Un Disco Bellissimo Nato In Conseguenza Di Un’Infanzia Terribile. Allison Moorer – Blood

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Allison Moorer – Blood – Autotelic/Thirty Tigers CD

Anche la bella e brava Allison Moorer, sorella di Shelby Lynne https://discoclub.myblog.it/2010/05/19/un-disco-di-gran-classe-shelby-lynne-tears-lies-and-alibis/  nonché ex moglie di Steve Earle ed attuale fidanzata di Hayes Carll, ha ormai superato il ventennio di carriera, e a quattro anni dal suo ultimo lavoro Down To Believing https://discoclub.myblog.it/2015/04/02/pene-damor-perduto-ritorno-alle-origini-del-suono-allison-moorer-down-to-believing/  (ma in mezzo c’è stato il bel disco di cover inciso insieme alla Lynne Not Dark Yet https://discoclub.myblog.it/2017/08/12/un-ottimo-esordio-per-due-promettenti-ragazze-shelby-lynne-allison-moorer-not-dark-yet/ ) ha deciso di consegnarci il suo album più personale in assoluto. Blood è infatti un’opera autobiografica che accompagna il libro di memorie dallo stesso titolo scritto dalla cantautrice dell’Alabama, un volume nel quale Allison racconta senza censure o limitazioni di alcun tipo gli anni tremendi della sua infanzia, durante i quali lei e la sorella Shelby erano in balia di un padre alcolizzato ed aggressivo: un periodo fatto di abusi e violenze domestiche che è culminato con la terribile scena dell’omicidio della madre da parte del genitore ed il suo conseguente suicidio. Avvenimenti che avrebbero potuto portare all’instabilità se non addirittura alla follia più di una persona, ma sia Allison che Shelby si sono dimostrate persone forti ed equilibrate, ed ora la minore delle due sorelle ha deciso che è arrivato il momento di togliere il velo da quei tragici anni.

Non so il libro, ma l’album Blood è un lavoro davvero ispirato e splendido, un disco in cui Allison affronta senza paura i suoi demoni e si mette a nudo in dieci canzoni di un’intensità rara, dieci capitoli di una sorta di autobiografia musicale che la nostra affronta con l’aiuto del suo abituale produttore e chitarrista Kenny Greenberg (i due suonano l’80% degli strumenti, tra chitarre, pianoforte, steel e basso), il batterista Evan Hutchings e la nota violinista Tammy Rogers. Allison però non ce l’ha con i suoi genitori (più che altro col padre, dato che anche la madre è una vittima), anzi li omaggia con una bellissima foto di famiglia riprodotta all’interno della confezione in digipak del CD e, come ha lei stessa dichiarato in una recente intervista, con questa doppia operazione libro-disco cerca in un certo senso la redenzione per il padre. Tra i dieci brani, otto sono nuovi di zecca mentre due erano già apparsi (in versione ovviamente diversa) in album precedenti della cantante dai capelli rossi, dei quali uno, Cold Cold Earth, addirittura sul suo secondo lavoro The Hardest Part del 2000 (come ghost track), a dimostrazione che Allison aveva già da tempo queste canzoni dentro di lei. Il CD si apre con Bad Weather, una splendida ballata dal passo lento dotata di un motivo toccante e di ampio respiro, interpretata dalla Moorer con il giusto pathos e con un arrangiamento classico basato su chitarre e steel. Cold Cold Earth, ispirata agli ultimi momenti di vita dei genitori, è un profondo e struggente slow dal sapore folk, con il violino della Rogers a fendere l’aria ed Allison che canta davvero con il cuore in mano https://www.youtube.com/watch?v=cOGOQpngdAo .

Nightlight è un delizioso bozzetto costruito intorno alla voce della protagonista e ad una chitarra acustica pizzicata (e con un’altra melodia cristallina), alle quali si aggiungono una steel lontana, la sezione ritmica discreta ed anche una malinconica tromba, ed è seguita da The Rock And The Hill, un brano più mosso ed elettrico, una rock ballad affrontata da Allison con il solito approccio elegante, servita da un accompagnamento potente e con un coinvolgente crescendo ritmico https://www.youtube.com/watch?v=GIYXMzahgxM . I’m The One To Blame è un testo che Shelby ha trovato nella 24 ore del padre, scritto da lui, ed al quale la Lynne ha aggiunto la musica (e vengono i brividi soltanto a leggere il titolo, “Sono Io Quello Da Incolpare”, sapendo ciò che è successo dopo), e vede la Moorer sola con la sua chitarra, per un brano intenso e sincero fino al midollo https://www.youtube.com/watch?v=St0SqBGUa6M , così come Set My Soul Free, che pur essendo leggermente più strumentata mantiene una certa drammaticità di fondo (ed il feeling dell’autrice fa il resto), mentre The Ties That Bind non è quella di Springsteen ma è comunque un brano davvero stupendo, sfiorato dal country e dotato di una melodia di quelle che colpiscono dritto al cuore: probabilmente la migliore del disco. La grintosa e roccata All I Wanted (Thanks Anyway), trascinante e cantata veramente bene, confluisce direttamente nella title track (che era già apparsa in Down To Believing), ancora acustica e decisamente profonda, la quale a sua volta precede la conclusiva Heal, scritta a quattro mani con Mary Gauthier (un’altra che sa cosa sono il dolore e la sofferenza), una magnifica ballata sotto forma di preghiera che mette la parola fine ad un album tanto intenso e personale quanto splendido.

Marco Verdi

Dopo Un Lungo Silenzio E’ Tornato, Ancora Ad Ottimi Livelli! Chris Knight – Almost Daylight

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Chris Knight – Almost Daylight – Drifter’s Church/Thirty Tigers CD

Negli ultimi anni si è parlato molto poco, per non dire per nulla, di Chris Knight, cantautore del Kentucky con ormai più di vent’anni di carriera sulle spalle. Nel corso di due decadi Chris non ha inciso moltissimo, appena sei album più due CD di demo registrati prima dell’esordio (i due volumi di Trailer), ma l’essersi potuto prendere le sue pause ed avere pubblicato album solo quando si sentiva pronto ha fatto sì che non ci sia un solo episodio sottotono nella sua discografia. Songwriter classico tra country e rock, Knight è sempre stato una sicurezza in ambito Americana, e lavori come The Jealous Kind, Enough Rope e Heart Of Stone (ma anche il suo debutto Chris Knight del 1998) sono sempre stati considerati tra i migliori nel loro genere nei vari anni di uscita. Con il bellissimo Little Victories del 2012 sembrava che Chris avesse prodotto l’album della maturità e che fosse pronto per il grande salto, ma poi il silenzio improvviso per sette lunghi anni lo aveva fatto un po’ sparire dai radar https://discoclub.myblog.it/2012/09/14/ecco-un-altro-che-non-sbaglia-un-colpo-chris-knight-little-v/ .

Ora però Chris è tornato con Almost Daylight, e se qualcuno poteva pensare ad un artista arrugginito basta sentire le prime due-tre canzoni per accorgersi che non è affatto così. Knight se possibile ci ha consegnato un lavoro anche superiore a Little Victories, un album pieno di brani intensi e profondi e con un suono decisamente rock: in sette anni il mondo è cambiato tantissimo e non certo in meglio, e questo si riflette sia nei testi dei nove brani nuovi inclusi nel CD (più due cover), non certo sprizzanti ottimismo, sia nelle performance taglienti ed inquiete che il nostro rilascia. L’album è prodotto da Ray Kennedy (partner per anni di Steve Earle, e già questo ci fa capire la statura raggiunta da Chris), e vede il leader accompagnato da una band molto compatta guidata dall’ex Georgia Satellites Dan Baird, che con la sua splendida chitarra orienta parecchio il suono verso lidi decisamente rock, e completata dalla nota violinista Tammy Rogers, dall’altro chitarrista nonché polistrumentista Chris Clark, dall’organo di Jim Hoke e dalla granitica sezione ritmica di Lex Price (basso) e Lynn Williams (batteria). I brani originali sono scritti tutti da Knight, da solo o con altri collaboratori (tra cui Baird stesso ed il noto songwriter di Nashville Gary Nicholson), ed il country degli inizi è quasi sparito a favore di un suono potente e vigoroso, come nel brano di apertura I’m William Callahan, pezzo chitarristico con il passo della ballata ma con una tensione elettrica da vero rocker, voce arrochita e sezione ritmica tostissima.

Anche Crooked Mile prosegue sulla stessa linea, una rock ballad solida e vibrante contraddistinta da un’atmosfera drammatica e dall’ottima prestazione di Baird (una costante del disco), che tra riff ed assoli accompagna alla perfezione la voce vissuta del nostro. In I Won’t Look Back il ritmo ed il mood chitarristico si fanno ancora più pressanti, Chris canta in maniera tesa ed il brano scorre via diretto, con il tutto appena stemperato dall’armonica: questo è puro rock, di quello coi controfiocchi. Go On è più acustica, compaiono anche mandolino e fisarmonica, ed il brano si rivela essere un country-rock cadenzato e dal piacevole ritornello, in cui comunque la chitarra di Baird non si tira di certo indietro; The Damn Truth è ancora rock al 100%, altro pezzo elettrico dal motivo fluido e scorrevole, sempre però con una tensione di fondo che contraddistingue tutto il lavoro (ma il refrain è di quelli che lasciano il segno), mentre Send It On Down, che vede la seconda voce di Lee Ann Womack, è uno slow profondamente evocativo con un organo hammond a dare più calore ed il solito splendido intervento di Dan.

La title track è una ballata bellissima e toccante, con una melodia di prima qualità e la voce di Chris finalmente più distesa: tra le più belle del CD; Trouble Up Ahead è un notevole rockin’ country, elettrico e trascinante, dal ritmo sostenuto e con un ottimo interplay tra banjo e chitarra, a differenza di Everybody’s Lonely Now che è un altro lento dalla scrittura ludica e con la consueta performance degna di nota dei musicisti coinvolti. Finale con le due cover alle quali accennavo prima, e se Flesh And Blood di Johnny Cash era già apparsa in Dressed In Black, tributo del 2002 della Dualtone all’Uomo in Nero (non è rifatta, è proprio la stessa take, e non capisco perché sia stata riproposta 17 anni dopo, anche se è un piacere risentirla), Mexican Home, brano del 1973 di John Prine, è nuova di zecca e vede il nostro duettare proprio con John, in una rilettura tosta, potente e decisamente più elettrica dell’originale, quasi bluesata per certi versi. Sono contento che Chris Knight abbia ancora voglia di fare musica e la capacità di farlo con questa qualità: speriamo solo in una pausa più breve prima del prossimo disco.

Marco Verdi

Il Ritorno Di Uno Dei Tanti Outsiders Americani, Di Quelli Veramente Bravi. Jason Eady – Jason Eady

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Jason Eady – Jason Eady – Old Guitar/Thirty Tigers CD

Qualche mese fa stavo riordinando la mia collezione di CD, e quando mi è capitato tra le mani Daylight And Dark, una delle sorprese più piacevoli del 2014, mi sono chiesto che fine avesse fatto il suo autore, il bravo cantautore del Mississippi Jason Eady. La risposta è arrivata di recente, allorquando è uscito il nuovo album di Jason (il precedente non era l’esordio, ce n’erano già quattro usciti prima, ma vi sfido a trovarli nuovi ed a prezzi umani), che il nostro ha deciso di intitolare semplicemente con il suo nome. E la semplicità è proprio la sua caratteristica principale, in quanto le sue canzoni sono costruite con pochi accordi, suonate con un numero limitato di strumenti, e quasi sempre acustici: ma la sua è una musica vera, autentica, un tipo di country che è distante anni luce da quello finto che passa nelle radio di settore, e per questo Jason non sarà mai un million seller, ma di sicuro i suoi album troveranno sempre spazio nelle collezioni di chi ama la musica pura. Jason Eady è forse ancora migliore di Daylight And Dark, e più maturo, e le canzoni sembrano scritte ed eseguite con piglio maggiormente sicuro: la produzione è ancora nelle mani di Kevin Welch, cantautore dell’Oklahoma ben noto su queste pagine, mentre tra i musicisti coinvolti troviamo il grande Lloyd Maines, che suona un gran numero di strumenti a corda, la bravissima violinista Tammy Rogers (membro degli SteelDrivers ma anche presente in molti album di Buddy e Julie Miller) e, come voce di supporto in un brano, nientemeno che Vince Gill (oltre alla moglie di Eady stesso, Courtney Patton, alle armonie vocali).

Jason, che ha anche una bella voce, ci delizia quindi per i 35 minuti scarsi del disco, con una serie di canzoni scritte ed eseguite in modo classico, puro country d’autore per chi vuole suoni veri, personali, non appariscenti ma di grande impatto emotivo: le sue influenze sono nobili (Willie Nelson, Merle Haggard, Joe Ely, Guy Clark), ma in definitiva non somiglia a nessuno di questi. Il CD si apre con Barabbas, una ballata molto intensa e decisamente ispirata, dalla musicalità profonda, con steel e dobro ad accarezzare la melodia e la voce espressiva di Jason a fare il resto. Drive è più ritmata, anche se gli strumenti restano acustici, al punto da farla sembrare un canto folk d’altri tempi, merito anche di un motivo dal sapore tradizionale; splendida Black Jesus, dotata di una melodia diretta e vincente, una country song pura come l’acqua e suonata in maniera deliziosa, mentre No Genie In This Bottle, una drinkin’ song con due strumenti in croce ma dal feeling notevole, è nobilitata dalla seconda voce di Gill e da un’atmosfera degna di John Prine.

Molto bella anche Why I Left Atlanta (ma di brani di livello basso non ce ne sono), altra country balad accattivante che ricorda certe sonorità “americane” dell’Elton John dei primi anni settanta, Rain è ancora un pezzo di stampo tradizionale, con banjo e violino protagonisti, ed un motivo folkeggiante che fa la differenza, Where I’ve Been è uno squisito brano delicato e gentile, decisamente toccante, che non fa che confermare la bravura di Eady nello scrivere canzoni semplici ma intense. Waiting To Shine, vivace, ritmata e godibile, precede Not Too Loud, languida e tersa ballata di grande spessore, e la conclusiva 40 Years, struggente e poetica, accompagnata solo da chitarra e violino ma dal pathos indiscutibile. Pensavo si fosse perso Jason Eady, ed invece eccolo di nuovo tra noi, e più in forma che mai.

Marco Verdi

Un Chitarrista Per Chitarristi (Non Solo)! Mike Henderson Band – If You Think It’s Hot Here

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The Mike Henderson Band – If You Think It’s Hot Here – Eller Soul Records

Questo signore, partito dal natio Missouri per recarsi a Nashville, dove sarebbe diventato uno stimato sessionman, prima come mandolinista e chitarrista slide, poi anche armonicista (e se serve, violinista), nel corso degli anni ha sviluppato una carriera solista parallela che lo ho portato ad essere uno degli artisti “indipendenti”  più amato dai colleghi. Mark Knopfler, che ha firmato le note per il suo album del 1996 First Blood (uno dei migliori di Mike, il secondo album uscito per la Dead Reckoning, etichetta fondata insieme a Kieran Kane, Kevin Welch, Tammy Rogers) gli valse poi, anni dopo, la chiamata a far parte della Band di Knopfler nel Sailing to Philadelphia Tour. Recentemente lo si è visto e sentito, come armonicista, nel fantastico Muddy Wolf At Red Rocks di Bonamassa e il chitarrista newyorkese, nello scrivere le brevi note di questo nuovo If You Think it’s Hot Here, si è chiesto perché non gli abbia chiesto di cantare almeno un brano in quella serata (e di suonare la chitarra, magari slide, aggiungiamo noi, infatti attualmente fa parte della touring band di Joe). Ma Mike Henderson, anche se non incideva un disco solista dal 1999, è veramente un uomo per tutte le stagioni, country, blues e rock sono stati il suo pane quotidiano, è un ottimo autore, tanto che Adele ha interpretato la sua If It Hadn’t Been For Love per il Live At The Royal Albert Hall; con la band bluegrass Steeldrivers di cui fu uno dei membri fondatori nel 2008, insieme all’amica Tammy Rogers, ha inciso due album, anche se nel nuovo CD firma solo tre brani, insieme ad un paio di rivisitazioni di classici e alcune cover di stampo decisamente blues.

Perché, in effetti, pur con tutte le influenze musicali citate, stiamo parlando di un gagliardo disco di blues elettrico. I Bluebloods, con cui ha firmato l’ultimo Thicker Than Water nel 1999, non ci sono più (e parliamo di gente del calibro di Reese Wynans e Glen Worf), e neppure Kingsnakes e Bel Airs, con cui pure ha suonato, ma nella nuova formazione troviamo Kevin McKendree, uno dei migliori tastieristi attualmente in azione, al basso c’è Michael Rhodes e alla batteria Pat O’Connor, meno conosciuto, già vecchio socio di Mike dai tempi dei Bel Airs, che a giudicare dal disco ha comunque un bel drive. Se aggiungiamo che Henderson ha pure una bella voce, era quasi inevitabile che il risultato sarebbe stato ottimo. Si passa dall’iniziale I Wanta Know Why, un solido rockin’ blues dove Henderson scalda subito voce e chitarra slide, ben coadiuvato dal piano di McKendree, anche produttore dell’album, subito grintoso e dal ritmo scandito https://www.youtube.com/watch?v=BnDECpKNVbk , poi seguito da ben due cover estratte dal songbook di Hound Dog Taylor, una vorticosa Send You Back To Georgia, dove il classico boogie blues di Taylor è ben segnato dalla batteria di O’Connor, mentre Henderson, dopo un intermezzo travolgente del pianino di McKendree, continua ad esplorare il fretboard della sua Fender, con un’altra sventagliata di bottleneck guitar devastante https://www.youtube.com/watch?v=KWT0GJMNuJs  e poi raddoppia con le classiche 12 battute di una It’s Alright dove il blues è ancora il padrone assoluto, sempre con la slide in evidenza. R.S. Field, recente produttore del Terraplane di Steve Earle, gli dà una mano a livello compositivo, per una title-track che ha profumi soul e gospel, anche grazie alla presenza di due vocalist aggiunti, bella ballata di stampo sudista questa If You Think It’s Hot Here, mentre McKendree si divide tra piano e organo Hammond con risultati eccellenti.

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Un altro brano notevole di  Henderson è Weepin’ And Moanin’, slow blues di quelli torridi con la chitarra sugli scudi, e anche la voce non scherza https://www.youtube.com/watch?v=yGAtjuxUzHQ , pezzo che non ha nulla da invidiare alla ripresa di Mean Red Spider, un Muddy Waters “minore”, se mai ne ha fatti, dove il ritmo funky della batteria ben si sposa con l’intensità della traccia, per non parlare della versione di If I Had Possession di Robert Johnson, che parte sulle ali di una slide acustica e poi diventa un fantastico blues elettrico in crescendo con gli altri strumenti che entrano a canzone già sviluppata e la rendono travolgente https://www.youtube.com/watch?v=6k1KEkcErqk . Notevole anche Unseen Eye, dal repertorio di Sonny Boy Williamson, dove Henderson inchioda uno dei soli più fluidi e passionali del disco, prima di dedicarsi al puro R&R, via blues, di una Matchbox nuovamente travolgente anche grazie al piano di McKendree https://www.youtube.com/watch?v=lPMXQCgQ0LA  e Gamblin’ Blues ci spinge più a Sud, verso il Texas, sulle note di un poco noto brano di Melvin Jackson, con Mike Henderson di nuovo sugli scudi, istigato dal groove eccellente della sua sezione ritmica deluxe. Conclude Rock House Blues, l’unico brano dove il nostro si esibisce all’armonica, accompagnato solo dal piano di McKendree. Degna conclusione di un ottimo album di uno dei migliori gregari in circolazione, per una volta ancora protagonista assoluto.

Bruno Conti

Una Musica Che Graffia L’Anima! Malcolm Holcombe – The RCA Sessions

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Malcolm Holcombe – The RCA Sessions – Gypsy Eyes Music/Proper Records/Ird – Deluxe Edition CD+DVD

Di Malcolm Holcombe i lettori di questo blog sanno già tutto, avendone chi scrive parlato a suo tempo, per l’uscita dei precedenti lavori Down The River (12) http://discoclub.myblog.it/2012/10/05/lungo-il-fiume-del-country-blues-malcolm-holcombe-down-the-r/  e Pitiful Blues (14) http://discoclub.myblog.it/2014/08/09/le-ballate-pietose-poeta-blues-malcolm-holcombe-pitiful-blues/ , ma torno con piacere a parlarne in occasione dell’uscita di questo nuovissimo The RCA Sessioins, che celebra i 20 anni di carriera di uno dei musicisti più originali della scena folk contemporanea americana. The RCA Sessions è una raccolta di canzoni scritte tra il 1994 e 2014, tratte dai suoi precedenti dieci album e EP (salvo un brano inedito), tutte rifatte in una nuova veste sonora per questa occasione, il tutto con il supporto di una band stellare composta dal fido Jared Tyler a dobro e lap-steel (visto dal sottoscritto a Pavia nel recente concerto al Bar Trapani), Dave Roe al contrabbasso, Ken Coomer (ex Wilco) alla batteria, la brava Tammy Rogers al violino e mandolino, e “special guests” come l’armonicista Jelly Roll Johnson, Siobhan Maher-Kennedy (cantante dei River City People e in seguito corista per Willy DeVille, Steve Earle e altri), e una delle mie cantanti preferite, Maura O’Connell (richiestissima negli ultimi tempi, vedere recensione dell’ultimo lavoro di Tom Russell), il tutto registrato nei mitici RCA Studios di Nashville con la produzione di Ray Kennedy e Brian Brinkerhoff.

Le “sessions” si aprono sul riff acustico di Who Carried You, e proseguono con l’armonica dolce di Jelly Roll Johnson in una suadente Mister In Morgantown, per poi passare al violino di Tammy Rogers di una danzante I Feel Like A Train (era nell’EP Wager),  il blues dei monti Appalachi di Doncha Miss That Water,  le atmosfere rilassate e sofferte di una The Empty Jar, cambiando poi decisamente ritmo con la travolgente Butcher In Town, il punk-blues di To Drink The Rain, e la ballata commovente Early Mornin’, dove la voce di Malcolm sembra uscire dall’anima.

Dopo un sorso opportuno di aranciata (ma temo sia stata altra in passato la sua bibita preferita), si riprende con il folk acustico di I Never Heard You Knockin, per poi trovare l’unico inedito del lavoro una Mouth Harp Man dove si manifesta nuovamente la bravura di Jelly Roll Johnson, per proseguire con il rock-blues tirato di I Call The Shots, seguito dal ritmo mosso My Ol’Radio, con al controcanto la vocina di Siobhan Maher-Kennedy, e una Goin’ Home che viene valorizzata da un coretto importante, mentre Down The River viene riproposta in versione country-agreste; si termina con il violino di Tammy Rogers che accompagna una leggermente “psichedelica” e intrigante Pitiful Blues, e inifne una morbida e avvolgente ballata popolare A Far Cry From Here, cantata in duetto da Malcolm con la voce meravigliosa della cantante irlandese Maura O’ Connell. Il Dvd accluso arricchisce il lavoro con le immagini delle “sessions”, ed è un bel vedere.

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Si può provare a cercare qualsiasi aggettivo per descrivere Malcolm Holcombe e la sua musica, ma  la sua voce baritonale impastata di catrame e i suoi testi, sono solidi come le montagne da cui viene (i monti Appalachi nella Carolina Del Nord) https://www.youtube.com/watch?v=5R_OUKXjm7c , e questo The RCA Sessions  è un’ulteriore conferma della sua bravura, se ce ne fosse bisogno, serve per celebrare nel migliore dei modi vent’anni di carriera, vissuti anche pericolosamente (un periodo a lungo sopraffatto dall’alcolismo), ma portati avanti con la coerenza e la fierezza da un personaggio che deve assolutamente essere scoperto dagli amanti della buona musica, un perfetto beautiful loser. Anche se non è “nuovo”, forse siamo di fronte al suo album più bello in assoluto.

Tino Montanari

Ecco Un Altro Che Non Sbaglia Un Colpo! Chris Knight – Little Victories

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Chris Knight – Little Victories – Drifter’s Church CD

Tra tutti i nuovi musicisti del panorama rock Americano, Chris Knight (che nuovo non è, essendo nato nel 1960) è certamente uno dei più dotati di talentoOriginario del Kentucky, ma texano d’adozione (è stato addirittura nominato texano onorario dal governatore dello stato Rick Perry, evidentemente un suo fan), Knight si è fatto conoscere a piccoli passi, senza mai svendere la sua musica o flirtando con una major (solo il suo esordio, Chris Knight, uscì nel 1998 per la Decca, che siccome ci vide lungo lo lasciò subito a casa…): oltre a scrivere brani di successo per artisti in ambito country (tra cui Montgomery Gentry, Randy Travis e John Anderson), ha pubblicato diversi album a suo nome, tutti di livello tra il buono e l’ottimo, conquistandosi una bella fetta di pubblico anche fuori dal Texas.

Erroneamente giudicato anch’egli un cantante country, Chris è in realtà un rocker dal pelo duro, figlio (musicalmente parlando) di gente come John Mellencamp (il più vicino, anche per il timbro vocale), Steve Earle, Bruce Springsteen e John Fogerty(al quale invece assomiglia fisicamente): la sua musica è tesa, chitarristica e vibrante, senza spazio per sdolcinature di sorta, ed anche i testi parlano di piccole storie quotidiane, di amori finiti male, di gente con mille problemi. Chris è un vero rocker, e se a tratti sembra assomigliare un po’ troppo ai suoi modelli di riferimento (specialmente a Mellencamp) si eleva dalla massa per la bellezza delle canzoni, oltre che per la forza e convinzione con le quali le propone.

In più, sa cercare anche i produttori giusti per la sua musica: Heart Of Stone, uno dei suoi dischi migliori, vedeva la presenza alla consolle di Dan Baird, mentre questo Little Victories (il suo ottavo album in totale), che è ancora meglio, è prodotto da Ray Kennedy, già stretto collaboratore di Steve Earle e perfettamente a suo agio con queste sonorità; come ciliegina, il disco vede anche diversi ospiti di nome (che vi citerò man mano), anche se talvolta utilizzati in maniera bizzarra (e vedremo perché). Si inizia alla grande con In The Mean Time, che ricorda subito il Mellencamp più rocker: inizio acustico (voce, chitarra e mandolino), poi entrata micidiale di batteria e chitarre elettriche (Mike McAdam, un nome da tenere d’occhio); un brano duro, teso, diretto come un pugno nello stomaco, puro rock’n’roll, altro che country. Missing You non abbassa i toni (anzi), ritmica alla Rolling Stones, chitarra alla Fogerty e voce in stile Cougar: detto così sembra la fiera del già sentito, ed invece Chris riesce a far convivere tutte le sue influenze ed a creare qualcosa di personale.

In questi due brani vediamo come primo ospite anche Buddy Miller, ma solo come backing vocalist, e quindi poco riconoscibile. You Lie When You Call My Name è ancora puro Cougar (qui più che mai, provate a chiudere gli occhi e non noterete differenze), un altro brano teso ed affilato come una lama, dove il violino (suonato da Tammy Rogers) viene usato come lo usava Lisa Germano su The Lonesome Jubilee. Loydown Ramblin’ Blues è il tipico brano che si potrebbe ascoltare in una stazione di servizio americana, di quelle in mezzo al nulla: elettrica, tirata allo spasimo, ricorda certe cose di Tom Petty, con un assolo centrale di chitarra che è una goduria. Nothing On Me è invece una grande ballata elettroacustica, dalla splendida melodia, cantata con il cuore, un brano che ci mostra di che pasta è fatto Knight: una delle migliori del disco.

Little Victories, ancora lenta (ma la batteria picchia sempre duro) è un’altra sublime prova di cantautorato, con il suo ritornello di grande impatto emotivo: più va avanti e più il disco cresce. La saltellante You Can’t Trust No One è finora la più country, ed è l’ennesimo brano di prima scelta: il mandolino guida, l’elettrica risponde e Chris ci accompagna lungo tutta la canzone con una melodia solare che ha molti punti di contatto con la musica dei Creedence. Out Of This Hole, acustica, è un altro mezzo capolavoro, e dimostra che il nostro, pur essendo un rocker, è in grado di fare grande musica anche con solo una chitarra acustica; Jack Loved Jesse (scritta e suonata con Dan Baird) ci riporta in ambito rock, con la chiara influenza ancora di Fogerty (sembra uno dei suoi brani swamp).

Hard Edges, guidata dal banjo, è una tenue ballata rurale, con la presenza del grande John Prine alla seconda voce, e qui c’è la bizzarria di cui parlavo prima (già sperimentata con Miller): hai Prine che canta su un tuo disco e lo seppellisci nei backing vocals, rendendolo praticamente irriconoscibile, senza fargli cantare neppure una strofa da solo? Questa è l’unica cosa discutibile, a mio parere, di un disco pressoché perfetto. Chiude l’album The Lonesome Way, ennesimo pezzo roccato e solido come una roccia. Chris Knight è ormai una bella realtà del panorama musicale americano, e solo la miopia delle majors fa sì che debba rimanere un musicista di culto.

Marco Verdi