Un Album Spiazzante, Sicuramente Difficile, Ma Affascinante. The Dream Syndicate – The Universe Inside

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The Dream Syndicate – The Universe Inside – ANTI CD USA 10-04-2020/Download

Andiamo con ordine. Quando nel 2017 i Dream Syndicate avevano pubblicato il loro comeback album How Did I Find Myself Here?, avevo giudicato il disco sorprendente non tanto per il fatto che fosse uscito (dopotutto i nostri si erano riformati come live band nel 2012, ed era dunque lecito aspettarsi un nuovo lavoro prima o poi) quanto per la bontà del contenuto, una miscela vincente di rock’n’roll urbano, punk e psichedelia che riportava i nostri ai fasti degli anni ottanta: Un album che era l’ideale seguito più del mitico Medicine Show che del loro epitaffio Ghost Stories, ed era anche meglio di tutta la discografia solista del leader Steve Wynn, con la possibile eccezione dei notevoli Kerosene Man e Fluorescent. Lo scorso anno era poi uscito These Times, questa volta sì un po’ a sorpresa in quanto non mi aspettavo un seguito così presto https://discoclub.myblog.it/2019/05/19/la-reunion-prosegue-ed-anche-molto-bene-the-dream-syndicate-these-times/ , e di sicuro non di livello quasi comparabile al precedente: il disco era però in parte diverso, con un maggior ricorso all’elettronica pur dosata in maniera intellingente, ed un ruolo decisamente più importante per le tastiere di Chris Cacavas (ex Green On Red), un lavoro cupo e pessimistico sia dal punto di vista dei testi che del sound, e che non aveva mancato di suscitare perplessità ed attirarsi qualche timida critica.

A meno di un anno di distanza il Sindacato del Sogno è di nuovo tra noi con The Universe Inside (che, coronavirus permettendo, uscirà in CD il primo maggio (a parte negli States, dove è in vendita dal 10 aprile, per ora è solo in download), un album ancora più imprevedibile e spiazzante nel quale i nostri in cinque lunghi pezzi ci fanno vedere quello che sono oggi, cioè una band in cui il Paisley Sound degli inizi ha ceduto ormai il passo ad una musica che fonde in maniera solo apparentemente caotica avanguardia europea, jazz-rock, progressive e massicce dosi di psichedelia. Registrato in presa diretta durante una notte di fine anno scorso (80 minuti poi ridotti a 58), The Universe Inside ci mostra che i nostri oggi non concepiscono la loro musica secondo schemi classici, e le cinque tracce presenti non è neppure il caso di chiamarle “canzoni”, bensì un viaggio lisergico ed allucinato nei bassifondi di Los Angeles (o di New York, i bassifondi sono tutti uguali, marci e malati allo stesso modo), un disco che avrebbe potuto concepire uno come Lou Reed se fosse stato ancora tra noi, ed in cui la voce di Wynn non è una guida melodica ma una sorta di strumento aggiunto. In questo lavoro vengono poi fuori le radici avanguardistiche dell’altro chitarrista Jason Victor e quelle jazz della formidabile sezione ritmica formata da Mark Walton e Dennis Duck: infatti l’approccio musicale si potrebbe paragonare a quello che diede vita al leggendario Bitches Brew di Miles Davis, cioè un’unica ed improvvisata session che fu poi leggeremente accorciata in sede di post-produzione.

E’ un po’ come se Wynn e soci ci avessero detto: “Eccoci di nuovo qui: ora vi facciamo vedere che siamo ancora capaci di fare quello che sapevamo fare negli anni ottanta (How Did I Find Myself Here?). Attenzione però, noi non siamo più quelli, ma il nostro suono si sta evolvendo (These Times), ed oggi siamo questi qua (The Universe Inside)”. L’album non mette dunque l’ascoltatore in posizione privilegiata, ma in realtà è come se lo caricasse di botte ed alla fine lo lasciasse a terra malconcio e sanguinante (e magari in overdose), ma se riuscirete ad “entrare” nel disco per il verso giusto, come sono fortunatamente riuscito a fare io, non potrete che rimanerne affascinati. Se la struttura vi può sembrare simile a quella di The Third Mind, esordio omonimo del supergruppo guidato da Dave Alvin, tenete presente che là i brani erano un omaggio al rock psichedelico di fine anni sessanta ed il suono decisamente più accomodante https://discoclub.myblog.it/2020/03/06/un-dave-alvin-diverso-ma-sempre-notevole-the-third-mind/ : qui di accomodante non c’è assolutamente nulla.

l pezzo più lungo, The Regulator, è messo proprio all’inizio, più di venti minuti che partono con un ritmo sostenuto, una chitarra per ognuno dei due lati dello stereo che vanno ciascuna per conto suo riuscendo però a non perdere il filo con il tema musicale di base (“melodia” mi sembra una parola grossa), con l’aggiunta dei riff di un sitar elettrico suonato da Stephen McCarthy dei Long Ryders; poi una chitarra parte per la tangente con suoni distorti, così come distorta è la voce di Wynn (sembra più Leonard Cohen all’inizio ed Iggy Pop alla fine), mentre Cacavas comincia a farsi largo con un piano elettrico ed un synth usato in maniera “giusta”, e spuntano anche un’armonica, il sax di Marcus Tenney suonato proprio alla maniera di Miles Davis (so che Miles era un trombettista, ma sto parlando dello stile) ed un coro quasi onirico, fino all’esplosione sonora finale. Musica in assoluta libertà, di chiaro impianto psycho-jazz (se mi passate la definizione), ma decisamente intrigante. In confronto la seguente The Longing (“solo” sette minuti e mezzo) è una canzonetta: con il suo ritmo cadenzato ed i riff chitarristici lancinanti alla Neil Young, il brano è un rock psichedelico e notturno che rimanda ai Dream Syndicate classici, con un motivo di fondo abbastanza definito che mi ricorda un po’ anche il David Bowie più sperimentale e che si potrebbe anche definire piacevole (almeno fino al quinto minuto, dato che il finale è puro trip lisergico).

Apropos Of Nothing (nove minuti e mezzo) è un potente rock’n’roll elettrico alla maniera dei nostri, leggermente più disteso dei precedenti ma sempre con un’aura psichedelica, con una steel in sottofondo che cerca di ammorbidire il suono: Steve canta nel suo tipico stile ed in leggero contrasto con l’accompagnamento strumentale, ed il tutto risulta anche gradevole (nel senso più “perverso” del termine) e meno difficile del resto, nonostante anche qui la parte centrale sembri la colonna sonora di un “viaggio” a base di allucinogeni, con tanto di accelerazione ritmica finale. Lo strumentale Dusting Off The Rust, altri dieci minuti, inizia in maniera obliqua con le chitarre decisamente “avant-garde” ed i suoni elettronici di Cacavas che prendono il sopravvento, mentre il sax tenta di riportare il tutto ad una dimensione terrena riuscendoci a poco a poco visto che il sound si fa più morbido con il passare del tempo, ed il brano diventa quasi fruibile pur rimanendo nei binari dell’improvvisazione “free”; chiusura con gli undici minuti di The Slowest Rendition, un pezzo che parte lento, etereo e dissonante, con Wynn che interviene in maniera discorsiva con voce quasi narrante, poi entra una ritmica ossessiva dai suoni sintetici trasformando la canzone nell’ideale soundtrack di un film sperimentale di ambientazione post-apocalittica, per quello che è l’episodio più ostico di The Universe Inside.

Un disco non facile quindi, che necessita di più ascolti per essere assorbito a dovere: una cosa è sicura, e cioè che i Dream Syndicate non sono certo una band che si adagia sugli allori.

Marco Verdi

 

La Reunion Prosegue, Ed Anche Molto Bene! The Dream Syndicate – These Times

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The Dream Syndicate – These Times – Anti CD

Quando nel 2017 Steve Wynn aveva pubblicato un disco nuovo di zecca a nome dei riformati Dream Syndicate, l’eccellente How Did I Find Myself Here?, non avevo pensato ad una reunion estemporanea https://discoclub.myblog.it/2017/10/04/sventagliate-elettriche-come-ai-bei-tempi-the-dream-syndicate-how-did-i-find-myself-here/ , anche perché era dal 2012 che avevano ripreso a fare concerti insieme, ma con tutto l’ottimismo possibile non avrei creduto di ritrovarmi dopo soli due anni a commentare un altro album ad opera loro. E non è che la cosa mi dispiaccia, in quanto These Times dimostra che quanto di buono fatto vedere dal disco di due anni fa non era un fuoco di paglia, anche se comunque ci sono delle differenze sia nel suono che nelle canzoni, ma il tutto nel rispetto della continuità. So che quest’ultima può sembrare una frase in “politichese” che afferma una cosa ed il suo contrario, ma vedo di spiegarmi meglio: These Times è un album dai testi profondamente pessimistici, che parla dei problemi enormi del mondo e della società odierna (come da titolo), e parecchi pezzi riflettono il mood delle liriche, suonando cupi, pressanti e con pochi spiragli di luce.

In più i nostri sperimentano suoni più moderni, a differenza di How Did I Find Myself Here? che era un disco di rock chitarristico abbastanza classico nella sua confezione: qui invece c’è anche l’uso della tecnologia, si sente il suono dei synth in diversi momenti (ad opera di Chris Cacavas, entrato a far parte in pianta stabile del gruppo, e quindi essendo l’unico ad aver militato nei due gruppi cardine del cosiddetto Paisley Underground, cioè i Green On Red ed appunto i Syndicate), ed anche l’uso della strumentazione ha meno agganci col passato. Ma, ed ecco il discorso sulla continuità, si tratta sempre e comunque di rock’n’roll con elementi punk e qualcosa di psichedelico, le chitarre non si tirano mai indietro e le atmosfere sono quelle tipiche dei nostri, solo con un occhio più attento ai tempi attuali, ma comunque senza mai perdere il senso della misura. Prodotto dal fido John Agnello, These Times non presenta ospiti esterni a parte un paio di backing vocalists femminili, e quindi vede i già citati Wynn e Cacavas affiancati dalla seconda chitarra di Jason Victor e dalla sezione ritmica (sempre grande protagonista) di Mark Walton al basso e Dennis Duck alla batteria. Il CD si apre con The Way In, un brano potente e chitarristico del tipo a cui i nostri ci hanno abituato, solo con un synth in sottofondo che però non infastidisce: ritmica pressante ed atmosfera cupa e tagliente (può essere tagliente un’atmosfera? Ascoltate questo brano e mi darete ragione) e nessuno squarcio di luce.

Put Some Miles On continua in maniera aggressiva, siamo quasi in zona punk anche se i nostri hanno una tecnica ed una professionalità che i gruppi punk si sognano: ritmo forsennato e chitarre stridenti, con Wynn che “loureedeggia” con la voce; Black Light inizia con un suono di tastiere “strano”, poi il brano parte con un basso pulsante ed una ritmica incalzante, ed anche qui i nostri non danno speranze nel testo e si approcciano in modo duro, secco e senza fronzoli. Da questo avvio These Times potrebbe sembrare più ostico dell’album di due anni fa (che in certi punti era perfino orecchiabile) ma il piacere dell’ascolto non ne è di certo inficiato, solo non lo metterei ad un appuntamento galante. Bullet Holes stempera un po’ la tensione, complice anche una chitarra acustica, ed il brano stesso è decisamente più immediato e fruibile, quasi un folk-rock urbano dalla melodia più definita, mentre Still Here Now è un’autentica rock song alla maniera dei nostri, chitarre e piano elettrico in evidenza ed un motivo diretto che continua con l’opera di distensione sonora rispetto ai primi tre pezzi. Speedway è ancora una canzone dall’incedere aggressivo ed incombente, ma anche coinvolgente, con il synth usato a mo’ di organo farfisa e le chitarre che arrotano che è una bellezza.

Recovery Mode ha un refrain orecchiabile ed è quanto di più vicino al pop possa esprimere il gruppo di Los Angeles, con le tastiere qui in prima fila rispetto alle chitarre, mentre The Whole World’s Watching vede il basso dominare in partenza, poi entra una chitarra sghemba ed il solito synth che però qui secondo me non era necessario (avrei preferito l’organo): Steve inizia a cantare dopo due minuti ed il brano si impenna di brutto. Chiusura con la roboante Space Age, altro rock’n’roll di grande energia e vigore chitarristico (e notevole godimento per chi ama il vero rock) e con Treading Water Underneath The Stars, finale a ritmo più contenuto ed atmosfera oscura simile a quella dei brani iniziali, anche se i decibel non sono certo messi a riposo. These Times non sarà forse immediato come How Did I Find Myself Here? e forse è anche un gradino sotto come canzoni, ma rimane comunque un signor disco di moderno rock, del tipo che oggi si sente sempre meno.

Marco Verdi

Sventagliate Elettriche Come Ai Bei Tempi! The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here?

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The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here? – Anti CD

Quando nel 2012 Steve Wynn aveva riformato per una serie di concerti i Dream Syndicate, gruppo cardine insieme ai Green On Red del cosiddetto movimento Paisley Underground (nato a Los Angeles negli anni ottanta), mi sarei aspettato che prima o poi la band si sarebbe ritrovata in studio per dare un seguito al loro ultimo lavoro, Ghost Stories (1988). Quello che non avevo immaginato è che i quattro (oltre a Steve l’unico altro membro fondatore è il batterista Dennis Duck, mentre il bassista Mark Walton era entrato nel 1986 e Jason Viktor è il chitarrista dei Miracle 3 di Wynn) avessero ancora nelle corde un disco del livello di questo How Did I Find Myself Here? L’album infatti, più che il seguito di Ghost Stories, si ricollega direttamente al leggendario Medicine Show, splendido secondo lavoro dei nostri che aveva seguito l’altrettanto fulminante esordio di The Days Of Wine And Roses: How Did I Find Myself Here? è infatti un disco di una potenza ed energia straordinarie, con la tipica miscela di rock e psichedelia del gruppo portata a livelli molto alti, otto canzoni coi fiocchi suonate alla grande, come se trent’anni non fossero passati.

Stupisce anche la lucidità di Wynn come songwriter, dato che, dopo i promettenti inizi da solista (gli ottimi Kerosene Man e Dazzling Display e lo splendido Fluorescent), negli anni a seguire si era un po’ perso, alternando dischi di discreta fattura ad altri meno brillanti, ma senza più centrare l’album da copertina. Qui invece funziona tutto a dovere (complice anche il contributo determinante alle tastiere di Chris Cacavas, ex Green On Red) ed il disco si rivela tra i migliori album di rock chitarristico da me ascoltati ultimamente: potrei fare un paragone con il sorprendente reunion album dei Sonics di due anni fa (This Is The Sonics http://discoclub.myblog.it/2015/12/23/recuperi-sorprese-fine-anno-1-aiuto-il-lettore-va-fuoco-the-sonics-this-is-the-sonics/ ), non per il genere di musica ma per il fatto che spesso per fare del grande rock è preferibile avere una carta d’identità un po’ ingiallita. Il CD inizia in maniera strepitosa con la potente Filter Me Through You, brano chitarristico e cadenzato dal drumming possente ma anche con un motivo orecchiabile, il tutto nella più perfetta tradizione del quartetto californiano, un vero muro del suono che ci riporta indietro di trent’anni. Glide se possibile è ancora più elettrica e pressante, in contrasto con la voce declamatoria di Wynn, qui messa quasi in secondo piano rispetto alla veemenza chitarristica, mentre Out Of My Head aumenta ancora il ritmo e sfocia quasi nel punk, anche se di gran classe (so che punk e classe nella stessa frase fanno a pugni, ma fidatevi), con qualche traccia anche del Lou Reed più aggressivo: energia allo stato puro, senza dimenticarsi però della sostanza delle canzoni.

Sentite pure la saltellante 80 West, qui siamo forse oltre la forza di Medicine Show, come se gli anni che sono passati avessero accentuato al massimo la furia elettrica dei nostri; Like Mary molla un po’ la presa, spunta anche una chitarra acustica, e Wynn si prende il centro della scena con il suo tipico stile da rocker notturno, ricordandoci anche che quando vuole è un cantautore coi fiocchi. The Circle coniuga ancora alla perfezione potenza (tanta) e fruibilità, un attacco frontale di notevole impatto, mentre la title track è il pezzo centrale del disco: inizio sghembo, con gli strumenti che vanno ognuno per i fatti suoi e dove non è estranea una buona dose di psichedelia, poi Viktor ricuce tutto insieme, Wynn inizia a cantare ed il brano scorre fluido per undici minuti ad alto tasso elettrico. Kendra’s Dream, che chiude il CD, è a sorpresa cantata da Kendra Smith, bassista degli esordi dei Syndicate e poi con gli Opal, un pezzo ipnotico, obliquo, con le chitarre al limite della distorsione e la voce particolare e vissuta in puro stile Marianne Faithfull  della Smith a creare un mix straniante ma di indubbio fascino.

Meno male che c’è in ancora in giro qualche band in grado di fare del rock come Dio comanda, ed i Dream Syndicate fanno senz’altro parte di questo, ahimè, sempre più ristretto gruppo.

Marco Verdi

Americani A Berlino! Walkabouts – Berlin

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 *NDB. Dopo la recensione del DVD la-vita-in-un-film-the-walkabouts.html, il buon Tino torna sulla scena del crimine con il nuovo album dal vivo, evidentemente è un gruppo che gli piace, a lui la parola!

The Walkabouts – Berlin – Glitterhouse 2012

Diversamente da quello che hanno “strombazzato” diversi siti musicali in questi giorni (per chi scrive), questo non è il primo album ufficiale live dei Walkabouts, in quanto sempre per la Glitterhouse, sono usciti in precedenza Live In Europe (1994) e Prague (2007), senza tralasciare i vari “bootleg”, Live in Ljubljana (2002) uno dei più belli. Fatta questa doverosa precisazione, il concerto è stato registrato il 14 Luglio di quest’anno al C-Club di Berlino, durante il recente tour Europeo. La selezione dei 13 brani è notevole, circa metà della scaletta (giustamente) pesca dall’ottimo ultimo disco Travels in The Dustland (2011), ma sono ben rappresentati New West Motel (93), Setting The Woods On Fire (94), Devil’s Road (96), Ended Up A Stranger (2001) e il trascurato Acetylene (2005). Sono saliti sul palco, oltre ai due ex-coniugi fondatori del gruppo Chris Eckman e Carla Torgerson entrambi chitarra e voce, i componenti di lunga data Michael Wells al basso, Glen Slater alle tastiere, Terry Moeller alla batteria e il nuovo componente Paul Austin alla chitarra.

Si parte con Rainmaker Blues tratta dall’ultimo album, con le chitarre e la batteria che dettano un ritmo incalzante, cui fa seguito una Rebecca Wild dolce e malinconica, mentre The Dustlands  viene, se possibile, migliorata, con sonorità alla Giant Sand. L’intro di The Light Will Stay On (una delle loro più belle canzoni), ancora oggi, a distanza di anni, mi regala emozioni profonde, come quelle che dispensa Bordertown, una ballata pianistica, con la meravigliosa voce della Torgeson e la chitarra di Eckman, a ricamare una melodia “celestiale”. Con Long Drive in a Slow Machine, sembra che sul palco siano saliti Neil Young e i suoi Crazy Horse, brano con il suono di chitarre abrasive e ritmo indiavolato, mentre la seguente Lazarus Heart, dall’incipit incalzante e improvvise aperture di archi e tastiere, è molto “cinematografica”. Si riparte con un altro classico del gruppo, una Jack Candy caratterizzata da un’orgia di chitarre elettriche e cantata quasi rabbiosamente da Carla e a seguire Every River Will Burn, brano che inizia con la batteria a dettare il ritmo, poi entra un approccio vocale più energico e crudo, che mi ricorda i mai dimenticati Thin White Rope. Acetylene è di nuovo concentrata su batteria e basso, che scandiscono il tempo, sulle voci di Carla & Chris e accordi di chitarra secchi e rabbiosi, mentre la seguente The Stopping Off Place, è una delle canzoni più dure, degna di un Steve Wynn d’annata.

 

Si ritorna alla ballata d’atmosfera con una Horizon Fade, cantata in duetto in modo commovente, per poi chiudere in modo trionfale, un concerto memorabile, con gli oltre dodici minuti di Grand Theft Auto, che a tratti ricorda certe evoluzioni “psichedeliche” dei Dream Syndicate.

I Walkabouts con questo Live, festeggiano degnamente il loro trentennale di carriera, dimostrando di essere una band in grandissima forma, una formazione che spazia dal rock, al folk-country e persino a certe forme di garage-psichedelico, e nel tempo il loro suono è cresciuto in maniera esponenziale, e questo magico show berlinese, certifica la loro grandezza anche sulla scena musicale europea.

Tino Montanari

Un Paio Di Novità Dalle Nostre Lande, Anche “Basse”! Lowlands – Beyond & Music is Love A Tribute To CSN&Y

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Oggi esce ufficialmente (ma circola già da un paio di giorni), il nuovo album dei Lowlands, si intitola Beyond, è prodotto da Joey Huffman, in passato tastierista con Soul Asylum, Drivin’n’Cryin e Georgia Satellites, anche ingegnere del suono in vari album di buon rock. L’etichetta è la Gypsy Child di Ed Abbiati, e il CD è il secondo del 2012 dopo il Tributo a Woody Guthrie. Ovviamente, anche per gli avvicendamenti nell’organico (non c’è più Chiara Giacobbe al violino, o meglio appare solo in Fragile Man), il suono è decisamente più elettrico del solito, addirittura quasi punk nell’iniziale Angel Visions, ma non mancano ballate e brani visionari tipici del gruppo. Alla chitarra, per il momento, c’è ancora Roberto Diana e alle tastiere e fisa Roberto Bonfiglio; la nuova sezione ritmica è quella di Ligabue (e prima dei gloriosi Rocking Chairs), ovvero Rigo Righetti al basso e Roby Pellati alla batteria. Una ennesima eccellente produzione italiana, dalla bassa pavese alla conquista del mondo: auguri Ed! Poi ci torno con calma, per il momento prendete nota e provvedete.

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Martedì 9 ottobre uscirà questo doppio CD, Music Is Love A Singer Songwriters’ Tribute To CSN&Y, una co-produzione della italiana Route 61 di Ermanno Labianca, che è uno dei produttori con Francesco Lucarelli, e la Hemifran, a cura di Peter Holmstedt. Lo scopo del disco è raccogliere fondi per la Equestrian Therapy Co-Op di Brandeis, California (sarebbe la nostra ippoterapia per aiutare bambini ed adulti con problemi psico-motori). Quindi scopo nobilissimo e il disco ha anche tutta l’aria di essere notevole, il primo vero grande tributo alla musica di Crosby, Stills, Nash & Young, con fior di musicisti, take a look:

CD 1
01. For What It’s Worth (Ron LaSalle) 02. Triad (Steve Wynn) 03. Helplessly Hoping (Judy Collins) 04. Lady Of The Island (Liam Ó Maonlaí) 05. Bluebird (Sugarcane Jane) 06. Birds (Elliott Murphy) 07. Guinnevere (Bonoff, Cowan, Szcześniak & Waldman) 08. You Don’t Have To Cry (Sonny Mone) 09. Down By The River (Bocephus King) 10. Love The One You’re With (Jennifer Stills) 11. After The Gold Rush (Venice) 12. Teach Your Children (Sadie Jemmett) 13. Fallen Eagle (The Coal Porters)

CD 2
01. Rockin’ In The Free World (Willie Nile) 02. It Doesn’t Matter (Cindy Lee Berryhill) 03. Out On The Weekend (Clarence Bucaro) 04. Hey You (Looking At The Moon) (Neal Casal) 05. Cortez The Killer (Carrie Rodriguez( 06. Bittersweet (Marcus Eaton( 07. Just A Song Before I Go (Eileen Rose & The Legendary Rich Gilbert) 08. Long May You Run (Nick Barker) 09. Southern Cross (Michael McDermott & Heather Horton) 10. Thrasher (Andy Hill & Renée Safier) 11. Wasted On The Way (Louis Ledford) 12. Tracks In The Dust (Mary Lee’s Corvette) 13. I’ll Be There For You (Jenai Huff) 14. Music Is Love (Ian McNabb).

Anche in questo caso, ci torniamo con calma, appena possibile.

Bruno Conti

 

 

Vecchi Rockers “Resistono”! Todd Thibaud – Live At The Rockpalast Crossroads Festival

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 Todd Thibaud – Live at the Rockpalast Crossroads Festival  – Blue Rose – 2 CD + DVD

Questo cd è già sul mercato da alcuni mesi, ma data l’enorme quantità di uscite che si sono accumulate nelle ultime settimane, abbiamo atteso un po’ di tempo prima di recensirlo più ampiamente. Todd Thibaud viene dallo zona di Boston, aveva dato notizia di sé anni fa col gruppo dei Courage Brothers con due ottimi lavori, Something Strong del 1993 e Wood dell’anno successivo, poi ha iniziato una pregevole carriera solista, quando è passato sotto l’egida della Blue Rose Records dando alle stampe Favorite Waste of Time, disco prodotto da Kevin Salem dalla forte impronta chitarristica, paragonato subito adaltri artisti minori come Pete Droge o grandissimi come Tom Petty. In seguito ha inciso abbastanza regolarmente: Little Mistery (1999), Church Street Live e Hot FM Session due album live del (2001), Squash (2002), Northem Skies (2005), un Best e un altro Live nel (2006), e Broken (2009), dispensando un suono che spazia tra Rock e radici, con molte influenze Country, Folk e Blues, e suoni godibili dalla prima all’ultima nota.

Bene siete quindi avvisati, il buon Todd sa come far viaggiare il proprio Rock tra ballate che profumano di California e accelerazioni nello stile del più puro guitar rock, creando quell’alternanza di stili e situazioni, ora introverse da “cantautore” ora estroverse da “rocker” tipiche nei dischi di gente del calibro di Steve Wynn ed Elliott Murphy. Con Thibaud vocals, guitar e armonica, suonano il chitarrista Thomas Juliano, il bassista Joe Klompus, il batterista Pete Caldes e il mandolinista Sean Staples che fanno sentire il loro peso e si amalgamano al sound brillantemente impastato di chitarre acustiche e elettriche, dando anima ad un suono di classica “Americana”.

Trasferiamoci sul palco del Rockpalast di Bonn nell’ambito del Crossroads Festival dove si è tenuto il concerto il 26 Marzo del 2009, iniziando con l’elettrica Drifting, seguita dal mid-tempo di Changing Now, proseguendo con una Is it Love? che sembra uscita da un lavoro di John Hiatt , e da una ballata sognante come Louisiana con il mandolino di Sean Staples a disegnare accordi incantevoli.

Dopo la immancabile presentazione della Band, si riparte con Broken tratta dall’ultimo album in studio, cui fa seguito un’altra ballata di spessore Anywhere con la voce da “balladeer” di Todd ad incantare il pubblico. Chiude la prima parte del concerto una sequenza pettyana composta da Sweet Destiny, On My Own Again e Little Mystery tratta dal primo lavoro da solista.

La seconda parte inizia nel miglior modo possibile con una maestosa I Go On con in evidenza il mandolino di Staples, a ricordarmi un cantautore di cui purtroppo non ho più notizie, tale Chris Burroughs. Si prosegue con Isn’t Love My Friend con un intro alla Steve Wynn, e percorso per tutta la durata del brano dal mandolino solista del solito Staples. Si cambia decisamente ritmo con una Blue Skies Back in versione country, per passare ad una serenata campestre come Man That I Am, seguita da una ballabile Stone I Can’t Roll dall’incedere rootsy. Si ritorna ad atmosfere delicate con una Simple Man (che non è quella dei Lynyrd Skynyrd) cui fanno seguito una ritmata You & Me, una trascinante Dragging Me down con armonica di supporto, e una Finding Out con una grande sezione ritmica. Dopo 90 minuti di ottima musica, si chiude alla grandissima con l’unica “cover” del cd una Dead Flowers dei Rolling Stones trascinante nell’incedere e suonata con cuore e passione.

La musica proposta da Thibaud è una miscela di tutte le componenti necessarie per creare una musica che va diritto al cuore di chi ascolta, raccontandoci piccole storie personali e di amore eterno. Indispensabile per i neofiti, augurandomi che venga finalmente riconosciuta la sua bravura come merita. Se posso permettermi un consiglio, investite senza esitazione i vostri svalutati Euro, in fondo questa confezione 2 CD + DVD dell’intero concerto, costa meno di un CD di Marco Carta. Meditate, gente, meditate. 

Tino Montanari

A Volte Ritornano (Come Ai Vecchi Tempi)! Silos – Florizona

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Silos – Florizona – Blue Rose 20-06-2011

Ci sono quei gruppi (e solisti) a cui ti affezioni e continui a seguire, magari anche distrattamente, per sentito dire “Hai visto è uscito il nuovo disco dei Silos!” e tu annuisci, lo compri pure, per abitudine e poi lo ascolti una volta e lo accantoni, perché comunque i vecchi amici, quelli che ti hanno regalato qualche emozione in passato non li puoi mai abbandonare del tutto. Ti appassioni anche alle loro storie, come quella di Walter Salas-Humara, figlio di emigrati cubani, che studia e poi cresce in Florida, da adolescente si innamora del rock dei Mudcrutch (che vengono da quella zona, la prima band di Tom Petty) e poi si trasferisce a metà anni ’80 in quel di New York dove si avvicina alla musica dei Velvet Underground e al punk (americano) ma anche a Jonathan Richman. La prima musica che produce, quella che culmina con il secondo album Cuba (ancora in compagnia del primo pard Walter Rupe) ha molti elementi roots ma anche analogie con il movimento Paisley di Green On Red, Dream Syndicate ed altri. La voce si sparge e la band viene messa sotto contratto da una major, la RCA che pubblica il loro album omonimo (quello con l’uccello, inteso come volatile, in copertina) e prontamente li molla. Un copione già visto mille volte, ma Walter Salas-Humara si divide da Rupe e mantiene il nome della band e tra molti cambi di formazione e dischi solisti, oltre alla parentesi dei Vulgar Boatmen si arriva quasi ai giorni nostri. Perché uno “dice dice” ma poi segue sempre, è quasi una dipendenza.

La molla che fa scattare l’orgoglio è la scomparsa di Drew Glackin, musicista con cui aveva condiviso tutti gli anni ’00 fino al 2008. Dopo questo fatto luttuoso si chiude in studio con il fedele batterista Konrad Meissner, assembla un nuovo gruppo con forze fresche, a partire dal bassista e multistrumentista Rod Hohl che cura anche la produzione, un nuovo chitarrista Jason Victor e un tastierista Bruce Martin. Con questa formazione allargata a molti amici, la cosiddetta Silos Family, viene realizzato questo Florizona che lo riporta ai fasti del passato. Si dice spesso, ma credeteci, vi garantisco che è vero: dal jingle-jangle psichedelico e rootsy dell’iniziale Coming From The Grave con la seconda voce dell’ospite femminile Amy Allison che si amalgama alla perfezione con quella di Salas e ricrea un sound che mi ha ricordato i primi BoDeans (i primi, perchè sono sempre quelli migliori) con le chitarre di Walter e Jason Victor a disegnare florilegi sonori su un discreto tappeto di tastiere e con una sezione ritmica molto presente e variegata (anche se il suono della batteria creato dal produttore Hohl non mi fa impazzire). L’effetto ricorda anche molto Dylan o meglio Roger McGuinn, con quel tocco di raucedine aggiunta nella voce, che fa figo, come viene ribadito nella successiva On Your Way Home, un intenso brano cantato con grande trasporto e con una melodia che ti si insinua nel cuore e le chitarre che accompagnano maestosamente l’andatura della canzone, una grande rock ballad.

Quando i ritmi accelerano e le chitarre si fanno più taglienti come nell’eccellente White Vinyl sembra quasi di ascoltare i Dream Syndicate o l’ultimo Steve Wynn solista, quello di Northern Aggression. Poi ti si accende una lucina nel cervello, Jason Victor, questo nome non mi è nuovo, ma certo è il chitarrista dei Miracle 3, ed è proprio bravo e aggiunge grinta e una tavolozza di coloriture chitarristiche che rendono questo disco così vario e piacevole. Gravity l’avrebbe potuta scrivere e cantare Ian Hunter, una voce vissuta e partecipe che galleggia su un ritmo lento e preciso ma con una chitarra acida sullo sfondo che rende il tutto più incisivo.

Il vecchio rock californiano del revival Paisley degli anni ’80 rivive nella grinta di Teenage Prayer che ricorda anche certe cose di Alejandro Escovedo o Dan Stuart, tutta musica buona comunque e le chitarre urlano e strepitano come dovrebbe essere nella migliore musica rock ma sono anche “educate” ed acustiche in altri momenti del brano, in un giusto equilibrio.

Mandolino e dobro si aggiungono ai ritmi saltellanti di Hold You In My Arms, anche la voce della Allison si aggiunge, come tappeti di chitarre, organo, tanti strumenti per un suono pieno e ricercato che maschera una melodia meno incisiva di altre che l’hanno preceduta. Getting Trashed è un brano rock quasi antemico, alla Gaslight Anthem, con un ritornello che invita al pugnetto alzato e alla partecipazione ai cori mentre le chitarre impazzano alla grande come di consueto, proprio un bel sound (anche se la batteria…). Election Day è un’altra di quelle ballatone semiacustiche, notturne, di grande effetto, con un maestoso mellotron suonato da Sam Bisbee, coautore con Walter Salas-Humara di questo e altri brani nell’album. Never Lost The Sunshine sembrerebbe (e lo è) una canzoncina leggera leggera tra country, bar band music e R&R ma quando le chitarre nella parte finale partono per la tangente non puoi fare a meno di godere come un riccio, come Jason & The Scorchers ai tempi d’oro.

Se si dice, ci sarà un motivo, “Last but not least”, The Ring Of Trees è “semplicemente” un’altra bella canzone con un crescendo irresistibile che ci riporta ai tempi andati quando i Silos erano una delle migliori band in circolazione e inaspettatamente sono tornati ad esserlo, almeno per questo Florizona. E io a un disco così quasi quasi 3 stellette e mezzo gliele darei, anche se il suono della batteria…va beh!

Bruno Conti

Dopo Danny Torna Anche Dusty. E Alla Grande! Steve Wynn & The Miracle Three – Northern Aggression

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Steve Wynn & The Miracle 3 – Northern Aggression – Blue Rose/Ird EU – Yep Rock USA

Qualche mese fa vi avevo parlato, in modo più che positivo, del disco degli slummers, ovvero il nuovo gruppo di Dan Stuart, il suo amico (e pard nel gruppo Danny & Dusty) Steve Wynn ritorna a sua volta con questo Northern Aggression.

Diciamo che è un “ritorno” metaforico, più che altro torna a fare un ottimo disco dopo qualche anno di appannamento. Anche se tutto è relativo e a livello personale, questo nuovo CD che esce fra poco (anzi, ai suoi concerti italiani di Cavriago e Trieste all’inizio di novembre mi hanno detto che lo vendevano già) mi sembra il suo migliore dai tempi dei Dream Syndicate. Comunque la data di pubblicazione ufficiale per l’Italia dovrebbe essere la settimana prossima.

Abrasivo, corrosivo, chitarristico, psichedelico, melodico quando occore, in una parola Steve Wynn.

Si capisce sin dall’iniziale Resolution che Steve ha ritrovato appieno la sua musa ispiratrice (che non lo aveva mai abbandonato del tutto ma questa volta è presente in modo consistente, in tutti i brani): su una base ritmica che gli inglesi potrebbero chiamare motorik e che al sottoscritto ha ricordato gli Hawkwind di Space Machine, i Miracle 3 e Wynn provvedono a creare un sound chitarristico, abrasivo, psichedelico, figlio di quel “paisley underground” che aveva reso grandi i Dream Syndicate. Dura e tirata la canzone si avvale di un eccellente tiro chitarristico e di tastiere avvolgenti e minacciose che evidenziano questa “aggressione nordista”. La voce filtrata e la grinta di Steve Wynn fanno il resto. We don’t talk about it prosegue a grande livelli, la voce è “snarly” (non mi viene un termine in italiano), avete presente quando Tom Petty arringa gli ascoltatori con cattiveria? E la musica è anche meglio: due chitarre tintinnanti e maligne, una sezione ritmica e urgente nella migliore tradizione dei grandi brani rock provvedono a creare una sarabanda rock sempre ai migliori livelli del canone Wynniano (ammesso che esista).

La moglie Linda Pitmon alla batteria, Jason Victor alle chitarre (che cerca di non far rimpiangere i suoi predecessori Karl Precoda e Paul B. Cutler e ci riesce) e Dave DeCastro al basso continuano a creare un notevole muro di suono anche nell’aggressiva No One Ever Drowns sempre psichedelica e potente nel suo svolgimento.

La sacra trinità di Wynn è sempre stata Neil Young, Bob Dylan e Lou Reed, non necessariamente nell’ordine (lo ricordo da un breve incontro ad inizio anni ’90 quando abbiamo chiacchierato qualche minuto, mi ha autografato con dedica i CD dei Dream Syndicate e gli ho regalato delle “cassette bootleg” del suddetto trio): Consider The Source evidenzia il suo amore per il grande Bob, un mid-tempo con organo e piano elettrico in evidenza su cui si innestano un paio di innesti acidissimi di chitarra alla Neil Young, veramente una bella canzone. Colored Lights è un altro ottimo brano, illuminato da continui interventi chitarristici e con una atmosfera che questa volta si rivolge all’opera di Lou Reed, ma il risultato è inequivocabilmente Steve Wynn con un violento finale acido e psichedelico dove ritornano i fantasmi del “sindacato del sogno”.

Dopo 5 canzoni di valore elevato arriva The Death Of Donny B, un brano che qualcuno potrebbe definire “attendista” (anche se non ho mai capito cosa si vuole intendere, attendi cosa? O è il brano che attende? Mah): nel senso che non succede molto, un brano quieto ed atmosferico, raffinato ma in definitiva poco soddisfacente, non brutto ma irrisolto, per il sottoscritto almeno ad altri piacerà sicuramente, verificate…

Le atmosfere si risollevano con il delizioso jingle-jangle dell’eccellente The Other Side, un brano che avrebbe potuto fare il miglior Tom Petty (e prima Roger McGuinn) ma anche i Buffalo Springfield del duo Stills-Young e aggiungerei lo Steve Wynn più ispirato, come in questo caso. Ok niente di nuovo ma come lo fanno bene, non è facile inventare qualcosa di nuovo (e ormai non ci riesce più nessuno) ma qui non siamo solo di fronte al compitino ben eseguito ma è musica di ottima qualità e tensione sonora.

Cloud Splitter cantata a due voci (non so chi è l’altro, ho solo il promo con i titoli dei brani e nessuna informazione): le armonie vocali presumo siano di Linda Pitmon. Le due chitarre si intrecciano dai canali dello stereo con grande varietà di tessiture sonore.

Una bella ballata lenta ci mancava e quindi ecco a voi l’ottima St.Millwood con la voce di Wynn che mi ricorda ancora quella di Petty (quando canta nelle sue tonalità più basse) e la musica che si avvolge attorno ad una evocativa pedal steel che ricorda tracciati country ma di quelli alternativi. Viceversa On The Mend è un altro notevole tour de force chitarristico con una lunga parte iniziale strumentale dove una slide minacciosa e la chitarra di Steve si alternano con un organo vintage per ricreare quel suono aggressivo e vibrante che tanto ci piace, poi entra la voce che porta a casa il risultato centrando una bella meta (siamo in America, in fondo!).

Prima di parlare dell’ultimo brano vorrei ricordare ancora l’ottimo lavoro delle tastiere che presumo siano affidate sempre a Steve Wynn considerato che non mi sembra di aver visto ospiti aggiunti sia pure nella penuria di informazioni, verificate da voi comunque…

L’ultimo brano Ribbons and Chains secondo alcuni è il potenziale singolo dell’album, sicuramente è uno di quelli che si ricordano con maggiore facilità, vogliamo dire più “orecchiabile”, più pop? Diciamolo, non è mica una bestemmia, anzi…la ricerca della perfetta canzone pop è una delle imprese più difficili per un musicista e qui Steve Wynn con l’aiuto di Linda Pitmon & Co mi sembra che ci riesca alla grande in una giusta miscela di grinta rock chitarristica e armonie vocali solari. Degna conclusione per uno dei lavori migliori e più consistenti del nostro amico, ormai anche lui splendido 50enne (è del febbraio 1960).

Bruno Conti

Peccato Averlo Già! Una Fantastica Ristampa! The Dream Syndicate – Medicine Show

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The Dream Syndicate – Medicine Show – Water 2010

Per chi non lo possedesse già (io sono fortunato possessore del CD originale A&M uscito nel 1984, autografato da Steve Wynn) questo è uno dei dischi imprescindibili degli anni ’80.

Rock chitarristico tra psichedelia “vecchia e nuova” e una manciata di canzoni scritte col vetriolo. Con l’aggiunta di 5 tracce dal vivo che facevano parte di This Is Not The New Dream Syndicate Album…Live! Non dovrebbe mancare in nessuna discoteca che si rispetti.

Un breve reminder ma, per chi vuole approfondire, giustamente, ne hanno parlato tutte le riviste specializzate.

Bruno Conti