Il Disco Blues Dell’Anno? Forse No, Ma Soltanto Perché Non E’ (Solo) Blues! Taj Mahal & Keb’ Mo’ – TajMo

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Taj Mahal & Keb’ Mo’ – TajMo – Concord CD

Henry Saint Clair Fredericks, meglio conosciuto come Taj Mahal, è una vera e propria leggenda della musica americana. Considerato giustamente uno dei giganti del blues, Taj non è mai stato però solo un bluesman: certo, la musica del diavolo è sempre stata quella più presente nei suoi dischi, ma spesso e volentieri il musicista di Harlem si è fatto contaminare da folk, rock, soul, R&B, country, musica africana e, sue grandi passioni, le musiche caraibica e hawaiana. Nella sua carriera ha inciso, live compresi, più di trenta dischi, meno di quanto uno potrebbe pensare (preferendo quindi la qualità alla quantità), ma è stato coinvolto negli anni in una serie innumerevole di collaborazioni, le più note delle quali sono il famoso e variopinto Rock And Roll Circus dei Rolling Stones ed il supergruppo dei Rising Sons insieme a Ry Cooder, una band giovanile dalle enormi potenzialità che avrebbe meritato ben altra fortuna: discograficamente Mahal è fermo dal 2008, anno in cui diede alle stampe l’ottimo MaestroKeb’ Mo’, pseudonimo di Kevin Moore, è invece un personaggio di minor profilo, ma pur sempre di una certa importanza: attivo dagli anni ottanta, Moore è sempre stato un bluesman raffinato e con spesso un occhio rivolto alle vendite, con non infrequenti ammiccamenti al pop e diversi Grammy vinti, anche se ultimamente sembra aver preso stabilmente la strada del blues; Moore e Mahal non avevano mai collaborato, almeno fino ad oggi, dal momento che hanno deciso di unire le forze e pubblicare questo album di coppia, intitolato semplicemente TajMo.

Ed il disco è una vera sorpresa, non tanto per Mahal che sappiamo essere un fuoriclasse, quanto per Moore, il quale, forse stimolato dalla presenza del grande Taj, ha dato il meglio di sé, forse come raramente aveva fatto prima. Un album splendido, suonato e cantato alla grande dai due leader (davvero due generazioni a confronto) e con una lunga serie di ottimi sessionmen che rendono il suono del disco davvero ricco e pieno di sfumature e sfaccettature; come ho scritto nel titolo, il disco non è solo blues, almeno non nel senso canonico del termine: certo, il blues è quasi sempre presente, ma il più delle volte mescolato con il soul (i fiati sono molto presenti), il folk, la musica roots ed anche un paio di ballate, con un giusto bilanciamento di cover e brani originali, questi ultimi, sei su undici totali, tutti scritti da Moore, e due di essi insieme a Taj. Dulcis in fundo, abbiamo anche diversi ospiti di nome (e sostanza), come Bonnie Raitt, l’Aquila Joe Walsh, il songwriter canadese Colin Linden, la percussionista Sheila E. (sorella di Alejandro Escovedo), il grande batterista Chester Thompson, già con Frank Zappa Genesis e la cantante soul e jazz Lizz Wright. Quello che forse stupisce di più è però l’affiatamento tra i due leader, quasi come se TajMo non fosse il primo disco in coppia ma l’ultimo di una lunga serie, con il vecchio Taj (ma anche Kevin non è certo un ragazzino) che si presta volentieri a collaborare in brani non proprio tipici del suo stile.

Si parte benissimo con Don’t Leave Me Here, uno scintillante e potente rock-blues, con i fiati a colorare il suono e le due grandi voci che si alternano, con ottimi interplay tra la chitarra di Moore e l’armonica di Billy BranchShe Knows How To Rock Me è un vecchio brano di William Lee Perryman, alias Piano Red (ed inciso anche da Little Richard), che qui assume le tonalità di un country-blues rurale, con le due voci arrochite e le due chitarre acustiche (quella di Kevin è slide) a guidare le danze, mentre All Around The World è un ritmato soul-errebi di grande presa, vivace, colorato e coinvolgente, con grande uso del pianoforte ed un ottimo background da parte dei fiati e cori femminili, un pezzo più nelle corde di Moore che di Mahal, ma comunque davvero godibile. Om Sweet Om è una ballata decisamente raffinata, quasi vellutata, arrangiata con gusto e con la gran voce della Wright che si unisce a quelle del duo, un brano quasi easy listening ma di gran classe; Shake Me In Your Arms è un rock’n’soul scritto da Billy Nichols, mosso e grintoso, con fiati e chitarre (l’assolo è di Walsh) che si contendono la scena ed i due “giovanotti” che secondo me si divertono un mondo; That’s Who I Am è ottima, un vibrante blues-got-soul dalla melodia orecchiabile e train sonoro diretto (il genere in cui eccelle uno come Robert Cray), ancora con i fiati in gran spolvero ed i nostri che sembrano interagire da sempre.

Diving Duck Blues, di Sleepy John Estes, è l’unico blues “duro e puro” del CD, affrontato alla maniera di Mississippi John Hurt, due voci, due chitarre ed un’aria leggermente folkeggiante, ed il risultato finale è, manco a dirlo, superlativo; Squeeze Box, proprio il brano degli Who, di recente l’ho sentita anche rifatta da Bruce Robison ma, con tutto il rispetto per il countryman texano, qui siamo su un altro pianeta: gran ritmo, atmosfera vagamente caraibica, grande uso di fisarmonica (squeeze box, appunto) da parte di Phil Madeira, ed i due che divertono divertendosi: senza dubbio tra gli highlights del disco. Disco che si chiude con altri due brani scritti da Moore (il secondo con Mahal), la bella Ain’t Nobody Talkin’, altro travolgente errebi venato di rock, e la solare, colorata e godibilissima Soul, nella quale il vecchio Taj si trova nel suo ambiente musicale naturale, per finire con Waiting On The World To Change, una soul ballad di John Mayer, ancora in veste spoglia ma con un leggero accompagnamento ritmico, oltre alle armonie vocali della Raitt.

Un gran bell’album quindi, cosa prevedibile se si mettono insieme una leggenda ed un veterano: consigliato anche a chi non ha il blues come sue genere preferito.

Marco Verdi

Il Suo Primo Vero Disco Dal Vivo! Keb’ Mo’ – Live That Hot Pink Blues Album

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Keb’ Mo’ – Live That Hot Pink Blues Album – 2 CD Kind Of Blue Music 

Pur non essendo più un giovanissimo (compirà 65 anni ad ottobre) Kevin Moore, in arte Keb’ Mo’, a ben guardare non aveva mai pubblicato un vero album dal vivo: Live And Mo’ del 2009 mescolava materiale in studio e dal vivo, e prima ancora c’era stato Sessions at West 54th – Recorded Live in New York, uscito solo in DVD. Quindi ci mancava quel classico doppio dal vivo che ci si può aspettare da un ottimo performer quale è il buon Keb. Bastava dirlo, ed ecco manifestarsi questo Live That Hot Pink Blues Album, comunque un doppio per modo di dire. I dischetti sono due, niente da dire, ma ciascuno comprende 8 pezzi per circa 39 minuti, quindi un totale di neppure 80 minuti, poteva starci in un singolo CD. E come altrettanto spesso è usanza i brani non vengono da un unico concerto, ma sono stati pescati da diverse esibizioni di Keb’ Mo’ con la sua band.. Ma sono gli unici rilievi che mi sento di fare, per il resto la musica è ottima, blues elettrico, qualche pezzo funky, R&B e soul, il tutto innervato anche da una leggera patina gospel, grazie agli ottimi componenti della sua band, Michael B. Hicks alle tastiere, Stan Sargeant al basso e Casey Wasner alla batteria (anche produttore del tutto), a loro volta tutti eccellenti vocalist che supportano in modo egregio il nostro, con eleganti armonie vocali. Il repertorio è composto di brani originali, firmati da Kevin Moore, e se aggiungiamo che Keb’ Mo’ è un bravissimo chitarrista, sia all’elettrica https://www.youtube.com/watch?v=QhYAV5U7HjE , come all’acustica, spesso in modalità slide, ed è in possesso di una delle voce molto versatile, in grado di rivaleggiare con Robert Cray per le nuances soul del suo timbro, ma adatta anche a ballate morbide e melliflue, e cavalcate gagliarde nel blues più classico, con persino qualche detour in un ambito quasi da cantautore, come aveva dimostrato nel buon Bluesamericana del 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/06/08/il-titolo-del-disco-dice-keb-mo-bluesamericana/ , dopo il non totalmente riuscito The Reflection del 2011 http://discoclub.myblog.it/2011/09/10/non-ci-ha-riflettuto-abbastanza-keb-mo-the-reflection/.

E nel live sono rappresentate tutte le facce del nostro: c’è l’intrattenitore “piacione” della leggera e ondeggiante Tell Everybody I Know, dove l’acustica di Keb e l’organo si disputano i piaceri del pubblico presente e di chi ascolterà l’album, il bluesman attizzato della potente Somebody Hurt You dove alla solista claptoniana del leader si aggiungono le armonie vocali perfette dei suoi tre soci, con Hicks che eccelle nuovamente all’organo, a suggellare la versatilità dei mood impiegati, c’è la delicata ballata elettroacustica che risponde al nome di Henry, dove la voce non esagera con il miele ma è comunque calda ed invitante, mentre la solista acustica aggiunge tocchi di classe. Life Is Beautiful, sempre guidata dall’acustica di Moore unisce “antico e moderno”, in una sorta di allegra promenade sonora, dove le tastiere forniscono anche una sezione archi avvolgente, mentre She Just Wants To Dance, con la slide in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=QhYAV5U7HjE  ricorda molto lo stile di uno dei suoi maestri, quel Taj Mahal che ha sempre saputo unire generi diversi nelle sue canzoni, con il blues che poi ritorna nella leggermente funky The Worst Is Yet To Come, con un rotondo giro di basso e le backing vocals dei musicisti a portare il pezzo verso lidi soul/R&B, prima di lasciare spazio alla solista che si prende il suo tempo. Government Cheese è molto anni ’80, a metà tra un groove à la George Benson e gli Steely Dan più leggeri, non sentivo un assolo di synth analogico così old fashion da secoli, il pubblico si diverte e i musicisti pure, prima di lasciare spazio alla fascinosa The Door, una delle sue composizioni migliori, con piano elettrico, organo e l’elettrica di Keb che si tuffano in un soul blues intrigante, molto seventies in cui fa capolino anche una armonica “targata” Stevie Wonder, mentre i tre musicisti della band si dividono lo spazio vocale solista della canzone, tutti molto bravi.

Fine della prima parte: tutti di nuovi sul palco, a Nashville, per Come On Back, altro brano “meticciato” molto anni ’80, la delicata love song a tempo di blues che risponde al nome di France, che piacerebbe di nuovo a “Slowhand”, mentre in More Than One Way Home, sempre su un groove “errebi” lascia spazio alla sua slide e poi di nuovo al giro funky di una leggerina A Better Man. The Old Me Better è uno spazio di blues tradizionale acustico all’interno dello show, con tanto di kazoo in azione, prima di tornare al blues elettrico della notevole Rita e al lungo slow blues Dangerous Mood dove le dodici battute sono le assolute padrone, come pure la chitarra di Keb’ Mo’, in grande spolvero nella jam della parte centrale. Il finale è affidato a una bella ballata pianistica con uso di armonica, la dolce City Boy dove si apprezza ancora una volta la sua voce chiara e sicura. Non sarà solo blues, ma è comunque buona musica https://www.youtube.com/watch?v=mYfC3IhnQgM .

Bruno Conti

Una Serata Da Ricordare! John Lee Hooker & Friends – The House Of Blues

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John Lee Hooker & Friends – The House Of Blues – Klondike 

Il titolo potrebbe essere fuorviante, perché in effetti John Lee Hooker appare solo negli ultimi tre pezzi, ma il concerto è veramente fantastico. Si tratta della registrazione di una serata alla famosa House Of Blues di West Hollywood, Los Angeles, uno dei locali della catena di proprietà di Elwood Blues (ovvero Dan Aykroyd, qui impegnato solo come presentatore, vista la presenza di un paio di armonicisti niente male, di cui tra un attimo): siamo nel giugno del 1995, il concerto viene trasmesso dall’emittente radiofonica WLUP-FM e dovrebbe far parte anche della serie TV Live From House Of Blues che andò in onda sulla TBS (il network di Ted Turner) per 26 puntate e un paio di anni e di cui recentemente hanno festeggiato il 20° Anniversario. Da non confondere con un DVD con lo stesso titolo John Lee Hooker And Friends che però riporta, sempre in modo non ufficiale, una serata con Ry Cooder e Bonnie Raitt. Intanto diciamo che il CD è pubblicato dalla Klondike (due diverse copertine), ma secondo me guardando le grafiche più o meno identiche del retro dei vari dischetti relativi ai broadcast più disparati, non solo per questo concerto, li fa tutti la stessa casa, usando nomi diversi: dicevo comunque che il CD questa volta non è inciso solo abbastanza bene, è perfetto, come un disco ufficiale, la particolarità che lo contraddistingue come “Historic Radio Recordings” (o così è scritto) è il fatto che si tratta proprio della registrazione completa della trasmissione radiofonica, con tanto di presentazioni, annunci, perfino qualche sponsor, riportati nell’esatta sequenza in cui ascoltarono il concerto alla radio in quel lontano 1995.

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Ed è un gran bel ascoltare: la house band della serata è quella di Duke Robillard, in gran forma e in uno dei suoi migliori periodi a livello discografico, quello degli album per la Point Blank/Virgin, particolare che lo unisce ad altri partecipanti della serata, oltre al festeggiato John Lee Hooker, anche John Hammond e Charlie Musselwhite, incidevano tutti per la stessa etichetta. Ovviamente il fatto, anche se significativo, non inficia o eleva la qualità del concerto: si parte, dopo l’introduzione di Elwood Blues, con Zakiya Hooker, la figlia del grande Hook, alle prese con una poderosa Look Me Up, una ballata soul mid-tempo di ottimo spessore, e Robillard scalda subito l’attrezzo (la chitarra, cosa avete capito!) che rimane incandescente con una scintillante versione di Too Hot The Handle, il brano che dava il titolo al suo disco di esordio, con Duke che all’epoca era veramente in gran forma, ragazzi se suonava! E anche l’omaggio a Albert Collins con una lunga e sofferta Dyin’ Flu è da manuali del perfetto bluesman, un lento di quelli da sballo. La band rimane per accompagnare uno degli “originali” come Lazy Lester che propone una pimpante Sugar Coated Love, il suo successo per la Excello del 1958, che anche i Fabulous Thunderbirds avevano in repertorio la voce è ancora quella dei vecchi tempi e anche l’armonica viene soffiata con vigore.

John Hammond poi sale sul palco per proporre una versione fantastica di Come On In My Kitchen, solo voce e chitarra bottleneck acustica e si unisce con la band di Duke Robillard per proporre una Found Love che avrebbe trovato posto nel disco registrato insieme e che verrà pubblicato da lì a poco, ottimi gli interventi di Hammond all’armonica e di Duke alla solista. Altro armonicista incredibile è Charlie Musselwhite, ottimo anche il suo segmento di concerto con Blues Overtook Me e con una stellare rilettura di Help Me, il celeberrimo brano di Sonny Boy Williamson, oltre otto minuti di grande blues. A questo punto arriva Taj Mahal, pure lui in grande serata, prima da solo, accompagnato da una tastiera, propone una divertente e salace Big Leg Mama, poi con la Duke Robillard Band altri lati del suo enorme talento, la jazzata Strut dove si concede anche qualche accenno di scat e infine una versione di She Caught The Katy, dal suo capolavoro The Natch’l Blues, che lo mette in concorrenza con Otis Redding e non so chi vince. Nel disco originale alla chitarra suonava Jesse Ed Davis, ma in precedenza Taj aveva diviso i palchi con Ry Cooder che a questo punto sale sul palco con la sua slide per accompagnare John Lee Hooker in una magica versione di Crawling King Snake, fantastica l’intensità della accoppiata con il Maestro, in gran forma con il suo vocione che incita Ry a estrarre dalla sua chitarra l’essenza del blues, poi riproposta in una versione full band più la slide di Cooder, di nuovo con Robillard e soci, del classico One Bourbon One Scotch One Beer e a concludere i poco più di  dodici essenziali minuti della presenza di Hooker non poteva mancare una esplosiva Boom Boom, fine, titoli di coda, grande serata, assolutamente da avere!

Bruno Conti

Ma E’ Ancora Vivo, Eccome! Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue, La Recensione.

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Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue – Yada/Yasca – RCA/Sony – 24-03-2015 “Ma è ancora vivo!”: circa un mesetto fa così titolavo il post dove vi annunciavo l’uscita del nuovo disco di “Van The Man”, ora l’attesa è finita e il nostro amico è vivo e vegeto, pronto anche a lui a compiere i 70 anni alla fine di agosto, e li festeggia con un bel disco di duetti, andando a pescare nel suo enorme catalogo passato di canzoni, lasciando per una volta da parte i classici per rivisitare episodi cosiddetti minori, che parlando però di uno come Van Morrison , tali non sono, diciamo meno conosciuti. Inutile dire che l’album suona un gran bene e lui ha ancora una voce strepitosa, non sempre, forse, i suoi partners sono all’altezza, ma nel complesso il disco pare destinato a diventare un piccolo classico del suo catalogo, per rimanere in tema con il titolo e in ogni caso l’arte del duetto è sempre stata insita nella natura di Morrison. Quindi andiamo a vedere, brano per brano, cosa succede in questo Duets. Per l’occasione si è preso come collaboratori per completare l’album, registrato lo scorso anno tra Belfast e Londra, non uno ma addirittura due produttori, Don Was e Bob Rock, e dall’aria che si respira nel disco sembra che si sia divertito parecchio a farlo, a giudicare dalle risate di compiacimento tra i due alla fine di How Can A Poor Boy?, il duetto dal vivo con Taj Mahal, o la complicità che traspare nello scambio di battute musicali tra lui e Chris Farlowe nella rilettura di Born To Sing, il brano più recente, apparso nel disco omonimo del 2012.

1. Some Peace Of Mind – Van Morrison & Bobby Womack Il brano che apre questa raccolta era stato in origine pubblicato nel doppio album (l’unico in studio dell’irlandese) del 1991, Hymns To The Silence. E Morrison in un’intervista recente https://www.youtube.com/watch?v=1mYkDbmJ8S8 dice che non era a conoscenza delle cattive condizioni di salute di Womack che sarebbe morto a fine giugno del 2014, anzi, gli pareva in buona forma, almeno esteriormente. Il brano viene proposto in una versione più grintosa rispetto a quella del 1991, con Van e Bobby che si alternano alla voce solista e poi armonizzano nel finale, mentre un bel arrangiamento di archi e fiati irrobustisce il sound della canzone, con due soli di sax e trombone che lo impreziosiscono. Un classico esempio di soul alla Van Morrison, tanto per aprire alla grande.

2. If I Ever Needed Someone – Van Morrison & Mavis Staples La voce di Mavis Staples ha combattuto mille battaglie sonore nel corso degli anni e risente, con una certa raucedine, del passare del tempo, ma è ancora animata dal fuoco del gospel e del soul e in questa versione di un brano che appariva su His Band And The Street Choir, un disco del 1970, è assolutamente paritaria con il “vecchio” Van, per un risultato che emoziona non poco, grande musica.

3. Higher Than The World – Van Morrison & George Benson

Questo brano viene da Inarticulate Speech Of The Heart, uno degli album più spirituali della discografia del rosso irlandese, che in questo caso appoggia il suo stile al jazz-soul di Benson, con una versione ritmata e mid-tempo dove l’artista americano ha modo di mettere in evidenza il suo vellutato stile chitarristico e anche accenni del suo tipico scat vocale, piacevole senza essere memorabile, bello l’assolo di sax nel finale, ma a memoria l’originale mi sembrava più bello.

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4. Wild Honey – Van Morrison & Joss Stone

Wild Honey era su Common One, un altro dei dischi del periodo soul celtico degli anni ’80 e Joss Stone se la cava alla grande, mettendo a disposizione del suo ospite quella bella voce che la conferma come uno dei migliori giovani talenti del soul contemporaneo https://www.youtube.com/watch?v=10lpglxnM0I , l’interscambio tra le due voci è perfetto, e per una volta entrambi possono duettare tra pari, su uno sfondo quasi jazzato di gran classe. Il tono della voce di Van pare essere quasi compiaciuto e deliziato nello splendido finale con i due in assoluta libertà.

5. Whatever Happened To P.J. Proby – Van Morrison & P.J. Proby P.J. Proby ormai veleggia verso i 77 anni, ma già nel 2002 il nostro Van si chiedeva cosa gli fosse successo, in questo piccolo divertissement che all’origine si trovava su Down To Road. Il vecchio texano (ma tutti sono convinti che sia inglese, perché lì si è svolta la sua carriera), una dozzina di anni dopo gli fa sapere che tutto va bene e dimostra di essere ancora in grado di fare un bel duetto tra leggende, anche se il brano obiettivamente era e rimane, in questo caso, “minore”!

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6. Carrying A Torch – Van Morrison & Clare Teal

Clare Teal è considerata una delle più grandi cantanti jazz inglesi contemporanee (sentire per credere https://www.youtube.com/watch?v=0ppqwywWias), quella che ha avuto in tempi recenti il contratto più sostanzioso da una etichetta discografica. La voce è in effetti deliziosa e contribuisce non poco alla bellezza di una ballata sentimentale come Carrying A Torch, sempre tratta da Hymns To The Silence, dove gli archi e il piano sono gli altri elementi portanti di questo intenso brano.

7. The Eternal Kansas City – Van Morrison & Gregory Porter

The Eternal Kansas City era su A Period of Transition, forse a ragione considerato il disco “più brutto” del primo periodo di Van Morrison, anche se non si direbbe, a giudicare da questa versione registrata con Gregory Porter, una delle stelle del nuovo jazz americano https://www.youtube.com/watch?v=zbBbI8N2qJc , vincitore del Grammy 2014 di categoria ed in possesso di una voce in grado di spaziare con estrema facilità tra jazz e soul, come dimostra in questa canzone, anche grazie all’intermezzo strumentale che è jazz puro e all’incrociarsi libidinoso delle due voci https://www.youtube.com/watch?v=r5iS336UiDw .

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8. Streets Of Arklow – Van Morrison & Mick Hucknall Veedon Fleece è uno dei miei album preferiti in assoluto di Van Morrison, uno dei più complessi ed intensi della sua discografia e Streets Of Arklow una delle canzoni più belle del disco. Questa versione che segna l’incontro tra i due “rossi” mantiene la magia mistica dell’originale ed è uno dei punti più alti di questo album di duetti, anche grazie a “Mister Simply Red” Mick Hucknall che realizza una delle migliori interpretazioni vocali della sua carriera. Perfetta. 9. These Are The Days – Van Morrison & Natalie Cole La canzone era una delle più belle in Avalon Sunset, uno degli album di maggior successo della carriera di Morrison, quello per intenderci che conteneva anche Whenever God Shines His Light e Have I Told You Lately. Si tratta di una ballata mid-tempo, leggera e scorrevole, che si attaglia perfettamente alla voce di Natalie Cole. van morrison 4

10. Get On With The Show – Van Morrison & Georgie Fame

Georgie Fame è stato l’organista della band di Morrison dal 1989 al 1997, ma è stato anche uno degli artisti di maggior successo nelle classifiche inglesi degli anni ’60 con ben tre brani al numero uno, poi si è ritagliato una carriera R&B e Jazz che prosegue a tutt’oggi: i due vanno a nozze con questa canzone tratta da What’s Wrong With This Picture?, un disco dei primi anni 2000 uscito per la Blue Note, qui ripreso in una divertente versione a tempo di cha-cha-cha.

11. Rough God Goes Riding – Van Morrison & Shana Morrison

La figlia di Van, Shana, ha già duettato parecchie volte con il babbo, sia nei suoi dischi come in quelli del padre e fa la sua porca figura (nel senso che canta veramente bene) in questa bellissima riscrittura di un brano che appariva in origine su The healing game, il disco del 1997 che è uno dei migliori del Morrison dell’ultimo periodo. Classico celtic soul con Van che però viene interrotto e sfumato quando cominciava ad infervorarsi da par suo nel finale della canzone, che rimane comunque tra le più soddisfacenti dell’album.

12. Fire In The Belly – Van Morrison & Steve Winwood

L’incontro tra due delle più belle voci della musica britannica avviene sulle note della bluesata Fire In The Belly, sempre tratta da The healing game, e i due cantano, cazzo che se cantano, scusate, mi è scappato, ma ci voleva.Oggigiorno, in una pletora di dischi inutili dove ci vengono magnificati e propinati improbabili cantanti provenienti da talent show e gare sonore varie, presentati come fenomenti, sentire due che cantano (e suonano, sentire l’assolo di organo di Steve Winwood) così è un vero piacere per le orecchie https://www.youtube.com/watch?v=aH9R0KN7y5s

13. Born To Sing – Van Morrison & Chris Farlowe A proposito di gente nata per cantare, come recita il titolo del brano, Born To Sing, che era anche il titolo dell’ultimo album di Van Morrison sino ad oggi (in effetti era No Plan B), pure il duetto con Chris Farlowe,  uno che a livello di talenti canterini non scherza, è notevole. Tra Sam Cooke e Ray Charles i due si sfidano in un brano fiatistico di grande appeal, musica “semplice”, in fondo stanno “cantando il blues”, ma lo fanno con un impegno ed una passione sempre ammirevoli, non scalfita dal passare degli anni e senza quell’aria di deja vu o se preferite, “già sentito”, che ogni tanto percorre stancamente certi dischi dell’irlandese, ma per il sottoscritto, che è assolutamente imparziale, ci mancherebbe, potrebbe anche cantare l’elenco del telefono e andrebbe sempre bene, ma non è il caso di questo disco. La rivista Mojo che ultimamente non sempre era stata tenera con i dischi di George Ivan Morrison gli ha assegnato le canoniche quattro stellette che spettano ai dischi “importanti”!

14. Irish Heartbeat – Van Morrison & Mark Knopfler Irish Heartbeat era il titolo della title-track del disco registrato da Morrison con i Chieftains nel 1988, un brano bellissimo nella versione originale, ma se è possibile questa registrata con Mark Knopfler nel suo studio è ancora più bella, a conferma dello stato di grazia raggiunto dall’ex Dire Strait con l’ultimo Tracker e che viene ribadita in questo brano dove nel finale Van vocalizza e duetta nel suo modo inconfondibile con la chitarra di Knopfler. Stupenda versione. Il brano era stato inciso per la prima volta su Inarticulate Speech Of The Heart. https://www.youtube.com/watch?v=_oPb2Ma9z2M.

15. Real Real Gone – Van Morrison & Michael Bublé Nell’anticipazione sul Blog del nuovo album ipotizzavo, sulla base dell’ascolto di questo solo brano, che se perfino il brano cantato con Michael Bublé era bello, l’intero album si preannunciava, come poi è stato, un successo a livello creativo e di idee; la canzone Real Real Gone, è una delle tipiche composizioni gioiose di Morrison, di quelle da cantare a voce spiegata, orecchiabili e radiofoniche, ma sempre a livello sublime in confronto a quello che si ascolta abitualmente on the radio.

16. How Can A Poor Boy? – Van Morrison & Taj Mahal Si finisce a tempo di Blues, John Lee Hooker e Jimmy Witherspoon che erano due dei partner abituali di Morrison, quando voleva cantare il blues, non ci sono più, ma Taj Mahal è ancora in grado di infiammare le dodici battute con la sua classe immensa e i due, come dicevo all’inizio del Post si divertono davvero tra loro e divertono l’ascoltatore con questa versione incandescente di How Can A Poor Boy?, un brano che si trovava su Keep It Simple, ma in questo nuovo duetto è infinitamente superiore. Chi paventava la ciofega o la patacca non tema, questo Duets è un grande disco, con due o tre brani non dico scarsi, ma “normali”, e il resto decisamente sopra la media, esce martedì 24 marzo.

Bruno Conti

Ma E’ Ancora Vivo! Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue

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Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue – Yada/Yasca – RCA/Sony – 24-03-2015

Ormai avevo quasi perso le speranze, le grandi case discografiche le aveva girate tutte (litingando con chiunque) e invece all’appello mancava ancora la Rca del gruppo Sony e quindi, dopo tre anni di silenzio (pensavo di più), torna anche il grande Van Morrison, uno dei miei preferiti in assoluto, con un disco di duetti dove rivisita il vecchio catalogo. Oddio, alcuni dei protagonisti di queste accoppiate non li avrei scelti, a favore di altri, ma se persino Michael Bublé risulta sopportabile, speriamo in bene.

Comunque, questa è la lista completa dei brani e degli artisti coinvolti (vi sorprenderà Clare Teal https://www.youtube.com/watch?v=wKE04wbOcYc):

1. Some Peace Of Mind – Van Morrison & Bobby Womack
2. If I Ever Needed Someone – Van Morrison & Mavis Staples
3. Higher Than The World – Van Morrison & George Benson
4. Wild Honey – Van Morrison & Joss Stone
5. Whatever Happened To P.J. Proby – Van Morrison & P.J. Proby
6. Carrying A Torch – Van Morrison & Clare Teal
7. The Eternal Kansas City – Van Morrison & Gregory Porter
8. Streets Of Arklow – Van Morrison & Mick Hucknall
9. These Are The Days – Van Morrison & Natalie Cole
10. Get On With The Show – Van Morrison & Georgie Fame
11. Rough God Goes Riding – Van Morrison & Shana Morrison
12. Fire In The Belly – Van Morrison & Steve Winwood
13. Born To Sing – Van Morrison & Chris Farlowe
14. Irish Heartbeat – Van Morrison & Mark Knopfler
15. Real Real Gone – Van Morrison & Michael Bublé
16. How Can A Poor Boy? – Van Morrison & Taj Mahal

Sembra in forma il grande Van The Man https://www.youtube.com/watch?v=AjhSr4pqLGo , anche lui compie 70 anni nel 2015 https://www.youtube.com/watch?v=NIIAip9F-ws . Manca solo un mese all’uscita.

Bruno Conti

Anche Dopo La Sua Morte Prosegue Una Serie “Infinita”! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11

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Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11 – Friday Music

Johnny Winter ci ha lasciati il 16 luglio di questa estate non particolarmente calda, trovato senza vita nella sua camera d’albergo a Zurigo, in circostanze mai chiarite, due giorni dopo la sua ultima esibizione dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/07/17/ieri-oggi-sempre-fedele-true-to-the-blues-boxset-the-johnny-winter-story/ . Come sapete è uscito un nuovo (bellissimo) album di duetti, Step Back, la cui uscita era già comunque prevista, ma prima è stato pubblicato questo capitolo 11 delle Live Bootleg Series, croce e delizia degli appassionati della musica dello scomparso albino texano. Visto che caratteristica di questi album è sempre stata quella di non riportare nome dei musicisti impiegati e date e luoghi dei concerti da cui sono tratti i brani (e anche questo volume non fa eccezione), almeno ci si aspettava che Paul Nelson, curatore della serie, manager e factotum,  spesso secondo chitarrista nella sua band e “amico” di Winter, avrebbe almeno inserito sul CD un piccolo ricordo del musicista scomparso, ma evidentemente era troppo sperarlo. Qualcuno dirà che forse il disco era già pronto e non si potevano fare aggiunte, ma almeno un piccolo sticker avrebbe richiesto veramente poco, però da come è stata gestita la serie non dobbiamo poi meravigliarci troppo.

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I contenuti musicali di questo nuovo album sono i soliti: sei brani, sette se contiamo un Opening di pochi secondi, che a livello musicale vanno dal buono all’eccelso, anche se come qualità di registrazione, al solito, si fatica ad arrivare alla sufficienza, ma d’altronde di Bootleg si parla (anche se uno si chiede come mai i bootleg ufficiali di Dylan e di moltissimi altri si sentano benissimo, ma evidenetmente è una domanda retorica ). Ed in effetti il repertorio di questo disco, ribadisco, a livello musicale è eccellente: si va dall’introduzione fulminante di una poderosa E-Z Rider, quella incisa meglio, tratta dal repertorio di Taj Mahal, tra R&R e Blues, con la voce e la chitarra di Winter, anche con un wah-wah vagamente hendrixiano, subito in gran spolvero https://www.youtube.com/watch?v=8-XdsfGuZVw . Boot Hill, un traditional rivisitato che appariva sul disco Alligator del 1984, Guitar Slinger https://www.youtube.com/watch?v=hSY1MuA091A , non è tra i brani più eseguiti dal vivo nella discografia di Johnny Winter e quindi, in virtù di una ottima esecuzione, dove appare anche un pianista, naturalmente non accreditato (se siamo a metà anni ‘80, potrebbe essere Ken Saydak, ma tiro proprio a indovinare, potrebbe essere chiunque) si ascolta con piacere, anche se la qualità sonora subisce un drastico peggioramento. Notevole il festival slide in una versione fiume di Long Distance Call, uno dei tre brani provenienti dal repertorio del suo mito Muddy Waters.

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Ottima anche la versione di Baby What’s Wrong di un altro dei maestri indiscussi del Blues, Jimmy Reed, dove si sente anche un’armonica, sempre in base al periodo ipotizzo un Billy Branch, non sarà lui ma la butto lì. Non male, per usare un eufemismo, pure una calda e sentita rilettura di She Moves Me, sempre di Mastro Muddy e torrida ed entusiasmante la Rollin’ And Tumblin’ che va a concludere il dischetto, con la chitarra devastante di Winter ancora in modalità slide, come nel brano precedente, a duettare con la solita “timida” armonica sepolta nel mixaggio confuso del disco. Come dice un proverbio “chi si accontenta gode” e qui, almeno a livello vocale e chitarristico, c’è da godersi ancora una volta uno dei più grandi musicisti bianchi che abbia mai suonato il Blues!

Bruno Conti

Il Titolo Del Disco Dice Tutto! Keb’ Mo’ – Bluesamericana

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Keb’ Mo’ – BLUESAMERICANA – Kind Of Blue Music

Se dovessi indicare un erede di Taj Mahal, anche se il buon Taj è tuttora vivo e vegeto, diciamo un epigono, un “seguace”, forse ancora meglio, vi farei sicuramente il nome di Keb’ Mo’. Entrambi eclettici polistrumentisti, Taj se la cava discretamente a chitarra, armonica, banjo, piano e ukulele, Kevin Moore, più virtuoso del “maestro”, suona chitarra, acustica, elettrica e slide, banjo, tastiere, basso, armonica, bravissimo pure alla resonator (e in questo album li suona tutti), come tecnica musicale è sicuramente superiore a Mahal, che però dalla sua ha una voce straordinaria, in grado di districarsi in tutti i generi, dal blues al soul e R&B, la musica reggae e caraibica in generale, naturalmente world music e tutti i sottogeneri, blues-rock, jazz blues, blues del delta, country music. Anche Keb’ Mo’ spazia attraverso vari stili, non per nulla, per ribadire questa caratteristica, ha voluto chiamare questo disco BluesAmericana, per ribattere a chi definisce la sua musica semplicemente Blues, mentre nei suoi dischi, fin dagli esordi ufficiali, con il disco omonimo del ‘94 (anche per lui, come per altri, forse il migliore, ma la qualità nel corso degli anni è rimasta sempre elevata, con qualche calo di tensione http://discoclub.myblog.it/2011/09/10/non-ci-ha-riflettuto-abbastanza-keb-mo-the-reflection/), ci sono sempre stati anche gli elementi della cosiddetta “Americana”: country, folk, rock, roots music, musica nera in generale e pure questo CD, al di là del titolo, si allinea su questi stilemi https://www.youtube.com/watch?v=jCXEv_1LavU .

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La voce di Keb’ Mo’ è pure notevole, calda e suadente, meno “vissuta” forse di quella di Taj Mahal, più pulita, ma non priva di forza e grinta, come testimoniano anche i recenti tributi a Jackson Browne e Gregg Allman.Tra i tanti con cui ha collaborato in questo album troviamo Colin Linden, che per non entrare in rotta di collisione con il virtuosismo di Moore, si cimenta qui al mandolino in The Worst Is Yet To Come, il brano che apre questo CD e che ben evidenzia la musica che poi troveremo a dipanarsi nei successivi pezzi: c’è il blues, il rock, un tocco di gospel, che non avevamo citato (nei cori), e il risultato, per certi versi, può ricordare alcunii episodi della Band, con banjo e mandolino che si inseguono armoniosamente in questo divertente inventario di piccole disgrazie che si succedono senza soluzione di continuità, “il peggio deve ancora arrivare”, recita il titolo https://www.youtube.com/watch?v=1hul1kuWDKE . Keb’ Mo’ parte sempre da una base acustica, che doveva essere nelle intenzioni, il fil rouge del disco, ma poi, grazie all’intervento di molti ospiti e all’ottimo lavoro del co-produttore Casey Warner, che suona anche la batteria in alcune canzoni, ottiene un suono più ricco e complesso. Ad esempio in Somebody Hurt You, che è un blues intriso di spiritual, con un bel call and response con i quattro vocalists che curano le armonie vocali nel brano, impreziosito dalle chitarre elettriche del titolare, un organo suonato da Michael Hicks e una tenue speziatura di fiati.

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Come è successo a molti artisti prima di lui, tutti direi, la vita scorre e quindi Keb’ Mo’ non è più di primo pelo, va per i 63 anni, con una lunga gavetta alle spalle, ha acquisito una esperienza che gli permette di districarsi nei vari umori che compongono questo BluesAmericana, ad esempio Do It Right, dove banjo e armonica colorano le tessiture armoniche del brano che viene attraversato da una delicata slide acustica che caratterizza questo brano. I’m Gonna Be Your Man è un blues più canonico, anche se citazioni di celebri frasi di altre canzoni e quell’aria tra soul e gospel sono sempre presenti, come l’immancabile slide acustica e la resonator, mentre una sezione ritmica, precisa e presente comunque in quasi tutti i brani, lascia spazio nel finale anche ai fiati. Move è il brano più elettrico della raccolta, Tom Hambridge siede dietro i tamburi, Paul Franklin aggiunge la sua pedal steel al corpo musicale della canzone e il risultato potrebbe ricordare le cose migliori di Robert Cray https://www.youtube.com/watch?v=ejm-js8JW9c .

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La pedal steel rimane anche per la successiva For Better Or Worse, una di quelle ballate struggenti, sulle pene d’amore in questo caso, che di tanto in tanto il nostro amico ci regala, cantata con grande partecipazione e suonata in modo compiuto, con slide e steel che si integrano perfettamente, avete presente il Ry Cooder più ispirato?   That’s Alright è una cover di un brano di Jimmy Rogers, il bluesman, Moore suona tutti https://www.youtube.com/watch?v=vtTxLIrumSYgli strumenti, lasciando solo la batteria a Steve Jordan, in un blues elettrico, di quelli duri e puri, molto bello, tipo il ricordato Taj Mahal dei primi dischi https://www.youtube.com/watch?v=sh16F0PguE0 . The Old Me Better, firmata con John Lewis Parker, è un perfetto esempio di Crescent City sound, con tanto di marching band aggiunta, i California Feet Warmers, che aggiungono autenticità al brano, difficile tenere fermi i piedi. Altro brano che giustifica l’Americana nel titolo è More For Your Money, scritta con Gary Nicholson, spesso pard di Delbert McClinton, una sorta di moderno ragtime elettroacustico sulla falsariga di certe cose di David Bromberg, come pure So Long Goodbye altra ballatona amorosa, dolce il giusto, senza essere troppo zuccherosa. Un buon album, tra i migliori della sua discografia.

Bruno Conti    

Dieci Anni Di Canzoni In Un “Bignami” Del Blues Acustico, Ma Non Solo! Eric Bibb – In 50 Songs

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Eric Bibb – In 50 Songs – Dixiefrog Records – 3 CD

E’ ormai da quasi un ventennio che Eric Bibb, bluesman newyorchese domiciliato a Helsinki, Finlandia, dove vive con la moglie (e con Keb’ Mo uno dei leader del revival del blues acustico), si affaccia con puntuale regolarità sul mercato discografico, e dopo la bellezza di 28 album (per lo più in proprio), o con altri (Friends o Sisters & Brothers), arriva ora questa ulteriore retrospettiva In 50 Songs, un compendio delle registrazioni di Eric Bibb del passato decennio, distribuite su 3 CD, 50 brani, per oltre 3 ore di musica straordinaria.

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Eric è figlio d’arte, suo padre è il musicista e attore Leon Bibb (e lo zio era il grande jazzista John Lewis, del Modern Jazz Quartet) e il nostro è cresciuto a New York durante il boom della musica blues e folk dei sixties, quindi  con una sua formazione musicale ricca di stimoli, in quanto Dizzy Gillespie era di casa, e anche Pete Seeger era grande amico di papà Leon. A soli vent’anni lascia la famiglia per andare a vivere in Svezia dove inizia la carriera solista, proponendo la sua musica, una miscela ricca di blues ma che comprende elementi country, folk, gospel, soul, e reggae, eseguita in modo vario e inappuntabile, cantata con una voce che è difficile dimenticare. Per ovvi motivi di spazio, non sto a elencare (come di consueto) tutti i brani di questa raccolta, mi limito a ricordarvi per ogni CD i brani più significativi, segnalando che, purtroppo, non ci sono “gioielli” tratti dagli album Just Like Love (02), Family Affair (04), Get On Board (08) e Blues, Ballads & Work Songs (11).

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Il CD 1 è composto da brani estratti da Natural Light (03), Friends (04), A Ship Called Love (05), Praising Peace (06) e Diamond Days (06), tra cui spiccano l’iniziale In My Father’s House dal ritmo sincopato https://www.youtube.com/watch?v=K6oMzZYja94 , Heading Home con una dolce armonica, la ballata acustica Sittin’ In A Hotel Room, il blues tradizionale Boll Weevil, e duetti di spessore, con la bravissima Ruthie Foster in For You https://www.youtube.com/watch?v=2elOFzR5Kts , con Kristina Olsen in If I Stayed https://www.youtube.com/watch?v=PH69Q74b0EU e il gospel 99 ½ Won’t Do con il grande Guy Davis https://www.youtube.com/watch?v=7yoIl6gBfto .

Il CD 2 pesca invece da album più recenti come Spirit I Am (08), Live A’ Fip (09), Deeper In The Well (12) http://discoclub.myblog.it/2012/02/09/saluti-dalla-louisiana-eric-bibb-deeper-in-the-well/  e l’ultimo Jericho Road (13), aperto dalla meravigliosa Dance Me To The End con la partecipazione di Jerry Yester, passando per l’ammaliante soul di A Ship Called Love, la solare Dig A Little Deeper In The Well che non sfigurerebbe in un disco di Jimmy Buffett, i caldi ritmi “caraibici” di On My Way To Bamako con Habib Koitè https://www.youtube.com/watch?v=MTQnYyyAFCo , la gara di bravura con Martin Simpson in The Cape https://www.youtube.com/watch?v=IIECz7Y01-U , e il tradizionale Hold On, quasi nove minuti di pura magia elettroacustica dal vivo.

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Il CD 3 oltre a delle rarità, come il duetto con Taj Mahal in Goin’ Down Slow, il blues acustico di Don’t Ever Let Nobody… e Bourgeois Blues, il gospel di Send Us Brighters Days ancora con Habib Koitè, presenta tre brani inediti, il tradizionale Wayfaring Stranger quasi sussurrato, una Shingle By Shingle dove risalta la bella voce di Eric, andando a chiudere con un altro tradizionale Needed Time, con sonorità “cajun” che mi ricordano i bravissimi Beausoleil di Michael Doucet https://www.youtube.com/watch?v=pvRvt6AQHuk .

Eric Bibb è sicuramente uno dei massimi esponenti contemporanei della scena folk-blues, anche se si esprime in una dimensione leggermente più cantautorale (rispetto ai vari Davis e Keb Mo, per citarne alcuni altri), con una personalità musicale che sembra riscrivere le tradizioni in un suo personale viaggio tra folk, blues e musica d’autore.

Per chi non lo conosce un’occasione unica per portarsi a casa, con pochi euro, un “bignami” della musica di Eric Bibb, 50 canzoni che sono come “i gioielli della corona”: un suggerimento per un regalo, ad altri o a voi stessi, di cui non dovrete pentirvi.

Tino Montanari

Un Grande “Storyteller” In Fuga Verso Il Freddo Nord! Kreg Viesselman – If You Lose Your Light

kreg viesselman if you lose

Kreg Viesselman – If You Lose Your Light – Continental Song City/Ird

Kreg Viesselman dal Minnesota, è un cantautore Americano che da qualche anno è stato artisticamente adottato dalla Norvegia, dove questo suo ultimo lavoro If You Lose Your Light ha suscitato l’ammirazione degli addetti ai lavori e del pubblico. Partiamo quindi dagli esordi: nel ’98 il buon Kreg incide un EP dal vivo nel Maine, ma l’album non va oltre i confini dello stato. Nel ’02 ritorna in sala d’incisione per incidere l’omonimo Kreg Viesselman  in completa solitudine, ma anche in questo caso il nome Viesselman rimane ancora nell’oblio. Cinque anni dopo, all’incirca, (sono questi i tempi che occorrono quando non si lavora con grandi etichette), il musicista torna ad incidere con un album più ricco di contenuti e di musicisti http://www.youtube.com/watch?v=w-EOdoZj5Io , e il risultato è il bellissimo The Pull, che finalmente lo porta all’attenzione della critica e degli ascoltatori http://www.youtube.com/watch?v=hZqKxXNmidw .

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Cresciuto alla scuola di Ray LaMontagne (con un ottimo seguito di fans in Europa) Kreg scrive canzoni che viaggiano sul confine tra chitarra e pianoforte (come si faceva negli anni ’70), e tutte le canzoni di If You Lose Your Light sono farina del suo sacco, e così pure la produzione, seppur condivisa con altri amici. L’album è stato registrato in Norvegia (dove è uscito già dal 2012), con l’aiuto di musicisti del luogo, che rispondono al nome (spero di non sbagliare) di Oystein Hvamen Rasmussen alla batteria, Sondre Meisfjord al basso, Bjarne Gustavsen al pianoforte, la dolce Annelise Frokedal alle armonie vocali, e ovviamente la chitarra acustica e la voce calda e nera di Kreg Viesselman.

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Il trittico iniziale è composto da brani toccanti come If You Think You Knew Me Once http://www.youtube.com/watch?v=mODNNvcX5HU , una ballata che ricorda il già citato Ray LaMontagne (*NDB, aggiungerei anche il primo David Gray e mastro Van), a cui fanno seguito il duetto in Half Baked News con Annelise http://www.youtube.com/watch?v=U6LQ4V3kO7Q  e una Morning, Come and Help Me con le chitarre in spolvero e coretti femminili. Si riparte con la solitaria The Great Deceiver http://www.youtube.com/watch?v=AoG7NAV2s8U (*NDB Il video è stato registrato sette anni fa per una televisione locale di Como, perché noi italiani siamo avanti, e diciamolo!), la dolcissima The Cups e l’interessante esperimento di Emigration sempre in duetto con la Frokedal, su un caldo tessuto folk. La title track è una ballata calda e passionale, una dolce canzone d’amore in cui la voce di Kreg è particolarmente ispirata, mentre Freeze Of  Life è un altro brano folk vicino allo spirito di LaMontagne, per poi chiudere con le dolcissime Nantucket Woman e The Well , brani di una bellezza cristallina , valorizzati dalla sua inconfondibile voce “soul”.

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Il suono di If You Lose Your Light  è caldo e intimo, e se i brani sono toccanti, il  merito va ascritto principalmente alla voce cavernosa, fumosa e malinconica di Kreg, che si dimostra (come in The Pull) anche un ottimo performer, per un album che ricorda vagamente i dischi degli anni ’70.  Il grande Taj Mahal ha speso per questo artista (ormai scandinavo, risiede da anni in Norvegia) parole d’elogio e l’istinto del vecchio “bluesman” non sbaglia di certo, quindi segnatevi questo nome, Kreg Viesselman, risentiremo parlare di lui, ma intanto cominciate a cercarlo da subito, lui la luce non l’ha persa!

Tino Montanari

Manolenta Va Ai Caraibi! Eric Clapton – Old Sock

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Eric Clapton – Old Sock – Bushbranch/Surfdog/Polydor CD

So che il titolo del post potrebbe anche sembrare quello di un’avventura di un personaggio dei fumetti, ma è in realtà il modo più sintetico per riassumere i contenuti di Old Sock (vecchio calzino, titolo indubbiamente autoironico), il nuovissimo album di studio di Eric “Manolenta” Clapton. A giusto tre anni da Clapton, che era il suo miglior disco di studio da secoli a questa parte (quelli di covers di blues esclusi), Old Sock migliora addirittura il livello, diventando forse il lavoro più bello addirittura da Money And Cigarettes (il disco con Ry Cooder, e stiamo parlando di trent’anni fa), ma operando delle scelte stilistiche diverse in materia di sound. Non è che Eric sia andato fisicamente ai Caraibi ad incidere, ma l’atmosfera all’interno del CD è quella, non tanto per i suoni (non somiglia, per dire, ad un disco di Jimmy Buffett), quanto per l’atmosfera solare e rilassata che si percepisce in tutti i brani.

Clapton ormai ha la sua età, è in pace con sé stesso e non deve dimostrare più nulla da tempo, e può fare ciò che gli pare, quando gli pare e con chi gli pare: a conferma di questo, l’album è il primo ad uscire per la sua etichetta personale, la Bushbranch. Eric riscopre il reggae (se ne era innamorato già negli anni settanta, ricordate I Shot The Sheriff e Knockin’On Heaven’s Door?), usandolo però non in dosi massicce, così da non scontentare chi non ama il genere alla follia (tipo il sottoscritto), fa qualche brano in perfetto stile anni 30-40, addirittura del country, un paio di pezzi tipici suoi, ma tutto in modo assolutamente rilassato. Attenzione, questo non va a discapito del feeling e dalla qualità: Old Sock è un gran bel disco, in cui Eric coniuga abilmente classe, mestiere e voglia di suonare e sperimentare anche sonorità insolite per lui, lasciando talvolta addirittura in secondo piano la sua chitarra (pochi sono infatti i suoi tipici assoli poderosi).

Clapton sceglie di fare perlopiù covers di varia estrazione, i brani originali (tra l’altro neppure scritti da lui, ma da Doyle Bramhall II con…Nikka Costa!!!) sono solo due su dodici, ma, come ho detto prima, Eric è arrivato ad un punto in cui sceglie le canzoni che vuole. Se aggiungiamo a tutto ciò una lista di musicisti impressionante (oltre a Bramhall abbiamo Steve Gadd, Greg Leisz, Jim Keltner, Matt Rollings, Willie Weeks, Henry Spinetti ed altri) ed alcuni special guests davvero special (li nominerò man mano) non ci vuole molto a fare un grande disco. Altro particolare degno di nota, il CD esce in una versione sola, ed oggi è una rarità (a dire il vero una versione deluxe ci sarebbe anche, ma è venduta solo sul suo sito, è limitata a mille copie, costa circa il triplo e l’unica bonus track, No Sympathy, non è sul CD ma su una chiavetta USB allegata. Complimenti…).

L’album si apre con Further On Down The Road, da non conforndersi con il quasi omonimo classico di Bobby “Blue” Bland: questo è un brano scritto da Taj Mahal, che appare al banjo ed armonica, proposto con un arrangiamento solare e delicatamente reggae, molto piacevole, subito una bella canzone. Angel (di e con J.J. Cale) è una ballata laidback tipica del suo autore, raffinata e godibilissima, cantata quasi sottovoce e strumentalmente ineccepibile; The Folks Who Live On The Hill (un brano anni trenta portato al successo da Peggy Lee) ha un arrangiamento di gran classe, tra jazz e musica hawaiana d’altri tempi. Gotta Get Over è un brano nuovo ed è anche il primo singolo, ed il suono qui è più vicino allo stile tipico di Eric, un rock classico ma molto ben fatto, vibrante, orecchiabile, diretto, con Chaka Khan alle armonie (ma non si nota…), ma soprattutto con il nostro che si lascia finalmente andare alla Stratocaster. Till Your Well Runs Dry (Peter Tosh) è molto bella nonostante sia un reggae (anche se solo nel ritornello); in All Of Me Clapton duetta addirittura con Sir Paul McCartney, regalandoci un irresistibile brano jazzato vivace e solare, anni quaranta, dove l’unico tributo alla modernità è il suono della chitarra di Eric (in origine era una canzone interpretata sia da Billie Holiday che da Sarah Vaughan). Born To Lose è stato un successo di Ted Daffan, un pioniere del country oggi dimenticato: l’arrangiamento di Eric è fedele allo stile dell’autore, e sembra che il nostro non abbia mai fatto altro che suonare musica country. Uno dei brani migliori, senza dubbio, una cover scintillante.

E il blues? Eccovi servita una sontuosa interpretazione di Still Got The Blues, un omaggio di Clapton a Gary Moore, con l’amico Steve Winwood a fare i numeri all’organo: versione manco a dirlo da applausi, lunga, profonda e sentita. Grandissima classe. Old Sock cresce brano dopo brano: è la volta della celeberrima Goodnight Irene (di Leadbelly, ma che ve lo dico a fa?), solare, fluida, caraibica, ispiratissima, in breve una delle più riuscite. La migliore del disco? Decisamente sì. Un capolavoro assoluto nella discografia di Clapton, sentire per credere. L’album si chiude con Your One And Only Man di Otis Redding, ancora reggae, Every Little Thing, il secondo brano originale del disco, molto bella anche questa, una ballata anni settanta cantata benissimo da Eric (ma il coro di bambini finale ce lo poteva risparmiare), e Our Love Is Here To Stay, dei fratelli Gershwin, jazzata e raffinata come da copione.

Che altro dire…uscite e compratelo!!!

Marco Verdi