Ancora Una “Reginetta” Del Blues. Sue Foley – The Ice Queen

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Sue Foley – The Ice Queen – Stony Plain/Dixie Frog/Ird

Sono parecchi anni che la chitarrista e cantante canadese, ma di adozione texana, e che si è alternata appunto a vivere in quel di Austin, pur svolgendo parte della sua carriera anche nel nativo Canada, dove ha vinto svariati premi per i suoi album, non pubblicava nulla di nuovo in proprio. Gli ultimi avvistamenti erano stati per un paio di album in coppia con l’ottimo Peter Karp, gli eccellenti He Said She Said del 2010 e Beyond The Cossroads del 2012, entrambi per la Blind Pig https://discoclub.myblog.it/2012/08/12/un-altra-bella-accoppiata-peter-karp-sue-foley-beyond-the-cr/ , e prima ancora per Time Bomb, un disco del 2007 condiviso con Deborah Coleman e Roxanne Potvin; se aggiungiamo l’antologia The Queen Bee, con il meglio delle registrazioni effettuate per la Antone’s ad inizio carriera, l’ultimo vero album solista di Sue Foley, risale addirittura a New Used Car per la Ruf del 2006. Eppure in tutti questi anni la rossa musicista di Ottawa non ha perso il tocco, e questo Ice Queen, 15° album della sua carriera, antologie e collaborazioni incluse, risulta uno dei suoi dischi migliori in assoluto: registrato ancora una volta in quel di Austin, l’album vede la presenza di un terzetto di illustri colleghi texani a duettare con lei, Jimmie Vaughan, Billy F. Gibbons e Charlie Sexton. Il titolo è anche una sorta di omaggio all’Ice Man, il re della Telecaster, Albert Collins, e vede nello sgabello del produttore, il virtuoso del B3 Mike Flanigin, in prestito dall’organ trio con Vaughan, oltre a George ‘Big Beat’ Rains, una delle leggende del blues texano, alla batteria (e Chris Layton in un paio di brani), e Johnny Bradley, il bassista della band di Gary Clark Jr., in alternanza a Billy Horton e Chris Maresh.

Anche la Foley si è dovuta rivolgere all’autofinanziamento del crowdfunding tramite la Kickstarter Campaign, raccogliendo più di 35mila dollari: poi Sue è tornata in Canada per scrivere le canzoni e di nuovo ad Austin , con dieci nuovi brani pronti, per incidere il CD. Il disco, registrato live in studio, cattura tutti gli aspetti della musica della Foley, blueswoman tosta e grintosa, direi “elettrica”, quando serve, ma anche autrice di ballate e brani più intimi ed acustici all’occorrenza, voce felpata e birichina, ma chitarra pungente ed aggressiva alla bisogna, come dimostra subito l’iniziale Come To Me, con un beat aggressivo vagamente alla Bo Diddley e la minacciosa slide di Charlie Sexton subito impegnata a duellare con la Fender di Sue in un interscambio solistico di gran pregio, pigro ma intenso come richiede il blues di qualità, con tutta la band in spolvero. Sexton rimane anche per la successiva 81, bellissimo mid-tempo rock di grande intensità, la solita voce ammiccante della Foley non è cambiata di una virgola negli anni, le mani di Flanigin scivolano sull’organo e il brano si dipana con grande fluidità tra continui inserti delle chitarre, in puro spirito blues-rock texano della più bell’acqua. Pure quando non ci sono ospiti il livello rimane comunque elevato, come nel vigoroso R&R della tirata Run dove la solista viaggia incattivita o nel magnifico slow blues della lunga title-track Ice Queen, raffinata e dalle atmosfere sospese con assolo da urlo di grande tecnica.

Poi arriva il duetto con Jimmie Vaughan in una brillante The Lucky Ones, classico shuffle con uso d’organo e le voci pimpanti e le chitarre di Mr. Vaughan e Miss Foley a scambiarsi le loro storie con assoluta nonchalance; Gaslight ha un retrogusto R&B sottolineato dai fiati dei Texas Horns, poi di nuovo presenti nell’altro duetto con Vaughan in una pimpante rivisitazione del canone sonoro di  Bobby “Blue” Bland nella maestosa blues ballad orchestrale If I Have Forsaken You, molto 60’s, come piace al fratello di SRV che inchioda un assolo di gran classe. In mezzo c’è il duetto con Billy F. Gibbons degli ZZ Top, in una ciondolante Fool’s Gold, scritta con Flanigin, tutte le altre sono firmate dalla Foley, dove il barbuto canta quasi bene, in onore della sua ospite, e si cimenta con successo anche all’armonica, ed è misurato e pulito alla solista; Send Me to the ‘Lectric Chair, una delle due cover, dal repertorio di Bessie Smith, ha quella allure jazz & blues vecchia scuola che calza come un guanto con la voce senza tempo della nostra amica, perfettamente a proprio agio anche in questa ambientazione sonora, poi ribadita nella delicata Death Of A Dream, una deliziosa ballata jazzy da “fumosi” locali della Chicago anni ’30 o ’40, suonata in punta di dita all’acustica dalla bravissima Sue. L’altra cover Cannonball Blues, viene dal repertorio delle origini di A.P. Carter, fatta a tempo di ragtime chitarristico acustico e fa il paio con The Dance dove la nostra amica addirittura si cimenta con un brano in puro stile flamenco. Insomma, ancora una volta la classe non è acqua, neppure ghiacciata, ma sfocia in grande musica.

Bruno Conti

Lui E’ Bravo Ma La Differenza La Fa L”Ospite”! Peter Karp With Mick Taylor – The Arson’s Match Live In NYC

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Peter Karp with Mick Taylor – The Arson’s Match Live In NYC – Karpfoley Music

Se avete letto l’intestazione della recensione, o avete visto la copertina del CD, immagino che non vi sarà sfuggito il nome di Mick Taylor, che è forse il motivo di principale interesse di questa uscita. Ma anche il titolare dell’album, Peter Karp, non è nuovo su queste pagine virtuali, mi sono già imbattuto in lui in altre occasioni, soprattutto per la pubblicazione di un paio di album registrati in coppia con Sue Foley e usciti per la Blind Pig, la stessa etichetta che ha rilasciato l’ultimo lavoro solista di Karp Beyond The Crossroads, edito nel 2012 http://discoclub.myblog.it/2012/08/12/un-altra-bella-accoppiata-peter-karp-sue-foley-beyond-the-cr/ . Mi pareva di ricordare (comunque ho verificato) che in entrambi i dischi registrati in duo, il buon Peter non fosse solo un onesto comprimario, ma un protagonista alla pari con la rossa canadese/texana Foley, buon autore, bella voce, solista interessante, soprattutto impegnato alla chitarra con il corpo di acciaio in modalità bottleneck, ma anche in versione classica.

Oltre a tutto il nostro amico ha un passato, se non glorioso, quanto meno interessante, e questo The Arson’s Match Live In NYC in effetti sbuca dalle nebbie del passato. Registrato al Bottom Line, leggendario locale della Grande Mela, nel 2004 (proprio l’anno della sua chiusura) il concerto, mandato in onda da una radio locale, era destinato a promuovere un album in studio, sempre di quell’anno, The Turning Point, dove alla chitarra solista appariva Mick Taylor, poi rimasto in formazione anche per il tour con la band di Karp: gruppo dove si segnala anche un ottimo armonicista come Dennis Gruenling e due validi tastieristi Jim Ehinger e Dave Keyes ( in seguito, per parecchi anni con Popa Chubby), oltre ad una sezione ritmica pimpante formata da Daniel Pagdon al basso e Paul “Hernandez” Upsworth alla batteria. Diciamo pure che il disco non è di facile reperibilità (per usare un eufemismo), è uscito già da parecchi mesi, costa abbastanza caro, ma, oltre ad essere piuttosto bello, ha anche un fine nobile, in quanto il 100% dei proventi delle vendite vanno alla Ovarian Cancer Research.

Lo stile dell’album è fin dall’inizio esemplificato dalla title track The Arson’s Match posta in apertura: un solido blues alla Elmore James, dove la slide di Karp e l’armonica di Gruenling si dividono gli spazi con un ispirato Taylor, con l’inconfondibile suono della sua Gibson che inizia subito ad inanellare eccellenti assoli, anche in modalità wah-wah, la band tira alla grande, il buon Peter ha una ottima voce, (buon autore, ripeto, i brani sono tutti suoi) ed è un virtuoso del bottleneck e il pubblico pare divertirsi. Gee Chee Gee Chee Waves, al di là del titolo strano, è un solido blues-rock con elementi soul, un tocco quasi alla Van Morrison nell’andatura mossa, le tastiere che aggiungono profondità al suono e Mick Taylor che quando inizia a lavorare con la sua chitarra ha quel tocco in più e la finezza del fuoriclasse, siamo a New York ma sembra di essere a Memphis. In Y’All Be Lookin’, un gagliardo shuffle, ancorato da un solido groove di basso, Peter Karp (o e Taylor?) inchioda un assolo di slide di grande feeling; The Turning Point parte come una ballata acustica e diventa, in un delizioso crescendo, una splendida rock ballad dove lo spirito degli Stones “americani” è chiaramente palpabile, uno degli highlights del concerto, con una lirica solista (grandissimo Mick) e organo che sfiorano la perfezione nel loro interscambio.

The Nietzsche Lounge accelera il ritmo, si va di boogie, con un tocco country, pianino honky-tonk e il leader sempre eccellente con il suo cantato incisivo, che lascia spazio a brevi e continui interventi mai banali della chitarra di Taylor, gusto e feeling come sempre le sue armi; ancora doppia tastiera anche nella languida, latineggiante Your Prettyness, con assolo swing di piano di Keyes e accelerazione micidiale blues con grande intervento di Gruenling all’armonica, che è nuovamente protagonista anche nella potente Rolling On A Log, un ottimo pezzo rock-blues con elementi “sudisti”, dove ancora Karp si conferma vocalist di valore e il consueto gran finale della solista di Mick Taylor. Un’altra bella ballata come I’m Not Giving Up non guasta nell’atmosfera festaiola del concerto, l’organo “scivolante” di Ehringer fa da apripista per il consueto assolo magistrale dell’ex Stones, in serata di grazia, mentre la band poi si lancia in un vorticoso boogie blues intitolato Treat Me Right, ritmo e grinta non mancano mai in questa bella serata newyorkese che si conclude con Train O’Mine, un altro brano eccellente dove i vari solisti si superano, prima Gruenling all’armonica e poi un super riff di Karp e Taylor che sfocia in una bella jam chitarristica a chiudere i giochi. “It’s Only Rock’n’Roll But We Like It”: scusate ma ci stava!

Bruno Conti    

Un’Altra Bella Accoppiata! Peter Karp Sue Foley – Beyond The Crossroads

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Peter Karp & Sue Foley – Beyond The Crossroads – Blind Pig Records

Questo disco è uscito da alcuni mesi (circa metà aprile di quest’anno), ma come diceva il Maestro Manzi “Non E’ Mai Troppo Tardi” per parlarne. Si tratta di uno dei CD che stanziavano sul mio tavolo, nella pigna di fianco al computer, in attesa che un’anima pia (il sottoscritto), si occupasse di loro. Per la verità, sul Blog, avevo già dato spazio al precedente album pubblicato dalla coppia un paio di anni fa, uomini-e-donne-peter-karp-sue-foley.html e lì potete trovare riferimenti e informazioni su questi due musicisti, ma il nuovo Beyond The Crossroads, sentito con maggior attenzione, mi sembra meriti anche lui un meritato approfondimento. Il disco si può collocare tra quei piccoli gioiellini usciti in questa annata, come Hiss Golden Messenger e Jeb Loy Nichols, opere di “culto” ma ricche di buone vibrazioni. Musica che non ti fa saltare dalla sedia ma ti acchiappa lentamente, ascolto dopo ascolto. Si potrebbe definire Blues Got Soul Got Country, in un intrecciarsi di generi a quel crossroads del blues dove i musicisti, come dicono nel titolo, cercano di andare oltre. Non lo fanno con spirito di innovazione straordinaria ma con gusto e misura e i risultati ottenuti sono più che soddisfacenti. Per dirla con il Buscadero, musica sorridente e spensierata in grado di mettere buonumore anche nelle anime più tristi e angosciate. O come dice la Chicago Blues Guide, “Reminescente di un qualcosa che avrebbe potuto facilmente essere registrato da Delbert McClinton e/o Bonnie Raitt, la scrittura in questo CD è assolutamente spettacolare, così come la produzione e l’esecuzione vocale e strumentale”. Per concludere ” Questa deliziosa registrazione ottiene alla grande, ad ora, il mio voto come CD dell’anno. Raccomando fortemente a chiunque di uscire e prendere possesso di una copia”. E chi siamo noi per andare contro l’opinione della Chicago Blues Guide?

 

Sentendo l’album è difficile non essere d’accordo: a partire dall’irresistibile duetto dell’iniziale We’re Gonna make It, con la voce indolente e felina di Sue Foley che si appoggia al vocione rauco e baritonale di Peter Karp che qualche ricordo di McClinton o dei soulmen della Stax lo provoca, con i fiati dei Swingadelic a dare pepe agli arrangiamenti, la Alumisonic eletric guitar (?!?) della stessa Foley a duettare con la Gibson e il piano elettrico di Karp, la musica è godibilissima. In Analyze’n Blues dove canta la Foley, Karp si dà da fare con una slide ficcante ed incisiva, colorando il suono anche con l’apporto alle tastiere e delle armonie vocali, per un risultato più che sodddisfacente, senza dimenticare che spesso anche l’altra chitarra si insinua tra le pieghe del suono. Beyond The Crossroads, un altro duetto memorabile, ma guidato da Karp, ricorda anche quel sound tra country, soul, New Orleans music e revue che caratterizza la migliore musica del Delbert McClinton più arrapato, slide, solista e fiati ruggiscono da par loro per un risultato notevole. Fine Love è anche meglio, sembra un brano perduto di Delaney & Bonnie dei tempi più gloriosi, ritmo incalzante, chitarre ovunque, armonie vocali gospel delle background singers, semplicemente grande musica.

 

Una qualità così elevata è difficile da mantenere, in caso contrario saremmo di fronte ad un capolavoro assoluto (quasi ci siamo), ma anche il puro New Orleans sound di At The Same Time a guida Karp o il pigro country-blues cantato dalla Foley di Take Your Time hanno i loro meriti. More Than I Bargained For ci riporta ancora nei territori del puro deep soul miscelato al rock e al country per non parlare del Blues dei migliori Delaney & Bonnie o per rimanere ai giorni nostri della coppia Susan Tedeschi e Derek Trucks. Blowin’ potrebbe essere una traccia ritrovata dei primi Dire Straits, con la sua andatura incalzante e le chitarre in spolvero. I dischi di Sue Foley mi sono sempre piaciuti per quello spirito sbarazzino che li caratterizzava, una canadese trasferita a Austin, Texas la brava Foley ha sempre saputo catturare le varie sfumature del blues e in questo Resistance, ancora con voci femminili, organo e fiati a colorare le procedure, mi rinfresca la memoria. La leggera e jazzata Chance Of rain nulla aggiunge mentre i ritmi vorticosi dello strumentale country Plank Spank ricordano i migliori episodi dell’Albert Lee più scatenato (anche lui frequentava il country misto al rock negli anni gloriosi degli Heads, Hands & Feet e poi nella Hot Band di Emmylou Harris e pure nella band di Clapton). Non manca il rockabilly-boogie poderoso della conclusiva You’ve Got A problem per concludere un album piacevole e sorprendente che potrebbe deliziare questa vostra estate ma anche il resto dell’anno se lo scoprirete dopo. Approvato, e scusate il ritardo!

La ricerca continua.

Bruno Conti

Uomini E Donne: Peter Karp & Sue Foley

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Peter Karp & Sue Foley – He Said She Said – Blind Pig Records 2010

In effetti ho barato nel titolo del post, ma appena appena, a ben vedere sono “un” Uomo e “una” Donna, ma mi faceva comodo per il titolo per cui mi sono allargato un attimo: per curiosità, vuoi vedere che usando queste due magiche parole mi ritrovo dei visitatori nel Blog che credevano di leggere le ultime avventure degli eroi della mitica Maria? Se siete capitati per caso benvenuti, comunque, nel caso, i nomi di cui si trattava erano ben specificati e non essendo dei “concorrenti” internazionali mi sa che sono dei musicisti.

Per tutti gli altri in risposta al classico, chi sono costoro?, vediamo di esplicare.

Sue Foley è una rossa chitarrista ( e suona ragazzi x98t77_blues-sue-foley-same-thing_music) e cantante canadese, con una lunga militanza in Texas, fa dell’ottimo blues e ha già registrato dieci album più uno in trio con Deborah Coleman e Roxanne Potvin. Peter Karp è un personaggio più enigmatico: una prima di parte di carriera sul limitare della discografia ufficiale, poi un ritiro di dieci anni per crearsi una famiglia, un ritorno agli inizi degli anni 2000, un paio di album pubblicati a livello indipendente e un CD Shadows and Cracks per la Blind Pig nel 2007, anche lui ama il blues ma a livello più rootsy e cantautorale. Quindi come si incontrano?

Come direbbe Maria, da uno scambio di mail e lettere per una collaborazione nel nuovo Cd di lui, nasce una relazione musicale più profonda, un brano tira l’altro e decidono di registrare insieme questo He said She Said. Ma si vogliono bene? Chissà!?!

Lei ha quella voce tipica della blueswoman texana (ma è canadese, già detto attenti!), indolente e birichina, lui ha il vocione del folksinger trasformato in bluesman ed una maggiore propensione per la composizione (nove dei quattordici brani sono suoi, gli altri cinque della Foley); comunque si integrano molto bene anche se ognuno, musicalmente parlando, sta un po’ sulle sue, non è che i duetti si sprechino, ma ci sono.

Si parte a trazione fortemente blues con l’iniziale Treat me right, firmata da Karp e cantata in coppia dal duo, la solista della Foley e la slide di Karp duellano con gusto, mentre le voci si intrecciano con misura anche se la Foley si fa preferire ( o sarà che la conosco di più ed ho sempre avuto una particolare predilezione per i suoi dischi). So far so fast è una di quelle canzoni gustose, vagamente retrò e deliziose che costellano la discografia della Foley, ritmi moderati e voce piaciona. Wait è un grande brano di Karp che lo canta con un piccolo aiuto di Sue Foley nelle armonie vocali: molto Dylaniano, con un organo che caratterizza il suono e la chitarra della Foley che punteggia con una bella serie di interventi il tessuto sonoro della canzone, gran bella musica. Rules of engagement è un altro brano molto bluesato con le chitarre, sempre misurate, sugli scudi, canta ancora la Foley, Karp alla slide e seconda voce accompagna. A questo punto il disco si ammoscia un tantinello, Hold on baby, impianto sonoro prevalentemente acustico e armonica d’ordinanza non decolla, Mm Hmm scritto da Karp ma interpretato da entrambi, già dal titolo non brilla per originalità, nonostante l’intervento di una sezione di fiati con tanto di trombone rimane incompiuto. Danger Lurks è un brano acustico firmato dalla Foley, francamente noioso nonostante gli arpeggi della chitarra. Ready for your love è la controparte di Karp del brano precedente, un po’ meglio ma non entusiasmante. Il disco si rianima con il blues jazzato di Scared cantato con passione dalla Foley e con Valentine’s Day, un duetto tra i due più animato delle canzoni precedenti, anche se… Dear Girl, è una bella country song cantata da Peter Karp con le solite armonie vocali della Sue mentre Baby Don’t Go è semplicemente una bella canzone dal vago andamento di valzer con la voce e la chitarra della Foley ben focalizzate. Si conclude in tono minore con la malinconica Regret e la dolce Lost in you, entrambe molto piacevoli. Dimenticato qualcosa? Direi di no!

Bruno Conti