Ex Peccatore Convertito Al Grande Gospel Soul! Mike Farris – Shine For All The People

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Mike Farris – Shine For All The People – Compass Records

Mike Farris, nella prima parte della sua carriera (e vita), è stata l’epitome perfetta del motto “Sesso, droga e rock&roll” (e anche un po’ di alcol). Proveniente da una famiglia dove i genitori hanno divorziato quando Mike aveva 11 anni, Farris ha iniziato a fare uso di droghe e alcol sin da giovanissimo, già prima dei 21 anni ha rischiato di morire per una overdose. Della quota sesso non vi è contezza, ma si dà per presunta, e del R&R vi garantisco io e la sua carriera con gli Screamin’ Cheetah Wheelies, grande band di southern-boogie-rock  https://www.youtube.com/watch?v=5bomaGmvY4M da Nashville,Tennessee, autrice di una manciata di album a cavallo tra gli anni ’90 e gli inizi dei Noughties, un paio su Capricorn, degni eredi di quella sequenza di gruppi che dagli Allman e Lynyrd Skynyrd arriva fino ai Black Crowes https://www.youtube.com/watch?v=EFvGJdB21Lw : ma oggi non parliamo di loro, però se vi capita tra le mani qualche disco degli SCW non lasciatevelo sfuggire.

https://www.youtube.com/watch?v=4GfzrbmJe_8 .

 

Farris era già un gran cantante rock, ma dopo la conversione alla musica gospel-soul-errebì, le sue doti vocali si sono vieppiù affinate inserendolo in quella ristretta cerchia di vocalist che sono bianchi di pelle ma “neri” nell’anima (inteso nel miglior modo possibile) https://www.youtube.com/watch?v=AQGnCnUpNE8 . Un modo di cantare e una voce che hanno sollecitato paragoni con i grandi della musica soul, da Al Green a Wilson Pickett, ma aggiungerei io, anche Sam Cooke e a tratti, tra i “neri bianchi”, Stevie Winwood, quindi di rimando anche Ray Charles. I due CD che vedete effigiati qui sopra sono forse i più significativi della sua discografia (ma anche il primo del 2002 e l’EP con ospiti del 2010 sono da avere): senza dimenticare che molti suoi colleghi ne hanno cantato le preci in modo inequivoco, da Buddy Miller a Marty Stuart, Rodney Crowell e Patty Griffin, tutti si sono dichiarati entusiasti di lui, oltre a gran parte della critica musicale americana, e “last but non least”, Mary Gauthier ha detto di lui “Out of the arms of defeat Mike Farris has done a victory lap…He takes people who are hurting, who are broken, who think they are alone and through just the sound of his voice he lets them know that they’re not…that’s magic.”, parole che non hanno bisogno di traduzione e rendono alla perfezione lo spirito della musica di questo grande artista. Farris, per ricambiare, ha inserito in questo Shine For All The People una versione stellare di Mercy Now, brano della stessa Gauthier che è già bellissimo di suo, ma in questa veste, attraverso un crescendo glorioso, è una perla senza prezzo in un album che è comunque di qualità assai elevata https://www.youtube.com/watch?v=Qt8wiGInALs .

 

Il nostro amico è un cantante gospel, un soul singer, uno shouter, un grande interprete ma anche valido autore, con una musica che fonde il meglio del soul della Stax, il gospel e lo spiritual più ruspanti degli Staple Singers, unendolo a elementi di blues e di rock, della musica di New Orleans e del funky più genuino di Sly & Family Stone, il tutto accompagnato da una pattuglia di ottimi musicisti, con organo Hammond B3, fiati, massicce dosi di cori femminili, chitarre e ritmiche spesso in frenetica eccitazione che fanno sì che sia impossibile non apprezzare questa musica, di per sè nulla di nuovo o innovativo, ma nello stesso tempo senza limiti temporali nella sua ineluttabile piacevolezza https://www.youtube.com/watch?v=sTUD8TX2__I . Sono dieci brani, uno più bello dell’altro (quasi tutti già da tempo nel repertorio live di Farris), partendo dalla cover di un vecchio brano blues di Blind Willie McTell, River Jordan che diventa una sarabanda di colori, con i fiati che evocano un intreccio tra la musica cubana e quella di St. Louis, una delle culle del jazz, cantata da Farris con una voce che a chi scrive, in questo brano, ricorda moltissimo un incrocio tra Al Green e il primo Stevie Winwood, quello dello Spencer Davis Group per intenderci, innamorato del soul e di Ray Charles, tra chitarre elettriche risonanti, massicce dosi di fiati, coriste e coristi non infoiati (perché non si addice al genere) ma infervorati a cantare le lodi del signore, poi parte un assolo di tromba da sballo, seguito da un clarinetto discreto e da un organo insinuante e si gode ancora di più. Jonah And The Whale è un altro vecchio classico blues di JB Lenoir https://www.youtube.com/watch?v=s-NskUFg-2Y , ma qui sulle ali di fantastico call and response tra Farris e le McCrary Sisters sembra una traccia perduta di qualche vecchio vinile di Aretha Franklin, tutto ritmo e dondolio di strumenti.

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Lo shout di Sparrow parte come uno dei vecchi 45 giri di Wilson Pickett ma poi diventa progressivamente uno spiritual, un gospel, un brano di dixieland, tra fiati e “pianini”e le solite coriste incredibili. Sulle note solitarie di un organo, Paul Brown, quello di Al Green https://www.youtube.com/watch?v=BN-F86Ha9iY, e di una chitarra, parte poi quella meraviglia che si chiama Mercy Now, con Farris che sembra il primo Sam Cooke (periodo Soul Stirrers) https://www.youtube.com/watch?v=7vEB93i0K3s  ma anche il Marvin Gaye più riflessivo e meno carnale, mentre entrano di volta in volta, archi e fiati, le voci di supporto, e il ritmo della canzone prende un crescendo inarrestabile, diventando una delizia senza tempo della buona musica https://www.youtube.com/watch?v=kPOC-RC3j3Q (ve ne ho messo tre diverse versioni in video) . Difficile fare meglio, però anche il resto delle canzoni non delude le nostre attese. Real Fine Day, scritta da Farris, non ha nulla da invidiare agli altri brani, più uptempo e vicino al soul, con tocchi eccellenti della chitarra di Kenny Vaughn, schioccare di dita a tenere il tempo, la solita patina gospel che si dipana in tutti i brani, la voce è sempre eccellente e trascinante. Così pure in The Lord Will Make A Way Somehow, con un piano saltellante che supporta il solito organo e dà al brano una atmosfera sonora che sta a cavallo tra Winwood, Ray Charles e lo Stevie Wonder migliore dei primi 70’s, con intermezzo ritmico-vocale-percussionistico e Farris che si lancia in qualche ardito falsetto, incitato dal suo eccellente ensemble di strumentisti e cantanti che lo attizza alla grande https://www.youtube.com/watch?v=pVwed2n1Pmg .

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Ottimo anche l’altro originale firmato da Farris, Power Of Love (che non è quella di Huey Lewis, nè quella di Celine Dion, che peraltro avevano un The davanti) https://www.youtube.com/watch?v=sCezQBmbkwo : questo brano non ha articoli determinativi, ma un attacco blues chitarra-organo, una andatura alla Creedence swampy in trasferta a New Orleans, poi arricchita dalla solita orgia (casta) di fiati e voci di supporto, una sorta di Heard It Through The Grapevine miscelata con Susie Q, e il mélange funziona, specie quando il brano ha qualche entratura alla Sam & Dave, specie quando Mike lascia andare la voce. Something Keep On Telling Me del reverendo C.J. Johnson nasce come spiritual/gospel. ma subisce pure lui il trattamento soul à la Farris, tutto gioia, ritmo, fiati e voci che si inseguono gioiosamente, in questo caso anche la brava Brigitte Demeyer (di cui potete leggere qui http://discoclub.myblog.it/2014/09/13/sulla-strada-americana-del-soulful-rock-dautore-brigitte-demeyer-savannah-road/) a supportare Farris. Pochi momenti malinconici nel disco, per cui anche How It Feels To Be Free, ha quell’aria errebi di stampo Stax/Hi Records, ritmata e trascinante, non puoi astenerti dal muovere il piedino e dondolarti al ritmo della musica. Un altro pezzo forte del disco (ma ce ne sono di deboli?) è la conclusiva This Little Light, intro solo contrabbasso-percussioni, nuovamente quella voce alla Winwood, poi entrano gli altri, piano, ritmica, organo, voci e la festa ricomincia, tutti insieme, “Let it shine” ad libitum fino a stordirvi, con piano, organo e chitarra elettrica a menare le danze e gran finale in crescendo. Amen!

Bruno Conti

Purtroppo No… Robbie Robertson – How To Become Clairvoyant

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Robbie Robertson – How To Become Clairvoyant – Fontana/Universal – 2CD Deluxe with 6 bonus tracks

Nel titolo del Post mi rispondo e gli rispondo: nell’anticipazione dell’album di qualche mese fa su questo Blog concludevo con “speriamo bene” e in parte è più no che sì, così pure come sono costretto a dirgli che no, il nostro amico Robbie Robertson non è riuscito a diventare “Chiaroveggente”, come da titolo dell’album.

Espletate queste formalità aggiungo che l’album non è comunque per niente brutto anche se effettivamente non è straordinario e non c’entra niente quella leggenda metropolitana del “troppo lungo”, se avesse qualche brano in meno sarebbe perfetto! Ma che cacchio vuol dire, se un dischetto, un CD può durare fino ad 80 minuti e tu hai scritto parecchio materiale non ci vedo niente di male a sfruttare la durata del supporto, le canzoni belle rimangono belle anche se togli quelle cosiddette brutte e le altre non deturpano la qualità delle migliori. Vogliamo considerarlo un regalo? Ho scritto dieci canzoni nuove molto belle, poi avevo anche queste altre? Non ve le faccio pagare di più, al limite se non vi piacciono usate il tasto skip e le saltate! Volete considerarlo un album “bello” con in omaggio un CD bonus di brani meno belli? Comunque li consideriate secondo me il fattore della durata non c’entra un tubazzo con la qualità di un disco a meno che non sia un doppio, un triplo, un quadruplo e te lo fanno pagare una barca di soldi, allora ti girano le balle. Per i vecchi dischi in vinile era diverso, era difficile superare anche per motivi tecnici e qualitativi i 40 minuti quindi i 10 canonici brani erano spesso, ma non sempre, la regola e se “sprecavi” tempo e spazio il risultato finale ne risentiva.  Fine della divagazione.

Comunque, se proprio vogliamo, se ci fosse qualche canzone in meno sarebbe meglio, ma nel senso che se alcune fossero più belle saremmo tutti più contenti. Qui lo dico e qui lo nego, ma Robbie Robertson ha fatto quattro album da solista e se li metti insieme tutti fai fatica a farne “un” album buono. Anche quelli con gli indiani nativi non mi hanno mai fatto impazzire nonostante la moda del momento e gli altri anche con tutti gli ospiti schierati non erano questi grandi capolavori. E questo lo dice uno che considera Robbie Robertson, leader della Band, chitarrista e compositore, uno dei più grandi autori di canzoni della storia della musica rock americana: uno che ha scritto The Weight, The Night They Drove Old Dixie Down, Up On Cripple Creek, To Kingdom Come, Rag mama Rag, The Unfaithful Servant e decine di altre è lì alla pari con Bob Dylan come narratore della grande tradizione musicale americana, uno scrittore di canzoni dal talento immenso capace in pochi minuti di raccontare delle storie che ad altri avrebbero richiesto libri interi. Ma, c’è un ma: Robertson ha avuto la fortuna di incontrare musicisti come Levon Helm, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson ovvero la Band che sono stati capaci interpretare questi brani in un modo sublime. Perchè, come avrete notato, nella lista dei suoi mestieri” non c’è la voce cantante!

Anche il suo grande amico Eric Clapton all’inizio non era un cantante ma con applicazione e studio lo è diventato mentre la voce di Robertson rimane questo strumento indefinito, adeguato nei momenti migliori ma spesso insipido. Certo la chitarra e la composizione hanno coperto questo difetto per anni ma ora che si incaponisce a voler cantare nei suoi album da solista non sempre i risultati sono all’altezza. Certo che quattro album in più di trent’anni non costituiscono questo grande sforzo e più di tredici anni dall’ultimo Contact From The Underworld Of redboy (bruttarello, vogliamo dirlo). L’attesa era notevole ma già alcuni indizi non mi avevano proprio entusiasmato: la scelta del co-produttore, tale Marius De Vries che tra i suoi clienti può vantare Sugarcubes, Cathy Dennis, Soup dragons, Melanie C, Darren Hayes, Sugababes, Madonna e recentemente Pet Shop Boys oltre ad un passato di tastierista con i Blow Monkeys, non sembra indicare uno spirito affine con Robbie Robertson e in alcuni brani questo “modernismo” fa un po’ a pugni con la musica del canadese.

Tra i fattori positivi c’è la chitarra (non sempre) ma comunque: tanta e tanti chitarristi, oltre a Robertson stesso, Eric Clapton in sette brani, Tom Morello e Robert Randolph, non sempre al meglio delle loro capacità ma che aggiungono tessiture sonore inconsuete ai brani. Pino Palladino al basso e Ian Thomas alla batteria sono una sezione ritmica di rispetto anche se spesso sono “coperti” dalle sonorità sintetiche di De Vries. Moltissimi vocalist aggiunti tra cui spiccano le voci di Angela McCluskey e Rocco De Luca. E, purtroppo, anche tante tastiere elettroniche a cura degli stessi Robertson e De Vries, con l’organo di Stevie Winwood che di tanto di tanto dona un tocco di umanità alle canzoni.

Per finire, le canzoni: parliamo di quelle belle o di tutte? Facciamo un misto: l’iniziale Straight Down The Line con le particolari sonorità della pedal steel di Robert Randolph e della solista di Morello è un inizio più che accettabile.

La successiva When The Night Was Young è proprio bella, un classico brano di Robbie Robertson che la canta anche bene favorito dal controcanto della McCluskey, d’altronde la classe non è acqua. He Don’t Live Here Anymore non è fantastica con quella batteria dal suono filtrato e ritmi elettronici ma viene riabilitata in parte, dal testo e dagli assoli delle chitarre di Clapton e Robertson (ma dal vivo da Letterman con i Dawes è decisamente bella).

The Right Mistake, vagamente modern soul non è male, una trama melodica ancora abbellita dagli interventi vocali dei coristi e dall’organo di Winwood, può andare. This Is Where I Get Off è una delle migliori, forse perché racconta il suo glorioso passato con quella Band, lenta e avvolgente cantata da Danko, Manuel o Levon Helm sarebbe stata fantastica ma anche nella versione Robertson rimane una bella canzone.

Anche la successiva Fear Of Falling è una bella canzone, vagamente bluesata, cantata a due voci da Eric Clapton, che apre e Robbie Robertson che lo segue con diligenza, non male l’organo di Winwood che scalda i cuori. Buona anche She’s Not Mine che conclude la trilogia delle partecipazioni di Winwood che non a caso coincide con alcuni dei brani migliori del disco.

Madame X è lo strumentale che vede la partecipazione alle “tessiture” di Trent Reznor ma sarà la chitarra acustica di Clapton, saranno i ritmi tranquilli ma mi ha ricordato molto i brani di Santo & Johnny o del Guardiano del faro. Axman con le chitarre di Morello e Robertson a duellare mi pare bruttarella, ciofega si può dire? Torna l’acustica di Clapton per Won’t Be Back ma non è che lo cose migliorino poi molto nonostante la presenza dei fiati, un discreto lentone.

La title-track How To Become Clairvoyant ancora con Robert Randolph dovrebbe essere il brano trainante, il singolo ed in effetti è piacevole ed orecchiabile senza essere “streordinaria”.

Conclude lo strumentale Tango For Django, un omaggio al grande chitarrista belga, con fisarmonica, violino e una sezione archi, piacevole ma niente di memorabile come gran parte dell’album che ha le sue “luci” ma anche molte ombre.

Le sei bonus tracks sono cinque versioni demo di brani già presenti nel disco che quasi mi fanno rimpiangere la produzione di De Vries e un inedito Houdini che avrebbe fatto la sua bella figura nell’album, meglio di molti altri brani. Comunque ve lo fanno pagare come un singolo quindi vale le pena comunque di avere la versione doppia (e all’inizio solo quella troverete).

Fate Vobis, applico il mio infallibile sistema Ponzio Pilato e me ne lavo le mani, anche se il mio parere (appunto “Veltronamente anche se”) l’ho dato.

Bruno Conti

Provare Per Credere! Eric Clapton – “Clapton”

 

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Eric Clapton – “Clapton” – Reprise/Warner Music 28-09-2010

Detto fatto, eccomi qui, l’ho ascoltato un paio di volte e applicando il metodo San Tommaso dopo averlo provato devo dire che “credo”!

Non è il capolavoro assoluto che si poteva desumere da alcune anticipazioni ma in confronto a Back Home e Reptile non c’è gara. Clapton ha ormai superato quella fase degli anni ’80 in cui per poter rimanere sotto contratto con la Warner (e non rischiare di fare la fine dei colleghi Van Morrison e Joni Mitchell bruscamente messi alla porta) si era adattato allo “stile sonoro” impersonificato dall’amico Phil Collins e realizzando dischi come Behind The Sun e Journeyman si era ritagliato uno spazio nelle classifiche di quegli anni ma non nei cuori dei suoi ammiratori più fedeli.

Poi, negli anni 2000, libero dalle ansie da classifica ha deciso di dedicarsi a un recupero del suo passato: prima la reunion dei Cream, poi il tributo a Robert Johnson, i dischi di duetti con B.B.King e JJ Cale, prima la tournée e poi il disco e il Dvd con l’amico Stevie Winwood ritrovato in uno di quei Crossroads Festival dove ogni tre anni può indulgere in virtuosismi chitarristici con uno stuolo di amici suoi e dello strumento per antonomasia del blues, del rock e di qualsiasi altro genere vi venga mente,

Placati i suoi e nostri desideri di sentirlo suonare come Dio comanda, gli mancava un bel disco di quelli che si è soliti definire roots (ma le sue radici), tipo gli ultimi di Robert Plant per intenderci (anche se più roots di un disco di brani di Robert Johnson è dura). Allora non essendo T-Bone Burnett disponibile (scherzo, non so se l’abbia contattatto, non credo perchè ormai sta diventando come il prezzemolo, è ovunque, con ottimi risultati per l’amor di Dio, e comunque non credo che avesse il tempo materiale per farlo) ha deciso di fare in proprio.

Presentato come il primo disco che contiene materiale originale dai tempi di Back Home in effetti ha solo un brano nuovo firmato da Eric Clapton, Run back to Tour Side, curiosamente quello dove la chitarra viaggia di più, il più blues-rock del disco, quello che ricorda di più lo Slowhand degli anni ’70 con Doyle Bramhall che lo spalleggia alla seconda solista slide e il suo gruppo, con gli ottimi Jim Keltner alla batteria, Willie Weeks al basso e Walt Richmond alle tastiere gira a pieno regime con risultati eccellenti, non male anche i classici coretti di voci femminili.

Per il resto sono tutte cover con l’eccezione del brano firmato da Doyle Bramahll con Justin Stanley e la moglie Nikka Costa, Diamonds Made From The Rain, una bella ballata cantata in coppia con la sua ex Sheryl Crow il potenziale singolo, un brano lento nello stile tipico di Clapton che ci delizia anche con un paio di gustosi assoli (il suo marchio di fabbrica) mentre l’organo e una sezione di archi lo rendono molto raffinato, comunque una bella canzone che sfugge certe caramellosità del passato e il sound tamarro di alcuni dischi.

Dunque le cover: qui si spazia attraverso tutto lo scibile umano e anche oltre. Si va dallo shuffle dell’iniziale Travelin’ Alone dove Keltner si inventa uno strano ritmo strascicato e il buon Enrico trattiene la sua chitarra entro i limiti di un blues molto canonico senza concessioni al rock, watch?v=lODvwaqxiV4,  si passa poi a Rocking chair un classico firmato da Hoagy Carmichael molto jazzy dove si fa aiutare, in punta di plettro, da Derek Trucks e JJ Cale, e proprio di quest’ultimo ricorda lo stile pigro e indolente.

JJ Cale che è anche l’autore di Rivers Run Deep e che è inconfondibilmente sua, ma Clapton come sempre quando interpreta Cale ci aggiunge una maggiore energia e degli elementi di coloritura, in questo caso una sezione di archi della London Session Orchestra, un organo insinuante suonato da Richmond e la batteria più grintosa, oltre al suo timbro chitarristico più “grasso”. Arrangiamento delizioso. Judgement day non è quella di Robert Johnson, si tratta di un brano scritto da Snooky Pryor, un blues molto “classico” con il collega Kim Wilson all’armonica che aggiunge una patina di vissuto molto autentica confermata dall’arrangiamento doo-wop delle armonie vocali, un tocco di classe.

How Deep Is The Ocean è un altro brano che fa risalire la sua origine agli anni ’30 (Clapton aveva detto in alcune interviste che in questo disco voleva inserire tutti i suoi amori musicali giovanili, quindi oltre al blues la grande musica americana, non era un amante del pop nella sua gioventù londinese): il brano firmato da Irving Berlin, cantato con voce melliflua da Clapton si avvale di un altro arrangiamento raffinatissimo, ancora gli archi, il piano di Richmond e un assolo di chitarra elettrica che allora non veniva ancora usata, nel finale Wynton Marsalis aggiunge un assolo di tromba cristallino in puro stile Armstrong, la batteria spazzolata e il contrabbasso aggiungono autenticità al suono. Chi li avrebbe mai detto? Ma il buon Enrico l’aveva detto varie volte e nell’unplugged c’erano dei segnali in tal senso.

My Very Good Friend The Milkman è ancora più autentica, puro New Orleans style, ma quello delle origini, è stato un successo di Fats Waller e quindi doppia razione di pianisti, con Clapton deliziato che introduce da smaliziato crooner prima Walt Richmond e poi Allen Toussaint, con la sezione di ottoni formata da Wynton Marsalis e Trombone Shorty che si dividono amabilmente i compiti, direi perfetta.

Torna Kim Wilson per un altro omaggio ad uno dei grandi dell’armonica, Little Walter, Can’t Hold Out Much Longer è blues Claptoniano di quello quintessenziale che parte dagli Yardbirds e Mayall per arrivare ai giorni nostri passando per Muddy Waters ed il blues tutto.

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Clapton e Cale duettano ancora in un’altra piccola perla chiamata That’s No Way To Get Along scritta da un altro bluesman oscuro (per i non appassionati) Robert Wilkins: se agli altri viceversa risulta familiare, fans degli Stones in particolare, è perché sotto il nome di Prodigal Son faceva la sua bella figura su Beggars banquet, Doyle Bramhall II sale al proscenio con una bella serie di assoli alla slide mentre Clapton e Cale si “limitano” ad accompagnare. Nel finale scappano anche dei fiati in libertà.

Everything Will Be Alright segna la quarta ed ultima apparizione di JJ Cale, l’arrangiamento con una sezione di archi e fiati è molto corposo e vivacizza il solito stile laidback dell’autore, all’organo c’è Paul Carrack. Di Diamonds Made From Rain che è il singolo tratto dall’album abbiamo detto, comunque confermo, molto bella!

Visto che il primo è venuto bene Clapton ci propone un altro brano del 1935 di Fats Waller, When Somebody Thinks You’re Wonderful, qui l’effetto New Orleans è ancora più marcato, con Marsalis, Richmond e Toussaint che danno il meglio di sé in un brano swingante e delizioso.

Per Hard Times Blues un blues scritto da quell’oscuro bluesman di nome Lane Hardin di cui non esistono foto note, Clapton sfodera addirittura il mandolino che affianca alla sua chitarra e alla slide di Bramhall per un sentito omaggio al Blues dei tempi della Grande Depressione. Se la parola Blues ricorre più volte in questo paragrafo è del tutto voluto!

Di Run back to your side abbiamo detto: aggiungo che secondo alcuni in questo brano c’è anche Derek Trucks che nella lista di musicisti fornita dalla casa discografica non appare, ma potrebbe essere visto che sicuramente in tre brani non c’è Jim Keltner sostituito alla batteria da Abe Laboriel Jr (quello del gruppo di Paul McCartney, la personcina per intenderci) in due brani e da Herman Labeaux nel New Orleans style di When somebody…Secondo altri ci sarebbe pure Stevie Winwood ma non credo, con tutti i tastieristi presenti.

Conclude le operazioni Autumn Leaves che sarebbe l’adattamento americano fatto da Johnny Mercer di Les Feuilles Mortes. Certo che non avrei mai creduto di sentire Eric Clapton cantare, e pure bene, Le Foglie Morte. Strano ma vero e da sentire i due assoli, prima alla acustica e poi all’elettrica, raffinattissimi, d’altronde la classe non è acqua! Il brano è stato scritto l’anno in cui Clapton nasceva, coincidenza?

Contrariamente a quanto annunciato esiste una versione Deluxe con CD oro 24 carati, libretto di 16 pagine, litografia, foto, acquistabile solo sul sito di Clapton alla modica cifra di 40 dollari più spese di spedizione. Non manca la classica bonus track You Better Watch Yourself. Ma non è tutto chi acquista il CD per il download su iTunes trova un’altra bonus track, diversa, I Was Fooled, Che palle, aggiungo io!

Nonostante tutto ciò l’allievo Clapton è promosso (a parte la pettinatura), un bel 7,5!

Bruno Conti