Un Buon Tributo, Nonostante I Pochi Grandi Nomi Presenti. VV.AA. – Imagine: John Lennon 75th Birthday Concert

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VV.AA. – Imagine: John Lennon 75th Birthday Concert – Blackbird 2CD – 2CD/DVD

Il 5 Dicembre del 2015 si è tenuto al Madison Square Garden di New York, non nell’arena principale ma nel più raccolto “The Theatre”, un concerto in cui un gruppo eterogeneo di artisti ha festeggiato quello che sarebbe stato il settantacinquesimo compleanno di John Lennon (che in realtà era nato il 9 Ottobre), anche se va detto che solo tre giorni dopo sarebbe caduto un anniversario ben più triste, cioè il trentacinquesimo anno dal suo assurdo assassinio per mano di Mark David Chapman. Con più di tre anni di ritardo la Blackbird (già responsabile dei recenti tributi live a Kris Kristofferson e Charlie Daniels) pubblica Imagine: John Lennon 75th Birthday Concert, resoconto completo di quella serata, venti canzoni equamente divise su due CD (è c’è anche una versione con il DVD accluso). Ed il concerto è bello, in molti tratti emozionante, grazie soprattutto ad alcuni ospiti di vaglia e ad una house band strepitosa (che comprende Lee Sklar al basso, Kenny Aronoff alla batteria, Greg Phillinganes alle tastiere, Sid McGinnis, ex chitarrista della band di Paul Shaffer al David Letterman Show, e Michey Raphael all’armonica), anche se rimane viva la sensazione che, data la statura del personaggio celebrato, si sarebbe potuto fare di più.

Infatti, a parte le assenze di entrambi i figli di John, Sean e Julian (ma dal punto di vista musicale non abbiamo perso molto), non mi spiego perché non siano stati presenti alcuni artisti che sarebbe stato logico vedere: penso naturalmente a Paul e Ringo, ma anche ad Elton John che, proprio al Garden, duettò con Lennon in una delle rarissime apparizioni live dell’ex Beatle negli anni settanta. Quelli che ci sono fanno comunque di tutto per omaggiare al meglio il grande artista di Liverpool, scegliendo diversi classici dal suo ampio songbook (Beatles compresi) e proponendo pure qualche brano non scontato, anche se nessuno ha avuto il “coraggio” di rifare la magnifica A Day In The Life, forse il brano più bello mai scritto da John (Neil Young, per esempio, l’ha suonata diverse volte negli ultimi anni, ed anche lo stesso McCartney). L’inizio della serata è rockeggiante, con uno Steven Tyler dal look più luciferino che mai alle prese con la mitica Come Together (già incisa in passato con gli Aerosmith), esecuzione potente e Steven meno sguaiato del solito. Brandon Flowers, leader dei Killers, è uno che sa cantare, e lo dimostra prima con una scintillante versione della splendida Instant Karma, e poi in trio con Chris Stapleton e Sheryl Crow con una fluida e suadente Don’t Let Me Down, grinta e classe unite insieme.

Pat Monahan non è certo un fuoriclasse, ma Jealous Guy è talmente bella che gli basta cantarla senza strafare, e poi il finale in crescendo soul-gospel è decisamente intrigante, mentre la Crow, stavolta da sola, rocca da par suo con una godibilissima A Hard Day’s Night. Il primo ospite d’onore è il grande John Fogerty (che somiglia sempre più a Mal dei Primitives) con la deliziosa In My Life, un brano che l’ex Creedence introduce come il suo preferito anche se l’esecuzione è stranamente di basso profilo, con John che sembra quasi intimidito; per contro, il soul singer Aloe Blacc stupisce ed emoziona con una fulgida Watching The Wheels, accompagnato solo dal pianoforte e cantata con una voce mica male. Non conoscevo il cantante colombiano Juanes, ma la sua Woman è riuscita e piacevole nonostante un arrangiamento molto pop (ma era così anche l’originale), mentre la Texas band Spoon affronta con grinta e buona sicurezza Hey Bulldog, non certo uno dei brani più noti dei Fab Four. Il primo CD si chiude in maniera strepitosa con la strana coppia formata da Kris Kristofferson e Tom Morello che rifanno Working Class Hero: canzone perfetta per Kris, che si conferma un interprete carismatico con una performance da brividi, tra le migliori della serata (ma anche Tom fa la sua figura). Il secondo dischetto inizia con un altro trio formato dalla Crow, Blacc e Peter Frampton (la cui zazzera degli anni settanta è ormai un ricordo), alle prese con un’intensa e coinvolgente rilettura del classico stagionale Happy Christmas (War Is Over), perfettamente in tema dato che il concerto si teneva a Dicembre.

Torna anche Fogerty e questa volta non delude, rilasciando una interpretazione grintosa e piena di anima della nota Give Peace A Chance, mentre ho tremato quando ho visto che Mother, forse la canzone più drammatica di tutto il songbook lennoniano, era stata affidata al gruppo hip-hop The Roots: l’introduzione in puro stile rap non faceva presagire bene, ma fortunatamente dopo appena un minuto è iniziata la canzone vera e propria ed i nostri se la sono cavata più che dignitosamente. Eric Church non manca quasi mai in questi tributi, e la sua Mind Games ne esce abbastanza bene (più per la bellezza del brano stesso che per la bravura di Eric); Aloe Blacc torna per la terza volta con una Steel And Glass ricca di pathos (e ripeto, che voce), mentre Frampton affronta con classe la deliziosa Norwegian Wood in veste acustica. E’ la volta di due Outlaws originali, Willie Nelson ed ancora Kristofferson, insieme ad uno di nuova generazione, Chris Stapleton, con una You’ve Got To Hide Your Love Away davvero intensa, altro magic moment dello show (Chris è la voce solista, mentre Willie e Kris si limitano ai controcanti); Power To The People non è mai stato tra i miei pezzi preferiti di Lennon, e Tom Morello la tira un po’ troppo per le lunghe, anche se come chitarrista bisogna lasciarlo stare. Willie Nelson aveva rifatto Yesterday in maniera straordinaria nel bellissimo The Art Of McCartney, e in quella serata non poteva che toccargli Imagine, eseguita anch’essa con un feeling da pelle d’oca, rilettura tutta giocata su piano, armonica, Trigger, sezione ritmica e la voce incredibile del texano, in grado davvero di far sua qualsiasi melodia. Gran finale con la prevedibile All You Need Is Love, tutti insieme sul palco (sale anche Yoko Ono) per una versione corale decisamente toccante.

Un buon tributo quindi, anche se, ripeto, uno come John Lennon avrebbe come minimo meritato la presenza dei suoi ex compagni di gioventù.

Marco Verdi

Anche Lui Festeggia (Più O Meno) 50 Anni Di Carriera. Jeff Beck – Live At The Hollywood Bowl

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Jeff Beck  – Live At The Hollywood Bowl – Eagle Vision/Universal 2CD/DVD – Blu-ray

Lo avevamo lasciato poco più di un anno fa, alle prese con un album, Loud Hailer, che al di là delle solite quasi preternaturali doti chitarristiche di Jeff Beck, che con la chitarra fa ancora cose mirabolanti, salvo poche eccezioni, non era un disco proprio memorabile http://discoclub.myblog.it/2016/07/15/jeff-beck-loud-hailer-le-chitarre-bene-il-resto-po-meno/ . Già in quella occasione avevo annunciato l’allora imminente concerto al Hollywood Bowl di Los Angeles per festeggiare i 50 anni di carriera, esprimendo le mie perplessità (che ribadisco) su come vengono conteggiati questi anniversari: se partiamo dai Tridents, il primo gruppo di Beck, risaliamo al 1963, se viceversa il conteggio parte dagli Yardbirds, comunque  al 1965. Ma si sa che questi dettagli sono trascurabili per le case discografiche e spesso anche per gli artisti: comunque il concerto c’è stato, al 10 agosto del 2016, è stato registrato e filmato, ed ora esce in formato doppio CD con DVD o Blu-ray, ed è pure molto bello. Il nostro amico dal capello corvino “naturale” non è nuovo ai dischi (e ai DVD) dal vivo, se non ho fatto male i conti negli ultimi 10 anni, ne sono usciti almeno 7, tra quelli regolari e i bootleg ufficiali, quasi sempre molto buoni, con delle punte di eccellenza assoluta in quello registrato al Ronnie Scott’s di Londra.

La formazione è la stessa dell’ultimo disco di studio, con Rhonda Smith al basso (un’altra di quelle formidabili strumentiste che ogni tanto Jeff scopre), Jonathan Joseph alla batteria, nonché Carmen Vandenberg alla chitarra ritmica e Rosie Oddie alla voce (entrambe della band Bones, una “scoperta” devo dire meno interessante) che apre il concerto, armata di megafono e in tuta mimetica, con The Revolution Will Be Televised, in uno dei pochi brani scarsi del concerto stesso, che per il resto è fantastico. Come la sezione dedicata agli Yardbirds, che parte con il riff celeberrimo “east meets west” di Over Under Sideways Down, dove alla voce solista c’è Jimmy Hall dei Wet Willie, che rimane anche per le successive Heart Full Of Soul e For Your Love, un trio di brani che hanno fatto la storia del primo British Rock, quello che miscelava beat e le prime avvisaglie del “rock” prossimo ad arrivare, e di cui Beck è sicuramente uno dei padri putativi con i due dischi del Jeff Beck Group (con Rod Stewart alla voce, e prima dell’arrivo dei Led Zeppelin dell’amico/nemico Jimmy Page). Nel concerto c’è un altro dei pezzi più celebri di Beck, quel Jeff’s Bolero (scritta proprio da Page) che introduce questa passione per i brani strumentali che rimarrà una costante nella carriera del chitarrista inglese, grande versione per inciso, con Beck che inizia a lavorare anche con il bottleneck, per creare i suoi suoni “impossibili”. A questo punto Jeff Beck ricorda al pubblico che arrivò in California la prima volta nel 1965, ma come turista, mentre oggi è uno dei più rispettati artisti del globo: il rock classico irrompe con il medley stellare Rice Pudding/Morning Dew, ancora con Jimmy Hall alla voce solista (grande cantante) e poi si sublima in Freeway Jam, uno dei suoi pezzi più celebri, con il nostro amico che continua ad estrarre mirabilie dalla sua Fender bianca, mentre la sezione ritmica pompa di brutto, e Jan Hammer che si è aggiunto al synth inizia a gareggiare con Beck per vedere chi realizza le note più bizzarre con il proprio strumento.

E non siamo ancora a mezz’ora dall’inizio: Hammer rimane per tutta la sezione jazz-rock del concerto, tutti brani firmati dal tastierista, meno una splendida versione di Cause We’ve Ended As Lovers, la struggente ballata di Stevie Wonder che ai tempi Jeff dedicò a Roy Buchanan. Big Block, da Guitar Shop, chiude il primo CD, mentre nel video, senza soluzione di continuità, arriva Beth Hart per la “consueta”, ma sempre magnifica, versione di I’d Rather Go Blind, uno dei must del concerto, con i due che si stimolano a dare il meglio, in questa immortale canzone, da sempre legata a Etta James, e il pubblico va in visibilio, e per Let Me Love You arriva anche Buddy Guy, per una lotta tra titani della chitarra a colpi di blues. Live In the Dark e Scared For Children, le due canzoni con Rosie Oddie , tratte dall’ultimo CD, non sono malvagie, ma impallidiscono rispetto al resto. La parte finale, veramente scintillante, è un continuo crescendo, prima Rough Boys con Billy Gibbons degli ZZ Top, per l’ultimo duetto tra leggende della chitarra, poi arriva Steven Tyler  per un altro tuffo nel songbook degli Yardbirds, con una potentissima Train Kept A-Rollin’ (che facevano anche gli Aerosmith) e non poteva mancare Shapes Of Things. Non manca neppure la splendida e rivisitata rilettura strumentale di A Day In The Life dei Beatles, meritata vincitrice di un Grammy, mentre per fortuna ci dispensa da Nessun Dorma. Last but not least, finale spettacolare con tutto il cast sul palco per una corale Purple Rain, cantata splendidamente da Beth Hart, in omaggio dell’allora scomparso da poco Prince. Gran Concerto!

Bruno Conti

*NDB. Per motivi che mi sono ignoti (anche a me che l’ho scritta) nella recensione di questo Live, uscita sul Buscadero, nella parte dell’intestazione il disco è stato definito Live At The Hollywood Ball che, a prescindere dal fatto che si pronuncia all’incirca allo stesso modo di Bowl, comunque non esiste. Approfitto dell’occasione per scusarmi con i lettori, visto che quando ho cercato di correggere l’errore ormai la rivista era già in stampa, e quindi ho ripristinato l’esatta grafia per l’occasione e per farmi perdonare ho inserito il video che vedete qui sopra, un altro concerto di Jeff Beck che nel frattempo continua ad imperversare imperterrito dal vivo e speriamo continui a lungo a farlo.

Steven Tyler – We’re All Somebody From Somewhere. Solo Una Pausa “Country” O La Fine Degli Aerosmith?

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Steven Tyler – We’re All Somebody From Somewhere – Dot Records/Universal

Rispondendo al quesito che pongo nel titolo del Post, si potrebbe rispondere entrambi. Nel senso che Steven Tyler, in contemporanea con l’uscita dell’album, ha anche annunciato che nel 2017 partirà quello che sarà il Farewell Tour degli Aerosmith, aggiungendo poi che però potrebbe anche durare per sempre. E allo stesso tempo questo We’re All Somebody From Somewhere, il disco di esordio di Tyler come artista solista alla rispettabile età di 68 anni, viene presentato come un disco “country”. Il virgolettato l’ho aggiunto io, perché in effetti, pur avendone alcuni elementi, pochi per la verità, il disco di country non ha molto: ok, è stato registrato a Nashville, che però ultimamente è la Music City per eccellenza, la città dell’industria discografica in generale, si sentono pedal steel, un banjo, mandolini vari,  il violino e a tratti delle melodie vagamente country. Ma è quello mainstream di oggi, che si potrebbe confondere con qualsiasi altro tipo di musica: è vero che tra i quattro produttori coinvolti c’è anche T-Bone Burnett, però gli altri sono Marti Frederiksen, vecchio collaboratore di Tyler, Dann Huff, ai tempi leader dei Giant, che in effetti ha prodotto vari album di country contemporaneo e commerciale, e Jaren Johnston, dei Cadillac Three, che pure lui qualche frequentazione con il genere l’ha avuta, pur se i nomi sono Keith Urban, Dierks Bentley, Tim McGraw e altri, soprattutto come autore. Basta intendersi su cosa si intende per country? E’ come dire che Kid Rock fa rock perché nel suo soprannome appare il termine. E a pensarci bene ci sono delle analogie tra il “rapper rock” e il disco di Tyler, We’re All Somebody From Somewhere potrebbe sembrare un album di Kid Rock, tra i migliori magari, ma siamo lì: ci sono elementi southern, blues, country, ma anche pop bieco, sonorità becere e tutto il campionario del peggio del rock americano. Quello del cantante degli Aerosmith ha i suoi momenti da dimenticare, ma anche alcune canzoni di buone qualità. Diciamo che nell’insieme arriva forse, a fatica, alla sufficienza. Vogliano aggiungere che a parte per i fans incalliti non è un album indispensabile? L’abbiamo detto! Passiamo a vedere le canzoni, quindici, forse troppe, a caso, come vengono.

La partenza è promettente, il brano posto in apertura ha chiaramente l’imprinting del sound di T-Bone Burnett (le altre si fatica a distinguerle l’una dall’altra), My Own Worst Enemy è un bel pezzo, partenza lenta con arpeggi di chitarre acustiche, una fisarmonica, leggeri tocchi di tastiere, la ritmica misurata, lo stesso Tyler che canta con passione e buona intonazione, senza troppe esagerazioni rock, una classica canzone di stampo roots e di buona fattura, dalla melodia avvolgente, insomma un bel pezzo. Poi nel finale, una sterzata rock, con l’ingresso della batteria e di una chitarra elettrica tirata ma ben inserita nel contesto. Fosse tutto così l’album si sarebbe gridato al miracolo o quasi, perché non è che gli ultimi album degli Aerosmith, a ben vedere, fossero dei capolavori. The Good, The Bad, The Ugly And Me, bel titolo, anche se già sentito, è un pezzo rock, che spezza il dominio delle ballate che costellano l’album, un brano che ricorda il riff di Gimme Shelter degli amati Stones e poi si avvicina al classico sound Aerosmith, comunque ancora un buon brano, con la slide a farsi largo su una  solida traccia di impianto classic rock. E anche qui ci siamo: poi partono i mandolini all’inizio di Red, White And You e uno dice, però! Ma il pezzo si trasforma nella classica power ballad pseudo country che impera nella Nashville attuale, e non è neppure tra le peggiori del disco, la strumentazione e il sound non sarebbero neppure male, ma l’esecuzione e l’arrangiamento, con coretti beceri, lo sono meno. Sweet Louisiana, con mandolino, pedal steel e di nuovo fisa in evidenza, pare ancora un’idea di Burnett, ma il cantato un po’ troppo ruffiano a tratti di Tyler (ma l’ha sempre fatto, però in un ambito rock-blues faceva un’altro effetto), non malvagia comunque. What Am I Doing Right? ancora firmata dai fratelli Warren è un’altra discreta ballata di stampo prettamente acustico, niente da stracciarsi le vesti, abbastanza ripetitiva alla fine.

E fin qui potrebbe andare, ma vediamo le due cover poste in chiusura: Janie’s Got Gun, con Tyler che riprende un vecchio pezzo degli Aerosmith, tra violini, archi, chitarre e percussioni, in una melodrammatica versione adatta al testo trattato, ma fin troppo carica negli arrangiamenti, e anche qui col country non vedo il nesso. Piece Of My Heart era il pezzo più noto dei Big Brother And The Holding Co. di Janis Joplin, una bellissima canzone che viene riproposta in modo abbastanza simile all’originale, con un violino in evidenza a duettare con le chitarre, non brutta, ma Janis era un’altra cosa https://www.youtube.com/watch?v=wJxJL_BPM6A . Anche la title track è più o meno accettabile, scritta da Jaren Johnston con Steven, ha di nuovo quel suono pseudo roots, con mandolini, violino, in questo caso anche fiati, che si intrecciano con chitarre ruggenti e ritmiche sparate. Hold On (Won’t Let Go) sembra un pezzo dell’ultimo Jeff Beck, voce distorta, batteria sparatissima, su una base blues-rock esasperata, con tanto di assolo di armonica di Tyler, alla fine fin troppo “moderna”. It Ain’t Easy è un’altra ballata simil valzerone a base di mandolini, violini e pedal steel, evidentemente la sua idea di country, poi rovinata dai soliti arrangiamenti un po’ tamarri tipici del Nashville sound attuale.

Anche Love Is Your Name parte bene, ma in un battibaleno diventa un pezzo country-pop banale e francamente irritante, soprattutto per gli arrangiamenti fatti con lo stampino. I Make Your Sunshine, è un’altra di quelle canzoncine a base di mandolino o dobro, nel caso, che oggi imperano nelle classifiche pop, inutile insomma. Che dire di Gypsy Girl, con tanto di finta statica da vinile d’epoca, ennesima ballata soporifera. Mentre Somebody New, pur tra i soliti coretti irritanti, almeno ha un bel sound e una melodia piacevole e incalzante, vagamente di stampo californiano anni ’70, tra citazioni di Beatles e Stones, purtroppo solo nel testo, non male nell’insieme. Manca Only Heaven, altra power ballad chitarristica di stampo Aerosmith, sempre con pedal steel aggiunta, però sono gli Aerosmith di fine anni ’80, inizio anni ’90, non quelli del periodo di Dream On, per intenderci. Insomma alla fine sembra quasi di ascoltare uno dei dischi solisti di Mick Jagger, qualche canzone buona, altre discrete, ma anche molta “fuffa”. Country? Non pervenuto, anche se in quella classifica di settore ha debuttato al n°1. Complimenti a Tyler per baffetti e pizzetto, molto Pirata dei Caraibi!

Bruno Conti

In Attesa Del Resto! Smokey Robinson – Smokey & Friends

smokey robinson & friends

Smokey Robinson – Smokey & Friends – Verve 19-08-2014

In questi giorni mi sono messo con impegno a preparare la lista delle uscite più interessanti di agosto e nel vagliare titoli e artisti (molti più di quanto pensavo, si superano i venti titoli di parecchio e li troverete nei prossimi giorni, divisi credo in tre parti, mentre qualcuno avrà la sua recensione a parte), mi sono imbattuto in questo nuovo album di Smokey Robinson, 74 primavere quest’anno, ma sempre pimpante. Anche se è altrettanto vero che, per usare un eufemismo, il nostro non realizza un disco degno della sua fama, o meglio, lo fa solo in parte. Questa volta, per andare sul sicuro, l’idea è quella di riproporre, nella formula del duetto, alcuni dei classici della sua ultracinquantennale carriera di cantante e autore. Ottima idea: ma poi scegli come produttore Randy Jackson, attuale responsabile di American Idol, il talent musicale che va per la maggiore negli Stati Uniti attualmente, e poi, credo con un piccolo “aiutino” della sua casa discografica, i musicisti con cui dovrai realizzare le nuove versioni di queste bellissime canzoni. In effetti, in un primo momento, avevo pensato di intitolare questo Post, “quanto talento sprecato”, ma poi per rispetto verso Robinson e alcuni dei musicisti impiegati ho lasciato perdere, anche se in parte lo penso ancora.

smokey and elton

Per essere onesti è meno peggio di quello che pensavo, il suono ogni tanto vira verso quel nu soul che va di moda al giorno d’oggi ma alcune canzoni funzionano. A questo punto immagino vogliate sapere chi c’è, e cosa canta. Ecco la lista dei brani e relativi interpreti:

01. “The Tracks Of My Tears,” feat. Elton John

https://www.youtube.com/watch?v=5A0lK8IdiRA
02. “You Really Got A Hold On Me,” feat. Steven Tyler

https://www.youtube.com/watch?v=YmbuOsqNFrs
03. “My Girl,” feat. Miguel, Aloe Blacc, JC Chasez
04. “Cruisin’,” feat. Jessie J
05. “Quiet Storm,” feat. John Legend

https://www.youtube.com/watch?v=9glRdQwQg7g
06. “The Way You Do (The Things You Do),” feat. CeeLo Green
07. “Being With You,” feat. Mary J. Blige

https://www.youtube.com/watch?v=ffFOr-uDBhQ
08. “Ain’t That Peculiar,” feat. James Taylor

https://www.youtube.com/watch?v=LGfPRaHklBA
09. “The Tears Of A Clown,” feat. Sheryl Crow
10. “Ooh Baby Baby,” feat. Ledisi
11. “Get Ready,” feat. Gary Barlow

Per cui un bel triplo uhm è d’uopo, anche se alcuni brani non sono male, neppure come suono, e poi se Bob Dylan lo ha definito “uno dei grandi poeti dei nostri tempi” un motivo ci sarà pure stato. La data di uscita del 19 agosto è riferita al mercato americano, in Europa uscirà a settembre.

Proseguo con il resto del lavoro, alla prossima.

Bruno Conti

Capperi Che Band! The Dirty Guv’nahs – Somewhere Beneath These Southern Skies

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The Dirty Guv’NahsSomewhere Beneath These Southern Skies – Blue Rose/Dualtone CD

Devo confessare che non avevo mai sentito parlare dei Dirty Guv’Nahs, sestetto proveniente da Knoxville, Tennessee, e quando ho ascoltato per la prima volta questo loro album sono saltato sulla poltrona. Il fatto che dal 2008 vengano nominati ogni anno “la migliore band di Knoxville” può voler dire tutto e niente (Knoxville non è né Los Angeles né New York), ma vi assicuro che questi Guvs (in America li chiamano così per far prima) sono davvero bravi.

I due leader e principali autori dei brani sono il cantante James Trimble, una forza della natura, ed il chitarrista Michael Jenkins, poi ci sono i fratelli Aaron e Justin Hoskins alla sezione ritmica, Cozmo Holloway alla seconda chitarra e l’ottimo Chris Doody alle tastiere. I sei ragazzi sono una band tosta, tostissima, suonano un rock chitarristico molto classico, con spiccate influenze sudiste e massicce dosi di soul: il riferimento più vicino sono i Black Crowes, ma anche Rolling Stones e Faces (che guarda caso sono anche i principali ispiratori del gruppo dei fratelli Robinson), un tipo di musica che ormai non suona quasi più nessuno ed anche per questo risulta gradita.

Il sound è chitarristico, ma pianoforte ed organo sono spesso protagonisti, ed i fratelli Hoskins picchiano duro con basso e batteria: il tutto condito dalla notevole voce di Trimble, un timbro simile a quello di Steven Tyler, ma meno sguaiato. Somewhere Beneath These Southern Skies (uscito già da un annetto circa in America, ora in Europa per la Blue Rose) è il loro terzo album, ma il primo con una distribuzione decente (i primi due erano indipendenti) e sicuramente quello che li farà conoscere ad un pubblico più vasto: in America sono già una piccola realtà, avendo di recente aperto i concerti della Zac Brown Band e di Grace Potter & The Nocturnals.

Quattordici brani, cinquanta minuti di musica che oscilla tra il buono e l’ottimo, con solo un paio di episodi leggermente meno riusciti: produce il tutto Ross Copperman (molto noto a Nashville come songwriter), una produzione asciutta, classica ed essenziale, senza fronzoli. L’album inizia ottimamente con la splendida Can You Feel It, rock song di stampo classico, chitarre possenti, un bel refrain e la vocalità potente di Trimble: un avvio degno di una band di veterani.

Anche Don’t Give Up On Me offre un sound forte e vibrante, una ballata rock pura ed incontaminata, come oggi purtroppo in pochi sanno (o vogliono) fare. Good Look Charm ha un attacco (e pure il seguito) figlio degli Stones, con i fiati che danno un sapore più soul e James che canta benissimo, la fluida Temptation è southern rock deluxe, con chitarre e piano protagonisti, mentre Honey You è puro rock’n’roll, coinvolgente e contagioso, perfetta da suonare dal vivo. Un inizio al fulmicotone, e non siamo neppure a metà disco.

Live Forever, che non è quella di Billy Joe Shaver, inizia come una ballata (il suono è splendido), poi si elettrifica e diventa una rock song fatta e finita; 3000 Miles è più distesa e rilassata, anche se le chitarre restano in primo piano. E’ difficile trovare un momento di stanca: la bellissima e soulful This Is My Heart ricorda molto i Corvi Neri, ed è una goduria per le orecchie, Fairlane ha una melodia diretta e gradevole, mentre Lead Kindly Light è forse un po’ troppo prodotta, ma è un peccato veniale.

Dear Alice, guidata dal piano, sembra uscita da un vinile degli anni settanta, Child è dura e spigolosa, forse la meno brillante, ma nel finale i Guvs piazzano un uno-due da KO con la deliziosa soul ballad Goodnight Chicago e la sudista al 100% One Dance Left, guidata da una bella slide.

Saranno anche sporchi questi Governatori, ma come suonano!

Marco Verdi