Decisamente Meglio Accompagnato Che Solo. Studebaker John – Songs For None

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Studebaker John – Songs For None – Avanti Music/Red White’n Blues

Studebaker John alias John Grimaldi, dopo una lunga carriera come bluesman elettrico https://discoclub.myblog.it/2012/03/08/i-was-born-in-chicago-studebaker-john-old-school-rockin/  anche lui decide di tornare alle radici del blues e pubblicare un album acustico in solitaria, solo voce, chitarre e armonica a bocca, che era stato il primo strumento con il quale si era comunque avvicinato alla musica, prima all’interno delle mura domestiche, dove di strumenti ne circolavano diversi, in quanto anche il padre ne era una grande appassionato, il tutto stimolato da avere visto diverse performances dal vivo di Little Walter e Sonny Boy Williamson, poi sostituiti come numi tutelari da Hound Dog Taylor, anche lui abituale frequentatore dei palchi della Windy City, città natale di John, che pensò bene di prendere il suo nome d’arte da una delle prime macchine possedute. Da allora, prima con gli Hawks, sin dagli anni ’70, e poi sino ad oggi, Studebaker è diventato uno dei nomi più popolare nell’ambito del Chicago Blues più genuino.

Per l’occasione di Songs For None Grimaldi si ispira , come dice lui stesso, a personaggi come Mississippi Fred McDowell, Lightnin’ Hopkins, Jukeboy Bonner, Big Joe Williams, e anche R.L. Burnside, e lo fa con una serie di 13 canzoni originali che vorrebbero rendere omaggio a questo tipo di blues, più intimo, folk e vicino alle radici: il disco in effetti, almeno per il download, circolava già da parecchio tempo, ma ora giunge sulle nostre lande anche la sua controparte fisica. Non manca un piccolo tocco di elettricità, in quanto Studebake Johnr è comunque uno specialista della slide, e quindi il bottleneck è presente nell’iniziale Sometimes I Wonder, un blues atmosferico dove il sound è sospeso ed intenso, e anche la voce di solito non “indimenticabile” di John si lascia apprezzare. Il nostro dà il meglio abitualmente con il classico misto tra blues, boogie e rock e quindi si gradisce meno il folk-blues della cadenzata ed attendista Nothing But…, con la voce stridula del nostro non particolarmente memorabile. Forse i brani sono anche eccessivamente lunghi, parecchi tra i 6 e i 7 minuti, come una inconcludente Dangerous World, che non rende fondamentalmente onore alle leggende citate prima, appena meglio Pain, ma la voce a tratti è persino irritante e i testi incomprensibili https://www.youtube.com/watch?v=6Z3E5BbQBiw .

Insomma dopo una partenza promettente il disco si perde un po’ per strada, il trittico di Nothing Remains The Same, Lonely Day e Between Nothing And Eternity non mi pare rimarrà negli annali del blues, a parte qualche interessante spunto della chitarra acustica, ma niente per cui strapparsi le vesti. Forse si salvano I Still Won, anche se in quasi 8 minuti non succede moltissimo a livello musicale, giusto qualche tocco di slide e armonica https://www.youtube.com/watch?v=01zt1JB-euY , Junkyard Preacher che ci riporta ai temi sonori dell’iniziale Sometimes I Wonder, con una maggiore tensione emotiva, e la conclusiva All My Life. Un po’ poco forse per consigliare questo disco, se non ai fanatici compulsivi del blues acustico o agli “amici” di Studebaker John, va bene il blues minimale, ipnotico e ripetitivo, però il risultato non mi pare entusiasmi, almeno chi scrive.

Bruno Conti

Il Babbo Era Un’Altra Cosa, Ma Anche Lui Se La Cava. Mud Morganfield – They Call Me Mud

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Mud Morganfield  – They Call Me Mud – Severn Records

Quando si leggono le biografie dei musicisti, soprattutto quelle dei bluesmen, uno spesso non può fare a meno di farsi quattro risate: prendiamo i due figli di Muddy Waters (ce ne sarebbe anche un terzo, ex stella del basket al liceo, che ora ha lanciato pure lui una carriera nella musica, con i fratelli), entrambi sono nati verso la metà degli anni ’50, hanno avuto pochissimi contatti con il padre e, casualmente, hanno iniziato ad occuparsi di musica dopo la morte di Morganfield, avvenuta nel 1983. Quello che è curioso, leggendo queste biografie, soprattutto di  chi si muove nell’ambito del blues, è il fatto che nel caso di Big Bill Morganfield https://discoclub.myblog.it/2017/02/13/degno-figlio-di-tanto-padre-per-quanto-possibile-questa-volta-si-big-bill-morganfield-bloodstains-on-the-wall/  ci sono voluti circa 15 anni prima di pubblicare un album, nel 1997, mentre nel caso del figlio maggiore Mud Morganfield, l’album di esordio, autogestito, esce nel 2008: quindi non si può fare a meno di chiederci, ma cosa diavolo ha fatto in quei  trent’anni? Perché le biografie di solito non elaborano molto. Comunque accantoniamo questi quesiti e veniamo al quarto album (terzo per la Severn Records, l’etichetta di Chicago), anche se alcune discografie ne riportano sei, di Larry Williams a.k.a. Mud Morganfield: come nel caso dei dischi di Big Bill Morganfield, per questo They Call Me Mud ci troviamo di fronte ad un più che onesto album di blues elettrico di Chicago.

Per intenderci, anche se prendiamo i due figli e li sommiamo non otteniamo comunque un “vero” Muddy Waters. La voce, il timbro vocale, a tratti, è molto simile, ma la classe è ben altra cosa, comunque chi va alla ricerca di dischi comunque incentrati sulle 12 battute classiche troverà delle discrete sensazioni  nell’album: la produzione è affidata, insieme a Mud, al chitarrista Rick Kreher, marginalmente legato a Waters in quanto ha suonato nell’ultima band del grande bluesman (era presente anche nel  concerto al Checkerboard Lounge, il live con gli Stones del 1981), poi ha avuto una onesta carriera suonando con Studebaker John, presente anche lui in questo disco, insieme ad altri buoni musicisti locali, tra cui si segnalano Billy Flynn alla chitarra, Sumito Aryio Aryhoshi al piano e una piccola sezione fiati, presente nella metà dei brani, oltre agli ospiti Billy Branch all’armonica e Mike Wheeler alla chitarra, nonché la figlia di Mud Lashunda Williams che duetta con il babbo in un  brano. Inutile dire che i pezzi migliori sono le due cover estratte dal repertorio di Waters, per quanto le canzoni firmate da Mud Morganfield, che suona pure il basso in 3 brani, sono di passabile fattura.

Nella musica di Morganfield Jr. c’è anche una abbondante presenza di elementi soul e r&b, grazie alla presenza dei fiati segnalata poc’anzi, come evidenziano l’iniziale They Call Me Mud, cantata con piglio autorevole e brillantezza vocale dal nostro amico che ha imparato la lezione di famiglia con impegno, come viene ribadito nel funky blues della fluida 48 Days, con chitarre, piano, armonica e tastiere ben amalgamate nel sound d’assieme, ma anche nella deliziosa soul ballad Cheatin’ Is Cheatin, cantata con timbro mellifluo e piacevole. Meno memorabile Who’s Foolin’ Who, un funky blues più generico; viceversa più incisiva la cover di Howling Wolf di babbo Muddy, con una bella slide tangenziale e l’armonica a tirare le fila del sound, puro Chicago Blues, buon risultato ripetuto anche in Can’t Get No Grinding, sempre a firma Waters, con la guizzante armonica di Studebaker John e il piano di di Aryhoshi in evidenza, oltre alle chitarre di Flynn e Kreher. Detto del  duetto con la figlia Lashunda in Who Loves You, abbastanza zuccheroso e stucchevole, non dispiacciono la grintosa Oh Yeah, che ricorda molto l’augusto  genitore e il blues fiatistico di Rough Around The Edge e la piacevole Mud’s Groove, uno strumentale con Billy Branch all’armonica.

Bruno Conti

I Was Born In Chicago…Studebaker John – Old School Rockin’

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Studebaker John – Old School Rockin’ – Delmark

Parafrasando l’incipit, l’attacco, di uno dei più famosi brani scritti da Nick Gravenites,  si potrebbe dire: “I was Born In Chicago in nineteen and forty-one “(che, curiosamente, non è l’anno di nascita né di Gravenites che l’ha scritta, né di Paul Butterfield che l’ha lanciata, ma probabilmente per motivi di rima con “gun”) e sostituendo la data con quella di Studebaker John (1952) otteniamo un altro illustre nativo della capitale del Blues elettrico, la Windy City.

L’oggetto di questo “spazio” prende il nome d’arte da una fabbrica di automobili americana che ormai non esiste più, ma anche lui è uno dei “nostri”, visto che il suo vero nome è John Grimaldi. Tralasciando le note biografiche Studebaker John ha una lunga carriera alle spalle, iniziata, come per molti altri ragazzi bianchi, con la scoperta, dopo il rock’n’roll, della musica nera per antonomasia, il Blues. Quindi Jimmy Reed, Freddie King, Slim Harpo ma anche gli Stones, gli Yardbirds, i Fleetwood Mac di Peter Green (in pellegrinaggio a Chicago) e poi Butterfield, Bloomfield, Dylan, Johnny Winter e molti altri. Ma per il nostro amico la miccia fu uno “sconosciuto” suonatore di armonica privo di un braccio, tale Big John Wrencher, che suonava regolarmente a Maxwell Street e poi anche il grande Hound Dog Taylor, quindi per non fare torto a nessuno ha imparato a suonare sia l’armonica che la slide, che poi è diventata il suo strumento principale.

Un altro aggancio con la città dell’Illinois è l’etichetta Delmark, l’ultima grande etichetta storica di Blues della città (e già, e l’Alligator qualcuno dirà? Ma quella è venuta dopo) alla quale Studebaker John è approdato da un paio di anni, dopo una lunga carriera con etichette come la Blind Pig, la Evidence e la Avanti. Se il disco precedente That’s The Way You Do era un omaggio al Blues più tradizionale con il nome di Maxwell Street Kings, questo Old School Rockin’, già dal titolo, indica un approccio più tirato, più elettrico, alle sue radici musicali, definirlo rock-blues è probabilmente esagerato ma i ritmi e la slide viaggiano spediti sulle traiettorie del Ry Cooder meno roots o dei vari gruppi con licenza di slide che sono nati negli ultimi anni e in quanto tale ha una carica più dirompente rispetto a prove in ambito più “tradizionale” di Studebaker.  

E quindi sin dall’iniziale Rockin’ That Boogie, con uno di quei titoli che spiegano chiaramente le intenzioni del brano, è una festa di slide e ritmi, con quell’approccio live in studio che ricorda i concerti (giusto qualche chitarra aggiunta in fase di registrazione, ma il minimo sindacale) e una voce vagamente alla Hiatt, senza la potenza dell’altro John ma con un bel tiro. Disease Called Love ha quel sound che ricorda le incisioni di Howlin’ Wolf per la Chess degli anni ’60, tra Spoonful e Evil. La lunga Fire Down Below (niente a che vedere con Seger), ma ci sono altri brani intorno ai 6 minuti, ci consente di ascoltare oltre alle consuete cavalcate con la slide anche un notevole assolo di armonica che mi ha ricordato il suono (tra i tanti) di John Popper dei Blues Traveler. Rockin’ Hot, molto cadenzata e Fine Little Machine dall’andamento Stonesiano sono tra i suoi cavalli di battaglia in concerto e alzano la temperatura del disco mentre Old School Rockin’ è un altro bel boogie “cattivo” alla Hound Dog Taylor. She Got It Right, tra Fabulous Thunderbirds e ZZTop è uno dei brani dove si sconfina (quasi) nel rock-blues sempre con quella voce alla John Hiatt e la chitarra che impazza alla grande. Deal With The Devil potrebbe essere una traccia perduta dei primi Canned Heat, Mesmerized vagamente latineggiante nei ritmi è più “trattenuta”.

Ma se devo essere sincero tra i 14 brani, tutti originali, che compongono questo album non ci sono punti deboli, tutta roba buona, tanto boogie, blues di qualità, un bel suono dalla slide guitar e dall’armonica di Studebaker John che centra con questo Old School Rockin’ probabilmente il miglior disco della sua carriera.

Da sentire, blues di quello giusto!

Bruno Conti