Una Cantautrice “Anomala” Ma Interessante. Sallie Ford – Soul Sick

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Sallie Ford  – Soul Sick – Vanguard/Concord/Universal

La prima cosa che balza all’occhio ( e all’orecchio) è che Sallie Ford non è la tipica cantautrice americana, anche se, come lei stessa dice in fase di presentazione, questo è un album di tipo “confessionale”, ovviamente a livello lirico, con testi che parlano delle sue paure, insicurezze e depressioni, mentre le canzoni del passato  vertevano di più intorno ad argomenti come rabbia e sesso. Quindi i temi sono quelli della cantautrice, sia pure anomala, ma l’esecuzione della parte musicale è diversa da ciò che abitualmente si associa alle autrici più tradizionali: presentata dal New Yorker come un incrocio tra Liz Phair e Buddy Holly, lei preferisce definirsi una via di mezzo, un misto tra i Kinks e Skeeter Davis, oppure PJ Harvey e Billie Holiday. In effetti, fin dalle sue prime avventure musicali con i Cold Outside, Sallie Ford ha privilegiato un tipo di approccio sonoro molto legato al passato, ma visto in una ottica indie, un suono che risente della British Invasion ( i citati Kinks e i Troggs), ma anche ? & The Mysterians, oltre a girl groups come Shireless o Ronettes, con un approccio garage, potremmo definirlo “retro indie” per questo Soul Sick, con un uso marcato di chitarre elettriche fuzzy e distorte a tratte, vecchi organi Farfisa e Hammond, ritmi R&R, il tutto però cantato con una voce fascinosa e calda, che è in grado di incazzarsi ma anche di rilasciare belle melodie.

Per realizzare tutto questo la Ford si è affidata ad un produttore ed ingegnere del suono anomalo come Mike Coykendall, uno che ha lavorato con M Ward, She And Him, Bright Eyes, Richmond Fontaine, ma ha anche fondato, con Garth Klippert, anche lui nell’album, una piccola etichetta che produceva cassette, e nel passato è stato il leader degli Old Joe Clarks, grande band roots-rock degli anni ’90. Tutti questi elementi confluiscono in questo disco di Sallie Ford, che, è bene dirlo subito a scanso di equivoci, a mio parere non è un capolavoro, ma si lascia ascoltare e scorre tra piacevolezze e momenti più “urticanti”. Nel disco suonano altri musicisti della scena indie americana, come Kris Doty (Modern Kin), Ben Nugent (Dolorean), o Ralph Carney, sassofonista storico di Tom Waits, ma di recente anche con case/lang/veirs o i Drive-by-Truckers: si parte subito “vintage” con l’incalzante Record On Repeat, tra organi filanti, chitarre taglienti, belle armonie vocali, una ritmica decisa e la voce da rocker di Sallie Ford, sulla scia di gente come Aimee Mann, Chrissie Hynde, Carla Olson, una piccola gemma simil-psichedelica o di garage morbido, ben strutturata e con un suono delineato e ben arrangiato, anche se il testo già si incanala sui cattivi pensieri ricorrenti nella narratrice della canzone. Che poi rincara la dose in Screw Up, ancora più pessimista e depressa, ma a tempo di una deliziosa traccia pop che profuma di spensierati anni ’60, con coretti tra doo-wop e Mamas And Papas, organetti divertenti, chitarrine insinuanti. Loneliness Is Power, su un drive alla Bo Diddley innesta un gagliardo psych-garage, con chitarre e basso fuzzati che sembrano provenire da qualche vinile d’epoca degli Standells o della Chocolate Watch Band. E addirittura nella successiva Get Out, il primo singolo tratto dall’album, che sembra il figlio bastardo di qualche derivazione dei Them, spunta un assolo di wah-wah che è psichedelia pura, gagliardo!

Sempre proseguendo il trend “positivo” delle canzoni abbiamo anche Failure, una squisita confezione di puro doo-wop pop alla Spector, con armonie vocali adorabili e una costruzione sonora perfetta, su cui si adagia l’ineffabile voce della Ford e un assolo di clarinetto tanto retrò quanto gustoso (ho quasi esaurito gli aggettivi). Middle Child è una canzone “stupidina” che non mi fa impazzire, anche se l’intervento del flauto è assolutamente inaspettato. Torna il retro garage in Never Gonna Please, sempre con la squillante voce di Sallie adagiata sulle solite chitarre acide e ritmi scanditi, mentre Romanticized Catastrophe (e ridagli) è parzialmente irrisolta, una lunga intro con schiocchi di dita a tenere il ritmo e vocalità doo-wop meno riuscite all’inizio, poi evolvono in una solare canzone che smentisce il testo e si affida all’intervento del sax di Carney per movimentare il finale. Altra variazione sul tema è Hurts So Bad, in questa sorta di concept album sulle “disgrazie della vita”, con le tastiere a fare compagnia alla cristallina voce della Ford, mentre Kris Doty e Jill Coykendall forniscono il consueto brillante supporto vocale. Unraveling è ancora più spectoriana, cantata a voce spiegata, quasi fosse un’emula di kd lang, molto vocal groups anni ’60, sempre delicata e raffinata, con la conclusiva Rapid Eyes che ci racconta della fine del trattamento per curare paure e depressioni, “find memories of pain, and make them lose their strength”, questa volta con accenti quasi soul e dispiego di fiati. Da mettere accanto alle vostre ristampe della Sundazed .

Bruno Conti

Ristampe Recenti 1: Un Trittico Per Gli Standells – Dirty Water, Why Pick On Me & Try It

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Visto che mi sono accorto che non sempre riesco ad aggiornare la rubrica delle uscite e delle anticipazioni discografiche in breve, presenti e future, provo ad instaurare un nuovo tipo di approccio, ovvero singoli Post caricati a mano a mano che vengono preparati: in alcuni giorni potreste trovarne sul Blog anche più di uno, altre volte solo di tanto in tanto.

Partiamo con le tre ristampe degli album degli Standells a cura della Sundazed: di loro mi ero già occupato nel 2015 con la recensione di un album inedito dal vivo, sempre pubblicato dall’etichetta di New York specializzata in ristampe http://discoclub.myblog.it/2015/03/06/chitarre-acide-vecchi-organetti-the-standells-live-on-tour-1966/. Ora vengono ristampati anche i tre album più famosi della band, editi ai tempi, tra il 1966 e il 1967 dalla Tower Records (nulla a che vedere con la catena di negozi che sarebbe venuta anni dopo, e purtroppo “defunta” da tempo). Al solito qualche precisazione: i tre dischi erano già usciti in CD nel 1994, nella classica versione mono, arricchiti da varie bonus tracks per ogni LP, sempre a cura della Sundazed, e, magari a fatica, ma si trovavano ancora in circolazione.

Comunque nella loro immensa bontà vengono resi disponibili di nuovo, anche in versione vinile, però seguendo un metodo ondivago che non riuscirò mai a comprendere: Dirty Water, che nella prima versione in CD aveva 15 tracce, improvvisamente nella nuova ne ha 14, spariscono due delle bonus ma riappare Sometimes Good Guys Don’t Wear White, presente nel disco originale. Stesso discorso per Why Pick On Me, che nella edizione 1994 aveva 15 brani, nella ristampa 2017 ne riporta 14, cambia l’ordine delle canzoni e “sparisce” la bonus Our Candidate. Perché? Mistero. E anche Try It, l’album del 1967, dai 15 pezzi della edizione 1994, passa a 14, e non c’è più la bonus conclusiva Can You Dig It. La logica di questi cambiamenti mi sfugge, ammesso che ce ne sia una. I tre CD sono usciti ieri 17 febbraio.

Bruno Conti

Chitarre Acide E Vecchi Organetti! The Standells – Live On Tour 1966!

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The Standells – Live On Tour -1966! – Sundazed Music

Nello scorcio di poco più di un anno sono stati pubblicati ben tre “nuovi” CD degli Standells: prima, a dicembre 2013, usciva, molto a sorpresa, un nuovo album, Bomp (45 anni circa dopo il loro periodo d’oro), poi, qualche mese fa, la Rockbeat Records ha edito una versione doppia, potenziata e rivisitata, del classico Riot On Sunset Strip (Revisited appunto, dal vivo, nel 1999), disco attribuito sia agli Standells come alla Chocolate Watchband, e ora la Sundazed pubblica questo concerto “inedito”, registrato nell’ottobre del 1966 all’Hill Auditorium dell’Università del Michigan, ad Ann Arbor, nel corso del tour per promuovere quello che all’epoca era il loro terzo album, Why Pick On Me Sometimes Good Guys Don’t Wear White (che non possiamo dimenticare includeva quella “straordinaria” canzone in italiano Mi hai fatto innamorare, un connubio fra mandolini napoletani e beat, giuro, verificate https://www.youtube.com/watch?v=d13xW6-GG8E!).

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Una frequenza di uscite che rivaleggia con l’output discografico di quel fertile periodo, ricco di successi per la band californiana, vessillifera di un garage proto punk e beat con ampie connotazioni psichedeliche che spopolava all’epoca https://www.youtube.com/watch?v=qdaavm_fVEA , e tra l’altro aveva proprio esordito nel 1964 con un album dal vivo, The Standells In Person at P.J.’s https://www.youtube.com/watch?v=Pu4gTvWvuYA , ma questo Live On Tour-1966 che esce solo oggi per la prima volta nella sua interezza, è nettamente superiore sia a livello qualitativo (ci sono tutti i successi), come a livello sonoro, dove gli specialisti della Sundazed hanno effettuato un ottimo lavoro di restauro dei nastri originali. In questo concerto del 1966, come ci ricorda lo speaker della serata nella presentazione, gli Standells aprono per i Beach Boys, e, come era usanza nell’epoca pre-rock, il tutto dura poco meno di 35 minuti, ricchi di intensità, come evidenzia subito l’intenso interplay tra l’organo di Larry Tamblyn (anche alla chitarra) e l’acida chitarra di Tony Valentino, in una Mr. Nobody https://www.youtube.com/watch?v=ENOjxMvy1Cw  che unisce mirabilmente il suono della british invasion con il primo rock californiano di band di Doors, Jefferson, pre-Grace Slick e le sonorità di band come i citati Chocolate Watchband, Thirteen Floor Elevators, Seeds e molti altri che costituiranno il “cuore” del celebre Nuggets di Lenny Kaye.

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Ma il gruppo, già in pista nei clubs di tutti gli States dal lontano 1962, aveva, come altri, anche una forte componente R&B, più “sbiancata” forse, come dimostra una vivace cover del classico degli Young Rascals, Good Lovin’, uscito proprio in quei mesi, con gli immancabili yeah-yeah vocali del periodo e le mani di Tamblyn che volano sulla rudimentale tastiera dell’organo. Why Did You Hurt Me, una composizione del chitarrista Valentino con il batterista Dick Dodd, è intrisa del grintoso beat sound che imperversava all’epoca, mentre la cover di Lazy Summer Afternoon (così presentata, manco i titoli sapevano!), sarebbe la bellissima Sunny Afternoon dei Kinks di Ray Davies, tuttavia in una versione che non perde la pigra e sorniona aria dell’originale, con l’organo di Tamblyn che aggiunge un tocco alla Lovin’ Spoonful; sempre dalla british invasion viene una Gloria che in America era più nota nella versione dei soci Shadows Of Knight che nell’originale dei Them di Van Morrison, il brano è l’occasione per il gruppo per dimostrare una grinta notevole https://www.youtube.com/watch?v=uJErk-wwEOo , e anche una capacità di improvvisazione, che si divide tra sketches rumoristici ed umoristici che divertono molto il pubblico presente, tanto che la canzone si protrae, forse troppo, oltre i 5 minuti, ingenua, pure se sono i primi esempi di quello che diventerà il rock da lì a poco, spettacolo ma anche impeto dirompente.

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Why Pick On Me, title-track del nuovo album, firmata da Ed Cobb, eminenza grigia, sia come autore che come musicista e produttore della scena garage psichedelica, è un’altra piccola pepita tipica del periodo, mentre il lato soul/R&B viene illustrato da una Please, Please, Please dove il batterista Dobb ci offre la sua versione di James Brown, più bianco e molto meno esplosivo dell’originale, comunque segno di un sentito amore per la musica black, come ribadito nella successiva Midnight Hour, preceduta dal solito siparietto comico, il sound non è travolgente come nell’originale di Wilson Pickett e Steve Cropper, ma ricorda un beat-pop-rock à la Sir Douglas Quintet, con ampio uso d’organo. La conclusione è affidata ai loro cavalli di battaglia più psych-rock, prima Sometimes Good Guys Don’t Wear White (dedicata ironicamente a Lindon B. Johnson, non particolarmente popolare all’epoca) e poi l’inno generazionale Dirty Water (sempre di Cobb), tra i più bei singoli di quell’epoca irripetibile e uno dei riff indimenticabili del rock all-time https://www.youtube.com/watch?v=5apEctKwiD8 , che conclude degnamente questo piacevole reperto discografico, riemerso dalle nebbie del tempo per il nostro piacere.

Bruno Conti   

Un “Capolavoro” Della Musica Rock! Blues Project – Projections

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Blues Project – Projections – Sundazed Records – ****

Questo Projections è uno dei dischi “fondamentali” della storia della musica rock e di quell’anno straordinario che fu il 1966. Così come i Blues Project sono stati tra i gruppi più importanti di quel periodo fecondo di novità. Nati come prosecuzione del Blues Project che era una compilation di brani di artisti vari pubblicata dalla Elektra nel 1964, in cui appariva tra gli altri anche il musicista folk e blues Danny Kalb, originario della zona del Greenwich Village, che poi fu fulminato come molti musicisti dell’epoaca dalle prime apparizioni dei Beatles sul suolo americano e decise di formare una band rock. Il gruppo nacque nell’estate del 1965 intorno a un nucleo che oltre a Kalb vedeva Steve Katz anche lui alla chitarra, Andy Kulberg al basso e al flauto, Roy Blumenfeld alla batteria e il cantante Tommy Sanders. E con questa formazione si presentarono ad un provino per la Columbia dove vennero clamorosamente rimbalzati. Ma in quell’occasione conobbero Al Kooper, un ex chitarrista trasformato da poco in tastierista e reduce dal clamoroso successo della partecipazione a Like A Rolling Stone di Bob Dylan. I sei uniscono le forze e firmano per la Verve Folkways che li fa esordire con un buon disco dal vivo Live At The Cafe Au Go Go che mette in luce subito i loro grandi pregi.

I Blues Project (che nonostante il nome, non facevano solo Blues, anche ma non solo) erano uno dei primi gruppi “rock” della storia, una delle prime jam band dell’epoca, liberi di improvvisare, come i Grateful Dead loro contemporanei facevano sull’altro lato dell’America, tra psichedelia, lunghe cavalcate chitarristiche, ritmi soul e folk, tanto Blues, l’organo e il piano di Al Kooper in grande evidenza. Il primo disco Live è un buon disco ma il loro capolavoro è questo Projections uno dei dischi più “influenti” di quel periodo. Registrato nell’autunno del 1966, con la produzione di Tom Wilson (reduce dal lavoro nel brano citato di Dylan e che da lì a poco avrebbe prodotto il primo Velvet Underground), nella formazione del gruppo non c’è più il cantante Tommy Flanders e la parti vocali sono divise equamente tra Kalb, Katz e Kooper.

Onestamente Projections, sentito ancora oggi a 45 anni dall’uscita originale del novembre 1966, è un album formidabile, 9 brani per più di 50 minuti di musica di grande livello. La qualità sonora, anche con la rimasterizzazione in mono della Sundazed, non è fantastica, forse il suono del basso di Kulberg è più rotondo. Siamo sui livelli (anzi, forse inferiori come qualità sonora, ma è un parere personale che non inficia la validità del dischetto) delle precedenti edizioni in CD, quella degli anni ’90 che era uscita brevemente per la Mercury se non ricordo male e sempre a fine anni ’90 appariva nella sua interezza nel doppio Anthology pubblicato dalla Universal nella serie Chronicles, in stereo e anche con il meglio del resto della produzione del gruppo.

Comunque per chi vuole l’album puro e duro come fu concepito se lo ritrova in questo CD della Sundazed: si capisce che le cose sono serie fin dalle prime note di I Can’t Keep From Cryng Sometimes, un brano tradizionale arrangiato da Al Kooper che sin dalle prime svisate dell’organo e dai suoni in libertà delle chitarre lancinanti segnala la nascita di quel suono che poi avrebbe influenzato tutta la scuola californiana dai Grateful Dead passando per i Jefferson Airplane, i Doors e quanti altri possono venirvi in mente. Per non parlare dei Ten Years After che avrebbero fatto di questo brano un formidabile tour de force per le loro improvvisazioni dal vivo.

In un baleno ci ritroviamo nel folk barocco e psichedelico a tempo di minuetto della Steve’s Song firmata da Katz, sognante e ricercata ricorda il suono dei primi esperimenti nel rock di Donovan sull’altro dell’oceano. Altro cambio di scena e siamo nel rock’n’roll bluesato della cover di You Can’t Catch me di Chuck Berry con le chitarre lievemente acide che duettano con il pianino di Kooper e nel finale se ascoltate attentamente si riconosce il riff di I’m Going Home del nostro amico Alvin Lee che evidentemente sulla musica del gruppo ci ha costruito una carriera.

Two Trains Running raccoglie undici minuti di pura magia sonora, un lungo slow blues torrido e cadenzato che riprende un brano del repertorio di Muddy Waters e lo trasforma in una delle prime cavalcate rock-blues, in contemporanea con la nascita della Butterfield Blues Band e i primi passi del British Blues, senza dimenticare che questo stile era già presente, in embrione, nel disco dal vivo pubblicato un anno prima. Al Kooper è già uno dei più grandi organisti della storia del rock nel blues come avrebbe confermato con la sua Supersession di un paio di anni dopo. Se non vi basta c’è anche Wake Me, Shake Me che è un altro traditional arrangiato da Kooper e che presenta anche  aspetti rock&soul non dissimili da quanto faceva Stevie Winwood con lo Spencer Davis Group in Inghilterra o in ambito più beat i primi Them di Van Morrison e anche gli Stones.

E poi c’è pure Ma Che Colpa Abbiamo Noi dei Rokes, o meglio Cheryl’s Going Home di Bob Lind  splendido esempio di quel pop psichedelico e flower power che sarebbe nato l’anno successivo. Non manca la prima versione di Flute Thing, un brano strumentale scritto da Al Kooper e guidato dal flauto di Andy Kulberg che scivola verso percorsi easy jazz duettando con l’organo, il piano e l’ondioline di Kooper e le due soliste e che sarebbe poi riapparsa nel repertorio dei Seatrain, il gruppo post Blues Project degli anni ’70.

Si conclude con un altro formidabile blues come Caress me Baby firmata da Jerry Reed ricca di tensione e assoli e la conclusiva Fly Away che i tipi della Sundazed sicuramente per un refuso di stampa attribuiscono a Reed ma è un brano di Al Kooper, un piacevole brano pop con l’armonica di Katz in evidenza ma non particolarmente memorabile. I due Kooper e Katz, nel 1968 avrebbero fondato i grandi Blood, Sweat & Tears ma quella è un’altra storia.

Per il momento “accontentiamoci” di questo Projections uno dei dischi più belli di quel periodo d’oro e che non può mancare in nessuna discoteca che si rispetti. Super consigliato.

Bruno Conti