Beck e Bonamassa, qui ripreso in una versione tra Motown psichedelica alla Tempation e rock, con un eccellente lavoro anche al wah-wah di Lancio e Farris che sembra lo Steve Winwood dei tempi d’oro, Hope She’ll Be Happier è una canzone sontuosa, non tra le più note di Bill Withers, ma sempre cantata e suonata “divinamente” (anche visto l’argomento) da Mike e i suoi musicisti. Snap Your Finger, con doppia chitarra, Lancio e Bart Walker, è decisamente più mossa e coinvolgente, un rock’n’soul elegante dove Farris se la gode con le ragazze (in senso figurato); Breathless, del canadese William Prince, è una piacevole pop song molto godibile, seguita da Miss Somebody, altra melliflua soul ballad dalla penna del nostro amico e da una strepitosa When Mavis Sings dedicata a Mavis Staples, un funky soul in puro stile Stax con il call and response tra Mike e le due ragazze https://www.youtube.com/watch?v=Vx3kMc69asg . Movin’ Me è uno slow blues’n’soul impreziosito da un falsetto delizioso e da un paio di gagliardi assolo al wah-wah di Joe Bonamassa. In chiusura una bellissima versione di I’ll Come Running Back To You, un vecchio brano di Sam Cooke, il suo primo pezzo non gospel, interpretato con misura, rispetto e classe da Farris e soci https://www.youtube.com/watch?v=Q5opv_mGht4 , che conoscono come maneggiare la materia quasi alla perfezione.

Bruno Conti

Correva L’Anno 1968 2. Jimi Hendrix Experience – Electric Ladyland Deluxe Edition 50th Anniversary Box

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Jimi Hendrix Experience – Electric Ladyland Deluxe Edition 50th Anniversary- Sony Legacy 3CD/Blu-ray – 6 LP/Blu-ray

Come ricordavo nel Post sul box del White Album dei Beatles, Electric Ladyland di Jimi Hendrix occupa “soltanto” il 55° posto nella classifica dei migliori dischi di tutti i tempi stilata dalla rivista Rolling Stone (nella stessa classifica Are You Experienced è nella Top 10) ma è sicuramente uno dei classici album da 5 stellette, un altro disco doppio come quello dei Beatles, l’ultimo disco di studio a venire pubblicato durante la vita di Jimi: Band Of Gypsys era un live e Cry Of Love uscirà postumo. La storia del disco fu tribolata sin dalla scelta della copertina che Hendrix voleva fosse questo scatto di Linda Eastman, non ancora McCartney, di alcuni bambini seduti insieme agli Experience sotto la statua di Alice Nel Paese delle Meraviglie nel Central Park di New York. L’etichetta americana però la rifiutò pubblicando uno scatto della testa dell’artista in primo piano durante in concerto, virata in giallo e rosso, mentre la Track inglese optò, con grande smacco di Hendrix, per una foto che ritraeva 19 ragazze completamente nude nella copertina apribile, e che fu rifiutata da molti negozi britannici che non vollero esporla.

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Il disco, uscito negli USA e in Gran Bretagna il 16 ottobre del 1968, fu comunque un grande successo: 1° posto negli Stati Uniti con 2 milioni di copie vendute, e solo 6° posto con appena 100.000 copie nel Regno Unito, ma a livello critico fu al tempo (quasi) unanimemente considerato uno dei capolavori assoluti, e da allora molti lo hanno ancor più rivalutato. Sedici brani per poco più di 75 minuti di musica, con almeno quattro/cinque brani destinati a diventare immortali, come Crosstown Traffic, le due versioni “spaziali” di Voodoo Chile Voodoo Child (Slight Return), Burning Of The Midnight Lamp e soprattutto la cover di All Allong The Watchtower di Bob Dylan (a mio modesto parere, nella discografia di Hendrix, insieme a Little Wing, uno dei dieci brani più belli della storia del rock), uno dei rarissimi casi, forse unico, in cui una rilettura di un artista diverso dell’autore, di quelli “importanti”, ha superato l’originale, tanto che lo stesso Dylan ha adottato, a modo suo e nel corso degli anni, quella di Jimi come la stesura definitiva di questa canzone. E nell’album ci sono comunque altre tracce da tesaurizzare e le vediamo tra un attimo.

jimi hendrix electric ladyland box

Nella nuova versione, per il 50° Anniversario, la Sony Legacy ha proposto questa edizione quadrupla, dove al disco originale, in una nuova masterizzazione di Eddie Kramer, l’ingegnere del suono che curò anche la prima edizione in LP, sono stati aggiunti un secondo dischetto con le Early Takes, ovvero 20 brani tra demos e studio outtakes registrati tra marzo e giugno del 1968, oltre ad un concerto tenuto alla Hollywood Bowl di Los Angeles il 14 settembre del 1968, mentre nel Blu-ray c’è il documentario The Making Of Electric Ladyland, già edito, ma qui integrato con del materiale aggiuntivo, oltre a tre differenti versioni per audiofili del disco originale, tra cui quella in 5.1 Dolby surround, che da quello che ho letto in giro qui e là per siti e forum, sono state accolte in modo ondivago, bene per alcuni, non in maniera del tutto positiva per altri, ma questo non dovrebbe inficiare la validità del cofanetto (anche se…), che è anche corredato da un librettone di 48 pagine, con la duplicazione dei testi scritti a mano da Hendrix, alcuni poemi, le sue istruzioni per la casa discografica e molte foto inedite delle sessions per l’album.

Veniamo quindi ad esaminare i contenuti. Il primo disco lo conosciamo tutti, ma è sempre un piacere andarlo a riascoltare: l’apertura, grazie all’uso delle tecnologie già disponibili all’epoca, è il suono di un extraterrestre o degli Dei che scendono sulla terra, grazie ai primitivi ma eccitanti suoni di …And The Gods Made Love, che nel 1968 erano assolutamente innovativi e quasi impensabili, subito seguiti da una sorta di delicata e melliflua ballata soul futuribile come Have You Ever Been (To Electric Ladyland), che anticipa il sound che avrebbe preso la musica nera da lì a poco, tra falsetti ed effetti speciali, con la chitarra di Jimi già unica e subito riconoscibile, mentre il basso, come in quasi tutto il disco, con la progressiva distanza per dissapori vari con Noel Redding, è affidato sempre a Hendrix. Crosstown Traffic, con la formazione degli Experience al completo e Dave Mason dei Traffic alle armonie vocali, fu il secondo singolo ad uscire ed è uno dei classici pezzi rock del gruppo, un riff fantastico, la batteria di Mitch Mitchell che impazza, un kazoo usato insieme alla chitarra alla ricerca di soluzioni sonore inconsuet,e ma semplici e il tocco inconfondibile della sua solista. Che viene subito spinta verso vette inarrivabili per tutti i chitarristi di allora (e anche di oggi) nel tripudio orgiastico degli oltre 15 minuti di Voodoo Chile, un blues elettrico all’ennesima potenza, con Jack Casady dei Jefferson Airplane al basso e Steve Winwood all’organo: si parte da Rollin’ Stone di Muddy Waters, e passando per John Lee Hooker B.B. King in pochi istanti siamo nella stratosfera del rock, in un brano che rilancia e rilancia di continuo l’improvvisazione pura in modo sontuoso ed imprevedibile, che dire, goduria sonora allo stato primordiale, una vera meraviglia, con Casady e Winwood che non sono solo comprimari ma parte attiva di un momento magico di quella notte del 2 maggio del 1968.

La seconda facciata, meno esplosiva, si apre con Little Miss Strange, un brano scritto e cantato da Noel Redding, un brano rock piacevole ma non particolarmente memorabile, anche se ulteriori sprazzi delle genialità di Hendrix sono percepibili anche in questo pezzo più leggero, dove comunque la chitarra è sempre alla ricerca di suoni ed effetti accostabili alla imperante psichedelia, Long Hot Summer Night è una collaborazione con Al Kooper, altro grande tastierista in auge in quel periodo, qui impegnato al piano, sempre in bilico tra blues, soul e il rock innovativo che fluiva a getto continuo dalla fertile immaginazione di Hendrix, che poi si reinventa un classico jump blues di New Orleans come Let The Good Times Roll di Earl King,  che fu un successo per Louis Jordan, qui rivoltato come un calzino e trasformato in una scintillante e travolgente Come On (Part I), dove Jimi aggiunge un nuovo testo e soprattutto ben quattro diversi assolo di chitarra nei quattro minuti del brano, con Noel Redding e Mitch Mitchell che propongono un ritmo travolgente per le improvvisazioni che iniziano a pigiare a fondo sul pedale del wah-wah. Che viene nuovamente utilizzato in maniera magistrale in Gypsy Eyes, lato B di Crosstown Traffic, batteria con compressione e in grande spolvero, suono che fluttua da un canale all’altro dello stereo ed effetti sonori sempre diversi creati dalla maestria del mancino del Seattle, in pieno trip creativo, che continua anche nella magnifica, malinconica e sognante Burning Of The Midnight Lamp, un brano registrato nel 1967 ancora con la produzione di Chas Chandler, con Hendrix che oltre ad impazzare con il suo wah-wah, suona anche un inconsueto clavicembalo e si affida ai cori delle Sweet Inspirations.

La terza facciata (ma è tutto su un CD, ragiono solo ricordando gli ascolti del vecchio LP doppio), è quella più sperimentale, dedicata alle jam sessions in libertà, dove si esplorano altri aspetti dello straordinario talento chitarristico di Hendrix, in grado di variare in modo incredibile il proprio menu sonoro, con dei mezzi che erano lontanissimi dalle possibilità fornite dall’attuale tecnologia: proprio Mike Finnigan, l’organista che suona nei primi due brani di questo terzo lato dell’album, racconta che quando venne chiamato da Jimi, di cui aveva ascoltato i primi due album, era in soggezione all’idea di incontrare questo grande innovatore, e pensava di trovare cataste di potenti amplificatori e aggeggi elettronici che permettevano di creare quel sound incredibile, trovandosi invece, con enorme stupore, davanti a un musicista che usava solo un piccolo amplificatore Fender Showman da 30 watt, da cui usciva tutto un mondo di suoni. In Rainy Day, Dream Away, una breve jam di neanche 4 minuti, che inizia con l’organo di Finnigan e un colpo di tosse, la chitarra di Hendrix è affiancata dal corno di Freddie Smith, mentre alla batteria siede Buddy Miles, nel finale Jimi fa letteralmente “parlare” la chitarra, con una improvvisazione al wah-wah, dove il suo cry baby assume veramente tonalità quasi da voce umana. Il secondo brano è anche meglio: la lunga 1983… (A Merman I Should Turn to Be) dove il musicista americano, sfruttando appieno le possibilità dello studio di registrazione, crea quasi una sinfonia rock di oltre 13 minuti, abilmente aiutato dal flauto di Chris Wood dei Traffic,  e sulle ali di un testo con accenni di fantascienza futuribile, immagina universi sonori impensabili per qualsiasi altro musicista dell’epoca, e  suoni che probabilmente avrebbero influenzato anche l’imminente svolta elettrica del Miles Davis di Bitches Brew, grazie ad una fantasia e ad una perizia tecnica veramente ammirevoli, Moon, Turn the Tides… Gently, Gently Away, è solo una breve coda basata su effetti sonori creati ad hoc, per chiudere questo onirico e visionario tuffo nel futuro.

La quarta facciata si apre con Still Raining, Still Dreaming che riprende il tema musicale che stava sfumando in Rainy Day…, con Buddy Miles di nuovo alla batteria, Larry Faucette alle percussioni, Freddie Smith ancora al corno e Finnigan all’organo, e Hendrix nuovamente impegnato a creare sonorità esaltanti con il suo wah-wah parlante quasi preternaturale. House Burning Down è un brano che neppure troppo velatamente fa riferimento alle tensioni razziali in corso in America in quel periodo  «Look at the sky turn a hell fire red, somebody’s house is burnin’ down down, down down», e nel quale la chitarra di Jimi riproduce nel finale il suono di una casa che sta crollando, mentre prima le continue stilettate della sua solista sono sempre al servizio del suo funky-rock-blues , come dire, “hendrixiano”! Se tutto il resto del disco non fosse già straordinario, a questo punto arriva All Along The Watchtower, dove la re-immaginazione di un brano già molto bello di suo, raggiunge vertici sublimi quasi ai limiti dell’impensabile, come ha dichiarato lo stesso Bob Dylan, una canzone che non si può descrivere, si può solo ascoltare in totale riverenza per un talento assoluto che in soli tre anni ha cambiato la storia del rock. E il disco finisce in gloria con un’altra orgia di wah-wah e rock allo stato puro, come Voodoo Child (Slight Return), un brano di una potenza devastante dove gli Experience originali, Noel Redding Mitch Mitchell danno una mano a Hendrix per un tuffo nelle profondità più buie del rock-blues contemporaneo.

Il secondo CD contiene gli Early Demos, ovvero per dargli il suo titolo completo, At Last…The Beginning: The Making Of Electric Ladyland, The Early Years:prima la genesi di come fu creato questo album, attraverso una serie di  diverse registrazioni in solitaria di Jimi Hendrix al Drake Hotel di New York, dove risiedeva a quell’epoca e sul suo Teac registrava le idee e le sensazioni di come avrebbe voluto sviluppare le sue canzoni. Alcune finiranno sul disco finito, altre verranno completate ed usate negli anni successivi, altre ancora usciranno solo postume. Ecco quindi scorrere, solo voce e chitarra elettrica, alcune delle prime scheletriche stesure di brani come 1983…(A Merman I Should Turn To Be), Angel, lo strumentale Cherokee Mist, una brevissima Hear My Train A Comin’, Voodoo Chile, già quasi completa nei suoi oltre dieci minuti, anche se il testo è diverso, incompleto e Hendrix prova diverse soluzioni, anche Gypsy Eyes è solo una sketch embrionale, come pure Somewhere, dove appare anche una armonica ad evidenziarne lo spirito blues, ma la voce è solo una traccia guida e Jimi suona la chitarra acustica. Long Hot Summer Night appare in tre versioni diverse, nessuna particolarmente memorabile corre l’obbligo di dire, anche la brevissima Snowballs At My Window appare particolarmente trascurabile e My Friend è un altro blues acustico destinato probabilmente solo ai fanatici hendrixiani. And The Gods Made Love (At Last…The Beginning) è il primo provino di studio. Da qui in avanti le cose si fanno più interessanti:Angel Caterina, una variazione su una parte del tema di 1983 Little Miss Strange, entrambe prevedono la presenza di Buddy Miles alla batteria e Stephen Stills che appare al basso solo nella seconda, vengono da una seduta di registrazione ai Sound Studios di New York del marzo 1968, e sono canzoni ben delineate ed affascinanti, anche se finiscono od iniziano alquanto brutalmente.

Le due takes di Long Summer Night, solo la chitarra di Hendrix e il piano di Al Kooper la prima, e più definita benché strumentale la seconda, arrivano da una seduta ai Record Plant Studios. Rainy Day, Dream Away Rainy Day Shuffle, sono due registrazioni diverse di giugno del 1968, complete, ma ancora senza la parte magica della chitarra con wah-wah parlante della stesura definitiva, Finnigan e Freddie Smith sono presenti a rendere interessanti ma non definitive le versioni. Viceversa molto bella una lunga take in libertà, di pura improvvisazione, solo Jimi Hendrix e Mitch Mitchell a provare la parte strumentale di 1983…(A Merman I Should Turn To Be). Il terzo CD comprende il concerto Live At The Hollywood Bowl del 14 settembre 1968, uscito come bootleg ufficiale per la Dagger Records, l’etichetta della famiglia Hendrix che pubblica le registrazioni live postume dell’artista di Seattle. Il concerto è bello ed interessante, e con la Jimi Hendrix Experience non poteva essere diversamente, ma la qualità della registrazione è decisamente scarsa, a voler essere generosi e per usare un eufemismo, non particolarmente memorabile. Il repertorio viene da tutti i tre album del trio: Voodoo Child (Slight Return) è nella versione monstre da oltre dieci minuti, che è poi un composito delle due, Red House è sempre uno dei blues elettrici più belli di sempre, Hey Joe non delude, c’è anche una cover di Sunshine Of Your Love dei Cream, oltre a Foxey Lady,una ferocissima Fire, I Don’t Live Today, ma la voce e gli strumenti spesso vanno in saturazione. Purtroppo anche quella che pareva una notevole versione di Little Wing, che pure viene stoppata per problemi tecnici e a causa di un pubblico irrequieto, quasi non si sente a causa della registrazione scadente. A chiudere, l’inno Star Spangled Banner e una Purple Haze sempre molto pasticciata a livello sonoro. Del Blu-ray abbiamo ricordato i contenuti, ma per concludere diciamo che se questo è sicuramente un capolavoro assoluto nel primo disco e non si discute, per il resto si poteva fare molto meglio, visti i 50 euro e passa che ti chiedono per il cofanetto. 

Burno Conti

Il Meglio Del 2017 In Musica Secondo Il Blogger Di Disco Club: Appendice Finale.

meglio del 2017 2

Mi ero riservato la possibilità di aggiungere una seconda lista di titoli che secondo il sottoscritto meritano di entrare tra i migliori usciti nel 2017 (e ce ne sarebbero molti altri): come per la precedente classifica non è in ordine preciso di preferenza ma in ordine sparso. Nel post dello scorso mese http://discoclub.myblog.it/2017/12/11/un-classico-come-tutti-gli-anni-il-meglio-del-2017-in-musica-secondo-disco-club-parte-ii/  l’unico titolo in evidenza era l’album postumo di Gregg Allman Southern Blood che sicuramente occupava la prima posizione: e vi do una anticipazione, è pure al n°1 del Poll annuale della redazione e dei collaboratori del Buscadero di Gennaio che sarà in edicola nei prossimi giorni. Ecco il meglio del resto, partiamo con un trio di cofanetti:

fairport convention come all ye the first ten years inside box

Fairport Convention – Come All Ye/The First Ten Years

https://www.youtube.com/watch?v=5zKpQa_n1E0

natalie merchant the collection

Natalie Merchant – The Collection

https://www.youtube.com/watch?v=_932kTYjRi8

dr. john atco alnum collection

Dr. John – Atco Album Collection

https://www.youtube.com/watch?v=G5zPqgQ67yo

Proseguiamo con il resto, sempre in ordine sparso, partendo da Bruce Cockburn di cui vi ho parlato ieri.

bruce cockburn bone on bone

Bruce Cockburn – Bone On Bone

jason isbell the nashville sound

Jason Isbell And The 400 Unit – The Nashville Sound in arrivo

carole king tapestry live in hyde park

Carole King – Tapestry: Live In Hyde Park

https://www.youtube.com/watch?v=G5zPqgQ67yo

mitch woods friends along the way

Mitch Woods – Friends Along The Way

https://www.youtube.com/watch?v=RpueGuEccIU

father john misty pure comedy

Father John Misty – Pure Comedy

shannon mcnally black irish

Shannon McNally – Black Irish

zachary richard gombo

Zachary Richard – Gombo

https://www.youtube.com/watch?v=iRMY_Llzd-I

carrie newcomer - live at the buskirk-chumley theater with friends

Carrie Newcomer – Live At The Buskirk-Chumley Theater With Friends

https://www.youtube.com/watch?v=M1WrNisRhDU

weather station weather station

The Weather Station – The Weather Station

chris hillman bidin' my time

Chris Hillman – Bidin’ My Time prodotto da Tom Petty

https://www.youtube.com/watch?v=uLtLy4u45z0

winwood greatest hits

Steve Winwood – Greatest Hits Live

https://www.youtube.com/watch?v=FXoEnqldH1E

guy davis poggi Sonny & Brownie’s last train”

https://www.youtube.com/watch?v=omyMs__YPgE

Potremmo andare avanti per 50 anni, ma poi diventa una succursale dell’elenco telefonico (ormai in via di estinzione), per cui “last but not least” aggiungo anche l’album di Guy Davis Fabrizio Poggi Sonny & Brownie’s Last Train, entrato pochi giorni fa nella cinquina dei candidati ai Grammy nella categoria Best Traditional Blues Album, disco di cui potete leggere qui http://discoclub.myblog.it/2017/11/28/se-amate-il-blues-quasi-una-coppia-di-fatto-guy-davis-fabrizio-poggi-sonny-brownies-last-train/ , una bella soddisfazione per un italiano innamorato del Blues!

Per il 2017 è tutto (forse).

Bruno Conti

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Ci Sono Voluti Più Di Cinquant’Anni, Ma Questo E’ Un Signor Disco Dal Vivo! Steve Winwood – Greatest Hits Live

winwood greatest hits

Steve Winwood – Greatest Hits Live – 2 CD Wincraft Records

Ve ne avevo anticipato l’uscita ancora alla metà di luglio, ma il 1° settembre è finalmente uscito questo doppio CD dal vivo di Steve Winwood. Come ricordavo in quel Post pare incredibile ma, in oltre 50 anni di carriera, Winwood non aveva mai pubblicato un disco dal vivo a nome suo: ne ha fatti con i Traffic, con i Blind Faith, con gli Airforce di Ginger Baker e i Go di Stomu Yamash’ta, oltre allo splendido doppio CD e DVD con Eric Clapton Live At Madison Square Garden, uscito nel maggio del 2009, quindi poco prima della nascita del Blog, e quindi non avevo potuto parlarvene. Ma ora rimedia con questo eccellente Greates Hits Live che fin dal titolo ci ricorda che si tratta di una carrellata su tutti i suoi grandi successi (e non solo) attraverso 23 brani che coprono tutto l’arco della sua carriera, dagli esordi con lo Spencer Davis Group fino a Fly, unico brano tratto dal suo ultimo album in studio Nine Lives, uscito nel 2008, dove era proprio accompagnato da alcuni degli stessi musicisti che suonano in questo doppio CD, ovvero Jose Neto alla chitarra, Richard Bailey alla batteria, Paul Booth al sax, flauto e Hammond (quando Winwood passa alla chitarra), più il percussionista Edson “Cafe” da Silver. Musicisti non notissimi ma solidi e professionali che regalano all’album, inciso benissimo, un sound molto caldo ed espansivo, rodato dai vari tour effettuati da Steve e compagni, e da cui sono stati estratti i brani inseriti in questo disco dal vivo.

Che come richiede l’iconografia della migliore musica rock è un classico doppio Live. Non depone a favore della discografia mondiale che Steve Winwood se lo sia dovuto pubblicare sulla propria etichetta personale, la Wincraft, distribuita dalla Thirty Tigers negli Stati Uniti, ma forse ha preferito così per essere più libero nelle scelte. Veniamo al concerto che si apre su I’m A Man, un brano che faceva parte del repertorio dello Spencer Davis Group (uscito come singolo in Inghilterra, e che dava il titolo al loro secondo album americano del ’67, di cui ricordo una versione formidabile nel primo album dei Chicago), scritta da Jimmy Miller e lo stesso Steve, qui in una versione dal sapore funky e latineggiante all’inizio, con ampio uso di percussioni, fino all’entrata dell’organo Hammond di Winwood che inizia a lavorare di fino e poi lascia spazio al sax di Booth, poi si passa al classico riff di Them Changes, un brano molto Hendrixiano di Buddy Miles (già nello show del Madison Square Garden con Clapton), dove si apprezza molto la voce grintosa e senza tempo di Winwood (come in tutto il disco peraltro), anche se l’uso del sax, in certi momenti, è fin troppo invadente, ma l’assolo di chitarra è notevole. Fly, come si diceva in fase di presentazione, è il brano più recente, una delle classiche ballate del musicista inglese, che dimostra di non avere perso la capacità di scrivere belle canzoni e cantarle ancora meglio, interessante anche l’arrangiamento con organo, sax e flauto che si incrociano come nei brani dei Traffic. mentre con Can’t Find My Way Home Had To Cry Today, i due pezzi dei Blind Faith, si entra nel vivo del concerto, anche se le versioni odierne non sono belle come gli originali, comunque si tratta di brani immortali, felpata e avvolgente la prima, molto grintosa la seconda, con la band che entra in un mood più rock e le chitarre cominciano a scaldarsi.

Mentre The Low Spark Of High-Heeled Boys è il primo brano dei Traffic in scaletta, stranamente, nonostante i suoi otto minuti, comunque più breve della versione originale, in ogni caso una versione jazzata e raffinata, seguita da Empty Pages, uno dei brani più belli di John Barleycorn e di tutta la discografia del nostro, bellissima, con l’organo che scivola maestoso, sostenuto dal sax e dalla voce senza tempo di Winwood (veramente 69 anni e non sentirli) che intona questa melodia con piglio deciso. Back In The High Life Again fa parte del periodo più leggero e “modaiolo” dello Steve anni ’80, ma comunque in questo arrangiamento elettroacustico, con Steve al mandolino, guadagna molti punti, e anche Higher Love, tratta dallo stesso disco del 1986, ha quel tocco funky e blue-eyed soul tipico del musicista di Birmingham (ok, Handsworth). Poi si torna al passato con un a grande versione di Dear Mr. Fantasy, dove si apprezza anche lo Steve Winwood chitarrista, che non ha nulla da invidiare all’organista, con il celebre brano dei Traffic, uno dei brani classici del rock britannico, dal crescendo entusiasmante, fino alle esplosioni ripetute della solista che mulina di brutto nella parte centrale e finale. E anche Gimme Some Lovin’ è un altro dei cavalli di battaglia del repertorio del nostro amico, un pezzo dove è impossibile rimanere fermi senza seguire quel riff irresistibile e che gli ha guadagnato ad inizio carriera la nomea di Ray Charles bianco. A questo punto finisce il primo CD, ed alcuni dei brani più noti ce li siamo già giocati nella sequenza inconsueta in cui sono stati impostate le canzoni.

Il secondo CD si apre con Rainmaker, un altro dei brani di Low Spark, uno dei pezzi più “atmosferici” della band inglese, con Booth che riprende il lavoro del flauto di Chris Wood per una versione complessivamente affascinante. E anche Pearly Queen, uno dei pezzi più rock dei Traffic non scherza, ottima versione, come pure quella del celeberrimo strumentale Glad (a lungo sigla della trasmissione radiofonica Per Voi Giovani), anche questo estratto da John Barleycorn e dal riff notissimo, con sax e organo a duettare con libidine. A sorpresa poi tocca alla seconda cover del doppio Live, una versione di Why Can’t We Live Together, notissimo brano di Timmy Thomas del 1972, tra R&B e jazz light, molto adatto allo stile di Winwood che ne dà una versione molto bella, sospesa e sorniona, con organo, chitarra acustica e voce che sembrano nuotare sul groove della canzone. 40,000 Headmen era.sul 2° omonimo disco dei Traffic, quando Dave Mason era ancora in formazione, ed è firmata anche da Jim Capaldi, un brano quasi folk-rock psichedelico che mantiene lo spirito innovativo dell’originale. In questo balzare avanti e indietro nel tempo, a questo punto del concerto tocca a Walking In The Wind, uno dei brani più funky e sinuosi del songbook dei Traffic, era su When The Eagle Flies, caratterizzato da un giro di basso ricorrente e dalle svisate del B3 di Winwood, e poi a Medicated Too, sull’ultimo disco della prima fase dei Traffic, altro pezzo tra i più rock-psych della band inglese, con la chitarra in bella evidenza. John Barleycorn Must Die è uno dei capolavori del gruppo, un brano folk tradizionale che è diventato a sorpresa una sorta di inno transgenerazionale e che ancora oggi non manca di emozionare, una sorta di anticipazione all’epoca dei Led Zeppelin più pastorali e del folk britannico.

Per la parte finale del concerto Winwood si concede al sound più americano e di successo commerciale della sua carriera solista:prima con While You See A Chance Arc Of A Diver, le due canzoni tratte da quel disco del 1980, quello inciso in solitaria con una forte preponderanza del suono del synth, tanto che il disco venne etichettato anche come synthpop e new wave, oltre che blue-eyed soul, ma le canzoni erano belle e hanno ben sopportato il passar del tempo, grazie ad una melodia solare e radiosa, che risalta anche in queste versioni più d’assieme e  dal piglio rock’n’soul, e poi con quella voce può cantare quello che vuole, e in questa porzione del concerto, probabilmente tratta da altre date, appaiono anche delle belle voci femminili di supporto. Diciamo che la scelta delle sequenza dei brani del CD non è forse felicissima perché i brani migliori mi sembra siano andati tutti (con qualche pezzo mancante nella tracklist ideale, qualcuno ha detto Presence Of The Lord?, però l’ha scritta Eric, allora Sea Of Joy, ma non si può avere tutto dalla vita). Comunque prima della fine c’è tempo ancora per una vivacissima e  molto funky Freedom Overspill, con wah-wah, e tocco magico dell’organo e sax a dividersi gli spazi e per Roll With It, in una versione quasi da soul revue, molto calda e ritmata. Insomma un bel doppio dal vivo, con tutte le anime della musica di Steve Winwood ben rappresentate, anche se, ripeto, il sottoscritto avrebbe messo i brani del concerto in un’altra sequenza, ma è un piccolo appunto, per il resto ottimo ed abbondante!

Bruno Conti

Un Sudista “Anomalo”. Randall Bramblett – Juke Joint At The Edge Of The World

randall bramblett juke joint at the edge of the world

Randall Bramblett  – Juke Joint At The Edge Of The World – New West

Nuovo album per Randall Bramblett, veterano della scena southern e blues americana: secondo AllMusic è il suo 11° album, ma al sottoscritto ne risultano almeno quattordici, compresi un paio di Live e uno in coppia con il chitarrista australiano Geoff Achison. Diciamo che la fama del cantante di Jesup, Georgia, eccellente tastierista e anche sassofonista, è legata, almeno nella parte iniziale di carriera, ai Sea Level Mark II, quelli più funky e jazz-rock a fianco del classico rock sudista, ma anche a Gregg Allman, la quasi omonima Bonnie Bramlett, Elvin Bishop, Bonnie Raitt, Robbie Robertson, più avanti nel tempo Steve Winwood e Warren Haynes, oltre a decine di altri artisti a cui ha prestato le sue doti di sessionman. Comunque i suoi album solisti, che dagli inizi anni 2000 escono, più o meno regolarmente, ogni due o tre anni, quasi tutti per la New West, sono sempre piuttosto buoni, nessuno un capolavoro, ma spesso e volentieri dischi solidi e ben fatti che mescolano tutti gli ingredienti citati.

Anche questo nuovo Juke Joint At The Edge Of The World, che almeno nel titolo farebbe presagire a un omaggio ai tipici locali della zona del Mississippi dove la gente andava (e forse va ancora) a sentire il vecchio blues, in effetti poi ruota attorno a tutti gli elementi tipici della musica di Bramblett. I dieci brani portano tutti la firma di Randall, a parte una cover abbastanza particolare che poi vediamo e spaziano dal futuristico boogie-blues dell’iniziale Plan B dove la voce roca e vissuta, per quanto non molto potente, di Bramblett si fa largo tra un giro di basso funky, un drum loop che poi sfocia nell’ottimo drive del batterista Seth Hendershot, un piano elettrico e la chitarra cattiva e distorta di Nick Johnson, uno dei due ottimi solisti che si alterna con Davis Causey. Lo stile è insomma quello solito del nostro amico, southern raffinato, ma anche ruvido, sulla falsariga dei vecchi Sea Level, come conferma il sinuoso funky-blues di Pot Hole On Main Street, dove Randall comincia a soffiare anche nel suo sax, tra derive R&B e light jazz, mentre Trippy Little Thing, inserisce addirittura qualche leggero elemento psichedelico anni ’70, con la chitarra con wah-wah di Causey ancora in evidenza, a fianco del sax.

Garbage Man, che aggiunge una tromba alle procedure, vira di nuovo verso un funky/R&B che potrebbe rimandare sia al rock sudista quanto al sound dello Steve Winwood vecchia maniera, grazie al piano elettrico insinuante del nostro; I Just Don’t Have The Time miscela ancora elementi blues e atmosfere sudiste, sempre viste però più dal lato Sea Level o Wet Willie, quindi con funky e R&B sempre presenti, e un sopraffino assolo di organo di Bramblett molto laidback., con uno stile che si può accostare, a grandi linee, a gente come Mose Allison o Ben Sidran, soprattutto il secondo. Since You’re Gone è una strana ballata dalle atmosfere sospese, mentre la cover di cui vi dicevo è Devil’s Haircut, il brano di Beck, che ben si accoppia con il mood sonoro dell’album, ritmica in spolvero, tempi sincopati, voce laconica, inserti di tastiere e fiati e il classico riff della chitarra a guidare le danze, piacevole, seppur non memorabile, un po’ come tutto l’album, che raramente decolla verso l’eccellenza assoluta, pur mantenendo sempre un buon livello qualitativo. E anche la fiatistica Fine e l’Afro Funk di Mali Katra si mantengono su queste traiettorie ricche di classe e stile, ma a cui forse manca la scintilla del fuoriclasse. E la morbida “ballad” conclusiva Do You Want To Be Free, per quanto delicata e deliziosa non modifica il giudizio complessivo.

Bruno Conti

Il Primo Disco Dal Vivo Di Steve Winwood? Ebbene Sì, Esce Il 1° Settembre. Steve Winwood – Greatest Hits Live

winwood greatest hits

Steve Winwood – Greatest Hits Live – 2 CD/4 LP Wincraft – 01-09-2017

Lo ribadisco, per quanto possa sembrare incredibile, questo è il primo disco dal vivo ufficiale di Steve Winwood, per essere onesti come solista: perché ovviamente, nel corso degli anni, sono usciti album Live praticamente di quasi tutte le formazioni in cui ha militato, Spencer Davis Group escluso. Sono state pubblicate registrazioni dei Blind Faith (per quanto solo in DVD), Traffic, Airforce (il supergruppo con Ginger Baker), dei Go di Stomu Yamash’ta, il Live At Madison Square Garden con Eric Clapton, ma mai a nome proprio. E quindi il buon Steve per colmare la lacuna ha deciso di pubblicare un bel doppio dal vivo con la propria etichetta personale, la Wincraft.

Le canzoni sono estratte dagli archivi personali dello stesso Winwood e registrate nel corso delle ultime tournée, anche se al momento non è dato sapere dove e quando: quindi non un unico concerto, ma una serie di brani scelti da Steve dal suo immenso songbook, e che toccano tutte le fasi della sua carriera, iniziata ben 54 anni fa nel 1963, quando il ragazzo prodigio Stevie Winwood esordiva a 15 anni nello Spencer Davis Group. Ecco la lista completa dei brani.

[CD1]
1. I’m A Man
2. Them Changes
3. Fly
4. Can’t Find My Way Home
5. Had To Cry Today
6. Low Spark of High Heeled Boys
7. Empty Pages
8. Back In The High Life Again
9. Higher Love
10. Dear Mr Fantasy
11. Gimme Some Lovin’

[CD2]
1. Rainmaker
2. Pearly Queen
3. Glad
4. Why Can’t We Live Together
5. 40,000 Headmen
6. Walking In The Wind
7. Medicated Goo
8. John Barleycorn
9. While You See A Chance
10. Arc Of A Diver
11. Freedom Overspill
12. Roll With It

Come vedete tra i brani eseguiti c’è anche Them Changes il brano di Buddy Miles che veniva suonato dalla Band Of Gypsys di Jimi Hendrix, oltre ai classici dei Blind Faith, Spencer Davis Group, Traffic e quelli tratti dei suoi dischi solisti.

Bruno Conti

Per Ricordare Uno dei Grandissimi :Un Fine Settimana Con Lou Reed The RCA & Arista Album Collection, Parte II

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Lou Reed – The RCA & Arista Album Collection – Sony Box Set 17CD

Parte 2

Berlin (1973): quando tutti si aspettano un bis di Transformer, Lou arriva con Berlin, un concept duro, drammatico e difficile, con testi che parlano di violenza, droga e morte, un disco all’epoca ferocemente criticato. Prodotto da Bob Ezrin, e con sessionmen come Jack Bruce, Stevie Winwood e la fantastica coppia di chitarristi Steve Hunter e Dick Wagner, Berlin è stato col tempo rivalutato, ed oggi è considerato uno dei capolavori reediani, a partire dalla gelida title track (molto diversa da quella su Lou Reed), passando per la potente Lady Day, alla struggente Men Of Good Fortune, alle due diverse Caroline Says (la seconda è una meraviglia), fino ai due capolavori assoluti: How Do You Think It Feels, rock ballad sontuosa con splendido assolo di Wagner, e l’angosciosa ma emozionante The Kids. Grande disco, anche se ostico.

Rock’n’Roll Animal (1974): se non ci fosse stato il Live At Fillmore East degli Allman Brothers Band, questo sarebbe il mio disco dal vivo preferito degli anni settanta, e quindi probabilmente di sempre. Registrato a New York, Rock’n’Roll Animal vede un Lou Reed in forma assolutamente strepitosa, accompagnato da una band da sogno (ancora Hunter e Wagner alle chitarre, Prakash John al basso, Pentti Glan alla batteria e Ray Colcord al piano), per un’esplosione elettrica che raramente è stata immortalata altre volte su disco. Solo cinque canzoni (di cui quattro dei Velvet), ma nella loro versione definitiva: la Sweet Jane più bella di sempre (imperdibile il boato del pubblico quando riconosce il famoso riff alla fine della lunga intro strumentale), una Heroin mai così agghiacciante, una devastante White Light/White Heat in versione boogie, una Lady Day che cancella persino quella di Berlin, ed il finale ad altissimo tasso elettrico con Rock’n’Roll. Qui cinque stelle sono pure poche.

Sally Can’t Dance (1974): uno dei dischi più immediati del nostro (è stato anche l’unico ad entrare nella Top Ten), che si apre e chiude con due straordinarie ballate, Ride Sally Ride e Billy, e presenta brani come l’ottimo rock’n’roll Animal Language, la raffinata e suadente Baby Face, la controversa, ma musicalmente ineccepibile, Kill Your Sons e la potente title track, con grande uso di fiati, quasi un brano southern. Un lavoro più che buono, anche se inevitabilmente inferiore sia a Transformer che a Berlin.

Metal Machine Music (1975): il più sonoro vaffanculo di un artista verso la sua casa discografica (che si limitava a chiedere un disco come da contratto), ma anche un atto poco rispettoso verso i fans, Metal Machine Music è un esperimento di noise music lungo più di un’ora (in origine era un doppio LP), ottenuto mediante il feedback della chitarra ed altre diavolerie tecnologiche. Un disco inascoltabile, si fa fatica ad arrivare a due minuti, figuriamoci i 64 totali, anche se c’è da dire che Lou pagherà in prima persona questa specie di scherzo. Non date retta ai critici snob che negli ultimi anni hanno tentato di rivalutarlo: Metal Machine Music era e rimane una solenne e rumorosa ciofeca.

Coney Island Baby (1976): dopo il disastro del disco precedente, la RCA ordina a Lou di tornare in studio e registrare un disco rock, e lui, unico caso in carriera, obbedisce (forse aveva capito che non poteva tirare oltremodo la corda): il risultato è Coney Island Baby, uno dei suoi migliori album in assoluto. Un disco solido, asciutto (anche nelle ballate), diretto e vigoroso, che ci fa ritrovare un Lou Reed tirato a lucido, con canzoni come la splendida Crazy Feeling, orecchiabile come poche altre volte, la soave Charley’s Girl, quasi un rifacimento di Walk On The Wild Side, la fluida She’s My Best Friend, dallo strepitoso finale chitarristico, e due classici assoluti come Kicks, con il suo progressivo crescendo, e la stupenda title track, una sontuosa ballata, tra le più belle mai messe su disco da Lou. Nella mia top three di dischi reediani (in studio) dopo Transformer e New York.

Rock And Roll Heart (1976): un album poco considerato (anche a posteriori), in quanto ha la sfortuna di essere “schiacciato” in mezzo a due pezzi da novanta come Coney Island Baby ed il successivo Street Hassle, e che fallirà addirittura l’ingresso nella Top 50 (Lou sta in parte ancora pagando l’affronto di Metal Machine Music). Il disco in certi momenti è persino leggero e fruibile (alla maniera del nostro, ovviamente), con brani corti e diretti come l’allegra I Believe In Love, o il rock’n’roll di Banging On My Drum, pura adrenalina, o ancora You Wear It So Well e Ladies Pay, due ottime ballate pianistiche, dai toni epici la prima (e con Garland Jeffries ai controcanti), più distesa e rilassata la seconda. Per non dire della deliziosa title track, in cui Lou canta in maniera rigorosa; il resto è piuttosto nella norma, facendo di Rock And Roll Heart un disco di facile ascolto ma alla lunga privo di brani che facciano la differenza.

Street Hassle (1978): altro grande disco, duro (nei testi), poetico, crudo, urbano, che concede poco all’ascoltatore occasionale. La parte del leone la fa sicuramente la lunga title track, una mini-suite in tre movimenti, una delle migliori prove di songwriting del nostro, pur se di difficile assimilazione (e con un cameo vocale non accreditato di Bruce Springsteen, che stava registrando Darkness On The Edge Of Town nello studio accanto). Altri highlights dell’album, che è stato registrato parzialmente dal vivo in Germania (pur con solo brani nuovi), sono la scintillante Gimme Some Good Times, che riprende volutamente il riff di Sweet Jane, il boogie sbilenco I Wanna Be Black, la folgorante (e quasi disturbante) Shooting Star. E gli perdoniamo l’insulsa Wait.

Live: Take No Prisoners (1978): l’unico doppio CD del box, questo live composto da dieci pezzi registrati al mitico Bottom Line di New York è spesso stato criticato per le lunghe parti parlate anche in mezzo alle canzoni, da parte di un Lou Reed insolitamente loquace ed estroverso, ma da qui a definirlo cabarettistico (ho sentito anche questa) ce ne vuole. Certo, non sarà Rock’n’Roll Animal, ma quando il gruppo suona il suo dovere lo fa alla grande, con eccellenti versioni di Sweet Jane, Satellite Of Love, Pale Blue Eyes (peccato il synth), una I’m Waiting For The Man riarrangiata blues, Coney Island Baby, ed anche una buona Street Hassle ed una I Wanna Be Black nettamente meglio dell’originale, con un grande Marty Vogel al sax. Dall’altro lato, a corroborare le critiche, una Walk On The Wild Side tirata per le lunghe e che non arriva mai al dunque.

Fine parte 2

Marco Verdi

Eric Clapton & Guests – Crossroads Revisited. Dopo I DVD Ecco Il Cofanetto Triplo Con I CD!

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Eric Clapton And Guests – Crossroads Revisited – 3 CD Rhino/Warner

Questo cofanetto esce ora anche in formato CD, e quindi a eventuali fans di Eric Clapton (e di tutti gli altri grandi artisti coinvolti) si pone il quesito se si debbano eventualmente ricomprare, per collezione, anche questa edizione in un formato diverso dai DVD e Blu-Ray in cui erano stati pubblicati in origine, ma il manufatto, peraltro molto bello esteticamente, come vedete qui sopra, e con un prezzo contenuto, si rivolge anche a quella platea che non ama il formato video come supporto di queste uscite (e vi assicuro che, stranamente, sono molti). Quindi ben venga pure questa versione audio, ancorché delle varie edizioni, quella del 2013, era già uscita in un doppio CD,  sia pure solo con una selezione di brani estratti da quel concerto. Quindi direi che ora ci manca solo Neil Young che ne faccia la versione in Pono. Per completare la disamina dei contenuti in questo caso parliamo di una selezione di pezzi scelti dagli eventi del 2004, 2007 e 2010, e anche 2013, per cui bando alle ciance e vado a (ri)ascoltare e rivedere (come ripasso) cosa troviamo in questi favolosi festival della chitarra. Sotto trovate la tracklist completa dei contenuti:

[CD1]
1. Sweet Home Chicago Eric Clapton, Robert Cray, Buddy Guy, Hubert Sumlin, & Jimmie Vaughan (2004)
2. Rock Me Baby Eric Clapton, Buddy Guy, B.B. King, & Jimmie Vaughan (2004)
3. Steam Roller James Taylor with Joe Walsh (2004)
4. What The Cowgirls Do Vince Gill with Jerry Douglas (2004)
5. After Midnight J.J. Cale with Eric Clapton (2004)
6. Green Light Girl Doyle Bramhall II (2004)
7. Hell At Home Sonny Landreth with Eric Clapton (2007)
8. City Love John Mayer (2004)
9. Funk 49 Joe Walsh (2004)
10. Drums Of Passions (Jingo) Carlos Santana with Eric Clapton (2004)
11. Cause We’ve Ended As Lovers Jeff Beck (2007)
12. Have You Ever Loved A Woman (Blues In C) Eric Clapton (2004)
13. Layla Eric Clapton (2004)

[CD2]
1. Little By Little Susan Tedeschi with The Derek Trucks Band (2007)
2. Poor Johnny The Robert Cray Band (2007)
3. Paying The Cost To Be The Boss B.B. King with The Robert Cray Band, Jimmie, Vaughan, & Hubert Sumlin (2007)
4. Tulsa Time Sheryl Crow with Eric Clapton, Vince Gill, & Albert Lee (2007)
5. On The Road Again Willie Nelson with Sheryl Crow, Vince Gill, & Albert Lee (2007)
6. Isn’t It A Pity Eric Clapton (2007)
7. Belief John Mayer (2007)
8. Mas Y Mas Los Lobos (2007)
9. Big Block Jeff Beck (2007)
10. Presence Of The Lord Steve Winwood & Eric Clapton (2007)
11. Cocaine Eric Clapton (2004)
12. Waiting For The Bus/Jesus Just Left Chicago ZZ Top (2010)
13. Don’t Owe You A Thing Gary Clark Jr. (2010)
14. Bright Lights Gary Clark Jr. (2010)

[CD3]
1. Our Love Is Fading Sheryl Crow with Eric Clapton, Doyle Bramhall II, & Gary Clark Jr. (2010)
2. Lay Down Sally Vince Gill with Sheryl Crow, Keb Mo , Albert Lee, James Burton, & Earl Klugh (2010)
3. Space Captain Derek Trucks & Susan Tedeschi Band with Warren Haynes, David Hildago, Cesar Rosas, & Chris Stainton (2010)
4. Hammerhead Jeff Beck (2010)
5. Five Long Years Buddy Guy with Jonny Lang & Ronnie Wood (2010)
6. Hear My Train A Comin’ Doyle Brahmhall II (2010)
7. Dear Mr. Fantasy Steve Winwood & Eric Clapton (2010)
8. Born Under A Bad Sign Booker T. with Steve Cropper, Keb’ Mo’, Blake Mills, Matt “Guitar” Murphy, & Albert Lee (2013)
9. Everyday I Get The Blues The Robert Cray Band with B.B. King, Eric Clapton, & Jimmie Vaughan (2013)
10. Please Come Home Gary Clark Jr. (2013)
11. Tumbling Dice Vince Gill with Keith Urban & Albert Lee (2013)
12. I Shot The Sheriff Eric Clapton (2010)
13. Crossroads Eric Clapton (2013)

L’apertura è affidata ad uno dei super classici del blues, parliamo di Sweet Home Chicago, con Eric che incrocia subito la sua chitarra con Robert Cray, Hubert Sumlin, Jimmie Vaughan e Buddy Guy, che è anche la voce solista, ed è subito goduria estrema, in una jam da brividi, anno 2004, come quasi tutto il primo CD. Vi segnalo solo i brani più interessanti, ma ce ne sono ben 40 nel triplo, e tutti validi: Rock Me Baby, con il vecchio B.B. King in gran forma, che si unisce a Guy e Vaughan, è in una grande versione, e anche James Taylor, in versione bluesman, alle prese con Steamroller, con Joe Walsh alla chitarra, è una bella sorpresa. Le varie serate, oltre al blues e al rock, che fanno la parte del leone, ospitano anche altri stili, per esempio il country di What The Cowgirls Do con Vince Gill che canta ( e suona, capperi se suona!) e Jerry Douglas che lo spalleggia da par suo al dobro, mentre After Midnight, è “genere” JJ Cale, e il suo autore inizia a cantare e suonare, poi arriva Eric. Hell At Home, anno 2007, con Clapton che accompagna il maestro della slide Sonny Landreth; Drums Of Passions (Jingo) è l’incontro con il latin rock di Carlos Santana, in un duello titanico di soliste, con Eric che poi lascia il palcoscenico a Jeff Beck per una splendida Cause We’ve Ended As Lovers, il tributo a Roy Buchanan dal concerto del 2007. A seguire Clapton sale al proscenio con due suoi cavalli di battaglia, una lunghissima Have You Ever Loved A Woman, il brano più lungo del triplo CD e Layla, la più bella canzone mai scritta da Enrico (ma anche Presence Of The Lord, che però è legata alla voce di Steve Winwood).

Il secondo CD si apre con il rock got soul eccitante di Little By Little, cantata da Susan Tedeschi, accompagnata dalla Derek Trucks Band, annata 2007, dallo stesso anno una eccellente Paying The Cost To Be The Boss, di nuovo B.B. King, con Robert Cray, Hubert Sumlin e Jimmie Vaughan. Ottima anche la versione, tutti insieme appassionatamente, di Tulsa Time, Sheryl Crow, Eric Clapton, Albert Lee e Vince Gill, che rimangono poi per accompagnare Willie Nelson in On The Road Again. Altro momento topico una splendida versione di Isn’t It A Pity, il bellissimo brano di George Harrison, cantato dal padrone di casa, che inchioda anche un assolo magnifico. Gagliardi anche i Los Lobos con Mas y mas e John Mayer che con Belief dedicata a BB King, dimostra di non essere solo un belloccio, ma anche un grande chitarrista. Jeff Beck viene da un altro pianeta, e in Big Block ci introduce per la prima volta ai grandi talenti della allora giovanissima bassista Tal Wilkenfeld. A questo punto c’è Presence Of The Lord con Winwood che cede all’inizio il microfono a Clapton, poi scatenato al wah-wah e pure Cocaine, di nuovo dall’annata 2004, non è male come canzone, potrebbe avere successo.

Gli ZZ Top dal vivo sono sempre micidiali, il medley Waiting For The Bus/Jesus Just Left Chicago del 2010 lo testimonia, Billy Gibbons non ha più voce ma alla chitarra se la “cava” ancora. Come pure Gary Clark Jr. con l’uno-due di Don’t Owe You A Thing e Brights Light, uno dei nuovi talenti. Terzo CD che si apre con Sheryl Crow Our Love Is Fading, poi Lay Down Sally, Vince Gill, di nuovo la Crow, e per il reparto chitarre Keb’ Mo’, Albert Lee, James Burton e Earl Klugh.  Bellissima Space Captain, l’omaggio a Joe Cocker, con Derek Trucks e Susan Tedeschi Band insieme a Warren Haynes, David Hildago, Cesar Rosas e Chris Stainton. Jeff Beck (presente in tutti e tre i CD) in Hammerhead e Buddy Guy, con Jonny Lang e Ron Wood, in Five Long Years, strapazzano le chitarre da par loro. E Steve Winwood dimostra di essere anche un grande chitarrista con una versione siderale di Dear Mr. Fantasy, insieme a Clapton, che rimane anche per una notevole Everyday I Have The Blues, guidata da Robert Cray, di nuovo con BB King e Jimmie Vaughan, uno dei cinque pezzi estratti dall’annata 2013. Ricorderei altri due altri classici di Clapton, I Shot The Sheriff, dal 2010, e a chiudere il tutto, non poteva mancare, una potente versione di Crossroads! Ma sono belle tutte, ripeto, anche quelle non citate. Una annata non male per uno che si è “ritirato”, il disco nuovo di studio, fra poco il Live con JJ Cale, e ora anche questo.

Bruno Conti