Da Dublino, L’Ultimo Romantico. Glen Hansard – Between Two Shores

glen hansard between two shores

Glen Hansard – Between Two Shores – Anti / Epitaph

Mi sono accorto che da quando esiste questo blog, a parte in breve nelle varie rubriche, non abbiamo mai recensito approfonditamente un disco di Glen Hansard, musicista in un certo senso arrivato alla terza “vita” musicale da artista: dopo l’inizio di carriera come leader dei Frames, una band che resta tuttora un segreto ben custodito dell’ampia scena rock irlandese, che in carriera ha confezionato dischi che sono quasi sempre rimasti a metà del guado (tra il buono e il meno buono), poi sciolto momentaneamente il gruppo (ma nel 2015, hanno pubblicato un eccellente album Longitude) ha formato un sodalizio musicale e sentimentale con la cantante ( ed ex fidanzata) Markèta Irglovà sotto la ragione sociale Swell Season, raggiungendo pure un certo successo con l’Oscar alla canzone Falling Slowly,  ricevuto per il film Once (di cui era anche protagonista), per poi approdare ad una più che solida carriera solista esordendo con Rytthm And Repose (12), seguito dall’ottimo Didn’t He Ramble (15), prima di arrivare a questo nuovo lavoro Between Two Shores (senza dimenticare alcuni EP di spessore), dove il cantautore irlandese apre il proprio cuore e realizza un disco composto da una decina di “torch song” ricche di fascino.

La gestione di questo disco è stata laboriosa, in quanto tutte le canzoni, scritte interamente dal buon Glen, sono il risultato di sei anni di registrazioni effettuate durante i suoi vari tour, fatto che comunque ha portato lo scorso anno Hansard ad affittare i prestigiosi Black Box Studios francesi e, con l’aiuto del suo fidato “pard” nei Frames e co-produttore David Odlum, supportato in sala di registrazione dalla sua band attuale composta da Joseph Doyle al basso, Rob Bochnik alle chitarre, Graham Hopkins alla batteria e percussioni, Justin Carroll alle tastiere, Michael Buckley al flauto e sassofono, Ronan Dooney e Curtis Fowlkes alle trombe, senza dimenticare l’aiuto di ospiti di qualità tra i quali Thomas Bartlett al pianoforte, Brian Blade alla batteria, Brad Albetta al basso, Rob Moose al mandolino, viola e violino, e come “ciliegine sulla torta” la già citata “ex” Markèta Irglovà, Ruth O’Mahony Brady, Dawn Landes alle armonie vocali (e con questa squadra, credetemi, mi sembra abbastanza difficile fare un disco brutto).

Parafrasando il bellissimo titolo dell’album, il marinaio Glen inizia il suo percorso verso l’altra riva con l’elettrica Roll On Slow, canzone con venature fortemente “soul” e sostenuta da una importante sezione fiati, a cui fanno seguito una superba ballata come Why Woman, con un ritornello che ricorda un po’ la “rollingstoniana” Wild Horses, il sincopato “rock’n’soul” di una trascinante Wheels On Fire, per poi ritornare alla tenue malinconia di una dolce Wreckless Heart, dove nella parte finale svetta la tromba jazz di Ronan Dooney, e cimentarsi in una versione che ricorda molto il sommo connazionale Van Morrison (suo idolo), in una spettacolare Movin’ On https://www.youtube.com/watch?v=INEK7vI3jy0 . Siamo a metà della traversata, che prosegue a gonfie vele con le note pianistiche di Setting Forth (mi ricorda certe cose di un altro bravo irlandese, Damien Rice), il folk raffinato di una quasi “dylaniana” Lucky Man, per poi passare ad un’altra ballata quasi “sussurrata” come One Of Us Must Lose, e in vista della riva sprigionare archi e cori nell’arioso folk della intensa Your Heart’s Not It, prima di approdare con le sue “pene d’amore” al pianismo di una ballata languida quale Time Will Be The Healer, che chiude come una dolce carezza un lavoro fermamente in linea con la sua ultima produzione solista.

Nonostante sia sulle scene fin dai primissimi anni ’90, bisogna riconoscere che la carriera del buon “marinaio” Glen è stata complessa, iniziata come “busker” per le strade della bella Dublino, proseguita come interprete nel famoso e bellissimo film di Alan Parker The Commitmens, e come già detto i progetti con Frames e Swell Season, sino a questa ultima fase dove Hansard ha iniziato un percorso diverso mischiando rock e folk, irish music e soul celtico, stile dove la sua voce calda e fascinosa, e il suo indubbio carisma personale, fanno la differenza. Glen Hansard con questo Between Two Shores conferma di essere un’artista capace di regalare emozioni, un “songwriter” raffinatissimo, con canzoni che non lasciano indifferenti, campione indiscusso delle grandi ballate che chiedono soltanto le orecchie giuste per essere ascoltate, come in questo caso, che (per chi scrive) lo certifica come uno dei cantautori più autorevoli della sua generazione. Incantevole!

Tino Montanari

Un Nuovo Disco Degli Stones? Non “Quelli”… Angus And Julia Stone – Down The Way

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Angus And Julia Stone – Down The Way – Flock/Pias/Self

In Australia il disco è già uscito da alcuni mesi, andando direttamente al numero 1 delle classifiche, guadagnando il disco di platino e continua a resistere nella classifiche di Down Under. Da noi ha visto la luce ai primi di giugno molto in sordina e senza particolari battages pubblicitari.

Disco straordinario? Non direi, ma si fa ascoltare, il filone è quello del neo-folk meglio se di coppia, à la Swell Season ma con meno sentimenti coinvolti (sono fratelli, veri, non di quelle coppie più o meno fasulle che circolano al momento).

I tipi li vedete nella foto, lei sembra la tipica “fatina” ma con un “certononsoche” nello sguardo e con una voce dolce e sottile, lui è un po’ più “stropicciato” voce non memorabile con una leggera zeppola ma efficace, quando cantano in armonia di tanto in tanto la chimica di famiglia a qualcosa porta.

Li hanno paragonati a Joanna Newson (ma lei non è così avventurosa nella ricerca sonora) e Josh Rouse (senza la fissa per gli anni ’70 e la musica ispano-brasiliana) ma hanno delle frecce al loro arco.

Il disco è lunghetto, quasi 70 minuti per 13 brani, ma ha i suoi momenti: Yellow Brick Road, e già il titolo aiuta, è una ballata country-rock dal crescendo notevole cantata da Angus, più di sette minuti sulle strade della California, con una solitaria chitarra acustica che introduce il tema, man mano entrano il piano, una pedal steel, una sezione ritmica younghiana (nel senso di Neil) che prepara la strada per una piacevole cavalcata chitarristica nella seconda parte del brano, belle anche le armonie vocali dei fratelli che danno profondità al brano, davvero niente male.

Quando nelle ballate elettroacustiche (che sono preponderanti) sale al proscenio la voce dolce e infantile di Julia, come nell’iniziale Hold on, potrebbe prevalere una certa “zuccherosità” che si cerca di evitare, non sempre riuscendoci, con arrangiamenti più complessi di archi, scansioni ritmiche più movimentate e atmosfere sognanti e romantiche.

Black Crow cantata da Angus, con le consuete e piacevoli armonie della sorella, ha vaghi ma non troppo agganci con il sound degli ottimi Mumford And Sons (non dimentichiamo la “sorellina minore” Laura Marling che veleggia lungo le stesse coste), mentre l’otttima For you rivela un lato più passionale e movimentato di Julia Stone, con quella voce particolare che potrebbe ricordare anche una Bjork meno inquietante o la Jesca Hoop di cui vi ho riferito mesi orsono, la voce “profonda” del fratello dona maggiore spessore al sound del brano.

Big Jet Plane ha un’aria quasi solare, vagamente orecchiabile (per questo e per il precedente album A Book Like This sono stati scomodati paragoni con i Fleetwood Mac degli anni ’70, quelli californiani, ma con una certa aria sprezzante, come se fosse un demerito, dimenticando che in quel particolare filone musicale Buckingham, Nicks e McVie erano quasi intoccabili, averne di così bravi e infatti qui non ci siamo).

Santa Monica Dream è un acquarello acustico che vorrebbe avere velleità alla Nick Drake, ma rimane impalpabile e sospiroso.

Di Yellow Brick Road abbiamo detto, And The Boys è il singolino ed è il brano che più evidenzia le qualità (e i difetti) dei brani dei fratelli Stone: una innata abilità nel costruire dei piccoli crescendo pop, vagamente cameristici negli arrangiamenti anche complessi, non sempre memorabili sul lato della orecchiabilità ma evidentemente ci stanno lavorando e agli australiani sono piaciuti comunque watch?v=RUDc1frz22E

On the Road a guida Angus, con il suo banjo pizzicato, le chitarre country-rock e quell’armonizzare innato nelle voci dei fratelli ci riporta su territori weastcostiani e non è un delitto. Walk It Off con le sue chitarre pizzicate e gli archi di supporto ritorna su territori vicini al folk ma con i suoi piacevoli saliscendi sonori e la voce di Julia Stone tiene lontana la noia e rievoca quelle atmosfere neo-folk(rock).

Hush, con il suo sottile soffio di armonica cita di nuovo il Neil Young più morbido e, mi ripeto, non è un delitto di lesa maestà, lo fanno in tanti, niente di nuovo sotto il sole ma quella sottile aria di malinconia dona al fascino del brano.

Draw Your Swords, dove nella parte iniziale sussurra anche fratello Angus (ma appare nel testo anche la famosa parolina di 4 lettere), si risolleva nella seconda parte dove la canzone si movimenta maggiormente dopo un inizio francamente soporifero e diventa perfino coinvolgente e vibrante, dalla polvere agli altari, son strani questi fratelli Stone, ma bravi.

I’m Not Yours e The Devil’s Tears sono altre variazioni sul tema e continuano questo alternarsi di voci, una la canto io poi tocca a te, qui cantiamo insieme, in questa democrazia famigliare che ti fa sentire (ma guarda!) in famiglia. Siccome il disco era “cortino” c’è anche una “traccia nascosta”, Old Friend, la numero 14 del disco.

Che dire, per gli amanti della musica morbida ma di buona fattura. Presa a piccole dosi, dà le sue soddisfazioni.

Bruno Conti